CARDELLINO PARTE SECONDA - CAPITOLO 9
Mister Faulkner aveva bisogno di un lacchè, quindi si recò nella vicina città perché aveva letto che ci sarebbe stata un'asta di schiavi. Non aveva preferenze: lo voleva giovane, non troppo rozzo e di bell'aspetto.

Quando Kutkhay fu fatto salire sul palco, Mr. Faulkner lo guardò con interesse e ne ascoltò attentamente la descrizione: il ragazzo sembrava un bianco, aveva tratti fini e un bel portamento e il prezzo, pur non basso, era ragionevole. Attese per vedere se qualcuno rilanciava il prezzo. Ci furono solo due rilanci. Allora Mr. Faulkner fece la sua offerta. Nessuno rilanciò cosicché se lo poté aggiudicare: era soddisfatto. Lo portò a casa e dette ordine alla governante di adattare una delle livree per il ragazzo.

Quando fu pronto, vestito con la livrea della casa, lo convocò in biblioteca: "Ascolta, ragazzo: so che hai già tentato la fuga. Qui da me, se ti comporti bene, vivrai bene. Ma non tentare la fuga per nessun motivo: tanto son buono con i buoni servi, tanto sono duro con i servi ingrati. Qualunque problema tu possa avere ne parlerai con l'intendente, Mr. Smith e se non basterà potrai anche parlarne con me. Il capo del personale, Benjamin, ti spiegherà quali sono le tue incombenze e ti istruirà; cerca di svolgerle bene e di obbedire. I miei schiavi sono i meglio trattati di tutto lo stato, te ne renderai conto. È vero che sai leggere, ragazzo?"

"Sì, padrone, leggere, scrivere correttamente e far di conto."

Il padrone lo mise alla prova e ne fu più che soddisfatto: "Bene, allora potrai anche aiutare per la biblioteca il mio segretario, Mr. Fletcher, o svolgere altre incombenze simili. Qual è il tuo nome, ragazzo?"

"Mi chiamo Goldie, padrone."

"Bene, Goldie. Ti hanno già assegnato la stanza?"

"No, padrone, non ancora."

"Benjamin ti sistemerà. Vai da lui, ora. Ah, e voglio che il mio personale sia sempre pulito, ricordati!"

Benjamin era uno schiavo negro sui quarantacinque anni, robusto ma ben fatto, i capelli crespi color sale e pepe. Era nato nella casa poco dopo il suo padrone e sua moglie era la governante che aveva allevato i figli di Mr. Faulkner. Portò Kutkhay all'ultimo piano della grande casa; nel sottotetto erano state ricavate diverse stanzette. Lo fece entrare in una: aveva il soffitto in pendenza con una finestrella, due bassi letti a pagliericcio, due cassapanche, due sedie e un minuscolo tavolo, un armadio accanto alla porta.

"Dividerai questa stanza con Lee, il cocchiere. È poco più vecchio di te ed è un buon elemento, penso che andrete d'accordo. Nell'armadio terrai i tuoi abiti da lavoro e le livree sempre in ordine."

Gli spiegò i segnali della campana: da quello per la riunione di tutto il personale della casa a quello dei pasti a quello della chiamata personale. Poi gli spiegò quali fossero le sue incombenze.

"Quando non servirai a tavola o non ci sono ospiti da servire, sarai alle dipendenze di Masta Smith l'intendente o di Masta Fletcher il segretario. Non parlare mai con le signore della casa o con gli ospiti o con i padroni se non sono loro a rivolgerti la parola o se non ti mandano loro con qualche messaggio. La domenica mattina c'è il bagno per tutti i servi maschi: non mancare mai, qui ci teniamo alla pulizia. E non fare lo stupido con le serve. Domenica mattina dopo il bagno si va con i padroni al servizio religioso, tutti assieme. Ci tengono molto: mostrati attento e rispettoso..." e continuò con le regole e i consigli.

Kutkhay ascoltava attentamente e il tutto gli dava l'impressione che sarebbe stato bene, ma in cuor suo aveva deciso che avrebbe scritto di nuovo al suo unico e vero padrone, Patrick, di venirlo a prendere. Nel frattempo, pensava, doveva fare del proprio meglio per restare in quella casa in cui pareva che le cose andassero infinitamente meglio che dal suo precedente padrone.

La sera, a cena, conobbe il suo compagno di camera: era un ragazzo negro di ventidue anni, snello, alto, con un bel viso franco e pulito, sorridente. Aveva un carattere allegro e spiritoso.

