CARDELLINO | PARTE PRIMA - CAPITOLO 1 |
Eppure era sicuro di averlo colpito.
Kutkhay cercò con maggior cura fra le erbe e i bassi cespugli, scostandoli con la mano. Non poteva tornare al villaggio senza una preda, i suoi fratelli lo avrebbero schernito e lui non l'avrebbe sopportato. Meno ancora avrebbe sopportato l'indulgenza e gli incoraggiamenti della madre. Sentì un lieve fruscio poco lontano e si girò mentre la speranza si riaffacciava in lui, ma si lasciò sfuggire un breve gemito di delusione: era solo uno degli schiavi del capo che stava cercando legna. Non voleva farsi vedere frugare in terra da uno schiavo, perciò riprese il proprio arco e si allontanò con aria fiera, cercando di imitare il portamento degli adulti. Girovagò un po', senza una meta precisa, spiando attorno nella speranza di trovare un'altra preda. Costeggiando il mare si avventurò verso la foresta, più ricca di selvaggina: sapeva che facendo così si avvicinava pericolosamente al territorio della tribù vicina, ma non voleva tornare a mani vuote al villaggio. Il vento salmastro dell'oceano, tiepido e umido, gli scompigliava i capelli tenuti fermi dalla fascia di corteccia intessuta. Un nuovo suono attrasse la sua attenzione: qualcuno stava tagliando un albero nella foresta. Furtivamente si diresse verso la fonte del rumore, per vedere di chi si trattasse. Scivolando di albero in albero, facendo bene attenzione a dove posava i piedi in modo di non fare il minimo rumore, s'avvicinò. Era Kwashi, uno dei più abili intagliatori del villaggio. Aveva attaccato con determinazione un bel tronco dritto, sgombro di rami per un buon tratto e lo stava tagliando con colpi ben calibrati della sua famosa ascia brillante. Si diceva che l'avesse avuta dagli stranieri che erano approdati nella baia al tempo della nascita di Kutkhay. Gli piacevano i racconti sugli stranieri: si diceva che fossero uomini pallidi, alti, con i capelli corti, il corpo nascosto sotto strani abiti e che parlavano una lingua incomprensibile e buffa. Erano molto potenti e avevano barche più grandi di una casa. Avevano anche un bastone tonante che poteva uccidere con un fulmine. Avevano coltelli brillanti (lui ne aveva visti nella casa del capo) e asce come quella di Kwashi e di Quemuk e tante altre potenti magie e meraviglie. Il capo aveva raccontato che nel corso della sua vita erano già arrivati al villaggio diverse volte, ma da quando Kutkhay era nato non erano ancora tornati: gli sarebbe piaciuto molto vederli. Era immerso in queste riflessioni quando Kwashi lo chiamò: "Ehilà, figlio, che fai così lontano dal villaggio?" Kutkhay, vistosi scoperto, sussultò e arrossì: "Nulla, nulla padre." Kwashi ridacchiò e gli fece cenno di avvicinarsi: "Tuo padre sa che sei venuto fin qui?" "È andato col suo schiavo a far assi per la casa." rispose il ragazzo rispettosamente. "Eh sì, ha bisogno di riparazioni la vostra casa. E il tuo fratello maggiore?" "È a pesca." "Allora lavora oggi? Gli spiriti lo lasciano in pace?" "Sì, da un po'... E che fai con questo tronco, tavole?" "No, devo scolpire alcune maschere per i riti di mezza estate." Kutkhay annuì: Kwashi era il più apprezzato scultore del villaggio. Questi riprese a tagliare l'albero. Il ragazzo si accoccolò sui talloni e restò a guardare l'uomo che lavorava con lena: il suo corpo muscoloso era coperto da un lieve strato di sudore e guizzava a ogni colpo dato con maestria. Mancava poco perché l'albero cadesse. A un tratto Kutkhay si ricordò della selvaggina, allora si alzò e silenziosamente si allontanò, inoltrandosi ancor più nel bosco. Aveva un po' paura dei lupi: il padre lo aveva avvertito che spesso rapiscono i ragazzini per tenerli come schiavi nel