CARDELLINO PARTE SECONDA - CAPITOLO 5
La nave doveva fermarsi per diversi giorni poiché aveva bisogno di riparare una piccola falla formatasi a causa di uno scoglio sommerso. Il capo assicurò agli stranieri legname, cibo e acqua. Questi gli donarono due fucili ad avancarica con polvere e munizioni, alcune coperte e chincaglieria varia. Kutkhay spendeva tutto il suo tempo facendo da interprete e se la cavava benino. Era molto fiero, poiché nel villaggio nessuno sapeva ancora di questa sua abilità e presto fu guardato con rispetto anche dagli anziani.

Ma Kutkhay aveva un solo desiderio in cuore: ora che non aveva più il suo Mokoa voleva salire sulla nave, andar via con la gente di suo padre. Quando individuò il capo di quegli uomini, il capitano della nave, dopo parecchie esitazioni, trovò il coraggio di parlargli: "Quando uomini aggiusta nave e finito io parte su nave." disse pieno di trepidazione, spiando la reazione dell'altro.

"Vorresti venire con noi?"

"Sì, io vorresti venire con voi." rispose il ragazzo.

"Ma non puoi venire con noi. Questa è una nave mercantile e tu comunque non hai il biglietto."

"Mercantile? Billieto? Io no capisce..."

"Tu non puoi venire sulla nave." ripeté pazientemente l'uomo.

"Io ti fa doni."

"No, no, ci vogliono soldi, tanti soldi."

"Soldi? Io no capisce soldi. Io viene su nave?"

Il capitano ebbe la pazienza di spiegare al ragazzo che la sua richiesta era inutile. Quando questi infine capì ci rimase molto male. Discusse ancora con il capitano, ma infine dovette rassegnarsi. Kutkhay divenne triste. Aveva sempre segretamente sperato che la gente di suo padre lo portasse con sé.

Stava seduto su una pietra mogio mogio quando dalla nave giunse un'altra barca. Guardò: a bordo, oltre ai marinai, vi era un giovane uomo con i capelli castano chiari quasi biondi, lisci. Indossava un abito verde chiaro e crème che a Kutkhay sembrò molto bello. L'uomo aveva uno sguardo luminoso, un lieve sorriso sulle labbra sensuali, una posa eretta e fiera da vero capo. Non si sbagliava: anche se era molto giovane tutti lo trattavano con rispetto e deferenza. Doveva avere l'età del suo fratello maggiore o forse un po' meno. Kutkhay ne fu letteralmente affascinato: dimenticò la propria tristezza e si perse nell'ammirazione del nuovo venuto. Il suo volto aveva tratti fini, i suoi movimenti erano sicuri e forti ma eleganti. E la voce... la voce era profonda e calda e fece fremere Kutkhay.

"Ho deciso di scendere un po' a terra." dichiarò rivolgendosi al capitano della nave.

"Certo signore, ha fatto bene, signore." rispose questi con evidente ossequio.

Kutkhay non riusciva a capire bene tutte le parole, ma ascoltava attento.

Poi il giovane chiese: "Potrei avere un po' d'acqua?"

Kutkhay questa volta capì e schizzò veloce in casa sua, tornando con una ciotola di legno piena d'acqua fresca che porse al forestiero. Questi fece un cenno di ringraziamento, sorridendo, prese la ciotola e bevve con gusto. Kutkhay ne guardava le belle labbra posate sul bordo della tazza, le lunghe mani affusolate e come un brivido di piacere lo percorse da capo a piedi: si sentiva così emozionato che non riusciva neanche a dire una parola. Il giovane uomo gli rese la tazza con un altro sorriso poi si allontanò conversando con il capitano. Il ragazzo restò con la ciotola vuota in mano, immobile, seguendolo affascinato con lo sguardo. Quello era il vero capo di tutti, lo sentiva, doveva essere il grande capo di tutte le tribù degli stranieri. Come l'aveva chiamato l'altro? "Signore"? Era il suo nome o il titolo del suo rango? Non ricordava di aver studiato quella parola, perciò corse dallo sciamano a chiedere spiegazioni. Questi stava facendo da interprete. In un attimo di pausa il ragazzo gli pose la sua domanda.

"No, è solo un titolo di rispetto, come tu chiami padre gli uomini anziani della tribù."

Kutkhay si grattò il capo: "Ma chi l'ha chiamato signore era più anziano di lui." obiettò.

"Non ho detto che è la stessa cosa. Si dice signore a chi è più importante di te. Hai capito adesso?"

Kutkhay annuì, poi soggiunse: "Ma lui deve essere un grande capo."