A tavola sedette accanto a Kutkhay: "Ehilà, tu sei Goldie, scommetto."

"Sì..."

"Io sono Lee, il tuo compagno di stanza. Di' un po', tu mica russi di notte, no?"

"Non lo so... io dormo." rispose Kutkhay con un sorriso.

Lee rise di gusto. I due si trovarono subito simpatici. In quella casa si respirava un'aria buona, serena. Mamie, la grassa cuoca, era una donna allegra e chiacchierona e aveva la battuta sempre pronta per tutti. La moglie di Benjamin, la governante, si chiamava Lizzy: era una bella negra dall'aria efficiente e intelligente. Fra tutti, gli schiavi erano una dozzina: otto uomini e quattro donne, la cucina era rumorosa, e si mangiava bene.

Finita la cena, mentre Mamie sparecchiava, Lee si alzò: "Ora, svelti a mettervi le livree, poltroni!" esclamò allegro.

Goldie salì svelto con gli altri e indossò la bella livrea rossa e bianca, con le polpe e lo jabot, e con la buffa parrucca bianca con il codino che metteva per la prima volta. Lee era salito con lui e s'era steso sul proprio lettino.

Quando fu pronto Kutkhay scese con gli altri tre camerieri per servire la cena ai padroni. La famiglia era composta dalla madre del padrone, dal padrone con la moglie, un figlio di diciannove anni e due figlie, di ventuno e sedici anni. Quella sera non c'erano ospiti ma a tavola sedevano anche, come al solito, Mr. Fletcher e Mr. Smith. Kutkhay, che era abituato a servire a tavola, fu impeccabile.

Finita la cena, Mr. Fletcher disse al ragazzo di seguirlo in biblioteca: "Ti chiami Goldie, esatto?"

"Sì, Masta."

"Mi dicono che sai leggere e scrivere. Vediamo a che livello sei. Prendi quel libro, aprilo a caso e leggi."

Kutkhay obbedì.

Dopo che ebbe letto poche righe Fletcher gli porse un altro libro: "Leggi qui, ora."

Il ragazzo lesse fluentemente.

"Bravo, sai leggere davvero bene. Ora siedi, prendi la penna e scrivi quanto ti detto."

L'uomo cominciò a dettare camminando su e giù davanti al tavolo. Poi si interruppe: "Vado troppo svelto, Goldie?"

"No, Masta."

"Fai vedere... Sì, è tutto esatto e hai anche una buona grafia. Vediamo ora come sai far di conto..." e scrisse sul foglio alcune operazioni che il ragazzo eseguì senza esitazioni e con esattezza.

"Bravo, Goldie, sarai un valido aiuto. Domani comincerai ad aiutarmi a mettere in ordine alcuni libri e a copiare alcune carte per Mr. Smith. Ora ti spiego come funziona una biblioteca: ci hai mai lavorato prima?"

"No, Masta."

"Non importa, non è difficile. Vieni qui e fai bene attenzione..."

Tutta la sera passò così. Kutkhay era contento perché stava imparando cose nuove. Al ragazzo piaceva imparare.

Quando Mr. Fletcher lo congedò, chiese: "Mi scusi, Masta..."

"Sì? Dimmi."

"Posso leggere qualcuno di questi libri?"

"Durante il giorno no, avrai altro da fare. Ma se la sera vuoi portarne uno in camera tua va bene, basta che la mattina lo rimetti a posto e che fai attenzione a non gualcirlo né rovinarlo. Hai un lume in camera per leggere?"

"Non lo so... non mi pare, Masta."

"Se non l'hai chiedilo a Benjamin: gli dirò che può dartene uno. Buona notte, Goldie."

"Buona notte a voi, Masta."

Kutkhay tornò nella sua cameretta. Lee già dormiva. Il ragazzo si denudò, appese la livrea nell'armadio poi, senza far rumore, s'infilò nel proprio lettino.

"Devo trovare il modo di scrivere al mio padroncino... ma qui, nell'attesa, non starò male." si disse mentre prendeva sonno.

La mattina Lee lo scosse per svegliarlo: "Pigrone, sveglia, in piedi! Devi prepararti per la colazione dei padroni. Alzati, svelto!"

"Eh? Ah sì, grazie Lee." rispose Kutkhay e, scostata la coperta saltò subito giù dal letto.
Lee sgranò gli occhi: "Dormi completamente nudo, tu?"