loro regno sotterraneo. Ma doveva trovare una preda. Uno schianto improvviso lo fece sussultare, ma si tranquillizzò: era solo l'albero di Kwashi. Finalmente vide un movimento e subito riconobbe un coniglio selvatico: incoccò una freccia, tese l'arco e si immobilizzò attendendo che la sua preda facesse di nuovo capolino. Tratteneva il respiro; i muscoli delle braccia cominciavano a fargli un po' male ma non si mosse. Tutti i suoi sensi erano protesi. Mentalmente recitò la preghiera all'antenato di cui portava il nome: "... e anche se non sei fra i più importanti, aiutami a prendere il coniglio." terminò fra sé e sé. Quasi in risposta l'animale si rizzò sulle zampe posteriori, guardandosi attorno girando il muso a scatti brevi e fiutando nervosamente l'aria. "Perdonami, spirito del coniglio." pensò Kutkhay e lasciò partire la freccia; centrò la bestiola che s'accasciò morta. "Accidenti, l'ho preso in pieno!" pensò felice precipitandosi a raccogliere la preda. Era fiero di sé, si sentiva già un grande cacciatore. Toccò l'involto portafortuna che aveva al collo, ringraziò l'antenato, ringraziò lo spirito del coniglio, sfilò la freccia dal corpo esanime della sua preda, ne pulì il sangue con l'erba, prese il coniglio e tornò allegramente sui suoi passi. Deviò per non passare di nuovo accanto a Kwashi per non disturbarlo. Quando fu in vista del villaggio cominciò a correre, tenendo ben alta la preda e cantando forte perché tutti, e specialmente i suoi coetanei, vedessero quanto era bravo. Si inoltrò fra le grandi case e varcò la soglia della propria girando verso la sinistra, l'angolo della sua famiglia. Di colpo zittì. La madre stava tenendo ferma la sorella maggiore che si dimenava sul letto: era di nuovo preda degli spiriti malvagi. Di nuovo. La maledizione che pesava sulla famiglia si stava manifestando ancora. A volte tormentavano il fratello maggiore, a volte la sorella maggiore. Per fortuna non avevano mai tormentato né il secondo fratello né la seconda sorella né lui. E neanche i genitori, a dire il vero. Dovevano essere due spiriti diversi: quello che tormentava il fratello era meno cattivo. Ogni tanto ne rapiva l'anima e suo fratello restava immobile, senza più parlare né sentire nulla; per l'uomo degli spiriti era facile richiamare indietro l'anima del fratello. Ma lo spirito che tormentava sua sorella era molto cattivo: la faceva gridare e dalla sua bocca usciva bava e si dimenava tanto che a volte due uomini faticavano a tenerla ferma. L'uomo degli spiriti diceva che la causa di tutto era la magia nera: in guerra il padre non aveva finito un nemico colpito e l'aveva lasciato morire nel bosco; l'anima di questi ora si vendicava evocando spiriti malvagi e perseguitando i due figli maggiori. La famiglia di Kutkhay aveva bisogno spesso dell'uomo degli spiriti e ogni volta doveva fargli regali, sì che ormai le restavano ben pochi beni. Per fortuna era prossimo il banchetto: il capo avrebbe distribuito nuovi doni a tutti. Inoltre il padre era un bravissimo cacciatore e un ottimo costruttore di barche, così se la cavavano ancora abbastanza bene. La madre, sentendolo arrivare, si girò e gli disse di andare a chiamare qualche parente per aiutarla. Il ragazzo partì di corsa abbandonando il coniglio accanto al letto, dimentico della propria impresa. Chiamò i fratelli del padre e qualche sorella della madre. Poi si allontanò verso la spiaggia, sedette sul bagnasciuga e guardò lontano. Certamente quella notte sarebbe venuto l'uomo degli spiriti e avrebbe compiuto di nuovo il rito sulla sorella. Provava un po' di timore per l'uomo degli spiriti, ma la cerimonia lo affascinava. Bisognava preparare il necessario per il rito, prima