CARDELLINO | PARTE SECONDA - CAPITOLO 8 |
Kutkhay era triste. I primi giorni fu preso solo dal padrone. Gli faceva male, ma più di questo, paragonandolo alle sue precedenti esperienze, si accorse che l'uomo lo usava e si sentiva umiliato, sporco. Era trattato come un oggetto, senza gentilezza, senza calore. Doveva essere pronto a soddisfare le voglie del padrone in qualunque ora del giorno o della notte, in qualunque modo questi volesse: faceva parte della cosiddetta "istruzione". È vero, mangiava bene e gli era stato fatto un guardaroba elegante e anche assai provocante, ma passava più ore nudo che vestito: il fatto in sé non gli sarebbe dispiaciuto, amava la nudità, ma star nudo equivaleva a sottostare ai capricci sessuali dell'uomo, che pareva avere un appetito insaziabile. L'unico sollievo veniva dal fatto che non era il solo a dover soddisfare il padrone, perciò a volte poteva stare tranquillo e dedicarsi ai lavori che la casa richiedeva.
Una volta il padrone incrociò Kutkhay nel corridoio dell'ala est. Lo fece fermare, appoggiare al davanzale di una finestra, gli calò i calzoni e lo prese lì, mentre gli altri schiavi andavano e venivano in quel corridoio. Kutkhay aveva voglia di piangere per l'umiliazione, ma riuscì a controllarsi.
Gli altri giovani schiavi sembravano abituati a questa vita e pareva che anche Jimmy si stesse adeguando in fretta e senza particolari problemi. Con il ragazzo mulatto Kutkhay aveva avuto solo un paio di rapporti sessuali, poiché quando potevano tornare su a riposarsi di solito né Kutkhay né Jimmy avevano più la voglia o la forza di pensare ancora al sesso, anche se i due ragazzi si piacevano parecchio. Ma spesso dormivano semiabbracciati, per sentire un po' di calore umano in tanto orribile squallore.
Quello che lo stupiva di più era come gli altri schiavi si fossero abituati e accettassero tranquilli e volentieri quella loro situazione. Lo stesso Jimmy s'era ormai completamente integrato. Quando Kutkhay, una sera, gli chiese come potesse, rispose con un sorriso: "Ma, amico, qui si mangia come i padroni, si veste bene, non si è frustati... che vuoi, ci si abitua a tutto, specialmente quando non si hanno scelte. E se gli ospiti ti vedono allegro e disponibile, pronto e docile, sono contenti e allora anche il padrone è contento e si è trattati bene..." Gli altri schiavi, si accorse Kutkhay, facevano abbastanza spesso anche sesso fra di loro. Anche Jimmy, visto che Kutkhay non aveva quasi mai voglia, ogni tanto se non era di servizio scompariva e andava a infilarsi nel pagliericcio di qualcuno. Una notte uno degli schiavi, un negro di ventidue anni di nome Tobias, si infilò nel pagliericcio di Kutkhay. Questi gli disse, con dolcezza: "No, per favore, non mi sento proprio..." Tobias gli disse sottovoce: "Peccato, tu mi piaci molto. Vedi, Goldie, farlo fra noi rimette le cose a posto... fai male a dire sempre di no. Così morirai di tristezza... Perché non ti lasci andare?" "Non posso... e vorrei morire..." rispose il ragazzo. Tobias lo accarezzò con simpatia, ma non insistette. Kutkhay era sempre più depresso. Ma il peggio doveva ancora venire. Capitò dopo quasi un anno che era in quella casa.
