CARDELLINO PARTE PRIMA - CAPITOLO 2
Da alcuni giorni l'aria era stranamente immobile: sembrava che lo spirito dei venti avesse abbandonato il villaggio. Immobile e pesante. Kutkhay guardava la superficie immota del mare rispecchiare in lontananza la luce del sole, schermata in parte dall'intrico dei rami del bosco in cui s'era inoltrato. Un'allodola lanciava il suo richiamo e un'altra rispondeva più lontano.

Il lieve mormorio dell'acqua gli annunciò la vicinanza di un ruscelletto prima che potesse vederlo. Tese l'orecchio per individuare la direzione da cui veniva, poi si diresse sicuro verso nord, guardando attentamente il terreno finché individuò il rio: era largo appena una spanna, incassato profondamente nella terra, a pena visibile fra gli alti ciuffi d'erba. S'accoccolò e con le mani a coppa prese un po' di quell'acqua fresca e cristallina e la portò alle labbra sorbendola con piacere. Poi ne spruzzò un po' sul suo corpo nudo rabbrividendo appena per il piacere.

Rialzatosi si guardò attorno: non era un buon posto per la selvaggina, d'altronde non aveva neppure l'arco. Scavalcò il minuscolo rio e s'inoltrò ancora nel bosco. Mentre camminava sfiorava con le punte delle dita la ruvida corteccia degli alberi, quasi carezzandola, oppure i lunghi steli delle erbe, lunghi e flessibili. Amava le sensazioni del tatto e mancava solo un po' di vento per renderlo pienamente felice. Qualche ramo più basso gli carezzava con le foglie il volto o il corpo: era veramente bello sentirsi toccare così.

Ancora gli insetti non erano troppo numerosi e non lo infastidivano. Ma la primavera avanzava rapidamente. Un ciuffo di fiori attrasse la sua attenzione: si chinò e vi immerse il viso aspirandone beato il dolce profumo. Quando era solo poteva abbandonarsi a queste sensazioni senza temere di essere preso in giro. Era la sua vita segreta. Era bello poterlo fare. Sedette sotto un grande albero, su uno spesso cuscino di muschio. S'appoggiò al tronco massiccio e guardò in direzione del mare: ora non lo si poteva più vedere. Era isolato, solo in un'oasi di verde, sotto un cielo di un azzurro intenso. Una formica gli stava salendo su un calcagno. Il lieve solletico delle zampette sulla pelle lo fece sorridere. La formica si fermò un attimo sul malleolo poi riprese decisa il cammino su per la gamba.

La osservò: "Qui non troverai certo nulla da mangiare, sciocca!" disse a mezza voce divertito.

Un secco rumore di rami spezzati gli fece dimenticare la formica. Qualcuno si stava avvicinando. Qualcuno o qualche grosso animale. I sensi all'erta si alzò lentamente scrutando in direzione del rumore: intravide un movimento lontano fra i cespugli ma non riuscì a distinguere di che si trattasse. Pian piano, in modo di non farsi sentire dall'animale o umano che fosse, si diresse da quella parte. I suoi piedi nudi cercavano i punti in cui posarsi senza far rumore. Udì di nuovo il rumore di rami calpestati: non poteva essere un cacciatore, non avrebbe fatto rumore. S'immobilizzò, esplorò con lo sguardo il terreno in direzione della fonte di quei rumori pensando a dove nascondersi in caso di necessità. Non doveva trattarsi neppure di un animale: sarebbe stato certamente più silenzioso. Era forse una donna del villaggio o un estraneo, ma questa seconda ipotesi era più improbabile: nessuno si sarebbe avventurato così vicino... a meno che fosse un nemico che arrivava in avanscoperta. Doveva scoprirlo senza farsi scoprire, specialmente in quest'ultima ipotesi.

