CARDELLINO | PARTE SECONDA - CAPITOLO 10 |
Kutkhay era stato donato al suo nuovo padrone dal suocero di questi essenzialmente per fungergli da segretario, dato che era uno schiavo istruito e di bella presenza.
Poiché Mr. Hogwood non voleva che i suoi schiavi portassero le antiche livree con polpe e jabot, e per il ruolo che doveva svolgere il ragazzo, fece fare per Kutkhay alcuni completi semplici ma eleganti, tagliati secondo la moda corrente. Perciò il ragazzo ebbe la sua prima redingote e il suo primo cappello a cilindro. Così vestito non sembrava più davvero uno schiavo. Mr. Hogwood nei primi giorni spiegò bene al suo servo-segretario quali fossero le sue incombenze, lo portò con sé in città perché si impratichisse dei luoghi e gli sistemò una piccola scrivania in biblioteca. Dovendo fare spesso commissioni per il padrone, ora il ragazzo godeva anche di una certa libertà. Già nei primi giorni riuscì a inviare una nuova lettera al suo padroncino per comunicargli la sua attuale residenza, pregandolo accoratamente di andare a riprenderlo. Ormai era da un mese abbondante con Mr. Hogwood e già svolgeva benino le sue nuove incombenze; non stava male, il padrone era contento di lui e lo trattava bene, ma Patrick continuava a mancargli ugualmente. Più ci pensava, più sentiva di esserne terribilmente innamorato; anche se Patrick non avesse mai voluto fare l'amore con lui, il solo potergli stare vicino gli sarebbe bastato.
Il giovanotto gli si fermò a fianco e subito, con un sorriso franco ma senza sfrontatezza, gli chiese: "Nuovo di questa città, signore?" Lui si girò verso l'altro guardandolo sorpreso per il suo ardire, ma con gentilezza rispose: "In un certo senso sì, sono meno di due mesi... Ma io non sono un signore, signore. Sono solo uno schiavo." Il giovanotto inarcò un sopracciglio, lo guardò e disse: "Uno schiavo lei? Ma lei è bianco, e poi, vestito così... lei mi prende in giro, signore." Kutkhay scosse il capo divertito: "No, sembro un bianco ma non lo sono. Sono lo schiavo di Mr. Hogwood Junior e gli faccio da segretario." "Ah, l'avvocato, so chi è. Ma mi sembra impossibile che tu sia uno schiavo, e non solo per il colore della pelle e per l'abbigliamento, anche se sei vestito meglio di me, ma anche per la fisionomia: hai tratti molto fini e delicati, nobili, molto belli." Kutkhay notò l'inconscio passaggio a un eloquio meno formale e sorrise: "Comunque, sono solo uno schiavo, signore." Il giovanotto sorrise a sua volta e gli disse: "Io mi chiamo Andrey Kotnich, e tu?" "Goldie, signore." "Goldie e poi?" "Goldie e basta. Non ho mai avuto un cognome, signore, sono solo uno schiavo." "Sai, io sono un pittore e ti guardavo... mi piacerebbe che tu venissi a posare per me." "Non credo che sia possibile, signore. Non credo che il padrone mi lascerebbe il tempo libero necessario. Ho sempre molte commissioni da fare." "Suvvia, ogni tanto potrai rubare una mezz'ora di tempo alle tue commissioni, no? Basterebbe e io sarei molto felice di avere te come modello. Ho lo studio qui vicino, perché non vieni a vedere?" "Ora? No, devo tornare subito, il padrone mi aspetta... mi piacerebbe, ma non posso." Andrey sorrise annuendo: "Ma ti piacerebbe, hai detto." "Certo, signore, ma io non sono un uomo libero. Mi scusi, signore." Kutkhay salutò e si diresse rapidamente verso casa. Tornando pensava che era un vero peccato: gli sarebbe piaciuto posare per un ritratto e quel giovanotto gli piaceva, anche se s'era illuso di essere stato seguito per altro... Ma Kotnich non intendeva perdere l'occasione di avere un così bel modello, quindi si risolse di andare a cercare l'avvocato Hogwood a cui chiese di permettere al ragazzo di posare per lui. All'inizio il padrone di Kutkhay non sembrava ben disposto, ma quando Andrey gli offerse di ripagarlo dipingendogli un ritratto e gli disse che aveva già dipinto il ritratto di sua madre, che Mr. Hogwood aveva visto a casa del padre e che apprezzava molto per il verismo, Mr. Hogwood accettò, anzi chiese al pittore un ritratto