"Quell'uomo è il figlio del padrone della grande barca e di tante altre grandi barche."

Kutkhay annuì di nuovo: aveva ben capito che quella era una persona di altissimo rango. Ma se era una persona così importante lui non poteva certo rivolgergli la parola per primo. Aveva già infranto le regole parlando per primo al capo degli uomini della nave... non poteva continuare così. L'unica speranza era che fosse l'altro a parlargli per primo. Doveva seguirlo, mostrarsi servizievole e forse...

Cercò con lo sguardo dove fosse il "signore" ma non lo vide. Chiese in giro agli amici e seppe che era andato verso l'interno, accompagnato dagli uomini con i bastoni tonanti e da alcuni uomini del villaggio per fare una breve esplorazione. S'informò che direzione avesse preso e partì, deciso a trovarli. Girò per il bosco finché riconobbe le orme delle cose che gli stranieri portavano ai piedi. Le seguì, ma quando giunsero al terreno roccioso, le perse. Cercò nei dintorni sperando di ritrovarle, ma inutilmente. Quando cominciò a diventare buio tornò al villaggio e seppe che il "signore" era già tornato indietro ed era risalito sulla nave.

"Forse tornerà domani." si disse il ragazzo pieno di speranza.

Ma il giorno seguente il capo lo mandò a caccia con altri per trovare carne per gli stranieri. Kutkhay avrebbe voluto rimanere al villaggio, ma non poteva disobbedire a una richiesta esplicita del capo villaggio. Così, sia pure di malavoglia, partì assieme agli altri. Restarono fuori per tre giorni e tornarono, finalmente, carichi di prede. Appena fu di ritorno chiese del "signore" e seppe che era sulla nave. Seppe anche che la falla era stata riparata e che l'indomani all'alba la nave sarebbe ripartita.

Kutkhay si sentì perso. Lui doveva rivedere il "signore", doveva partire con la gente di suo padre, ma come fare? A notte si ritirò in casa propria di malumore. Quando la sua sposa gli si accostò, la allontanò con durezza. Non riusciva a prendere sonno, così uscì. Le lanterne sulla nave si specchiavano sull'acqua placida.

Guardava la grande mole, appena illuminata dall'ultimo quarto di luna, dondolarsi dolcemente... non era troppo distante dalla costa... e lui era un abile nuotatore... Un'idea improvvisa lo folgorò. Toccò il suo portafortuna, poi il fischietto che aveva al collo, quindi scese deciso in acqua senza far rumore. Quando fu dentro fino alle ascelle, si girò verso il villaggio: tutto taceva, tutti dormivano, nessuno l'aveva visto. Allora si immerse e nuotò sott'acqua verso la grande barca, emergendo solo di tanto in tanto per riprendere aria, facendo attenzione a non fare il minimo rumore, finché il suo corpo sfiorò il legno della grande barca. Le girò intorno finché trovò la catena dell'ancora. Questa cigolava ritmicamente al lento dondolio della nave. La saggiò e sentì che era scivolosa ma robusta. Provò ad arrampicarsi e vide che infilando bene i piedi negli anelli, era facile salire.

Il solo problema era non farla cigolare in modo diverso e non farsi vedere dagli uomini della grande barca. Sapeva che ce n'erano almeno tre che passeggiavano su e giù per tutta la notte. Molto lentamente salì, anello dopo anello, finché la sua testa arrivò all'altezza del foro di scappamento della catena. Vi guardò attraverso e non vide alcun movimento. Allora salì ancora un poco finché riuscì a infilarvisi. Si sporse un poco all'interno e vide arrivare un uomo con la lanterna. Si tirò indietro in fretta e sentì che i piedi gli stavano scivolando via dalla catena. Si afferrò con entrambe le mani al bordo del foro e riuscì a tenersi. L'uomo passò davanti al foro ma guardava fuori bordo da sopra la spalletta e non lo vide. Si allontanò a passo lento e quando dal rumore dei passi Kutkhay giudicò che fosse abbastanza lontano, si issò a bordo a forza di braccia. Scivolò dentro il foro e finalmente sentì sotto di sé le assi di legno dell'impiantito del castello di prua.

Rimase un poco immobile per riprendere fiato. Quindi si guardò attorno per trovare un posto in cui nascondersi. Vedeva tanti oggetti strani, cose mai viste, che non conosceva, ma nulla che potesse offrirgli un nascondiglio sicuro. Allora con estrema prudenza si alzò in piedi finché riuscì a individuare le lanterne degli uomini di guardia: erano abbastanza lontane da lui, ma una si stava avvicinando. Furtivamente, tenendo d'occhio le lanterne e il pavimento per non inciampare, riuscì a spostarsi fino a una delle scalette che scendevano fino alla tolda. Scendere voleva dire esporsi troppo. Studiò la situazione e capì che doveva raggiungere l'altra scaletta: mentre l'uomo di guardia sarebbe salito per la prima, lui poteva lasciarsi scivolare di fianco all'altra. Gli altri uomini frattanto sarebbero stati uno dal lato opposto, l'altro a poppa...