Pensò di salire su un albero e presto ne vide uno che sembrava adatto. Vi si inerpicò agile e silenzioso andando in alto, sempre più in alto finché pensò che di sotto difficilmente l'avrebbero scorto. Guardò il terreno tutto attorno all'albero ma non si vedeva nessuno. Stava per scendere quando il rumore si ripeté più vicino. Immobile, guardò meglio: intravide un corpo seminascosto da un cespuglio. Non distingueva chi fosse ma certamente era un essere umano. Da che o da chi si nascondeva? Chi era? Che aspettava? Immerso in queste domande, percepì ora un movimento silenzioso, più lontano. Attese. Il sole stava avviandosi al tramonto ma era ancora alto. Il nuovo muoversi di fronde si fece più vicino e finalmente vide una figura salire verso gli alberi. La riconobbe, era Tumchey. Saliva e si fermava guardandosi attorno come se cercasse qualcosa o qualcuno. Finalmente arrivò accanto al cespuglio dove era nascosta la prima persona. Kutkhay era incerto se lanciargli un avvertimento o attendere. Quando il fratello passò accanto al cespuglio si udì una risata cristallina e la quasi moglie di Tumchey ne uscì.

Il fratello, sorridente la prese per i fianchi: "Eccomi, sono qui." disse il giovane.

La ragazza ridacchiò: "Ti sei fatto aspettare: ho fatto prima io."

I due s'erano stesi a terra sciogliendosi con rapidi gesti gli indumenti. Sotto lo sguardo attento del ragazzo si unirono in un focoso amplesso, ignari di essere spiati.

"Piano, fai piano!" protestava la ragazza ma i suoi gesti smentivano quelle parole.

Era la prima volta che Kutkhay poteva vedere in pieno giorno una coppia unirsi, che poteva osservare ogni dettaglio, e i suoi occhi seguivano come calamitati quello che stava accadendo. Il corpo del suo secondo fratello sembrava più bello e forte che mai. Il membro pienamente eretto di Tumchey attirava in particolare lo sguardo di Kutkhay e quando la ragazza lo carezzò, vide sul maschio volto del fratello un'espressione concentrata e beata. Quando il fratello si stese sulla quasi moglie e s'immerse fra le cosce della ragazza, Kutkhay ne guardò le sode natiche guizzare a ogni spinta. Tutti i muscoli tesi e scattanti, il fratello si agitava con forza, in preda alla passione e al piacere, sul corpo accogliente della propria donna. Finché entrambi mugolarono come animali feriti.

Quando i due giacquero appagati, stesi fianco a fianco, Kutkhay si accorse di aver trattenuto il respiro e gli uscì un lieve e lungo sospiro mentre anche lui si rilassava.

Ora la ragazza s'era seduta e carezzava in modo intimo e lieve il bel corpo supino del suo uomo: "Vieni anche domani?" gli chiese lei.

"No, domani non posso."

"Perché?"

"È una cosa di cui non ti posso parlare." disse lui sfiorandola.

"Ah, capisco. Allora passeranno diversi giorni prima che..."

"Sì. Speriamo che il bimbo nasca presto." disse lui.

"Se gli avi ci benediranno." rispose lei.

Il fratello si era rialzato e stava per cingere di nuovo il perizoma quando lei lo fermò con una mano e lo carezzò in modo intimo.

"Ti piace?" chiese lui sorridendo fiero.

"Sì... È bello." rispose lei.

Kutkhay pensò che era vero. I due si rivestirono. La ragazza, senza aggiungere altro si avviò verso ovest mentre Tumchey scendeva rapidamente a sud.

Finalmente di nuovo solo, Kutkhay scese e solo allora si rese conto di quanto quella scena l'avesse fatto eccitare. Tornò verso il suo albero e sedette di nuovo, attendendo di calmarsi. Ma l'erezione non accennava a diminuire, perciò decise di darsi sollievo come gli aveva insegnato a fare Mokoa. Il sole era ora basso e il bosco si stava riempiendo di ombre.


"Peccato che non c'era Mokoa: con lui sarebbe stato più bello." pensò fra sé e sé con una punta di rammarico mentre tornava verso il villaggio. Ma era contento perché aveva finalmente scoperto come e dove suo fratello incontrava la quasi moglie. Gli era piaciuto vedere i due unirsi e soprattutto gli era piaciuta l'irruenza del fratello. Il bel corpo di Tumchey, teso nella ricerca del piacere, gli era sembrato diventare più bello che mai.

Giunto al villaggio la madre lo vide di lontano e lo chiamò per affidargli una qualche incombenza. Sembrava che la donna non potesse vederlo stare senza far nulla. Gli chiese di andare a prendere acqua. Caricati i recipienti a spalla, Kutkhay s'avviò svelto alla sorgente sperando di arrivarci prima che fosse troppo buio. Il cielo si stava colorando di rosso e finalmente una lieve brezza cominciò a spirare dal mare. Quando tornò verso casa col carico dell'acqua, sentì che una strana agitazione pervadeva il villaggio. Si guardò attorno cercando di capirne la causa, ma era un qualcosa di indefinibile: apparentemente tutti stavano facendo le solite cose.