suo e uno a sua moglie, da mettere nel salone. Poi chiamò Kutkhay e gli comunicò che ogni giorno poteva, se non c'erano cose più urgenti da fare, passare un'ora nello studio del pittore per fargli da modello. Il ragazzo era eccitato: essere modello di un pittore, essere raffigurato in un quadro! Gli sembrava una cosa bellissima. Così il giorno seguente andò a bussare alla porta dello studio di Andrey. Questi, quando se lo trovò di fronte, s'illuminò in un grande sorriso: "Benvenuto, Goldie. Ti aspettavo con ansia. Entra." Oltre il piccolo ingresso s'apriva lo studio. Kutkhay si guardò attorno: era un ampio locale pieno di luce proveniente da finestre inclinate, aperte in alto su una parete. In un angolo vi era una bassa pedana con un tappeto disseminato di cuscini e con dietro una ricca cortina di velluto appesa al muro e drappeggiata ad arte. Più in là una dormeuse, poi un grande letto spoglio su cui era stesa una coperta di pelliccia di agnellino. Qua e là tele appese al muro o appoggiate alle pareti. Un cavalletto con una tela candida, due tavoli ingombri di carte e di libri, un piccolo scaffale stracolmo di libri, una grande stufa panciuta di ferro, alcune sedie e sgabelli uno diverso dall'altro completavano l'arredamento. Era una specie di disordine armonico molto gradevole. Le tele già dipinte rappresentavano paesaggi, nature morte, ritratti di un verismo impressionante eppure soffusi d'un'aura romantica. "Ti piacciono?" "Sono bellissimi, sembrano veri... È molto bravo lei, signore." "Grazie. A me piace molto dipingere e anche se non mi procura molti soldi mi permette di vivere confortevolmente. Mio padre era pittore, dipingo da quando ho mosso i primi passi, si può dire. Ma ora siedi su quello sgabello e stai fermo: voglio fare alcuni schizzi del tuo bel viso... guarda più verso l'alto, ecco... fermo." disse il giovanotto che aveva preso alcuni fogli, una sanguigna e si mise a disegnare rapidamente, riempiendo un foglio dopo l'altro. Quando smise si alzò con aria soddisfatta: "Per ora basta. Tornerai domani?" "Sì, certo, ma nel pomeriggio, signore." "Ti apetterò con ansia: è gradevole disegnare le tue fattezze, sei un ottimo soggetto." "Posso vedere i disegni?" "Certo, vieni qui." Kutkhay li guardò a uno a uno, lentamente: "Sono proprio io! Com'è bravo lei, signore! Mi piacerebbe saper disegnare così..." "Posso insegnarti, se vuoi." "Davvero mi insegnerebbe, signore?" "Con molto piacere." "Ma... crede che riuscirò?" "Non c'è che da provare e forse, se ti impegni, riuscirai." Kutkhay annuì soddisfatto e gli occhi gli brillavano: "A domani allora, signore, e grazie."
"Per fortuna è tornato, signore. Oggi il padrone è assente e stamattina ho terminato tutte le commissioni che mi aveva lasciato, così, se lei vuole, potrò fermarmi più a lungo del solito..." Andrey si aprì in un ampio sorriso: "Ottimo, Goldie. Fino a che ora puoi fermarti?" "Fin quando va bene a lei: basta che sia a casa per cena..." "Vieni, allora, oggi voglio cominciare un grande quadro a olio a cui sto pensando da tempo...." Entrati, il pittore cercò un libro nello scaffale, lo sfogliò rapidamente, trovò quello che cercava, lo mostrò al ragazzo e disse: "Questo disegno è tratto da un celebre dipinto di un italiano, il famoso Michelangelo. Rappresenta la creazione dell'uomo. Voglio rappresentarti in una posa simile a questa di Adamo." Kutkhay guardò il libro, poi guardò sorpreso il giovanotto: "Ma è completamente nudo, signore!" "Certo. Ti vergogni a posare nudo davanti a me?" "Oh no, anzi... l'idea mi piace, signore." "Bene, ne sono contento. Allora spogliati e stenditi lì sul letto: guarda bene la figura e mettiti in questa posa." Kutkhay si spogliò in fretta e fu deluso dal fatto che Andrey non lo stesse guardando. "Sono pronto, signore." Andrey si girò, lo guardò e avvicinandosi gli disse: "Sei perfetto Goldie, bellissimo! Sai che non ho mai visto proporzioni armoniche come quelle del tuo corpo? Sei davvero splendido, ragazzo, davvero splendido." Kutkhay, pur apprezzando