Aspettò e fece come aveva previsto: tutto andò bene. I suoi piedi nudi non traevano alcun rumore dalle assi del pavimento. Pian piano, muovendosi da un punto all'altro solo dopo aver osservato bene, arrivò fino ai portelloni della stiva. Uno era aperto e una scaletta a pioli scendeva nel buio. Kutkhay ascoltò per essere sicuro che dall'interno non venisse il suono del respiro di gente che dorme, quindi si calò giù pian piano, appena in tempo prima che gli uomini di guardia arrivassero accanto a quel portellone.

Dopo poco si abituò al buio interno e cominciò a distinguere, se non gli oggetti, le masse lì dentro contenute. Continuò a scendere lentamente finché sentì il pavimento sotto ai piedi, quindi, toccando con le mani quelle masse che intravedeva, saggiando con cautela il pavimento a ogni passo, cominciò a spostarsi cercando di allontanarsi dalla scaletta e di nascondersi meglio.

Il tempo passava ritmato dal rumore dei passi delle guardie sopra di lui. Poi dal portellone cominciò a entrare un barlume: era l'alba. Man mano che l'intensità luminosa cresceva, il contorno degli oggetti si definiva e Kutkhay vedeva sempre meglio l'ambiente della stiva e ciò che lo circondava, per cui riuscì a trovare un nascondiglio migliore. Si sistemò dietro a una cassa enorme, in uno stretto spazio fra questa e la paratia e si stese, stremato dalla tensione nervosa di quelle ore.

Sentì la nave risvegliarsi, le voci degli uomini, i loro passi e tutta l'imbarcazione fu piena di suoni e di rumori. Il sole iniziava a salire all'orizzonte e dal portellone entrava sempre più luce.

La nave gemette, l'ancora fu issata a bordo, sferragliante, fischietti suonarono con diverse tonalità modulate, suonò una campana, la nave gemette ancora... e Kutkhay ebbe la certezza che la grande barca stava lasciando la baia per il mare aperto. Ormai erano partiti. Si rilassò felice e piombò in un sonno profondo, cullato dal dolce rollio della nave. Si risvegliò e si riaddormentò due volte e la seconda volta capì dalla luce che diminuiva che la giornata stava finendo. Dormì tutta la notte. Ormai s'era abituato agli scricchiolii della nave che perciò non lo svegliavano più. Ogni volta si riaddormentava felice e beato cercando di immaginare come sarebbe stato il luogo in cui sarebbe sbarcato: la terra del suo padre sconosciuto.

Il mattino seguente il suo risveglio fu brusco e spiacevole: un paio di mani forti e dure lo sollevarono di peso, mentre una voce orribile gridava cose incomprensibili. Un marinaio, sceso nella stiva per qualche suo strano motivo, era andato a guardare in quell'angolino per un qualche motivo ancora più strano e lo aveva scoperto. L'uomo lo sollevò come un fuscello e lo portò su.

Il suo vociare aveva attirato diversi marinai, così quando emersero dal portellone Kutkhay, che non aveva cessato di divincolarsi, si trovò completamente circondato. Si sentì addosso mani, mani e mani, si sentì strattonare mentre tutti parlavano assieme dicendo cose che Kutkhay non riusciva a capire sia per lo spavento che lo aveva colto, sia per la confusione delle voci. Tentò di parlare, di dire qualcosa nella lingua degli stranieri, ma il suo cervello era come vuoto e dalla sua gola uscivano solo suoni inarticolati.

Frattanto gli uomini l'avevano legato e stavano discutendo sul da farsi: alcuni dicevano che dovevano chiamare il capitano e far decidere lui, altri che dovevano semplicemente buttarlo fuori bordo come si fa con i clandestini, altri ancora proponevano di tenerlo come mozzo fino al prossimo scalo e poi metterlo a terra.

Non è che i secondi fossero sadici o cattivi o che gli ultimi fossero gentili o altruisti: semplicemente gettare fuori bordo i clandestini era stata la regola fino ad allora su tutte le navi e solo in quel periodo stava cambiando; riguardo alla proposta di tenerlo come mozzo, i mozzi a bordo erano sempre ragazzi giovani che, durante i viaggi, oltre a lavorare duramente, erano usati come sfogo sessuale dai marinai, e Kutkhay era giovane e bello...