Incrociò un fratello del padre: "Salute a te, padre. Tutto procede bene?"

L'uomo, di solito gentile e loquace, lo salutò appena ed entrò svelto nella propria casa. Non era stato scortese, eppure... Depose i contenitori dell'acqua e andò ad annusare quello che la madre stava cucinando aiutata dalle sorelle. L'odore era ottimo e subito risvegliò l'appetito del ragazzo.

"Via di qui." disse la madre brusca.

Kutkhay si chiese che cosa avesse fatto per essere trattato così. Uscì fuori dalla porta e sedette appoggiandosi alla parete di legno. Si grattava lentamente un polpaccio che era stato probabilmente graffiato da una qualche spina e rifletteva.

"Chi li capisce i grandi!" mormorò appena fra sé e sé.

Nelle case si cominciavano ad accendere le lanterne e qua e là i rettangoli delle porte si illuminavano uno dopo l'altro. Gli uomini stavano rientrando al villaggio. Prima il suo fratello maggiore, poi il padre e infine anche Tumchey entrarono in casa. Allora si alzò ed entrò anche lui. Il padre stava riparando alcuni arnesi da lavoro aiutato da Tumchey. Il fratello maggiore stava parlottando con un altro uomo in fondo alla casa. I fuochi delle cucine e le tremule fiamme delle lanterne inondavano tutto di un caldo chiarore vibrante. L'aria non era troppo piena di fumo grazie alla brezza che filtrava fra le assi delle pareti.

Anche in casa si respirava però la strana tensione che il ragazzo sentiva aleggiare per tutto il villaggio: questa era una sera speciale, non sapeva perché ma certamente lo era. Tutti sembravano particolarmente intenti in quel che stavano facendo e solo i piccoli della famiglia a destra della porta frignavano come al solito. Smisero quando la madre si decise ad allattarli tutti e due contemporaneamente, uno per seno.

Finalmente fu ora di mangiare. Kutkhay dimenticò le proprie impressioni e fece onore al pasto, accettando volentieri il bis. Pieno, sazio, si sentì assonnato, così si coricò sulla propria stuoia nel solito angolo. Dopo poco già dormiva profondamente. Non vide perciò il padre prendere gli ornamenti da sotto il letto, né i fratelli alzarsi, gli uomini chiamarsi l'un l'altro a voce bassissima e uscire silenziosamente dalla casa.

In breve tutti gli uomini del villaggio erano usciti e si avviavano in perfetto silenzio verso il santuario degli antenati, zona tabù per i piccoli e per le donne. Non mancava nessuno. Quando la luna fu alta nel cielo, arrivarono anche lo sciamano e il capo del villaggio. Tutti gli uomini si pitturarono il corpo e indossarono speciali costumi, alcuni strani, altri mostruosi e parecchi con le preziose maschere ancestrali. Allora cominciarono a suonare tamburi e sonagli. Gli uomini più giovani frattanto s'erano completamente denudati e coperti il corpo con una speciale mistura di grasso e cenere, assumendo un aspetto cadaverico. Appena i tamburi avevano cominciato a suonare, i giovani si diressero a gruppi di tre verso le case prestabilite, entrarono e ogni gruppetto si gettò su uno dei ragazzini da iniziare, agguantandolo e sollevandolo dalla stuoia.

Kutkhay si sentì afferrare e si svegliò di colpo gridando per lo spavento. Presto furono tutti desti e le donne cominciarono a gridare, alzandosi dai giacigli, chiamando forte per nome il ragazzo che stava per essere rapito e cercando di strapparlo alla presa delle ombre bianche. Ma il corpo di queste era reso scivoloso dal grasso e non era facile afferrarli. Kutkhay sentì sua madre urlare accanto a lui, chiamarlo per nome, implorare gli spiriti di non portare via il suo figlio amato. Il ragazzo si stupì di non udire neppure una voce maschile: come mai non c'erano il padre e i fratelli a difenderlo? Si divincolava con tutte le forze e chiamava a gran voce la madre, il padre, i parenti che venissero ad aiutarlo. Una mano rude, forte, gli tappò la bocca, un braccio gli cingeva la vita e lo teneva sollevato, due mani gli avevano afferrato saldamente le caviglie e altre due i polsi. Lo stavano portando via e nessuno riusciva a fermare quegli... spiriti!