"Sì, certo. Odio i vestiti e almeno di notte voglio sentirmi libero." rispose il ragazzo con naturalezza.

Lee lo guardava attentamente mentre si vestiva. "Hai proprio un bel corpo, Goldie, e stai bene anche il livrea. Chissà quante donne ti fanno gli occhi dolci, a te."

"No, non mi pare..."

"Sei mai stato con una donna?" chiese il giovane negro.

"Sì, con mia moglie... tanto tempo fa."

"Ah, sei sposato, tu?" chiese spalancando gli occhi Lee.

"Ero sposato." rispose infilando le polpe.

"E lei, ora, dov'è?"

"Al villaggio." rispose Kutkhay sistemandosi lo jabot.

"Ti manca?"

"No." disse tranquillamente mentre calzava la parrucca.

Lee continuava a guardarlo con attenzione: "Sì, stai proprio bene in livrea, ma forse stai meglio nudo..." disse ridacchiando.

"Può darsi." rispose con un sorriso Kutkhay e, fatto un cenno di saluto al compagno, scese svelto per il servizio.

I servi facevano colazione dopo i padroni. Nel frattempo era sceso anche Lee, pure lui in livrea.

Dopo colazione prese in disparte Kutkhay e gli bisbigliò: "Ehi, non dire a nessuno che dormi nudo."

"Va bene. Ma perché?" chiese sorpreso il ragazzo.

"Il padrone è un vero puritano. Si arrabbierebbe."

"Allora devo dormire vestito?"

"No, non importa: tanto ti vedo solo io e a me va bene. Ma è meglio che gli altri non lo sappiano."

"Capisco." disse il ragazzo.

Ma in realtà non capiva. Non aveva mai capito la paura che sembravano avere i bianchi, e i loro schiavi, della nudità. Non capiva perché la giudicassero una cosa brutta, da nascondere. Egli aveva visto molte volte il suo padroncino senza nulla indosso: il corpo nudo è molto bello e quello di Patrick era il più bello che avesse mai visto e gli piaceva molto poterlo guardare. Anche il suo padroncino però non dormiva mai nudo eppure gli si spogliava davanti senza problemi.

Quanto gli mancava Patrick e quanto gli mancavano le sue dolci carezze... Gli bastava abbandonarsi a questi pensieri che subito si eccitava. Si guardò i calzoni preoccupato: per fortuna non erano attillati ed erano morbidi, così nulla tradiva il suo stato di erezione.

Venne la domenica mattina: tutti gli schiavi si prepararono per il bagno. Nella rimessa era stata preparata la grande tinozza per gli uomini. Tutti facevano il bagno a turno, ma tenevano un paio di calzoncini indosso anche nella tinozza! Kutkhay lo trovò ridicolo e soprattutto scomodo, ma seguì le usanze. Notò che la tela bagnata, aderendo al corpo, faceva indovinare le forme sottostanti in modo chiaro e questo sembrò a Kutkhay ancor più sensuale che la nudità completa. Per esempio Efraim, il giardiniere che non era certo una bellezza come uomo, e che prima di bagnarsi pareva non avesse nulla degno di nota sotto i calzoncini intimi, ora dimostrava di possedere attributi maschili di tutto rispetto. Sciacquatisi, uno alla volta si ritiravano dietro una specie di paravento provvisorio, si toglievano i calzoncini bagnati, si asciugavano, si rivestivano e finalmente potevano uscire.

A sera, dopo cena, fatti i lavori assegnatigli si procurò un libro, passò da Benjamin per il lume e salì in camera. Si denudò, si mise a letto e cominciò a leggere.

Dopo un po' salì anche Lee. "Ma tu sai leggere, Goldie!" osservò stupito.

"Sì."

"E cosa leggi?"

"Una storia."

"È bella?"

"Non lo so, l'ho appena cominciata."

Lee cominciò a togliersi la livrea.

"Mi piacerebbe saper leggere..." mormorò.

"Se vuoi ti insegno: non è difficile."

"Davvero lo faresti?" chiese Lee con occhi brillanti.

"Ma certo."

"E quando?"

"Anche subito."

"Finisco di spogliarmi e cominciamo, allora?"

"D'accordo."

Lee restò con i soli calzoncini di tela indosso. Ripose con cura gli abiti nell'armadio, poi guardò Kutkhay con aria pensosa: "Sai, pensavo... pensavo che forse hai ragione tu..."