Il partito che voleva gettarlo fuori bordo stava prendendo il sopravvento. Il ragazzo era già stato sollevato e lo stavano portando verso poppa per scagliarlo fuori. Ora la discussione era se gettarlo in mare legato o slegato... Decisero di slegarlo e anche di gettargli poi un'asse o un galleggiante.

Lo stavano liberando dalle corde quando una voce si levò improvvisa: "Che succede? Che cos'è tutto questo baccano?"

Tutti si fermarono riconoscendo la voce del capitano che era comparso sulla tolda. Gli stavano spiegando il fatto quando accanto a lui comparve una seconda persona, il figlio dell'armatore.

Il marinaio che faceva da portavoce al gruppo stava terminando di parlare: "...così abbiamo deciso di gettarlo fuori bordo come si fa coi clandestini e di lanciargli un galleggiante e chissà che sia abbastanza fortunato da raggiungere la riva da qualche parte..."

"Va bene, come volte voi. In fondo è solo un selvaggio." lo interruppe il capitano con un'alzata di spalle.

Ma a quel punto il figlio dell'armatore intervenne con un tono che non ammetteva repliche: "Mettetelo subito giù. Sulle navi della nostra compagnia non si getta nessuno fuori bordo, per nessun motivo."

"Ma è un clandestino, signore." protestò un vecchio marinaio.

"No, da questo momento è un mio ospite." rispose secco il giovanotto, poi si rivolse a Kutkhay e gli chiese: "Capisci la nostra lingua, ragazzo?"

Un marinaio disse ridendo: "Ma che vuole che capisca, è un selvaggio!"

Ma un altro intervenne pronto: "Era uno dei due interpreti..."

Allora il capitano lo guardò meglio, lo riconobbe e raccontò al giovane uomo la richiesta del ragazzo e la lunga discussione seguitane.

Il figlio dell'armatore, con un sorriso, chiese di nuovo: "Dunque, parli la nostra lingua, tu?"

"Un poco parli, signore." rispose questi ancora tremante.

"Come ti chiami?"

"Io... chiami?" chiese il ragazzo incerto.

"Sì, quale è il tuo nome?"

"Ah, mio nome Kutkhay è."

"Vieni qui, Kutkhay..."

Il ragazzo, ora libero, si avvicinò lievemente impacciato.

"Vuoi lavorare per me?"

"Io lavora, io tuo schiavo, signore!" rispose il ragazzo radioso.

"Vieni con me, allora." gli disse l'uomo.

Poggiata una mano sulla spalla di Kutkhay lo guidò fino alla propria cabina. Fattolo sedere davanti a sé, dopo aver dato ordine al suo cameriere di preparare una tinozza per far lavare il ragazzo, si mise a parlare con Kutkhay. Sia pure con qualche difficoltà, riuscirono a capirsi. Così Patrick De Bruine seppe dal ragazzo che questi era un sangue misto e che voleva conoscere il paese d'origine del padre e vivere con il popolo da cui proveniva il padre. Patrick provò subito un'istintiva simpatia per Kutkhay e lo affidò al cameriere perché lo facesse lavare e gli trovasse abiti adatti. Poi gli ordinò di cominciargli a insegnare qualche facile lavoro da affidargli.

"Il ragazzo mi sembra intelligente e con un po' di apprendistato potrà diventare un buon servo."

"Come comanda, signore." rispose il cameriere occupandosi subito del ragazzo.

Per prima cosa dovette insegnargli l'uso del sapone e dell'asciugamano. Quindi come indossare e allacciare gli abiti che gli aveva procurato. Poi cominciò con l'insegnargli come lucidare gli stivali del padrone. Per Kutkhay era cominciato l'inserimento nella cultura di suo padre.

Il ragazzo era felice: stava imparando un sacco di cose nuove; era affascinato da tutto, ma in modo speciale dalla grande nave così ben costruita e dalla profusione di oggetti in metallo che vedeva attorno a sé.

Altre due cose lo incuriosivano molto: i vetri alle finestre e lo specchio. Il vetro lo scoprì quando tentò di affacciarsi dalla finestra della cabina del suo nuovo padrone e vi batté contro una testata. Stupito, allungò timidamente la mano a toccare quella strana cosa.

"Aria dura?" chiese stupito guardando il padrone che rideva divertito per la sorpresa del ragazzo.

"No, vetro."

"Vetro? Suo nome vetro?"

"Sì."

"Bello vetro. Così ferma vento ma no luce." dichiarò soddisfatto Kutkhay carezzandolo con le punte delle dita.