Solo a quel punto ricordò la voce della madre, ormai lontana e mescolata alle grida, ai lamenti e ai pianti delle donne del villaggio, che aveva implorato gli spiriti di risparmiare suo figlio. Di colpo tutte le forze lo abbandonarono e smise di lottare: era inutile lottare contro gli spiriti, del tutto inutile. Dove lo stavano portando? Non riusciva a vedere altro che il terreno scorrere veloce sotto di lui.

Si fermarono. Non un suono, non una voce se non il rullio lontano dei tamburi e un indistinto tintinnio di sonagli. Qualcosa gli fu infilato sul capo e legato al collo e non vide più niente. Lo misero in piedi, lo legarono, poi sentì uno strattone, un altro e dovette muoversi per non cadere. Gli strattoni della corda che gli era stata legata alla vita lo guidavano, ma un'altra corda gli legava le caviglie impedendogli di fare passi troppo lunghi. Anche i polsi erano legati, dietro la schiena. Incespicò più volte, cadde e fu rialzato da rudi strattoni di corda.

Camminò a lungo e non capiva dove lo stessero portando. Il suo cuore batteva come impazzito per la paura. Ora udiva uno strano canto lugubre e sommesso, fatto di suoni in una strana lingua che non aveva mai udito. Si stavano avvicinando alla fonte del canto. Ora erano vicini. Il canto cambiò di tono e di ritmo.

Allora Kutkhay si sentì afferrare fa forti mani, sollevare e lanciare in aria, riafferrare e rilanciare in aria più volte e a ogni lancio un grido sovrumano rimbombava. Il ragazzo ogni volta temeva di non sentire più le mani afferrarlo e di cadere malamente al suolo: stavano forse preparandosi a ucciderlo per portar via la sua anima con loro?

Di colpo il canto cessò e le mani lo deposero a terra facendolo inginocchiare. Gli fu tolto il cappuccio ma una mano gli fece subito chinare il capo e glielo tenne fermo cosicché non poté guardarsi attorno. Una voce rimbombante, bassa, cupa, agghiacciante parlò. Cominciò a dare una serie di ordini, e poiché li dava al plurale, Kutkhay capì che dovevano esserci altri rapiti dal villaggio come lui. La voce ordinò di non parlare mai per nessun motivo e soprattutto di non lasciarsi sfuggire assolutamente mai il minimo lamento di dolore. Era loro proibito camminare, guardarsi attorno. Dovevano assolutamente obbedire a qualsiasi ordine, non reagire a nulla perché...

"... ormai siete morti!" concluse la voce.

Kutkhay si sentì percorrere da un lungo brivido ed ebbe una gran voglia di piangere. Le mani lo lasciarono. Ora si sentiva solo: quel contatto era l'ultima cosa che ancora lo legava al suo mondo, in qualche modo. Il silenzio era opprimente. Sentì il rumore di un colpo, poi un altro, un altro ancora venire da punti diversi, ora dalla sua destra ora dalla sinistra, poi improvviso un fortissimo colpo di un ramo si abbatté sulla sua schiena. Stava per gridare ma, memore dell'ordine, non si lasciò sfuggire neppure un gemito.

Si sentirono altri colpi attorno a lui, poi di nuovo il silenzio. Poi due lance si piantarono con forza sul terreno accanto a lui, sfiorandolo e vibrando. Allora un nuovo canto dal ritmo triste e solenne, un canto come quello che si fa per i morti, ma nella lingua strana, si levò per l'aria. Dapprima era lieve, ma stava aumentando di intensità a poco a poco.

Era dunque così essere morti? A Kutkhay non piaceva affatto.

Le mani lo afferrarono di nuovo e, tenendolo fermo nella pozione in cui era, lo sollevarono da terra e lo trasportarono. Ora poteva vedere le gambe e i piedi grigiastri degli spiriti che lo stavano trasportando, e il terreno appena illuminato dalla luna scorrere sotto di lui. Camminavano a passo lento e solenne, strascicato, simile a quello che si usa quando si trasporta un cadavere per l'estremo saluto. Il canto funebre riprese quasi sottovoce. Fu nuovamente deposto a terra. La voce annunciò loro che stava per cominciare una serie di prove alla fine della quale, chi di loro le avesse superate, sarebbe rinato come adulto nel villaggio.