di notte. Si alzò e andò a cercare lo schiavo per ordinargli di raccogliere la legna: anche lui avrebbe dovuto raccoglierne, ne occorreva molta. Certamente la sua seconda sorella già stava cercando le stuoie per il rito, facendosele prestare dai parenti. Ormai non c'era neanche più bisogno che i genitori dicessero quel che c'era da fare, purtroppo lo sapevano benissimo, in famiglia. Era sera quando decise che avevano raccolto abbastanza legna. Non aveva voglia di tornare a casa, non gli piaceva vedere sua sorella quand'era preda dello spirito cattivo: diventava veramente brutta, temibile. Non gli piaceva sentirla urlare, vederla dimenarsi in preda allo spirito. Così bighellonò, finché una donna lo chiamò: "Vieni a mangiare con noi, figlio." "Grazie, madre, non ho fame..." "Vieni, Tilltka ti aspetta." Non poteva rifiutare due volte un invito, specialmente ora che era stato fatto il nome del fratello maggiore della madre. Così entrò nella casa di Tilltka. Questi era seduto a destra del fuoco, con i figli in scala, dal grande a Likkho, suo coetaneo, poi le figlie in scala crescente e infine la madre. Sedette accanto a Likkho come voleva l'etichetta. Questi non gli piaceva molto: era uno di quelli che lo prendeva più spesso in giro per i suoi capelli non perfettamente lisci, per la sua pelle troppo chiara e la sua statura troppo alta. Appena seduto Likkho infatti gli sussurrò: "Ehi, Sbagliato!" Odiava quel soprannome. "Oggi ho ucciso un coniglio." bisbigliò in risposta, poi aggiunse: "Da solo!" e si girò a guardare il fuoco nel centro. La figlia maggiore stava riempiendo le tazze aiutata dalla seconda che le porgeva torno torno. Quando venne il suo turno la sollevò in direzione del fuoco, poi di Tilltka in segno di ringraziamento, quindi, con due dita, cominciò a mangiare. Tutti parlavano e scherzavano rumorosamente, anche attorno agli altri fuochi della casa. Lì viveva anche Haite, lo zio paterno di Tilltka, il capo della caccia. Era una persona importante Haite, aveva due mogli e numerosi figli e figlie. Anche il nipote di Haite era coetaneo di Kutkhay: era un ragazzo molto amato, rispettato ed ammirato da tutti, specialmente da Kutkhay. Era forse l'unico nel villaggio che non lo prendeva mai in giro ed era bello e forte, intelligente e sempre di buon umore. Guardò verso il fuoco del figlio maggiore di Haite e cercò con lo sguardo il compagno. Lo intravide: Mokoa stava ridendo di gusto. Quando rideva era più bello del solito, anche più del proprio fratello maggiore che pure era reputato il più bel giovanotto del villaggio. Avrebbe voluto essere amico di Mokoa, ma questi sembrava quasi non accorgersi di lui. Lo salutava, anche con simpatia, ma non l'aveva mai invitato e l'etichetta voleva che fosse Mokoa, che era di rango superiore, a fare il primo passo. Anche fra loro coetanei il rango contava molto, specialmente ora che si avvicinava la data dell'iniziazione. Finito il pasto Kutkhay ringraziò i parenti e uscì. Vide che i preparativi per il rito della sorella erano già avanzati. La luna era alta e luminosa e si distinguevano bene le figure dei suoi parenti affaccendati a preparare il grande fuoco. Suo padre stava già avviandosi per andare a chiamare l'uomo degli spiriti, accompagnato dal suo secondo fratello. Suo fratello maggiore, aiutato dalla moglie, stava portando fuori i doni e la seconda sorella stava disponendo le stuoie. La gente del villaggio cominciava a radunarsi. Kutkhay non aveva voglia di mescolarsi agli altri ma presto avrebbe dovuto prendere il suo posto tra i membri della famiglia. La sorella maggiore non gridava più. Arrivò l'uomo degli spiriti e la seconda sorella corse in casa per avvertire i parenti. Tutti