Aveva appena servito l'ospite quando questi gli piazzò una mano sul rigonfio e glielo palpò: "Bello e ben dotato..." disse l'uomo ad alta voce. "Vi piace Stevens? Se volete potete portarvelo a letto, dopo." disse il padrone sorridendo. Kutkhay era rimasto immobile, il vassoio in mano, abituato ormai a queste pesanti attenzioni. "Ehi, ma piace anche a me!" "Lo voglio anch'io!" dissero gli altri due ridendo forte. Stevens, che aveva smesso di palparlo, gli sbottonò i leggeri calzoni e glieli abbassò sulle anche poi riprese a palparlo davanti agli sguardi divertiti degli altri tre uomini e degli schiavi. Nessuno l'aveva mai sottoposto a questo in pubblico e Kutkhay arrossì violentemente. Anche quando doveva partecipare agli spettacoli era diverso: almeno i clienti erano al buio ed era una cosa fra ragazzi. Senza parlare posò il vassoio e si rialzò i calzoni cercando di abbottonarli. Stevens rise grossolanamente e cercò di impedirgli di allacciarli, spingendoli nuovamente verso il basso. Il ragazzo scattò indietro per sottrarsi a quelle mani rapaci e disse con voce strozzata: "No, la prego, Masta!" Allora il padrone si alzò bruscamente facendo cadere indietro la propria sedia, spazzò con la mano il tavolo davanti a sé rovesciando piatti e bicchieri e disse agli altri schiavi: "Portatemi subito qui quella piccola troia!" Questi obbedirono in fretta, presero il ragazzo e lo portarono davanti al padrone che, afferratolo per gli abiti all'altezza del petto, lo tirò a sé e gli sibilò in faccia, con occhi cattivi: "Tu, piccolo pezzo di merda, come ti permetti di dire di no ad un mio ospite?" Kutkhay, tremando, rispose: "Farò qualsiasi cosa, padrone, ma non qui davanti a tutti... vi prego, padrone..." "Tu non hai nessun diritto, nessuno, di decidere cosa, come, quando o dove! Tu sei solo uno schiavo, un piccolo fottuto schiavo. Tu devi solo obbedire e in fretta e sorridendo, chiaro? Girati!" Kutkhay obbedì. L'uomo lo spinse col petto sul piano del tavolo, lo fece tener fermo dagli altri schiavi, gli strappò di dosso i calzoni poi si aprì la patta, gli si addossò e lo prese di brutto, con tale violenza che tutto il grande e pesante tavolo di massiccio noce sussultava a ogni colpo. Frattanto gli altri tre uomini si erano avvicinati, divertiti per quello spettacolo fuori programma, in modo di godersi meglio la scena e incitavano l'uomo con frasi volgari. Quando il padrone si fu sfogato, invitò Stevens a prendere il suo posto. Questi, che era già eccitato per la scena, non si fece pregare e prese il ragazzo con estrema rudezza. Kutkhay riuscì a non gridare per il dolore ma sussultò. Gli altri schiavi lo tenevano fermo e gli ospiti sghignazzavano forte. Kutkhay aveva il volto rigato di lagrime e desiderò morire. Quando anche Stevens si fu sfogato, gli altri due uomini, ormai infoiati, vollero prenderlo a loro volta. Quindi il padrone ordinò anche ai tre schiavi di montare il povero ragazzo. Infine il padrone, con voce nuovamente affabile, disse: "Stevens, visto che siete voi quello che l'ha più grosso fra di noi e che è voi che ha offeso, portatevi questo schiavo a letto e fategli un bel servizio: fatelo urlare, fategli capire chi è che comanda qui dentro. Non vi costerà nulla e anzi ve ne sarò grato." L'uomo non se lo fece ripetere due volte e trascinò il ragazzo seminudo con sé. Kutkhay ormai era in stato di shock e lo seguì come un automa. Quando finalmente il giorno seguente poté ritirarsi nel sottotetto, il ragazzo crollò sul pagliericcio. Si sentiva a pezzi, più dentro che fisicamente. Jimmy, quando lo vide entrare, gli si accostò con aria dimessa: "Goldie, amico, volevo chiederti perdono per ieri. Non potevo disobbedire, ma mi dispiace moltissimo, credi..." Il ragazzo fece un debole cenno con la mano come per scacciar via qualcosa di spiacevole: "Lo so... non è colpa tua... Lascia perdere." mormorò senza guardare il compagno. "Ma mi dispiace davvero. Tu sei un bravo ragazzo..." "No, sono solo uno schiavo come te. Noi siamo animali, non esseri umani, per loro. Noi