Per Kutkhay fu finalmente chiaro quello che stava accadendo: quella era la tanto attesa e temuta cerimonia di iniziazione. La paura si stava attenuando quando qualcosa lo punse con ferocia e determinazione sulla schiena, sulle braccia, sulle gambe. Avrebbe voluto sottrarsi, difendersi, ma ricordando l'ammonimento strinse i denti e, restando immobile, tacque.

Quella tortura durò a lungo, ma quando il ragazzo si stava chiedendo se avrebbe potuto resistere ancora, finalmente cessò. Allora la voce cominciò a raccontare le storie segrete del suo popolo.

Ogni tanto questa taceva e colpi di bastone si abbattevano su di lui mentre altre strane, cavernose voci, gli dicevano: "Non dimenticare nulla!"

Poi riprendevano le torture e la voce raccontava ancora e così continuò l'istruzione alternata alle percosse per non dimenticare. Per un tempo lunghissimo. Poi, a un rullio di tamburo, tutto cessò come d'incanto, tutto tacque. Una mano lo sospinse sul suolo in posizione raggomitolata, quindi lo lasciò. Poi più nulla. Kutkhay respirava appena, temendo quello che sarebbe accaduto, ma ora non sembrava capitare nulla. Allora, a poco a poco, sentendosi terribilmente stanco, il suo corpo teso e dolorante si rilassò e il sonno lo accolse pietoso fra le sue braccia.

Fu svegliato da un fortissimo rullio di tamburo e da calci. Fece per ripararsi istintivamente ma le solite mani gli scostarono le braccia e fu percosso ancora. Lasciò fare, arrendendosi all'inevitabile.

Cominciò così il primo giorno. Continuarono racconti e percosse e non fu dato loro nulla da mangiare per tutta la giornata.

A sera fu acceso un gran fuoco, Kutkhay fu preso dalle figure grigie e il suo corpo fu interamente dipinto di terra rossa color del sangue. A tratti erano entrate nel suo campo visivo le terribili maschere arcane e paurose degli antenati ma anche le figure dei suoi compagni. Proseguì l'istruzione fra canti e prove anche nel secondo giorno e ora i morsi della fame si facevano sentire più forti.

Il terzo giorno il ragazzo fu diviso dai coetanei, condotto in una radura poco lontana e gli furono richieste prove fisiche e di destrezza che, nelle sue condizioni di indebolimento, gli risultarono estremamente difficili e gravose, ma fortunatamente riuscì a superarle tutte. A notte una delle misteriose figure mascherate arrivò agitando i sonagli e gli spiriti grigi lo abbandonarono fuggendo spaventati.

La misteriosa e terrifica figura gli sedette davanti e cominciò a istruirlo personalmente. Gli spiegò la sua ascendenza e finalmente Kutkhay conobbe la ragione della propria differenza fisica dai coetanei: il suo vero padre era un uomo venuto da lontano su una delle mitiche grandi case galleggianti, uno straniero dalla pelle chiara, dai capelli ondulati, che parlava una strana lingua che solo lo sciamano conosceva... Kutkhay ascoltava sbalordito e sentiva strane sensazioni mescolarsi in lui. Da una parte ora si sentiva veramente diverso dagli altri e questo lo turbava, ma dall'altra se ne sentiva fiero. In lui scorreva il sangue dei mitici uomini che vivevano al di là del mare.

La figura mascherata proseguiva con voce roca e rimbombante: "... ma ora tutto sarà raddrizzato, il seme dei tuoi antenati fluirà di nuovo in te e ti darà la capacità di generare... Ora alzati, figlio." concluse solenne.

Kutkhay si alzò in piedi barcollando appena.

"Girati, inginocchiati e preparati a ricevere il sacro seme."

Kutkhay eseguì meccanicamente gli ordini, chiedendosi quale prova ora l'avrebbe atteso.

"Tocca con la fronte il terreno, stendi le braccia in avanti e non ti muovere per nessun motivo, non lamentarti e ringrazia in cuor tuo gli antenati che ti daranno il loro seme di vita."