"Per cosa?" chiese Kutkhay alzando gli occhi dal libro.

"Che forse si sta meglio senza niente addosso..." rispose il negro e si sfilò i calzoncini restando nudo.

Kutkhay lo guardò e notò che non solo aveva un corpo piacevole, ma era anche ben fatto lì.

Lee restò un attimo imbarazzato per il modo aperto con cui l'altro lo guardava fra le gambe, poi chiese: "Posso venire a sedermi accanto a te?"

"Vieni."

Solo la sottile coperta divideva i loro corpi che si sfiorarono appena. Kutkhay percepì il calore dell'altro corpo e gli piacque, ma non disse nulla. Cominciò a insegnare al compagno come riconoscere le lettere. Questi, assorbito dal nuovo e difficile compito, istintivamente, per veder meglio le pagine stampate, si addossò di più a Kutkhay. Il ragazzo fu percorso da un lieve fremito: quel contatto gli piaceva. Passarono così un po' di tempo.

"No, è inutile, non ci riesco!" disse Lee dopo un po'.

"Ma hai appena cominciato. Non devi scoraggiarti."

"No, io sono un testone..." disse con aria triste il ragazzo.

"Ma no... anch'io all'inizio non capivo..." disse Kutkhay cingendogli il fianco con un braccio. Sentì Lee tremare. "Ma hai freddo?"

"Un po'..."

"Vieni sotto la coperta allora, ci scalderemo l'un l'altro e possiamo continuare ancora un po'..." suggerì Kutkhay con speranza.

"No, grazie, vado a letto. È meglio che dormiamo, ora." rispose l'altro alzandosi e andando nel proprio letto sotto la coperta.

"Come vuoi." rispose Kutkhay lievemente deluso, poi soggiunse: "Domani sera continuiamo, però. Non è difficile, vedrai..."

"D'accordo."

"Spengo Lee?"

"Sì."

Kutkhay abbassò lo stoppino, la fiammella languì, guizzò e la stanza piombò nel buio.

Dopo poco Lee chiese: "Ti piaceva con tua moglie?"

"Né sì né no..." rispose il ragazzo.

"Com'era?"

"Cosa?"

"Fare l'amore..."

Kutkhay rifletté, poi invece di rispondere chiese: "Tu non l'hai mai fatto?"

"Con una donna, mai."

"Ah. E... con un uomo?"

Lee non rispose subito, poi sussurrò: "Una sola volta."

"Quando?"

"Avevo sedici anni."

"Col padrone?"

"Ma no! Puoi immaginarti! Era lo stalliere che dormiva dove sei tu ora." rispose Lee in tono divertito.

"E come mai una volta sola? Non ti piaceva?"

"Lui il giorno dopo doveva andare via: il padrone l'aveva venduto perché era troppo pigro e indolente. Quell'ultima notte venne nel mio letto. Mi abbracciò da dietro e sentii che ce l'aveva duro come il ferro e mi ha tirato giù i calzoncini. Cercava di farmi ma io avevo paura e gli dicevo di smettere. Ma lui mi strinse più forte e mi chiuse la bocca con una mano e continuò..."

"È stata una cosa brutta, allora."

"Beh, all'inizio mi sentivo strano, non lottavo neppure più, anche se mi dicevo che avrei dovuto farlo smettere. Ma lui continuò finché ci riuscì... e..." Lee s'interruppe, poi chiese: "E tu?"

"Io cosa?"

"Tu hai mai fatto l'amore con un uomo?"

"Sì, molte volte. E con molti uomini."

"E... ti piaceva?"

"Con qualcuno sì, molto. Altre volte invece per niente. Il mio ultimo padrone si faceva pagare dagli uomini per farmi usare: li odiavo tutti. Non si dovrebbe mai obbligare nessuno a fare certe cose..."

"Per questo hai tentato di scappare?"

"Sì, anche perché cercavo il mio vero padrone."

"E con lui?"

"Se ci ho fatto l'amore? No, purtroppo. Mi sarebbe piaciuto tanto, con lui... Tanto."

Tacquero entrambi, finché si addormentarono.


Passarono diversi giorni. A volte lo mandavano alla posta della diligenza per spedire alcuni plichi, così una volta Kutkhay era riuscito a inviare una nuova lettera al suo Patrick.

La sera, in camera, continuava a insegnare a leggere al compagno. Il contatto dei loro corpi nudi svegliava spesso il desiderio di Kutkhay, che però non fece mai nulla per indurre l'altro a far l'amore. E nessuno dei due tornò più sul discorso del sesso.