non abbiamo nessun diritto, noi..." e finalmente le lagrime che aveva trattenuto scorsero liberamente. Jimmy allora ebbe un gesto di tenerezza: gli carezzò il capo, poi lo abbracciò stretto e gli carezzò la schiena dolcemente: "Adesso dormi, Goldie, cerca di non pensarci..." Kutkhay sentì il calore e l'affetto del giovane mulatto, la sua forza, e si abbandonò fiducioso a quella stretta, addormentandosi quasi subito. Si svegliò che era notte fonda. Jimmy si era addormentato accanto a lui, tenendolo ancora semiabbracciato. Lo carezzò con gratitudine. Jimmy si svegliò e gli chiese: "Stai meglio, Goldie?" "Un po'. Con te vicino, sì..." Jimmy sorrise al buio e carezzò il capo al ragazzo, che si strinse di più a lui. Allora lo baciò teneramente sulla fronte: "Dormi ancora, Goldie, riposa." "Resti qui?" "Finché vuoi tu." rispose il mulatto con dolcezza. Kutkhay lo baciò in bocca, Jimmy lo carezzò, giocarono lievi con le lingue, stringendosi l'uno all'altro, intrecciando le gambe. Dopo un po' Kutkhay chiamò piano: "Jimmy?" "Sì, amico mio, dimmi." "Io devo fuggire!" Il mulatto tacque a lungo. Kutkhay ripeté in un soffio: "Io devo fuggire. Mi aiuterai?" "È molto, molto difficile. E anche molto pericoloso. C'è il muro, ci sono i cani... E poi, sai che fanno agli schiavi fuggiaschi..." "Sì. Ma preferisco essere impiccato che continuare così." "Capisco. Tu sembri un bianco... forse... forse potresti anche fargliela. Ma non hai né abiti adatti, né soldi, né soprattutto documenti... E poi, sapresti dove andare?" "Dal mio vero padrone." Jimmy tacque di nuovo. Poi gli sussurrò in un orecchio: "Non parlarne, ora. Ne parleremo domani, quando saremo sicuri che nessuno ci possa sentire. Ora dormi..." "Ma mi aiuterai?" "Vedrò. Quel che potrò fare lo farò volentieri. Ma devo pensarci... Ora taci, dormi..." Kutkhay annuì, fece una lieve carezza sulla guancia di Jimmy e cercò di riaddormentarsi. Il mulatto lo carezzò a lungo, riflettendo sulla richiesta dell'amico finché anche lui sprofondò nel sonno. All'alba il giovane mulatto era tornato nel proprio pagliericcio. Il mattino il vecchio Moses andò a svegliare Kutkhay: "Goldie, alzati subito e metti questi abiti. Devi andare a portare la colazione a Masta Stevens." "Deve proprio andare lui?" intervenne Jimmy. "Sì, ha chiesto proprio di lui..." "Ma non si sente molto bene... potrei andare io..." "Lo capisco, ma questi sono gli ordini." rispose Moses con aria triste scuotendo il capo e guardando con un senso di pietà Kutkhay. "Non importa, vado." disse Kutkhay con aria cupa. Si alzò, indossò gli attillati calzoni rossi che gli porgeva il vecchio schiavo, l'ampia camicia bianca aperta sul petto e lo seguì in cucina a prendere il vassoio della colazione. Quindi salì fino alla camera del cliente, bussò ed entrò. Posò il vassoio sul tavolo e stava preparando ma l'uomo, steso nudo sul letto, gli disse: "Lascia stare, togliti quegli stracci di dosso e vieni qui sul letto. Come colazione ho voglia di fotterti di nuovo." "Come comanda, Masta Stevens." rispose il ragazzo eseguendo gli ordini. Non aveva mai chiamato nessuno Masta come facevano gli schiavi, ma sempre signore. Ma questa volta usò l'appellativo: quell'uomo odioso non era certo un signore... Spogliatosi si stese prono sul letto, accanto all'uomo pronto per l'assalto, che non tardò. "Hai proprio un bel culo, ragazzo! Bello stretto, mi piace. Mi sa che chiederò al tuo padrone di venderti a me..." disse, e gli si agitò sopra. Lo possedette con violenza. Kutkhay chiuse gli occhi e si morse un labbro per non emettere neanche un lamento. Sopportò il lungo assalto senza muoversi, senza gridare, senza emettere un suono, fino alla fine. Quando Stevens si fu sfogato si alzò e andò a sedersi al tavolo per far colazione, ancora completamente nudo. "Posso alzarmi, ora, Masta?" "Certo, vieni qui, fai colazione anche tu: mettiti sotto al tavolo fra le mie gambe e tienimelo in forma con la bocca, ché dopo voglio fotterti di nuovo." rispose ridendo divertito l'uomo. Kutkhay obbedì mentre