i complimenti, arrossì lieve: "Non esageri, signore..." "No no, non esagero. Ho avuto molti modelli, ma mai nessuno bello come te. Ecco, stenditi così... allunga questa gamba... piega un po' di più quest'altra... così. Ora il braccio, più morbido..." Kutkhay, nel sentire le mani lievi dell'altro sul proprio corpo, fremette. Andrey lo guardava e riguardava senza accennare a mettersi a dipingere. Anzi, gli passò una mano lieve su un fianco: "Che pelle vellutata, liscia... sarà un piacere per me dipingere un corpo così sensuale..." Kutkhay sentì che quella lieve, prolungata carezza lo stava facendo eccitare e allora, con semplicità, disse: "Signore, la prego... se continuerà a toccarmi così mi farà venire un'erezione..." Andrey sorrise ma continuò a carezzare il ragazzo, spostando la mano sul petto e sottolineandogli con i polpastrelli i capezzoli: "Che importa, Goldie? Sarai ancora più bello. Quanti anni hai?" "Diciannove, quasi venti, credo." "Sì, sei proprio bello, non mi sono sbagliato quando ti ho visto la prima volta. Ho subito desiderato vederti nudo, toccare con le mie mani quest'opera d'arte che è il tuo corpo... e finalmente posso farlo. La tua bellezza supera ogni fantasia, ogni speranza..." Kutkhay si abbandonò a quelle carezze lievi, al suono di quella voce calda, bassa e suadente, senza più preoccuparsi dell'eccitazione che stava pervadendo il suo corpo, anzi, godendosela. Ora Andrey lo toccava con entrambe le mani sottolineandogli i muscoli del corpo, quasi stesse modellando una statua di creta. Quando quelle mani scesero e si posarono sulle sue gambe, Kutkhay non resisteva più all'eccitazione e chiuse gli occhi fremendo e ansando lieve. Allora finalmente il pittore afferrò il ragazzo per le spalle e, tiratolo a sé, lo baciò ardentemente in bocca. Kutkhay rispose subito con entusiasmo e le carezze dell'altro si fecero più audaci. "Spogliatevi, signore... vorrei carezzare anch'io il vostro corpo... vedervi nudo..." mormorò il ragazzo eccitatissimo. Andrey si liberò rapidamente degli abiti e, salito sul letto, si stese sul corpo del ragazzo stringendolo a sé e riprendendo a baciarlo, a giocare con la sua lingua con la lingua del ragazzo. Kutkhay rispose all'abbraccio e prese a carezzarlo con desiderio: "Ah, signore, quant'è bello..." Il pittore sorrise: "Non chiamarmi più signore: non sono il tuo padrone, io. Chiamami semplicemente Andrey..." "Sì, Andrey." sussurrò Kutkhay fremendo per il piacere. I due si baciarono di nuovo e le loro membra si intrecciarono strettamente, ognuno cercando il calore dolce del corpo dell'altro, abbandonandosi alle sensazioni bellissime che provavano. Nonostante Andrey avesse circa cinque anni più del ragazzo, a poco a poco fu questi che prese a guidare il rapporto e il pittore si abbandonava alle cure del ragazzo con piacere crescente. "Goldie, ti desidero, ti voglio..." mormorò il giovanotto. "Sì, anche io ti voglio, Andrey... ma prendimi prima tu..." Fecero l'amore con gioia e trasporto, finché entrambi raggiunsero l'apice del piacere. Allora, abbandonati sul letto, Kutkhay si rilassò dolcemente fra le gambe di Andrey poggiandogli una guancia sul ventre. Questi gli carezzava dolcemente i capelli. "Sei fantastico, Goldie, anche a fare l'amore." "Anche tu. Non sei solo un bravo pittore, ma sei formidabile anche... in queste cose." Andrey infatti aveva molto talento sia come pittore che come amante: era infaticabile, pieno di estro e fantasia e di gioia di vivere. Così Kutkhay, giorno dopo giorno, imparò da lui non solo a disegnare ma anche mille varianti nel fare l'amore. Soprattutto gli piacque quando Andrey gli insegnò a farlo dal davanti: poter guardare l'altro mentre lo si prendeva, o mentre ti prendeva, gli sembrò una cosa splendida. Capì che la sessualità può essere espressa in modo che diventa una vera forma d'arte. Il quadro che il giovane pittore stava dipingendo a Kutkhay procedeva bene: il nudo del ragazzo era a un tempo dolce e sensuale, sottilmente erotico e puro e a Kutkhay piaceva moltissimo. Il