Ma una sera, aveva da poco spento il lume dopo la consueta lezione e Lee era tornato nel suo letto, quando questi disse in un bisbiglio appena percettibile: "Lo sai Goldie che mi piace molto guardare il tuo corpo?"

"Sì, lo so. Anche a me piace."

"Guardare me o essere guardato?"

"Tutt'e due." rispose Kutkhay sorridendo nel buio, poi soggiunse, leggermente titubante: "E mi piacerebbe carezzare il tuo corpo."

Lee tacque per un po' poi chiese: "Perché?"

"Perché è bello e caldo, e fresco... e..."

"E?" chiese l'altro.

Kutkhay cercava le parole allora l'altro insisté:

"E?"

"E tu sei il mio amico. Avevo un amico intimo al villaggio, della mia età, si chiamava Mokoa..."

"Buffo nome. E con lui..."

"Sì."

"E cosa facevate?" chiese Lee in un mormorio.

Allora Kutkhay gli raccontò quello che faceva con Mokoa quando facevano l'amore.

Alla fine Lee gli chiese: "Ti manca il tuo amico?"

"Mi manca..."

"Quanto?" chiese Lee.

Kutkhay non rispose: ripensava a tutti quelli con cui aveva fatto l'amore con piacere...

Lee dopo un po' sussurrò: "Buon riposo, Goldie, amico mio."

"Anche a te, amico."


Kutkhay alternava il suo lavoro come lacchè e cameriere con quello nella biblioteca, dove era diventato bravo. Di tanto in tanto riusciva a spedire di nascosto una nuova lettera al suo padroncino. Con Lee l'amicizia s'era rafforzata, ma non erano mai più tornati sul discorso di quella notte. Lee stava imparando a leggere abbastanza bene ed era eccitato e felice.

Ma a Kutkhay quelle lezioni notturne, nudi sul suo letto, i corpi a contatto separati solo dalla sottile coperta, cominciavano a pesare: non tanto per le lezioni che dava volentieri, ma perché gli diventava sempre più difficile nascondere le sue erezioni e anche controllarsi. Desiderava Lee, lo desiderava fino a provarne dolore. Ma non si decideva a svelare il proprio desiderio all'amico perché pensava che a questo non interessasse far l'amore con un maschio.

Ma un giorno si trovarono tutti e due, soli, nel bungalow di caccia del padrone, una piccola costruzione in legno isolata in centro al parco della tenuta, accanto al laghetto, tutta finestre e con quattro porte a vetri al centro dei quattro lati. Stavano preparando questo padiglione per la festa di fidanzamento della figlia maggiore del padrone. Avevano lavato i vetri e stavano montando le tende. Quando ebbero finito andarono a prendere col carrettino i cuscini da mettere sulle sedie di vimini.

Appena rientrati Kutkhay, mentre sistemava i cuscini guardò Lee chino nello stesso lavoro e sentì risvegliarsi con forza in lui il desiderio per il compagno. Sentì che era tempo di smettere di lottare con se stesso. Allora posò i cuscini ed andò a bloccare tutte e quattro le porte.

Lee lo guardò stupito: "Che fai, Goldie? Perché chiudi?"

Kutkhay non rispose, tolse di mano all'amico i cuscini, lo abbracciò e lo baciò in bocca con determinazione. Lee all'inizio restò un po' rigido, impacciato, ma non gli resistette, non gli si sottrasse.

Ripreso fiato, Kutkhay gli disse: "Lee, io ti voglio, voglio fare l'amore con te..."

L'amico lo guardò, poi obiettò in tono incerto, in un sussurro: "Ma se viene gente?"

"Di fuori non ci possono vedere. Se bussano a una porta possiamo uscire da un'altra... ma non verrà nessuno, gli altri sono occupati in casa..." rispose Kutkhay sentendosi martellare le tempie.

Iniziò a sbottonare la giacca della livrea dell'amico. L'altro tremava visibilmente per tutto il corpo e il suo volto aveva un'espressione spaventata.

Allora Kutkhay gli chiese, in un ultimo tentativo di autocontrollo: "Vuoi che smetta?"

"No..." rispose Lee con voce emozionata, roca.

Allora Kutkhay gli sfilò la giacca e iniziò a togliergli lo jabot. Anche a lui tremavano le mani per l'emozione.

Lee sussurrò: "Ma non è meglio stanotte, nella nostra camera?"