lagrime di rabbia gli solcavano le gote. Se lì, invece dell'odioso Stevens ci fosse stato il suo padroncino, allora l'avrebbe fatto con gioia, con piacere, con devozione, con amore! Chiuse gli occhi e ripensò a Patrick, al suo corpo così bello che lui aveva ammirato per tante notti, carezzato con le mani insaponate quando faceva il bagno. Pensò alle mani, forti e delicate a un tempo, del giovane uomo che l'avevano carezzato così spesso, alla gentilezza e delicatezza, all'affetto con cui lo aveva sempre trattato e si chiese tristemente perché il suo padroncino, pur avendolo accolto nel suo letto tante volte, pur avendolo abbracciato e carezzato, non avesse mai fatto l'amore con lui. Forse non gli interessava? Eppure lo carezzava, e se lui ogni volta ne era eccitato, qualche rara volta aveva avuto sentore che anche Patrick fosse semieccitato... Specialmente durante la notte, mentre dormiva e gli si addossava istintivamente. Eppure non aveva mai fatto il primo passo, mai... chissà perché! Ricordò come una notte, sentendo l'eccitazione del suo padroncino premergli contro, Kutkhay aveva timidamente osato carezzarne il caldo turgore con mano lieve e tremante. L'aveva appena sfiorato ma aveva smesso subito temendo di svegliarlo. Ma quel contatto fugace lo riempiva ancora di piacere e di desiderio. E ora invece doveva sottostare a questi uomini volgari e odiosi e far cose che... che avrebbe fatto volentieri solo per il suo unico e vero padrone. Odiava il suo attuale padrone, odiava Stevens, odiava gli altri ospiti del padrone che pagavano per sfogarsi con lui, che abusavano di lui e degli altri ragazzi solo perché erano schiavi. E chi aveva deciso che loro fossero schiavi, e con che diritto? Allora, dopo molto tempo, ripensò a Mokoa, forse morto, forse schiavo e si augurò che fosse morto piuttosto che essere usato a quel modo. Nella sua tribù gli schiavi non erano mai costretti a nulla di così obrobrioso... La sua tribù era più civile che non quegli uomini... Finalmente Stevens si scaricò nel ragazzo. Ma non era ancora appagato: "Ti è piaciuta la colazione, ragazzo?" chiese con un sorriso bieco mentre lo riportava sul letto. Kutkhay non rispose. L'uomo insisté con voce pericolosamente melliflua: "Ti è piaciuta la colazione che ti ho dato, schiavo?" "Sì, Masta. Grazie, Masta." rispose allora Kutkhay. "Allora fammelo tornare bello duro, che ti voglio fottere di nuovo. Peccato che stasera devo andarmene. Ma ci rivedremo, il tuo culo mi piace troppo e anche di bocca lavori bene. Devo convincere il tuo padrone a venderti a me..." Kutkhay, mentre l'uomo gli martellava dentro, pregò in cuor suo che ciò non avvenisse. Quando, finalmente libero, salì nella camerata degli schiavi, Jimmy lo attendeva già vestito per scendere: "Goldie, amico, dopo pranzo appena puoi vieni in giardino. Ti devo parlare..." "Bene." Nel pomeriggio i due ragazzi riuscirono a trovarsi nel giardino: "Goldie, ho parlato con Barney: di lui ci si può fidare. Dopodomani il padrone va via e forse si può tentare..." "Sei sicuro di Barney?" "Sì... lui dice che è innamorato di me e per me lo fa. Ha già aiutato un altro schiavo a fuggire e pare che non l'abbiano ripreso..." "Perché non scappi anche tu con me?" "In due è più difficile. Non preoccuparti di me. E poi tu hai più probabilità di riuscire, lo dice anche Barney." "Ma... e gli altri ragazzi?" "Non ti fidare di nessuno, è meglio. Comportati esattamente come al solito. Barney gode della fiducia del padrone e perciò può facilmente organizzare tutto. Adesso torna in casa, non dobbiamo far insospettire nessuno." Il giorno dopo, a notte, quando Kutkhay salì nella camerata, Jimmy lo attendeva sveglio: "Goldie, domani, dopo che il padrone è andato via, ti aspetto nella rimessa delle carrozze." "Per la fuga?" chiese Kutkhay in un sussurro. "Sì. Ma taci, ora. Ti spiegherò domani." "Mi abbracci, Jimmy?" "Più tardi, quando tutti dormono." "Ti aspetto..." "Sicuro." Una voce chiese silenzio. I due si lasciarono e ognuno si stese sul proprio giaciglio. Attese