Allora a Patrick venne in mente lo specchio. Lo prese e lo mostrò al ragazzo. Questi vi si guardò, aggrottò le sopracciglia e vide la figura riflessa fare altrettanto.

Subito guardò il padrone: "Questo come acqua dura, io vede io. Ma no acqua. Quale suo nome è?"

"Specchio."

"Questo specchio è. Molto bello specchio e utile. Io vede io più bene che con acqua. Come vetro ma diverso."

Il padrone pensò che il ragazzo doveva essere molto intelligente per aver capito che quella era un'immagine simile a quella rinviata dall'acqua e non un qualcosa di magico come spesso credevano i primitivi. E anche di aver in qualche modo assimilato il vetro allo specchio dopo averli appena scoperti. Così nella sua mente cominciò a formarsi il piano di mettersi a insegnare al ragazzo. Forse poteva persino insegnargli a leggere e a scrivere.

Allora prese un foglio di carta, una penna e disse: "Il mio nome è Patrick de Bruine. Guarda, si scrive così." e lo tracciò in chiare lettere.

Kutkhay guardò attentamente, poi chiese: "Tu cosa disegna?"

"Il mio nome. Quale è il tuo nome?"

"Io Kutkhay."

"Bene, io scrivo: Kutkhay. Guarda."

"Tu scrivo, che è?"

"Il tuo nome: K U T K H A Y, vedi? Questa è K ed anche questa."

Il ragazzo sembrò non capire: aggrottava le sopracciglia, poi chiedeva ancora che fosse quel disegno strano. Patrick, pazientemente, scrisse altre parole che poi pronunciava e analizzava lettera per lettera. Infine ebbe l'idea di emettere alcuni suoni e di scriverli.

Passarono più ore, ma alla fine il ragazzo sembrò capire ed esclamò: "Se tu dice PADRE, tu scrive PA come PATRICK!"

Il giovane uomo era trionfante: "Bravo, molto bene. Domani continueremo. Vedrai, ti insegnerò molte cose e diventerai istruito come un bianco."

Il ragazzo era felice nel vedere che il suo padrone era contento di lui. Pur di vederlo contento, avrebbe anche imparato a disegnare i suoni, anche se gli pareva una cosa inutile.

Giunta la sera, Patrick fece aggiungere un pagliericcio per il ragazzo nella sua cabina, accanto alla propria cuccetta. Kutkhay guardò il suo padrone spogliarsi finché restò con le sole mutande si tela indosso e vide che il suo padrone era molto bello: aveva un corpo snello ed atletico, quasi privo di peli, dalle proporzioni perfette. Dentro di sé pensò che era fortunato, perché stava con l'uomo che l'aveva affascinato e il suo padrone, oltre ad avergli salvato la vita, era buono e bello, sapeva moltissime cose, era una persona di altissimo rango... Si addormentò felice sul suo pagliericcio posto sul tavolato del pavimento.

Nei giorni che passò sulla nave imparò moltissime cose, sia pratiche dal cameriere di Patrick, sia teoriche direttamente da questi. Cominciò a scrivere e apprendeva con una velocità che non cessava di stupire il suo nuovo padrone.

Quando finalmente la nave attraccò al porto di destinazione, Patrick scese portando con sé sia Kutkhay che il cameriere. Mentre questi caricava tutti i bagagli sulla carrozza che aveva lasciato ai depositi del padre, portò il ragazzo da un barbiere per fargli tagliare i lunghi capelli nella foggia dei bianchi. A Kutkhay dispiaceva un po' perdere la sua bella chioma: per la gente del villaggio era un vanto avere i capelli lunghi. Ma aveva notato che la gente di suo padre, e anche il suo padrone, avevano i capelli corti e pensò che così sarebbe sembrato uno di loro e si consolò. Soprattutto, poi, non voleva contrariare il suo padrone. Quando vide l'espressione soddisfatta di Patrick, il ragazzo non pensò più ai suoi capelli. Patrick gli comprò anche alcuni abiti per sostituire i panni da marinaio che gli erano stati procurati a bordo.

Quando Kutkhay si guardò allo specchio del negozio si osservò bene poi disse: "Io è come tutti, non vede differenza."

"È vero, potresti benissimo passare per un bianco." ammise soddisfatto il suo padrone.

All'inizio si sentiva un po' a disagio, soprattutto per via delle scarpe, ma cercò di non mostrarlo al padrone. Anche nella città Kutkhay era affascinato da tantissime cose: dai cavalli che vedeva per la prima volta e dalle carrozze, dalle case grandi e belle e numerosissime, dai giardini curati, dalle donne dagli abiti variopinti, sontuosi e ricchi.