sciamarono fuori: gli zii materni portavano la malata adagiata su una stuoia e la deposero sul mucchio di stuoie accanto alla catasta di legna che il fratello maggiore stava già accendendo. Kutkhay andò a prendere posto con gli altri alla distanza rituale dal grande fuoco. Ora al centro c'erano solo l'uomo degli spiriti e sua sorella. Questi era acconciato per la cerimonia e aveva un aspetto terribile. Si chinò sulla ragazza, la guardò a lungo, poi emise un lamento, scosse più volte la testa e gemette: "Ah, perché non mi avete chiamato prima?" Lo diceva ogni volta. Agitò pian piano i sonagli e intonò una nenia a bocca chiusa, cambiando più volte tono. Tutti guardavano attenti, nel più rigoroso silenzio. La figura si stagliava nella notte, sottolineata dal rosseggiare delle fiamme. L'uomo degli spiriti scosse più forte e a ritmo più svelto i sonagli e il suo mormorio salì di tono. Allora il padre si alzò e gridò: "Salva mia figlia e ti darò una coperta." Lo sciamano attenuò il canto. Il padre gridò: "Ti darò anche questo contenitore pieno di buon grasso!" Lo sciamano si dondolò mantenendo il suo mormorio indistinto allo stesso tono. "Aggiungo ai miei doni questo tessuto di corteccia e di lana. Non ho molto altro da offrire..." Lo sciamano aumentò un poco il tono della sua nenia. Continuarono così, col padre che aumentava le offerte e lo sciamano che aumentava i suoi ritmi, ma ancora non iniziava il canto vero e proprio: gli spiriti non erano ancora soddisfatti. Kutkhay si guardò attorno ma il secondo fratello gli diede una gomitata, allora tornò a guardare fisso verso la sorella. Al chiarore delle fiamme questa sembrava priva di vita, ma il petto si sollevava e si abbassava impercettibilmente. Finalmente, dopo un'ulteriore offerta del padre, il canto sgorgò a piena gola dallo sciamano. Il padre si accoccolò di nuovo al proprio posto con espressione sollevata. Lo sciamano iniziò a invocare uno spirito dopo l'altro, finché giunse a pronunciare il nome di quello che perseguitava la ragazza. Tutti fremettero a udire quel nome e dal fuoco si levò un guizzo più alto e una stria di fumo. Lo spirito era stato contattato. Allora l'uomo degli spiriti eseguì la danza che avrebbe imposto allo spirito di lasciare la sorella di Kutkhay. Tutti trattenevano il respiro. Lo spirito doveva essere impaurito dalla presenza dello sciamano, dalla sua potenza. La ragazza sulle stuoie infatti cominciò a gridare e agitarsi scompostamente sì che il suo grembiule di corteccia si slacciò e scivolò via. Kutkhay chiuse subito gli occhi come devono fare i non iniziati e cominciò a tremare con tal violenza che gli battevano i denti. Quel rito lo incuriosiva e lo impauriva al tempo stesso. La sorella lanciò un ultimo grido straziante, poi di colpo tutto fu silenzio. Anche l'uomo degli spiriti ora taceva. Poi si riudì il tintinnio dei sonagli: allora tutte le donne presenti si unirono in un coro veloce e modulato cantando le lodi degli spiriti buoni, nella speranza che circondassero il villaggio e proteggessero tutti dagli spiriti malvagi. Kutkhay riaprì gli occhi. Tutti stavano avanzando verso il fuoco, danzando lentamente, esclusi i ragazzi e le ragazze non ancora iniziati e i piccoli. Si girò a guardare i suoi coetanei un po' sollevato. Si accorse così di Mokoa accoccolato poco lontano. Questi allora gli disse: "È fatta, fratello, ancora una volta." "Sì, è fatta." rispose grato per quelle parole di partecipazione. Mokoa ammiccò verso di lui, gli si accostò e disse: "Domani vuoi venire a pesca con me?" Kutkhay non credeva alle proprie orecchie: "Davvero? Dove?" "Al torrente. Conosco un posto." "Certo, sarà un gran piacere. Quando?" "All'alba." "Va bene, sarò