sveglio, a lungo. Frattanto pensava: forse la sua fuga era vicina, forse avrebbe rivisto presto il suo padroncino. Questa idea gli dava felicità... Sentì Jimmy scivolargli accanto e i due ragazzi si abbracciarono stretti, carezzandosi, e si addormentarono tranquilli. Il giorno dopo, Jimmy aspettava Kutkhay nella rimessa delle carrozze. Appena il ragazzo entrò guardandosi attorno e cercando l'amico con lo sguardo nella penombra, questi lo chiamò sottovoce: lo vide che faceva capolino da dietro la vecchia carrozza padronale. Lo raggiunse: assieme a lui c'era anche Barney. L'odore di polvere, cuoio e grasso era pungente. Barney gli sorrise: "Ascolta, Goldie: stanotte salterai il muro dalla parte del viottolo che scende verso il fiume. Al bivio prenderai la strada per la città e andrai fino alla chiesa del pastore Matthew. Sai dove è?" "Sì..." rispose Kutkhay: era il pastore negro a cui aveva affidato le tre lettere che era riuscito a scrivere a Patrick in quell'anno. "Il pastore ti farà avere un vestito e documenti falsi. Il padrone mancherà per due giorni, questo è il momento ideale. I cani dormiranno, non devi preoccupartene: metterò loro una polvere nel cibo, un sonnifero leggero che mi ha dato il pastore Matthew, e domattina saranno di nuovo svegli e nessuno si accorgerà che sono stati addormentati, almeno spero. Sarà pericoloso, comunque, ma forse... Ma se dovessero mai scoprirti, ricorda, non devi fare assolutamente nessun nome: hai fatto tutto da solo, è chiaro?" Kutkhay annuì vigorosamente: "Grazie, Barney. Pericoloso o no, devo tentare, io non resisto più. Ma perché fai tutto questo per me? Come posso sdebitarmi con te? E con te, Jimmy?" Il mulatto rispose per primo: "No, sono io che mi sto sdebitando... per quel che ti ho fatto." "Ma non è stata colpa tua, lo sappiamo tutti e due." "Ma io ne ho rimorso. Non mi è piaciuto quello che ho dovuto fare, ma non ho avuto il coraggio di rifiutare e ne ho rimorso." insisté il giovane con aria seria. Barney li interruppe: "Tieni, ho qui poche monete che sono riuscito a metter via in questi anni. A te faranno sicuramente più comodo che a te. Il pastore ti darà altro denaro." "Tu non mi hai ancora risposto, Barney. Perché fai tutto questo per me?" chiese ancora Kutkhay. Il negro emise un profondo sospiro, si grattò il capo, poi disse: "Beh, vedi ragazzo, io sono nato qui e da quando avevo dodici anni faccio questa vita. Da quando è morta la vecchia padrona e il figlio, diventato padrone, mi ha violentato. Poi ha trasformato la villa in quello che è... ma, tutto sommato, questo forse non mi dispiace. Non saprei fare un'altra vita, non potrei mai lavorare i campi di cotone, morirei sicuramente, non ho il fisico adatto. E poi a me piace molto fare sesso fra maschi e dove ne troverei tanti come qui? Ma il padrone ha venduto tutti i vecchi schiavi, fra cui mio padre e mia madre, e tutte le schiave donne fra cui due mie sorelle. E ha fatto apposta a venderle a gente diversa perché lo divertiva l'idea di smembrare una famiglia. Questo non glielo perdono, non glielo posso perdonare. Io resto qui perché un padrone vale l'altro, qui non ci sto troppo male e questa vita non mi dispiace, anche se il pastore Matthew non può concepire che a me piaccia fare sesso con i maschi. Ma quando posso farla pagare al padrone... lo faccio volentieri. E tu sei una nuova occasione per fargliela pagare, perché è troppo fiero di avere anche uno schiavo che pare un bianco. Io sono riuscito a conquistarmi la fiducia del padrone, in questi anni e questo mi dà una certa libertà di movimento e anche una certa autorità qua dentro e quando posso ne approfitto. E poi, stavolta, mi sono preso una bella cotta per Jimmy e quando lui mi ha promesso che se ti aiutavo smetteva di farlo con tutti gli altri ragazzi e lo avrebbe fatto solo con me... beh, ho avuto un valido motivo in più per aiutarti." disse Barney con occhi luminosi. Tirò a sé Jimmy e lo baciò. Questi fece un risolino imbarazzato, ma carezzò il giovanotto fra le gambe. Kutkhay li guardò