Il ragazzo eseguì tremante, pensando che forse sarebbe stato ancora bastonato. Invece sentì che gli stavano spalmando qualcosa di freddo e scivoloso fra le piccole natiche e sul forellino, e fu come se un bastoncino gli si infilasse dentro continuando a spalmare: era quello il seme? Dava un po' fastidio, ma anche una strana sensazione di calore e di freschezza al tempo stesso.

Poi due mani lo afferrarono con decisione per la vita e si sentì puntare qualcosa di grosso e duro sull'ano e quindi impalare con pochi colpi precisi. Un grido stava sorgendo in lui, ma lo represse appena in tempo: il dolore era grande, ma dopo i primi colpi sembrò diminuire a ogni affondo, lentamente, e una strana sorda eccitazione lo pervase a poco a poco. Si stava chiedendo da che cosa fosse stato penetrato quando rivide mentalmente la scena di Tumchey che penetrava la propria donna. Allora capì che anche lui ora stava provando la stessa emozione: era il grosso e duro membro eretto di un maschio che sentiva in sé.

Il ragazzo era in preda a strane sensazioni, un misto di dolore e di piacere. Il suo corpo tremava appena, combattuto fra la tensione della paura e del dolore e ondate di piacere e di eccitazione che stavano impadronendosi di lui. La figura alle sue spalle si agitava in lui con determinazione, e il ragazzo ripensò a Tumchey e al suo bel corpo che guizzava al sole a ogni spinta di reni. Il forte membro virile si agitò in lui a lungo, con vigore, in un ritmo sempre più forte e veloce, finché lo sentì spingerglisi dentro con forza, vibrare e tendersi.

La voce roca disse in un rimbombo pieno di echi: "Accogli il seme sacro degli avi!" e allora anche lui sparse il suo seme a terra senza neppure essersi toccato... e tutto fu finito.

Le forti mani lasciarono la presa, il grosso membro si sfilò lentamente da lui e provò un senso di sollievo misto a una sensazione di solitudine. Quel contatto, per quanto rude, ora gli mancava. Non accadeva nulla. Si lasciò scivolare a terra respirando appena, a poco a poco si rilassò e poco dopo si addormentò soddisfatto.


Il giorno seguente fu condotto di nuovo dalle figure mascherate nella grande radura dove erano i suoi compagni d'età. Gli uomini grigi non si vedevano. Furono lasciati soli e restarono così, seduti in cerchio, in silenzio, immobili, senza guardarsi, per un tempo lunghissimo. Poi finalmente arrivarono gli uomini del villaggio guidati dallo sciamano. Questi disse loro che ora cominciava la parte finale del rito, che sarebbe durata fino alla luna nuova. Ogni ragazzo fu affidato a un padrino, furono loro fatti indossare gli ornamenti preparati dai loro padri e furono formate coppie di iniziandi. Ogni coppia doveva costruirsi una capanna e cercare cibo nei dintorni, ma senza assolutamente avvicinarsi al villaggio né lasciarsi scorgere.

La seconda notte del nuovo periodo ogni ragazzo fu di nuovo preso, il suo corpo fu nuovamente dipinto di rosso e gli fu fatta bere una pozione dal sapore aspro e forte. Quindi, a turno, a ognuno fu spalmata una poltiglia verde sul membro, poi fu fatto stendere sulle schiene di quattro uomini che stavano carponi uno accanto all'altro in modo di formare come un letto di carne, e fu circonciso dallo sciamano con una lucida lama di nera ossidiana.

Kutkhay dopo un primo acuto dolore, fu sorpreso per la quasi completa assenza di sensazioni che seguì. Lo sciamano applicò un'altra poltiglia di erbe sulla ferita sanguinante e il sangue smise di colare. Fece rialzare il ragazzo e lo salutò con rispetto, da adulto, poi gli spiegò il nome segreto, cioè il vero significato del nome con cui erano stati chiamati fino ad allora. A Kutkhay fu detto che il suo nome, nella lingua segreta, significava "cardellino". Gli piacque molto e il suo nome che prima era per lui solo un suono di riconoscimento, acquistò ora un sapore speciale.