ragazzo proseguiva ad allenarsi nel disegno e riempiva fogli e fogliettini di disegni, rapidi schizzi, sia raffigurando quello che vedeva sia facendo disegni di fantasia. Tanto nei primi riusciva a cogliere l'essenziale, tanto nei secondi sapeva creare scene fantastiche e stava sviluppando a poco a poco uno stile del tutto personale che Andrey apprezzava molto. Quando, ancora fanciullo, aveva passato ore ed ore a osservare il lavoro degli scultori nel proprio villaggio ne aveva assorbito inconsciamente lo stile ricco e immaginifico, pieno di inconscie simbologie che ora trasfondeva nei propri disegni di fantasia. Un giorno il padrone vide uno di questi disegni: "Hai disegnato tu questo, Goldie?" Il ragazzo temette di essere sgridato e, gli occhi bassi, annuì poi soggiunse a mezza voce: "Mi perdoni, signore..." L'uomo ebbe uno dei suoi rari sorrisi poi disse: "Non ti sto rimproverando, ragazzo. Ne hai altri di questi disegni, per caso?" "Sì, signore..." "Fammeli vedere." Allora Kutkhay salì nella propria cameretta e tornò giù con una manciata di fogli che porse al padrone. Questi li esaminò a lungo, poi gli chiese: "Chi ti ha insegnato a disegnare?" "Il signor Kotnich, signore." "Bene. Hai talento, ragazzo. Vedrò di procurarti fogli di carta bianca: è un peccato che disegni su questi pezzetti di carta di recupero. Non riesco proprio a capire come il tuo padrone precedente a mio suocero abbia potuto disfarsi di uno schiavo pieno di talento e a posto come te." Non era una domanda, così Kutkhay non rispose. Il padrone soggiunse: "Bah, non importa. Comunque ora la fortuna è mia nell'averti, specialmente ora che ci trasferiremo nella capitale." "Ci trasferiamo nella capitale, signore? Quando?" "Fra un paio di mesi circa." Kutkhay si sentì come frastornato: erano appena quattro mesi che aveva trovato Andrey e presto avrebbe dovuto separarsi anche da lui. Se almeno Mr. De Bruine, il suo Patrick, fosse venuto a riprenderlo! Ma ormai la sua speranza era ridotta al lumicino. Erano passati già tre anni senza che accadesse nulla, senza una risposta alle sue lettere... Ma Kutkhay in cuor suo si ribellò a quel pensiero: no, il suo padrone sarebbe tornato a cercarlo, l'avrebbe ripreso con sé.
L'amico ne fu rattristato: "Era troppo bello per durare! Ma almeno mi resterà il tuo ritratto per guardarti, ricordarti, sognarti. Devo finirlo in fretta. Vorrei essere tanto ricco per poterti comprare e tenerti sempre con me... Tu sei il primo con cui ho fatto l'amore più di due o tre volte. Prima di te, ogni volta che lo facevo con qualcuno mi veniva subito voglia di farlo con qualcun altro, di cambiare partner... Non ti dimenticherò mai. Credo proprio, sai, che mi stavo innamorando..." Kutkhay lo abbracciò stretto: "Andrey, anche io non ti dimenticherò. Io... io non posso dire che ti amo, perché sono innamorato di un'altra persona, anche se forse non la rivedrò mai più... Però ti voglio tanto bene e stavo molto bene con te. Tu mi hai insegnato un sacco di cose belle ed importanti, perciò resterai sempre dentro di me. Ora cerchiamo di vivere bene il poco tempo che ci resta da passare assieme." Andrey gli carezzò lievemente una guancia, con gran tenerezza, poi in lui si riaccese il fuoco della passione e tirò a sé il ragazzo, baciandolo con vigore nella bocca: "Tu mi fai impazzire, ragazzo mio, sei troppo desiderabile, bello... senti quanto ho voglia di te? Sarà anche perché ora so che ti perderò? Ma basta con le parole, voglio che siano i nostri corpi a parlare per noi, ora..." Andrey lo afferrò pieno di desiderio e lo fece suo con dolce violenza. Il ragazzo si abbandonò completamente a quelle focose attenzioni, godendosi ogni momento della loro unione e i suoi baci profondi e ardenti che ricambiava pieno di passione. Poi il pittore volle a sua volta essere preso dal ragazzo, che lo fece con gioioso piacere, incitato dall'altro con brevi e intensi gemiti. Infine giacquero appagati, le loro membra strettamente intrecciate, carezzandosi a baciandosi con tenero