sorridendo: era chiaro che i due si piacevano ed era contento che Jimmy avesse trovato qualcuno che gli voleva bene. "Ehi ehi ehi... se non smettiamo adesso, non smettiamo più... Mi piaci troppo, ragazzo." disse Barney staccandosi a malincuore dall'altro ma tenendolo ancora per mano e sorridendogli dolce. "Spero che possiate essere felici, malgrado tutto, ragazzi. Io, se potrò ritrovare il mio padroncino... lo amo... Ma non vi dimenticherò mai, Jimmy, Barney..." Jimmy allora lo abbracciò: "Ora vai, amico. È meglio che non ci vedano assieme." "Non fidarti di nessuno: alcuni degli schiavi sono ruffiani e per ingraziarsi il padrone venderebbero anche il padre e la madre. Vai, ora, svelto. E che Dio ti protegga." "Addio, Barney. Addio, Jimmy. E grazie." Kutkhay tornò per primo nella casa e si mise subito ad aiutare gli altri schiavi a fare le pulizie, a riordinare come al solito. La giornata passò in fretta e se anche sentiva dentro di sé un'eccitazione crescente alla prospettiva dell'imminente fuga, riuscì a mantenere la sua aria accigliata in modo che nessuno sospettasse nulla. A notte, quando ebbe la percezione che tutti stessero dormendo, si alzò, salutò Jimmy con un lieve bacio. Questi lo tirò a sé e gli bisbigliò in un orecchio: "Sotto Barney ti aspetta. Addio." Kutkhay, il cuore in gola, scese le scale finché arrivò in giardino. Vide i cani che dormivano. Trattenendo il respiro li aggirò senza perderli di vista, nel timore che la droga nel loro cibo non fosse stata sufficiente. Arrivato accanto al muro di cinta, riconobbe Barney. D'impulso lo abbracciò e gli diede un lungo bacio intimo e pieno di calore. Barney sospirò e gli mormorò scherzoso: "Ragazzo, se lo avessi fatto prima, forse non ti avrei aiutato a fuggire, ti avrei tenuto qui per me..." Quindi il giovanotto aiutò Kutkhay a scavalcare il muro di cinta e Kutkhay, scivolato dall'altra parte, fu solo. Camminò svelto finché giunse senza intoppi alla capanna del pastore Matthew dove bussò col segnale convenuto. Questi socchiuse la porta e lo fece entrare: "Vieni, ragazzo. Non ti ha visto nessuno?" "No, pastore, non c'era anima viva." "Bene. Ecco, qui ci sono gli abiti: cambiati subito mentre io ti spiego bene quello che devi fare. Penserò poi io a far scomparire questa tua livrea." Mentre Kutkhay si cambiava il pastore gli spiegò per sommi capi la nuova identità che avrebbe assunto: se qualcuno gli avesse chiesto chi era, doveva farsi passare per il figlio di un piccolo commerciante di granaglie che andava a raggiungere il padre. Gli consegnò i documenti falsi, gli spiegò bene la strada che avrebbe dovuto seguire per andare verso il nord, poi gli fece ripetere tutte le istruzioni per essere sicuro che il ragazzo avesse capito bene. "Non sarà facile, figliolo. Quando si accorgeranno della tua fuga, i bianchi si passeranno parola ed ognuno sarà un tuo potenziale nemico: la tua pelle bianca ti proteggerà in parte, ma è probabile che il tuo padrone metta una taglia su di te e che la tua descrizione circoli e allora... Stai molto attento. Pregherò l'Onnipotente per te... ma se per disgrazia dovessero prenderti, cerca di non tradire coloro che ti hanno aiutato." "Neanche se mi uccideranno, pastore, lo giuro." "No, non giurare, non è necessario. Ora mettiti subito in marcia. Ricorda i nomi che ti ho dato, ma cerca quelle persone solo se sei in grave pericolo e cerca comunque di non comprometterle. Finché nessuno ci sospetterà, potremo aiutare altri schiavi a fuggire, a mettersi al sicuro. Qui, in questo fagotto, ti ho preparato un po' di cibo e qualche soldo: non è molto ma potrebbe farti comodo. Addio, figliolo, vai ora." "Addio pastore... addio." Kutkhay uscì e scomparve presto nella notte. Camminò veloce lungo la strada allontanandosi in fretta. Proseguì tutta la notte e all'alba, poco prima che gli schiavi uscissero a lavorare nelle piantagioni, s'inoltrò fra i campi lasciando la strada finché trovò riparo in un folto di cespugli selvatici. Allora, coricatosi, si mise a dormire per qualche ora.