pronto." Mokoa annuì, si alzò e andò ad accoccolarsi accanto a un altro ragazzo con cui si mise a parlare. Kutkhay guardò verso i grandi che danzavano. Lo sciamano stava andando via seguito dal suo fratello maggiore carico dei doni promessi. Kutkhay era stanco per l'emozione e, contrariamente al solito, non attese la fine delle danze ma rientrò in casa, si stese sulla propria stuoia nel solito angolo e piombò in un sonno pesante. Si svegliò che era l'alba: le prime luci iniziavano a trapelare fra le assi della parete. Tutti ancora dormivano perciò Kutkhay non poté muoversi. "Tra poco vado a pescare con Mokoa," pensava felice, "ha invitato proprio me." Mokoa non era destinato a occupare un rango molto importante perché era l'ultimogenito, ma tra i coetanei era quello che Kutkhay ammirava di più. Ed era rispettato da tutti. Finalmente il padre si alzò e Kutkhay poté lasciare la stuoia. Prese gli attrezzi per la pesca e si recò in riva al mare. Si tuffò nell'acqua fresca. Quando si sentì rinvigorito, tornò a riva e si accoccolò guardando verso la casa dell'amico, spiandone ansioso l'arrivo. Non dovette attendere molto: Mokoa uscì allegro, si guardò attorno, vide Kutkhay e gli fece cenno verso il torrente avviandosi a passo svelto. Il ragazzino subito si alzò, riprese i propri attrezzi e seguì il coetaneo verso l'entroterra. Ne guardava il corpo asciutto, le natiche piccole e sode che si muovevano a ritmo dei passi: ne ammirava l'elegante portamento. A poco a poco lo raggiunse e gli si affiancò. Mokoa gli rivolse il rituale saluto del mattino poi disse: "Oggi penso proprio che ci divertiremo, tu e io, fratello." Kutkhay annuì vigorosamente. Camminarono a lungo risalendo il torrente. Ormai non c'era neanche più la pista e dovevano farsi strada fra alte e folte erbe. Il terreno si stava facendo roccioso e il cammino impervio. Mokoa procedeva con sicurezza, mostrando di conoscere bene la strada. Kutkhay non si era mai spinto così lontano. Il sole si stava alzando rapidamente e scaldava l'aria: era piacevole sentirne il calore sulla pelle. "Eccoci arrivati: sei mai stato qui?" "No, è la prima volta. Conosci bene questo posto." La sua più che una domanda era un'affermazione. "Sì, a volte ci vengo con un compagno per giocare. E volevo venirci con te, perché vedo che ti stai sviluppando bene." gli disse sorridendo e guardandolo fra le gambe. Kutkhay fu lusingato dal complimento: era la prima volta che qualcuno glielo faceva. Guardò anche lui fra le gambe dell'amico: "Pure il tuo è bello." "Sì, e schizza già lontano. Anche il tuo?" "Non lo so..." "Non hai mai provato? Mai fatto le gare?" "No..." ammise il ragazzino vergognandosi leggermente. "Allora questa è l'occasione. Dai, tu fai svegliare il mio e io il tuo..." disse Mokoa piazzandoglisi davanti sorridente e allungando una mano. Kutkhay lo imitò pronto. Il contatto gli procurò un lungo brivido di piacere. Dopo poco entrambi avevano lanciato lontano il proprio contributo alla terra, ma Mokoa più di lui. Allora, presi i loro attrezzi, scesero al torrente e, chiacchierando allegramente, si misero a pescare. Era veramente un buon posto e presto raccolsero una gran quantità di pesce. Tornarono verso il villaggio col loro carico di pesci, scherzando lungo tutto il cammino. Kutkhay era contento per come era cominciata la giornata. "Verrai ancora a fare quel gioco con me, vero?" chiese Mokoa quando furono in vista del villaggio. "Certamente, tutte le volte che vorrai. Anche con gli altri ragazzi fai questo gioco?" "Con qualcuno sì, è piacevole. Ma non con chiunque." Si lasciarono. Kutkhay consegnò alla madre il frutto della pesca. La seconda sorella, davanti alla casa, stava battendo la