Fasciati i membri circoncisi, furono affidati ai rispettivi padrini che iniziarono l'istruzione: per prima cosa fu loro insegnato il linguaggio segreto dei maschi della tribù. Poi tutta una serie di nozioni e tecniche tradizionali. Passarono giorni abbastanza sereni anche se intensi. Quando i membri circoncisi furono guariti, in una speciale cerimonia furono fatti lavare quindi fu fatto loro indossare il loro primo perizoma. Infine vi fu una grande festa con uno speciale banchetto preparato dagli anziani del villaggio. A ogni ragazzo fu assegnato uno sgabello a seconda del rango sociale, sgabello che avrebbe sempre usato nei banchetti ufficiali del villaggio, sedendo in un ordine strettamente fissato, nell'ambito della loro classe d'età. Quindi finalmente tornarono tutti processionalmente al villaggio cantando e danzando, lo sgabello legato dietro di sé. Qui li attendeva un altro banchetto solenne preparato dalle donne.

Queste, udendo il corteo giungere, iniziarono a loro volta a cantare e danzare, mentre le madri cercavano di accostarsi ciascuna al proprio figlio festeggiandone la rinascita.

Ma questi, secondo le istruzioni ricevute, le scostavano con studiata indifferenza e alterigia dicendo: "Tuo figlio è morto, donna. Io sono un nuovo membro della tribù venuto a prenderne il posto."

Kutkhay, pur rispettando il rituale, ebbe piacere di rivedere la madre. I giovani presero posto per il banchetto ufficiale. Il capo villaggio dette loro il benvenuto e fece regali a tutti i nuovi membri: erano i primi oggetti di proprietà personale.

Anche Kutkhay ebbe i suoi regali: una collana di conchiglie rosate, un'ascia di selce affilatissima, un minuscolo coltello lucente. Quest'ultimo regalo lo riempì di felicità: proveniva di certo dalla grande barca, forse addirittura dall'uomo che l'aveva generato. Ne carezzò con aria sognante la lucida lama, poi, dopo averlo sollevato verso il capo in segno di ringraziamento, lo infilò nella fascia del perizoma. Finalmente cominciò il grande banchetto: ora, per la prima volta, i giovani potevano parlare liberamente, ridere forte e subito fu un festoso bailamme di mille voci.

Kutkhay era leggermente stordito dal cambiamento di atteggiamento dei suoi parenti nei suoi confronti: fino a pochi giorni prima era trattato da bambino, ora da adulto. Era una sensazione molto piacevole. La notte era inoltrata quando la festa volse al termine e Kutkhay poté tornare nella propria casa per mettersi a dormire. Era veramente esausto; nel cervello gli ronzavano mille emozioni, mille immagini e pensieri e non riusciva a star dietro a tutto, ad analizzarli come era solito fare. Una cosa era chiara nella sua mente: gli uomini grigi e le figure mascherate erano gli adulti del villaggio, ma lui non era riuscito a riconoscerne neanche uno, a parte forse il proprio fratello Tumchey. Ma chi sarà stata la figura mascherata che gli aveva donato il sacro seme degli avi? Non riusciva a capirlo, a immaginarlo, per quanto si sforzasse. A poco a poco in tutto il villaggio ritornò il silenzio e Kutkhay si sentì terribilmente stanco e scivolò in un sonno profondo.

Fece sogni confusi, agitati, a volte quasi da incubo. Sognò anche la grande barca, più grande di una casa, e cercò di trovare il suo vero padre. Lo chiamò, ma non riuscì a vederlo: ogni volta che lo invocava la nave veniva avvolta da un fitto velo di nebbia.

Il giorno dopo fu svegliato di soprassalto e per un attimo temette che le prove non fossero finite. Ma si tranquillizzò quando vide che era solo suo padre che lo chiamava per andare al lavoro. Si alzò sorridendo fiero e soddisfatto. Notò di nuovo che ora le donne lo trattavano da uomo e non da ragazzino, compresa la madre: era oggetto del rispetto formale che si deve ai maschi adulti. E gli uomini lo trattavano da loro pari, con senso di cameratismo, come se fosse sempre stato uno di loro. Era davvero una bella sensazione essere trattati da adulti e guardare ora gli altri piccoli un po' dall'alto in basso. Seguì il padre al lavoro, quasi emozionato. C'era da finire a tagliare le nuove assi per le case del villaggio estivo: fra poco infatti la tribù si sarebbe trasferita. Kutkhay lavorò di buona lena per tutta la giornata e a sera era stanchissimo ma soddisfatto come mai era stato in vita sua.