Quando si svegliò il sole era già alto. Mangiato un po' di cibo e assicuratosi che non ci fosse nessuno nelle vicinanze, uscì dal proprio nascondiglio e riprese la strada verso il nord, tornando sulla via. Incrociò diversi uomini a cavallo, un paio di carrozze e una diligenza, ma nessuno pareva far caso a un ragazzo, in apparenza bianco, che faceva la sua strada tranquillamente, fischiettando. Kutkhay si sentiva il cuore leggero: arrivato al nord, doveva ritrovare la strada per la città del suo padroncino. Si sarebbe avvicinato alla villa, facendo ben attenzione a non farsi vedere dai servi o dal padrone vecchio... Cercò di immaginare la scena: si sarebbe appostato in modo di vedere Patrick quando andava a fare la sua solita passeggiata mattutina, da solo, e allora si sarebbe fatto vedere... Immaginava il volto sorpreso del padroncino e la propria gioia esplodere... Finalmente sarebbe stato di nuovo accanto al giovane uomo che adorava... avrebbe rifatto il bagno con lui, dormito fra le sue braccia... Ma il padrone vecchio non si sarebbe opposto? Non lo sapeva, non poteva far altro che sperare e tentare. Su Patrick comunque non aveva assolutamente dubbi. Ecco, magari poteva vivere nascosto nella rimessa o da qualche altra parte. Patrick poteva andare da lui di notte, mentre tutti dormivano... Continuò a fantasticare camminando svelto e felice. Per tre giorni camminò senza problemi. Aveva anche avuto un passaggio sul carro di un agricoltore che saliva con la moglie verso il nord. Aveva raccontato ai due la sua storia di copertura e s'era reso conto che funzionava. La coppia aveva condiviso con lui il cibo che aveva con sé.
"Ehi, tu..." Si sentì raggelare: quella voce aveva un suono assai familiare. Non era quella del padrone, ma... si girò lentamente e restò di sasso: era Masta Stevens! Cercò di divincolarsi ma la stretta si fece più forte mentre Stevens chiamava il cocchiere e un altro schiavo che erano sul calesse. Kutkhay era terrorizzato, si sentiva perso, era caduto dalla padella nella brace. I due scesero e Stevens disse loro di tener fermo il ragazzo, poi, rivoltosi a lui, disse: "Guarda guarda chi si vede! Goldie il fuggiasco! Il tuo padrone è furioso con te, lo sai?" Poi, rivolto di nuovo ai due schiavi, ordinò: "Legatelo e mettetelo sul calesse, dietro." I due eseguirono. Nessuno si era accorto che il suo fagottino era restato accanto alla fontana e Kutkhay pensò che era una fortuna: almeno non gli avrebbero trovato addosso i documenti falsi e non avrebbero sospettato che era stato aiutato. Quando fu legato e sistemato sul calesse, Stevens gli si parò davanti a gambe larghe, i pugni sui fianchi: "Se ti riconsegnassi al tuo padrone forse mi darebbe un premio... ma poi ti farebbe sicuramente scorticare a frustate per darti una lezione e forse poi impiccare per dare una lezione agli altri schiavi. Sarebbe un vero peccato sprecare così un bel corpo come il tuo, specialmente il tuo bel culetto che pare fatto apposta per essere goduto. D'altronde, se ti tenessi io potrebbe prima o poi scoprirlo: viene spesso a farmi visita... Come potrei giustificare il fatto che sei da me? Dopo le mie insistenze per comprarti penserebbe di sicuro che ti ho rapito e me ne vorrebbe... Che ne posso fare, di te? Non mi dispiacerebbe affatto tenerti, è vero, ma..." Kutkhay tremava ma non aprì bocca; odiava quell'uomo e lo disprezzava con tutte le proprie forze: non era degno neanche di una risposta. Stevens continuò a lungo nel proprio monologo. Poi parve illuminarsi come se gli fosse venuta un'idea geniale: "Ecco: ti terrò con me solo per qualche giorno. Mi piaci, lo sai, e mi voglio divertire con te. Ma poi ti rivenderò a un mercante di schiavi che conosco e gli chiederò di rivenderti più lontano, verso est. Così ne