corteccia per farne tessuto. Tumchey, il secondo fratello, era andato a caccia con i propri fratelli d'età: Kutkhay non vedeva l'ora di poter andare anche lui a caccia con gli altri e non doversi più contentare di prendere piccoli animali; per fortuna non mancava molto al prossimo rito di iniziazione. Un po' ne era intimorito, impaurito, ma un po' lo attendeva con ansia, perché avrebbe finalmente segnato il suo ingresso fra gli uomini del villaggio. Il fratello maggiore, col padre e lo schiavo, stavano spianando le nuove tavole per riparare la casa. Decise di andare ad aiutarli. I ragazzi prima dell'iniziazione non avevano compiti specifici, perciò potevano aiutare i grandi in alcune faccende o starsene fra coetanei o per conto proprio. A Kutkhay piaceva di più stare con gli adulti, un po' perché spesso i compagni lo prendevano in giro, un po' perché gli adulti di solito facevano un sacco di cose interessanti. Più di tutto gli piaceva guardare Kwashi quando scolpiva il legno: dalle sue mani uscivano cose meravigliose. Gli sarebbe piaciuto imparare anche lui a fare sculture, ma non essendo della famiglia di Kwashi non avrebbe potuto: avrebbe imparato a far barche, come tutti i maschi della propria famiglia. A metà pomeriggio tornò il gruppo dei cacciatori. Tumchey portò una parte della preda alla madre e una parte alla famiglia della sua promessa sposa. Ancora non avevano avuto un figlio e perciò ancora non potevano vivere assieme. Ma era ancora meno di un anno che le famiglie si erano accordate per quel matrimonio e perciò non era strano: nessun antenato aveva ancora deciso di tornare in vita tramite la ragazza. Kutkhay si chiese come facessero i due per unirsi: nella sua casa e in quella di lei era loro proibito: solo gli sposati potevano farlo. Spesso infatti di notte vedeva i genitori o il fratello maggiore con la moglie unirsi. O meglio li intravedeva e ne udiva i rumori soffocati. Anche lui un giorno avrebbe dovuto farlo, l'avrebbe fatto con la propria donna. A volte guardava le ragazze cercando di immaginare quale avrebbero scelto i suoi genitori per lui: non ce n'era nessuna che gli piacesse. Nessuna donna, pensava il ragazzo, aveva un bel corpo. Parevano caricature degli uomini, con quel seno ingombrante e spesso floscio, i fianchi larghi, il sedere grosso e cadente... nulla a che vedere con il bel corpo liscio, muscoloso e armonioso degli uomini... Ripensò a Mokoa e a quello che avevano fatto la mattina al torrente: era stato bello sentirsi le mani dell'altro addosso e toccare l'altro; e quello che era accaduto alla fine. Pensando a queste cose gli venne un'erezione e gli altri se ne accorsero; il fratello fece un commento piccante ad alta voce. Il ragazzo si vergognò e si sentì arrossire. Il padre disse allegro: "La festa è vicina per fortuna. Vedete, è ora di cominciare a pensare a una moglie anche per lui." Tutti risero assentendo con gran cenni della testa. Kutkhay corse al mare e si tuffò fra l'ilarità generale. Era la prima volta che gli capitava una cosa così imbarazzante davanti a tutti: avesse almeno avuto il perizoma come gli adulti! Ma come facevano i suoi compagni a evitare questo problema? Doveva chiederlo al suo nuovo amico, Mokoa... o forse, meglio, a Tumchey. Ma per parecchi giorni non trovò il coraggio di parlarne con nessuno dei due.