A proposito delle donne, fece di nuovo ridere a lungo il padrone quando gli disse che, non avendo visto neppure una donna sulla nave, aveva creduto che il popolo del padrone non avesse donne.

"E come potrebbero nascere i bambini senza donne?" gli chiese Patrick divertito.

"Bah questo io no sa, ma forse possibile, no? Tante cose misteriose sa fare tuo popolo!" rispose il ragazzo.

"Ma questa non è ancora capace a farla: per fare un bambino sono ancora necessari un maschio e una femmina, anche nel mio popolo." rispose Patrick con un sorriso.

Il ragazzo chiedeva il perché di tutto, il significato di parole nuove, e anche il suo inglese stava migliorando. Avendo una buona memoria e un'intelligenza pronta e vivace, imparava rapidamente, anche se a volte faticava a capire alcuni concetti.

Per esempio non riuscì a capire che cosa fosse, che senso avesse il denaro. Patrick si ripromise di tornare sull'argomento più tardi. Durante il viaggio in carrozza Kutkhay non fece che parlare e far domande a Patrick che rispondeva di buon grado e volentieri spiegava al ragazzo tutto ciò che era in grado di spiegare.

Faticò anche a fargli capire l'utilità dell'orologio.

"Ma quando mezzogiorno, vedo da sole, no?" concluse con aria ovvia Kutkhay dopo l'ennesimo esempio tentato da Patrick.

Questi decise di nuovo di lasciar perdere, e preferì correggere piuttosto la sintassi della frase del ragazzo.

Giunti alla grande villa in cui risiedevano i de Bruine, Patrick presentò entusiasta il ragazzo alla famiglia, raccontando la sua storia, come l'avesse salvato e dicendo loro che intendeva tenerlo come suo servo personale e che intendeva dargli una buona istruzione.

Il padre, ricco banchiere, armatore e commerciante, accettò di buon grado quello che interpretò come un capriccio del suo primogenito: "Va bene, novello Pigmalione. Non è certo un servo in più che ci può creare problemi. Trovagli una sistemazione e fai in modo che non si monti la testa. E fargli fare la livrea della servitù."

Patrick chiese al padre di usare la piccola stanza che comunicava con la sua camera da letto arredandola in modo che vi potesse vivere il ragazzo. Quella stanza era usata come sgabuzzino ma aveva una piccola finestra. Gli schiavi la vuotarono portando il contenuto in altri sgabuzzini; fu trovato un lettino, una sedia, un tavolo, uno scaffale, una cassapanca e un piccolo armadio, così Kutkhay fu sistemato.

Poi Patrick chiese anche alle sorelle di aiutarlo a insegnare al ragazzo a leggere, scrivere e far di conto, e al maggiordomo di inserirlo nella vita della casa affidandogli qualche piccolo compito, ma lasciandogli il tempo libero per fargli da cameriere e per studiare.

Il modo di esprimersi di Kutkhay migliorò rapidamente. Inoltre si applicò nel servizio del suo giovane padrone con un entusiasmo, un'attenzione e una dedizione totali. Quando era nella sua stanzetta la sera, all'ora di andare a letto, Kutkhay si spogliava nudo: infatti, anche se si era adeguato a portare gli abiti occidentali, non gli piaceva molto sentirsi infagottato. E quando stava da solo nella sua stanzetta, indossava solo le mutande e camminava scalzo. Ma quando doveva servire in casa o il padroncino lo faceva andare in città, si vestiva di tutto punto e si metteva anche le scarpe.

A Kutkhay piaceva molto aiutare il suo padrone a spogliarsi e vestirsi, perché in quei momenti poteva ammirarne il corpo. Il ragazzo aveva, innato, un ottimo senso cromatico ed estetico, cosicché a poco a poco cominciò a consigliare a Patrick gli abiti da indossare quando questo il mattino doveva vestirsi, o cambiarsi durante il giorno. Patrick si lasciava consigliare con piacere.

Kutkhay era da poche settimane a casa dei De Bruine, quando Patrick gli chiese: "Ha un significato, il tuo nome, Kutkhay?"

"Sì, padrone, tutti nomi da noi hanno significato."

"E che cosa significa?"

Kutkhay restò un attimo perplesso: il significato del nome di un uomo è segreto e solo gli uomini iniziati della tribù possono conoscerlo. Neanche le donne potevano saperlo. Ma lui apparteneva anche alla tribù del suo padrone, e questi era un uomo... Avrebbe potuto dirglielo? Sapere il significato del nome di un uomo voleva dire avere un potere su di lui... Ma lui si era donato al suo padrone, e quindi forse poteva...