otterrò un po' di godimento prima e un po' di soldi poi, senz'altro più di quanto mi darebbe il tuo padrone... e tu non andrai sprecato. Che ne dici? Non mi sei grato perché ti salvo la vita?" Kutkhay non rispose, anzi chiuse gli occhi: anche solo guardarlo gli dava fastidio. Stevens rise incurante, salì sul calesse e ordinò di tornare subito a casa. Dopo un breve viaggio, arrivarono. Il ragazzo fu trasportato all'interno di peso, e affidato a un negro erculeo. Questi lo spogliò, lo lavò con una certa rudezza senza profferire parola, poi lo portò, sempre di peso, nella stanza del padrone dove lo incatenò, nudo, al letto, fissandogli una caviglia alla sponda. Il ragazzo rimase legato a quel letto per giorni, in completa balia dell'uomo che sfogava la sua libidine su di lui anche più volte al giorno. Quell'uomo pareva avere una fame sessuale insaziabile e sottoponeva il povero Kutkhay ad assalti continui con una rudezza mista a una vena di sadismo. Il ragazzo, sapendo che era del tutto inutile tentare di opporsi, subiva quella maratona di sesso restando inerte come un oggetto, nella speranza che l'altro si stancasse presto di lui. Due volte al giorno due diversi schiavi gli andavano a portare da mangiare: uno era l'uomo erculeo che l'aveva lavato. Già la prima volta aveva messo in chiaro: "Se vuoi mangiare, devi farmi godere, ha detto il padrone." S'era aperti i calzoni e Kutkhay aveva obbedito senza fiatare. L'uomo pareva contento: "Ho sempre sognato che me lo facesse un bianco... Così ragazzo, così: l'aveva detto il padrone che ci sai fare!" Kutkhay era ripiombato in una cupa depressione e sperava solo che Stevens si decidesse a rivenderlo presto: qualunque cosa era preferibile a essere in potere di quell'uomo sadico, perverso e insaziabile. Quando era solo ripensava alla sua illusione di essere finalmente libero e mentalmente invocava Patrick, quasi sperando che l'intensità del suo pensiero potesse arrivare fino a lui ed esser da lui percepita. Sapeva che era una speranza assurda, ma questo lo aiutava a non impazzire. Dopo circa due settimane di quell'inferno, finalmente l'uomo si stancò di lui. Lo fece rivestire, legare, nascondere in un carro e lo trasportò in un'altra città dove lo vendette a un mercante di schiavi, raccomandandogli di tenerlo d'occhio perché aveva già tentato una volta la fuga. Così Kutkhay passò per la seconda volta attraverso l'umiliante esperienza di un mercato di schiavi. Da quelle parti le vendite avvenivano all'aperto, su una specie di piccolo palco, dove gli schiavi venivano fatti salire uno alla volta, mostrati al pubblico, mentre un banditore ne decantava le lodi e ne annunciava il prezzo base. Se qualcuno era interessato, avveniva una breve asta finché, terminati i rilanci, si trovava il compratore. Gli schiavi che nessuno aveva comprato erano fatti risalire sui carri e si ricominciava il tutto da capo in un'altra città. Kutkhay passò così attraverso i mercati di tre città: i contadini non erano interessati a lui, troppo bianco e non abbastanza erculeo, anche se non si poteva dire che fosse debole. E il prezzo base era troppo alto. Il mercante comunque non se ne preoccupava: non aveva mai voluto abbassare il prezzo, perché sapeva che prima o poi avrebbe trovato l'estimatore. Soprattutto quando aveva scoperto che Goldie sapeva leggere, scrivere e far di conto. La quarta città era più grande e bella delle altre: era il capoluogo di quella contea e molto probabilmente qui il ragazzo avrebbe avuto più probabilità di essere apprezzato e quindi acquistato da qualche ricco cittadino. L'aveva detto anche il mercante: "Tu sei uno schiavo da città, bello, bianco, giovane e istruito. Non sei adatto per questi rozzi contadini."
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