trasporto. Kutkhay in quei giorni continuò a vedere spesso Andrey, ma sentendosi avvicinare la partenza, decise di scrivere al suo padroncino un'ennesima lettera, accorata, triste ma ancora piena di speranza, comunicandogli l'imminenza del suo ennesimo trasferimento. Andrey terminò il nudo del ragazzo che fece incorniciare e che appese a una parete dello studio: "Questo non lo venderò mai, anche se dovessi diventare poverissimo..." dichiarò all'amico. Poi volle fare altri schizzi di Kutkhay, in tutte le pose, sia vestito che nudo, in modo di poterlo guardare ancora anche quando il ragazzo fosse partito. Furono giorni strani, che entrambi vissero in un'atmosfera di gioia nell'incontrarsi ancora e nell'unirsi, nel darsi l'un l'altro il massimo del piacere, nell'esprimersi il reciproco desiderio, nell'assaporare fino all'ultimo la dolcezza dello stare assieme, mista però alla crescente tristezza per la prossima separazione. Andrey si era veramente innamorato del suo giovane amico, modello, allievo e a volte si lasciava andare ad amare considerazioni sulla crudeltà del destino: "Aver conosciuto qualcuno come te e doverti perdere... puoi capirmi, Goldie?" Il ragazzo lo guardò con dolcezza e annuì: "Ti capisco sì, perché è già capitato anche a me col mio primo padrone. E con lui non ho avuto neanche la gioia di fare l'amore, non so neanche se io gli interessavo o no. Cioè, sì, mi voleva bene, di questo sono sicuro... ma nell'anno che ho passato accanto a lui non ha mai mostrato di desiderarmi e in tre anni da quando m'hanno separato da lui gli ho scritto tantissime lettere implorandolo di venirmi a prendere e non è accaduto nulla... Perché? Che significato c'è in tutto ciò? C'è un significato? Se c'è, io non riesco a capirlo." Andrey annuì tristemente, lo tirò a sé e lo abbracciò stretto. Avrebbe voluto consolare l'amico, avrebbe voluto essere consolato da lui, ma entrambi erano troppo tristi per poter fare qualcosa per l'altro oltre a condividere la loro tristezza.
Il ragazzo, poche sere prima della partenza, stava affacciato alla finestra della sua stanzetta e guardava il cielo trapuntato di stelle: le conosceva bene, fin da piccolo le aveva guardate spesso, a lungo e il cielo, almeno lui, era sempre lo stesso. Guardava le stelle e gli prese una grande nostalgia: ripensò alla sua vita al villaggio e inevitabilmente si riaffacciò alla sua mente la figura del suo amico Mokoa. Allora ripensò al suo giuramento di non lasciarlo mai. Si chiese che fine avesse fatto il suo primo amante: era ancora vivo? Oppure era anche lui schiavo in una terra straniera e di un popolo straniero? Sperò che fosse così perché almeno, pur essendo stati separati dalla vita, stavano condividendo qualcosa. Come si trovava Mokoa ora? Gli dispiaceva di non aver più il fischietto che aveva chiamato "amante"... almeno avrebbe conservato qualcosa di più del suo amico oltre il semplice ricordo. Nella mente lo invocò: "Se sei ancora vivo, starai pensando a me? E se invece sei tornato con gli antenati, allora puoi venire qui accanto a me? Mi vedi? Mi senti? Mi vuoi ancora bene? Gli spiriti possono ancora voler bene agli uomini? Se così fosse, amico mio, amante per sempre, aiutami ti prego. Mi sento triste, non vedo la strada, non so che cosa fare... tentare di scappare di nuovo? Oppure aspettare, aspettare ancora?" Una stella cadente scivolò improvvisa nel cielo. Kutkhay sospirò profondamente: "Sì, piangi anche tu, spirito del cielo. Piangi con me. Lo sai: mi sono donato al mio padroncino al signore Patrick, quando mi salvò la vita sulla grande barca, quando i marinai volevano gettarmi fra le onde a morire. Mi sono donato a lui e l'ho amato, lo amo tanto. Gli appartengo, appartengo a lui solo: questi uomini che hanno venduto e comprato il mio corpo, che hanno usato il mio corpo, che mi hanno rubato o regalato, non sono veri padroni. Perché devo essere lontano da te, padroncino mio? Quando verrai a cercarmi, a portarmi via? Verrai? Non mi hai dimenticato, vero?" La sera era fresca e Kutkhay