Patrick lesse la perplessità sul volto del ragazzo, perciò gli chiese quale fosse il problema. Kutkhay glielo spiegò.

Patrick capì il problema del ragazzo: "Se non puoi dirmelo, per me va bene."

"No, io vuole diretelo, ma no a tutti che sanno, dopo."

"D'accordo, lo sapremo solo io e tu."

"È nome di uccellino, padrone."

"Quale uccellino?"

"Non so come si chiama in tua lingua, ma..." disse Kutkhay e cominciò a spiegarne le caratteristiche.

Dopo un po' Patrick lo portò nella biblioteca, prese alcuni libri di ornitologia e cominciò a sfogliarli mostrandone le illustrazioni al ragazzo. Finalmente questi riconobbe l'uccello e lo indicò.

"Ah, ma questo è un cardellino. Goldfinch o, in francese, Chardonneret. Allora ti chiamerò Goldie, il mio cardellino. E nessuno saprà che Goldie viene da Goldfinch e non da gold: sarà il nostro segreto. Ti va bene?"

Kutkhay si aprì in un grande sorriso: il suo padrone gli aveva dato un nuovo nome e perciò ora apparteneva ancora di più a lui. E poi il nuovo nome gli piaceva molto, suonava bene, ne era molto fiero. Appena fu solo provò a scriverlo e gli piacque ancor più di prima. Quella notte, nudo sul suo lettino, Kutkhay si addormentò felice.

Ma a metà notte si svegliò: dall'altra parte della porta il suo padrone stava dormendo. Sentì fortissimo il desiderio di andare a guardarlo, ad ammirarlo. Pian piano scese dal letto e provò ad aprire la porta senza far rumore. Entrò nella camera del padrone. Patrick dormiva profondamente e il suo respiro lieve s'udiva appena. Kutkhay s'avvicinò senza fare il minimo rumore: i suoi piedi nudi si posavano lievi sul pavimento di legno della stanza. Accostatosi guardò il corpo del padroncino abbandonato sull'ampio letto. Provò la tentazione di sfiorarlo in una muta carezza, ma si trattenne per tema di svegliarlo. Sembrava così indifeso, mentre dormiva!

La sua pelle chiara e vellutata era illuminata dai raggi della luna che impregnavano la stanza entrando dalla finestra spalancata. Le grandi tende fluttuavano appena. Patrick mosse lievemente il capo e i biondi capelli brillarono come una cascata di pagliuzze d'oro.

Il lenzuolo di fine batista ne sottolineava le forme, lasciando scoperto l'ampio petto liscio e sodo su cui risaltavano i due scuri e piccoli capezzoli circondati da una finissima peluria bionda.

"Quanto sei bello, padrone!" pensò Kutkhay.

Si accoccolò sul tappeto senza perdere di vista la forma adagiata sul grande letto antico: ora la vedeva di profilo. Era felice di poter ammirare quel bel corpo a suo agio, all'insaputa del padrone. Gli piaceva l'idea di vegliarlo. Avrebbe solo voluto svelarlo completamente per ammirarlo nella sua totalità, ma si accontentava. Gli occhi gli si chiudevano, ma il ragazzo, caparbio, cercava di tenerli aperti carezzando con lo sguardo quelle belle forme. Ne vedeva il profilo sollevarsi e abbassarsi a ogni respiro.

"Dormi tranquillo, padrone. Il tuo Cardellino ti protegge." pensò il ragazzo sentendosi invadere da un tenero calore. Ma il sonno incalzava appesantendogli le palpebre e, impercettibilmente, scivolò nel sonno. Il suo corpo si raggomitolò inconsciamente, cercando riparo dal fresco della notte nel suo stesso calore. La luna era tramontata e l'orizzonte iniziava appena a trascolorare, illuminandosi a poco a poco. Gli uccelli del grande giardino si svegliarono e cominciarono a trillare forte, salutando l'annuncio del nuovo giorno. Patrick emise un breve gemito e si girò avvolgendosi più strettamente nel lenzuolo. Kutkhay si svegliò di soprassalto e guardò il padrone allarmato. Vide che ancora dormiva e si tranquillizzò. Guardò fuori dalla finestra. Il cielo ora era color perla e si rischiarava di secondo in secondo. Si alzò dal tappeto e si riaccostò al letto. Il volto di Patrick era sereno, disteso. Le labbra appena schiuse sembravano quasi sorridere.

"Il tuo sorriso è un raggio di sole." pensò Kutkhay teneramente.

Allungò una mano ma si fermò prima di toccarlo. Tremò un poco, incerto, poi la ritirò ed emise un silenzioso sospiro. Quindi, badando bene a non far rumore, tornò nella propria stanzetta, si stese sul letto e si coprì col lenzuolo riaddormentandosi subito, mentre pensava che avrebbe potuto vegliare il suo padrone in quel modo ogni notte...