"No, subito... qui..." rispose il ragazzo e, apertagli la camicia, iniziò a carezzargli il petto, i fianchi, la schiena. Lee emise un sospiro e chiuse gli occhi in preda al piacere.

"Mi pace toccarti, Lee..."

"Sì, è bello..."

"La tua pelle è fresca, Lee."

"Ma io mi sento in fiamme... Com'è bello!"

Kutkhay gli sfilò la camicia, gli girò dietro e lo abbracciò, posandogli le labbra alla base del collo, fra le scapole, sfregandovele. Con le dita di una mano gli sfregò un capezzolo e con l'altra lo palpò attraverso la stoffa dei calzoni fino a sentirne l'eccitazione che rapidamente cresceva e allora gli sussurrò dolce a un orecchio: "Mi piaci, Lee, mi piaci tanto." e lo tirò a sé stringendolo e facendogli sentire il suo prepotente desiderio attraverso la stoffa dei loro calzoni.

"È bello, Goldie... Non ti fermare..." implorò l'altro.

Allora Kutkhay gli slacciò i calzoni ai fianchi e glieli spinse sulle ginocchia, poi gli slacciò la stringa dei calzoncini e li fece scivolar giù, così poté carezzare e palpare liberamente e dolcemente l'amico.

Lee ebbe come un guizzo, carezzò le mani dell'amico e mororò emozionato: "Oh, sì, è davvero bello!"

Il ragazzo gli mordicchiò delicatamente le spalle e il collo.

Allora Lee si girò, guardò l'amico negli occhi e gli disse con intensità: "Ho voglia di spogliarti, Goldie, voglio vedere il tuo bel corpo, voglio toccarti dappertutto..." e cominciò a spogliarlo con mosse febbrili e quando l'ebbe denudato, iniziò a lecchettarlo e a coprirlo di baci su tutto il corpo.

Poi si abbracciarono stretti e si baciarono ancora, ebbri di desiderio.

"Ti voglio, Lee." mormorò il ragazzo con voce passionale.

"Sì, prendimi, Goldie..." sospirò l'amico.

Quando infine si ricomposero e si rivestirono, entrambi appagati e felici, Lee lo baciò di nuovo e guardandolo negli occhi disse: "È stato bellissimo, Goldie."

"Sì"

"Lo faremo ancora, vero?"

"Certo." rispose il ragazzo sorridendo.

"Certo." ripeté soddisfatto Lee.

Il negro rimise a posto i cuscini mentre Kutkhay riapriva le porte. Finito di allestire il piccolo locale, Lee andò a lucidare le carrozze mentre Kutkhay aiutava a trasportare il vasellame dalla cucina al bungalow.

Tra i due amici ora si era instaurata una sorta di complicità fatta di piccoli gesti, ammiccamenti, sorrisi che passavano inosservati alla gente della casa, ma che davano alle giornate dei due giovani un sapore speciale. E ogni sera, dopo la lezione di lettura, spento il lume, si univano con tutto l'ardore e la passione dei loro giovani corpi vigorosi e facevano l'amore con entusiasmo e con trasporto.

Ormai era trascorso un altro anno e Kutkhay aveva già scritto altre lettere a Patrick: nonostante il suo padrone non fosse ancora arrivato a riprenderlo, la speranza del ragazzo non accennava a diminuire. Anche se in quella casa stava bene, e se stava molto bene con Lee, Kutkhay continuava a pensare a Patrick, a sognarlo, a scrivergli pregandolo di venirlo a riprendere.

Giustificava il fatto che non succedeva nulla pensando che forse le lettere andavano smarrite, e perciò ogni volta scriveva di nuovo dove si trovava, o che Patrick fosse troppo indaffarato per venire subito, o forse malato... e quest'ultimo pensiero lo faceva stare male. Ma non cessava di sperare e di aver fiducia nel suo padroncino.

A volte, nei rari momenti in cui non era troppo occupato, gli piaceva passeggiare nel parco della casa o arrampicarsi su un albero e sedersi sulla biforcazione di un ramo, o semplicemente godersi il buon odore di terra, di foglie, dell'aria fresca. Gli piaceva ascoltare il canto degli uccelli, il nitrire dei cavalli standosene da solo. Allora pensava a mille cose: ripensava alla sua tribù, ma soprattutto al suo unico, vero, adorato padrone.