rabbrividì appena, poiché al suo solito quando era solo nella sua stanzetta non indossava nulla. Si passò le mani sul corpo, semiabbracciandosi, e continuò a pensare: "Ciao, spirito della luna. Sei venuto anche tu questa notte a tenermi compagnia? Perché non mi attiri a te? Perché non mi fai volar via da questa finestra e non mi conduci da Patrick, il mio signore? Se è vero che sei uno spirito potente, perché non mi mostri la tua potenza? Quante volte hai illuminato il corpo del mio padrone dipingendone d'oro la pelle e rendendolo ancor più desiderabile ai miei occhi? Lo sai, è anche un po' colpa tua se mi sono innamorato del mio padrone. E ora stai lì a guardarmi, indifferente. Come sta il mio padrone? Dove sta? Che cosa fa? Si è forse dimenticato del suo Cardellino? Ma tu guardi e taci, freddo spirito della luna!" Kutkhay si ritirò dalla finestra e si stese sul proprio letto, me non aveva sonno neanche un poco. Steso, immobile, ripensò ai suoi amanti. Mokoa che gli aveva schiuso le porte dell'amore, che gli si donava in mezzo alla natura amica e gli aveva insegnato la spontaneità, naturalezza e giocosa levità dell'amore fra maschi. Poi Rodney, il suo maestro: anche con lui era stato bello fare l'amore. Lo rivide illuminato dalle ultime fiammelle del focolare e la rossa luce danzava sulla liscia pelle del suo corpo e brillava nei suoi occhi pieni di desiderio, riudì la sua voce bassa, sensuale. Rodney gli aveva insegnato a riconoscere i fremiti dei sensi e a risvegliarli, a controllarli e a liberarli con l'altro e per l'altro. Ripensò a Jimmy che gli aveva insegnato la dolcezza e la disponibilità dell'amicizia, la dedizione e la pazienza dell'affetto, il potere risanante per l'anima di un'unione fatta più per affetto che per brama. E poi Lee, così vigoroso e gentile, allegro e sempre pronto a donarsi senza mai chiedere nulla, che gli aveva fatto vedere quanta gioia ci può essere nel donarsi e quanta virilità ci può essere nel farsi prendere. E infine all'altro suo maestro, l'appassionato Andrey, che gli aveva insegnato l'arte dell'amore, la gioia di donarsi, il piacere di farsi possedere. Certo, non gli erano mancati gli amanti e ognuno era stato più bello e più piacevole dell'altro, eppure... Eppure gli mancava l'unico, essenziale, quello a cui si era donato anima e corpo ma a cui non aveva mai potuto donare il proprio corpo, con cui non aveva mai potuto fare l'amore: gli mancava il suo padroncino, il suo meraviglioso Patrick. Il suo pensiero tornava sempre lì: ne rivedeva il bellissimo corpo che lui conosceva così bene, avendolo lavato tante volte, avendoci passato le sue mani scivolose di sapone in lunghe carezze segrete, sentendosi poi in preda a un turbamento così profondo e forte ma così bello. Risentiva l'odore fresco della sua pelle, rivedeva il suo sorriso così dolce e bello, così conturbante e attraente e riprovava la voglia di posare le sue labbra su quelle labbra sensuali... quella dolce tortura dell'essere semiabbracciati a lui la notte, carezzato appena, e poi sentire il suo respiro lieve a pochi centimetri da sé, e qualche volta nella notte sentire la sua eccitazione svegliarsi, il suo turgore premergli contro inconsciamente e sperare, desiderare di essere lui la sola e vera causa di quelle inconscie erezioni... e i propri fremiti, il proprio desiderio a stento tenuto a freno. Inquieto Kutkhay si alzò di nuovo e tornò alla finestra. Una brezza lievissima faceva appena stormire le foglie degli alberi del giardino in un fruscio sommesso ma incessante, un brusio come di mille voci lontane, le voci dei suoi ricordi, dei suoi desideri che si rincorrevano e si accavallavano, ora lucidissimi ora confusi, nella sua mente. E quella brezza carezzò lievemente il suo giovane corpo assetato d'amore. Allora chiuse gli occhi, alzò lentamente il viso verso il cielo, inspirò profondamente la fresca aria della notte e nella propria mente echeggiò un grido accorato: "Patrick, signore, dove sei?"
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