Dovevano essere passate un paio di ore quando la voce di Patrick lo riportò alla coscienza: "Goldie, sveglia!"

Saltò subito giù dal letto, infilò svelto un camiciotto e un pantalone sul corpo nudo e corse scalzo nella camera di Patrick: "Eccomi, padrone. Hai dormito bene?"

"Sì, grazie. Preparami il lavabo, poi gli abiti."

"Subito, padrone. Va bene il completo di seta perla?"

"Perché color perla?"

"È il colore del cielo questa mattina, padrone."

"Sì, va bene allora." rispose sorridendo Patrick.

Gli piacevano le ragioni che ogni volta il ragazzo trovava nel suggerirgli un abito piuttosto di un altro. Kutkhay si mise alacremente all'opera. Scese nella grande cucina a prendere acqua calda dal calderone del focolare, ne riempì una brocca miscelandola con acqua fredda e saggiandone col dito il calore, passò nel guardaroba a prendere un asciugamano fresco di bucato e tornò nella camera. Patrick allora scese dal letto e si stirò voluttuosamente. Aveva indosso solo le leggere mutande di seta e Kutkhay ammirò, trattenendo il respiro, il bel corpo che si tendeva e si rilassava alla luce del primo sole.

Mentre Patrick faceva la toilette mattutina, Kutkhay tornò al guardaroba per scegliere gli abiti per il padrone. Questi ormai lasciava volentieri al ragazzo anche la scelta dei particolari e degli accessori, sapendo che poteva fidarsi del suo gusto. Kutkhay era molto fiero di questa incombenza. Scelse la camicia, lo jabot, le calze e le scarpe come tutto il resto in modo che si accoppiassero bene con l'abito. Ogni volta che uscivano assieme Kutkhay osservava attentamente come vestivano gli altri signori per capire a fondo il segreto della loro eleganza, ma poi rielaborava quanto visto a modo suo e il risultato era un abbigliamento al tempo stesso alla moda e originale.

Tornato in camera dispose tutto ordinatamente sul letto, mentre Patrick si stava strofinando vigorosamente con l'asciugamano.

"Il signore va a passeggio questa mattina?"

"Sì, più o meno. Ho un appuntamento con l'avvocato, poi devo passare alla posta."

"Vuole che passi io alla posta, padrone? So dove si trova."

"No, non è necessario."

"Avverto il cocchiere o prende il cavallo, padrone?"

"No, andrò a piedi."

"Preparo il mantello leggero?"

"Sì, va bene."

Il ragazzo tornò di corsa al guardaroba, scelse un mantello e un cilindro intonato, scelse con cura la canna da passeggio e li portò in camera. Patrick aveva già indossato la camicia e si stava infilando le lunghe calze di seta bianca. Kutkhay gli porgeva gli abiti a uno a uno, ammirandolo mentre si vestiva. Gli sembrava bellissimo il suo padroncino, sia nudo che vestito: era veramente un signore. Appena Patrick fu pronto, Kutkhay prese mantello, cilindro e canna e li portò svelto all'ingresso.

Poi si precipitò in cucina: "Annie, è pronta la colazione per il padroncino?"

"Certo, certo. È lì sul tavolo. Ma se ti vede il padrone vecchio vestito così... perché non hai messo la livrea?"

"Dopo!" rispose il ragazzo prendendo il vassoio pronto che la negra gli aveva indicato e corse verso la sala da pranzo.

"Se corri così cadi!" gli gridò dietro la cuoca scuotendo il capo ma sorridendo con tenerezza.

Kutkhay neanche la sentì. Servì il padrone con cura.

"Goldie, lascia stare. Vatti a vestire. Ho deciso che stamani vieni con me: devo fare alcune compere e tu mi porterai i pacchi."

"Sì, padrone, subito padrone!" disse il ragazzo raggiante e si precipitò su per lo scalone facendo i gradini due a due. Indossò la bella livrea verde in un batter d'occhio, si guardò allo specchio per verificare che tutto fosse in perfetto ordine in modo di non far sfigurare il suo padroncino e tornò da basso appena in tempo per aiutare Patrick a indossare il mantello.

Patrick uscì accompagnato dal ragazzo e si avviò a passo svelto verso il centro: in realtà non aveva bisogno che Kutkhay gli portasse i pacchi, doveva comprare poche cose non ingombranti, ma gli piaceva uscire con Kutkhay e parlare con lui, fargli conoscere la città, insegnargli cose nuove... averlo accanto.


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