Stava bene, ma un giorno gli fu comunicato che il padrone aveva deciso di donarlo al marito della figlia che andava a stabilirsi a est. Kutkhay tentò timidamente di chiedere di restare, ma invano: ormai il padrone aveva deciso, gli spiegò Mr. Fletcher, e sarebbe stato inutile e controproducente cercare di fargli cambiare idea. Così il ragazzo, rassegnato, si preparò a partire.

L'ultima notte che passò nella casa non dormì, ma fece l'amore con Lee fino all'alba. I due si lasciarono con una tristezza infinita indosso.

"Mi mancherai terribilmente, Goldie."

"Anche tu mi mancherai, amico mio."

"Che farò ora, senza di te?"

"Troverai un altro amico... o forse una ragazza..."

"No. Trovare un amico come te è impossibile. La notte mi sentirò solo, ora. Ma leggerò. Sì, e ogni volta che leggerò penserò a te, al dono che mi hai fatto, ai doni che mi hai fatto..."

"Doni?"

"Sì: insegnarmi a leggere e insegnarmi l'amore. Mi mancherai sai? Terribilmente! La mia anima è triste, amico mio!"

"Anche tu mi mancherai, mi mancherai davvero."

"Spero che il tuo vero padrone ti trovi. E se capiterà, che lui finalmente ti ami, come io ho amato te. Pregherò per questo."

"Grazie. E quando capiterà ti invierò un dono... un libro."

"Lo aspetto. Addio, amico mio."

"Addio, amico. Ti porto nel mio cuore."

Si abbracciarono stretti stretti. Poi Kutkhay finì di preparare il proprio piccolo bagaglio e Lee volle portarglielo fino alla carrozza. Kutkhay salì a cassetta. I due amici si guardavano in silenzio.

"Continua a leggere la sera."

"Certo."

"Pensami."

"Certo."

"Buona fortuna, Lee."

"Anche a te."

Finalmente la carrozza partì. I due giovani continuarono a guardarsi finché la strada e la polvere li nascose l'uno alla vista dell'altro. Allora Kutkhay pensò che si stava allontanando non solo dal suo amico Lee ma anche, ulteriormente, dal suo padroncino. Le lagrime solcarono le sue gote mescolandosi alla polvere della strada. La carrozza sobbalzava allontanandosi e Kutkhay si teneva stretto al mancorrente del tetto con entrambe le mani. L'aria gli scompigliava i capelli.

All'interno della carrozza c'era il suo nuovo padrone con la moglie: come sarebbe stata ora la sua vita? Il suo nuovo padrone, Mr. Hogwood, era un giovane ma promettente avvocato con ambizioni politiche e proveniva da un'influente famiglia della città in cui stavano andando. Era un uomo aperto, dalle idee moderne, e Kutkhay aveva notato che non aveva un contegno scostante con gli schiavi. Aveva modi eleganti, da signore. Era un uomo di poche parole, un gentiluomo dai modi asciutti ma schietto e diretto nelle sue cose, cortese con tutti, anche con gli schiavi. Forse sarebbe stato bene anche con lui.

La carrozza si fermò a una stazione di posta per far riposare i cavalli e Kutkhay scese a sgranchirsi le gambe. Mentre i padroni entravano per rinfrescarsi e mangiare, anche a lui ed al cocchiere fu portato il cibo. Il cocchiere era un negro di mezz'età di nome Dan. Prima di servire Mr. Hogwood ne aveva servito il padre.

Mentre mangiavano Dan disse: "Vedrai che ti troverai bene, ragazzo. Io ho visto nascere il padrone, l'ho visto crescere. È un buon padrone, sì."

"Picchia mai i suoi schiavi?" chiese Kutkhay.

"No, mai." rispose l'uomo scuotendo il capo.

"È importante nella sua città?"

"La sua famiglia è importante. Lui non ancora, è giovane, ma lo diventerà. Credo che un giorno sarà governatore."

Finito di mangiare attesero i padroni, poi ripresero il viaggio. Dan gli aveva detto che sarebbero arrivati a destinazione per l'ora di cena. Kutkhay guardava il paesaggio svolgersi e cambiare: quanto era grande quel paese! E quanta gente c'era! Aveva scoperto che era un paese nuovo, abitato da gente che proveniva da popoli diversi, da tutto il mondo. Aveva un'idea molto vaga del "mondo" il ragazzo, nonostante il suo insegnante, Rodney, gli avesse spiegato molte cose.