Un altro cambiamento fu segnato dal fatto che la famiglia ora aveva iniziato a discutere sul suo matrimonio. Ogni volta che due adulti fra i suoi parenti stretti si incontravano, inevitabilmente discutevano sulle varie possibilità, sui pro e sui contro. Lui non era mai interpellato, ma neanche ne parlavano di nascosto di lui. Così ora Kutkhay iniziò a guardare con occhi nuovi le ragazze che avrebbero potuto essere scelte come moglie per lui.

Nessuna lo attraeva in modo particolare, ma certamente ce n'erano alcune con cui sperava di non doversi sposare e altre che avrebbe accettato senza grandi problemi. Frattanto la famiglia stava preparando i doni da portare ai genitori della futura sposa. Finalmente il fratello maggiore della madre comunicò la sua scelta che fu subito accettata dai genitori di Kutkhay. Allora lo zio, presi alcuni doni, mentre il ragazzo restava chiuso in casa, si avviò a casa della prescelta.

Tornò alcune ore dopo: "Dicono che ci penseranno, tornerò domani per la risposta."

Kutkhay non era né contento né scontento riguardo alla scelta fatta, perciò non sapeva neanche lui se sperare che la proposta fosse accettata o respinta. Le missioni dello zio continuarono per più giorni e infine i genitori della ragazza invitarono i genitori di Kutkhay. Questi indossarono gli abiti migliori e, carichi di doni, andarono. Kutkhay in tutti questi giorni doveva evitare tutta la famiglia di lei, e in particolare la ragazza, sì che spesso doveva fare strani giri e cambiar strada nei suoi spostamenti.

Finalmente l'accordo fu raggiunto. Allora anche a Kutkhay fu dato un perizoma nuovo, begli ornamenti e fu accompagnato alla casa della promessa sposa. Qui i due giovani sedettero di fronte, entrambi visibilmente imbarazzati. Cominciarono a scambiarsi frasi rituali, mentre le due famiglie facevano a gara a lodare il proprio membro denigrando l'altro. A volte si facevano anche apprezzamenti pesanti ma il tutto faceva parte del rito e perciò nessuno si offendeva. Anche fra loro i membri delle due famiglie spesso si scambiavano insulti come voleva l'etichetta.

A un tratto la ragazza sussurrò a Kutkhay: "Domani vado a cercare bacche vicino al grande albero spaccato dal fulmine..."

"Proprio dove io avevo intenzione di andare a caccia..." rispose Kutkhay come doveva.

"Parlate più forte, non ci sono segreti per la famiglia!" gridò qualcuno.

"Dicevo che i suoi ornamenti sono molto belli." rispose pronto Kutkhay mentre la ragazza ridacchiava imbarazzata.

Finalmente, finito il pranzo, la famiglia di Kutkhay tornò a casa. Kutkhay era contento che per il momento tutto fosse finito. Ora doveva trovare il modo di incontrare in segreto la ragazza e fare l'amore con lei finché questa fosse incinta. Solo allora la coppia avrebbe celebrato il matrimonio e avrebbe potuto vivere assieme. Logicamente i più anziani sapevano di questi appuntamenti segreti e fingevano di non accorgersene, ma per Kutkhay e per la ragazza tutto era molto vero.

Tornati a casa lo zio materno lo prese in disparte e cominciò a spiegargli in dettaglio come fare per compiere l'atto sessuale con la ragazza. Kutkhay già sapeva quasi tutto, avendo intravisto i suoi unirsi in casa e avendo spiato Tumchey, ma finse di sentirne parlare per la prima volta: intuiva vagamente che fosse più giusto così. Lo zio sembrò apprezzare il comportamento del giovane e si dilungò con un pizzico di vanagloria a decantare le sue arti amatorie.

Quella sera, recatosi alla spiaggia per bagnarsi, incontrò Mokoa. Da un po' di tempo erano riusciti a vedersi solo di lontano. Cominciarono subito a scambiarsi confidenze: era bello avere un amico intimo a cui raccontare tutto. Kutkhay avrebbe anche voluto giocare un po' con l'amico ma lì erano troppo vicini alle case del villaggio per arrischiarsi a farlo. Comunque gli piaceva anche solo stargli vicino, ammirarne il bel corpo, anche se ora il perizoma ne nascondeva la parte più bella e interessante.


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