Continuavano a viaggiare verso est, eppure la terra sembrava non finire mai. Gli avevano detto che ad est c'era un altro mare grande quasi quanto quello sulle cui rive era nato. Il ragazzo s'aspettava di vederlo comparire da un momento all'altro, ma ancora non si vedeva.

Avevano passato basse montagne e ora viaggiavano su una vasta pianura. Non si vedevano più piantagioni di cotone e anche gli alberi sembravano diversi qui. L'unica cosa sempre uguale era il cielo, d'un azzurro intenso, appena ravvivato da qualche lieve nuvola bianchissima in lontananza. Avevano già traversato molti villaggi e due cittadine di media grandezza. Dal finestrino posteriore della carrozza vedeva la padrona: era appisolata e il suo capo ciondolava a ogni sobbalzo del veicolo. Il padrone non si vedeva perché era seduto dalla sua parte: solo a tratti se ne vedevano i capelli, scuri come quelli di Kutkhay ma lisci.

Il sole iniziava a scendere quando cominciarono a comparire le prime case della città: erano quasi arrivati. La traversarono quasi tutta. Man mano che procedevano verso il centro le strade erano più curate, le case più belle e grandi. Kutkhay guardava tutto con attenzione. Finalmente la carrozza si fermò e Dan scese ad aprire il basso cancello di un giardino e, risalito a cassetta, guidò lentamente il veicolo fino davanti a una casa: era relativamente piccola ma graziosa, come tutte le case di quel quartiere. Era una costruzione a tre piani e davanti aveva un giardino non grande ma molto ben curato. Sulla porta di casa, al rumore della carrozza, comparì una coppia di schiavi: lei doveva avere sui ventuno anni e lui sui ventotto.

L'uomo subito corse ad aprire lo sportello della carrozza e quando ne scese il padrone si inchinò e disse: "Bentornato, signore."

"Salve Sem. Tutto bene durante la mia assenza?"

"Sì, signore."

Dalla carrozza scese anche la padrona e subito la giovane negra avanzò verso di lei mentre il padrone le diceva: "Ecco la tua nuova padrona, Maggie."

Kutkhay poi seppe che Sem e Maggie erano sposati: lui fungeva da cameriere e giardiniere, la moglie da cuoca, governante e cameriera, mentre Dan, oltre a fare il cocchiere e curare la stalla, fungeva anche da valletto.

Kutkhay si guardava attorno con curiosità e interesse. Fu presentato ai tre schiavi e Sem, dopo aver scaricato i bagagli dei padroni, lo guidò per la casa per fargliela vedere. A pian terreno c'erano la cucina e la dispensa, la sala da pranzo e il salotto, lo studio del padrone e la biblioteca. Al primo piano c'era un salone e un altro salotto, la camera dei padroni e per i figli che sarebbero nati. Al secondo piano le camere per gli ospiti e il guardaroba e, da un lato, quattro stanzette per gli schiavi: una per Dan, due per la coppia e una per Kutkhay: questi così aveva di nuovo una stanzetta tutta per sé. Da un lato del giardino v'era il lavatoio, la stalla, la rimessa e un piccolo magazzino. Dietro alla casa vi era un altro piccolo giardino. Kutkhay seppe che quello era il nuovo quartiere elegante della città, costruito da poco. La città era in espansione: solo venti anni prima era un piccolo villaggio, ora un centro importante con banche, uffici, eleganti negozi e ben sei chiese. Gli Hogwood discendevano dall'uomo che aveva fondato quel centro esattamente ottantatré anni prima e perciò erano chiamati dai cittadini, affettuosamente e scherzosamente, i padroni della città.

La prima notte che Kutkhay passò in quella casa non riuscì quasi a dormire. Per la prima volta stava al centro di una città e non era abituato ai rumori: erano diversi da quelli della campagna, cercava di interpretarli, spesso senza riuscirvi. Dalla finestra della propria stanzetta vedeva altre case e ne vedeva qua e là le finestre illuminate. Dopo essersi spogliato rimase a lungo alla finestra finché le luci si spensero a una a una. Allora si decise di andare a letto sperando di addormentarsi presto. Ora la città era in silenzio, ma anche il silenzio era diverso. In ogni luogo il silenzio ha una sua caratteristica, un suo colore, pensò il ragazzo.

"Dovrò abituarmi anche a questo tipo di silenzio!" disse fra sé e sé mentre gli occhi gli si appesantivano e il sonno finalmente si impadroniva di lui.


DIETRO - AVANTI