A volte, la notte, raggomitolato sulla propria stuoia, non riusciva a prendere sonno. Nel buio della grande casa sentiva i consueti rumori delle coppie che si univano, dei vecchi che russavano, di qualche piccolo che frignava: rumori usuali che ora sembravano assumere significati nuovi nella sua immaginazione di adolescente. Gli occhi sbarrati, tutti i sensi tesi a percepire qualsiasi variazione attorno a sé, trascorreva lunghi periodi della notte ascoltando il battito forte e veloce del proprio cuore, e quasi si meravigliava che gli altri non sentissero quel rumore che gli risuonava alle tempie più forte del rullo di un tamburo. Vedeva ombre muoversi nei letti o sulle stuoie accanto a lui, le consuete ombre dei parenti che però ora sembravano assumere proporzioni nuove, grandi, terrificanti. Dall'esterno giungevano richiami di animali notturni, il fruscio del vento, il lontano rumore della risacca... anche questi rumori un tempo familiari e sicuri gli sembravano ora misteriosi: cercava di leggervi dentro, di isolare il rumore di chi sarebbe giunto a rapirlo da un momento all'altro per condurlo al rito d'iniziazione. Ma come riconoscerlo? Ricordava vagamente la notte di qualche anno prima, quando erano venuti a portar via suo fratello Tumchey: le donne avevano urlato e lottato contro le ombre che rapivano il ragazzo, poi sua madre aveva preso lui, Kutkhay, l'aveva abbracciato e portato sul letto, proteggendolo col proprio corpo. Ma non ricordava altro... L'avrebbe protetto di nuovo sua madre? Finalmente giungeva il sonno, poi il nuovo giorno e il sole dissipava le ombre della notte dal suo animo. Le giornate passavano tranquille, nelle solite occupazioni, nei giochi, e le paure della notte svanivano; ma restava la curiosità, l'agitazione interiore, il timore. Il giorno però era sicuro. Tutto riprendeva le sue dimensioni, tutto riotteneva il suo significato. Kutkhay era un ragazzo molto riflessivo e di ogni cosa cercava di capire il senso, il perché. A volte si sentiva diverso dai propri coetanei e non solo perché questi lo trattavano come un diverso. Persino con Mokoa, a cui pure ultimamente lo legava un'amicizia sempre più intima e profonda, si sentiva diverso. Non migliore o peggiore. Ma irrimediabilmente differente e neanche lui riusciva a coglierne la ragione e questo lo turbava. La diversità che sentiva non era tanto quella fisica, i capelli mossi, la pelle più chiara, l'altezza maggiore della media... A queste differenze s'era ormai abituato. La diversità che Kutkhay sentiva e che stranamente gli altri non sembravano cogliere, era molto più profonda, più sostanziale. A volte si chiedeva se lui non fosse nato sbagliato, come si raccontava dei Due Gemelli nei racconti dei vecchi. Ma quelli erano gemelli, lui no. I Due Gemelli avevano poteri speciali, tutti i gemelli ne hanno, si sa. Kutkhay si chiedeva se per caso anche in lui non si stesse svegliando qualche potere speciale, ma non ne aveva mai ottenuto la prova: la sua ombra lo seguiva sempre, fedele; a volte pensava intensamente di far spostare gli oggetti solo con la forza del pensiero, ma nulla mai aveva obbedito ai suoi desideri; aveva persino provato a camminare sui tizzoni del fuoco ma s'era bruciato come chiunque altro. No, non aveva poteri speciali. Ma allora in che cosa consisteva la diversità che sentiva così forte in sé? Aveva pensato di chiederlo allo sciamano, ma non ne aveva avuto ancora il coraggio: temeva di essere scacciato, deriso... o forse temeva di scoprire di aver ragione, di esser davvero diverso dai suoi coetanei. Non gli avrebbe fatto piacere averne la conferma: lui voleva essere come tutti gli altri, come si deve. Passava lunghi periodi della giornata da solo, immerso nei propri pensieri anche se non appartato. Gli piaceva curiosare nelle attività dei grandi, vedere che cosa facevano, ma soprattutto come e perché. A volte faceva anche qualche domanda, ma sempre meno, perché le risposte non lo soddisfacevano. Si chiedeva se quel che gli dicevano i grandi fosse esatto o no: forse non gli spiegavano ancora i veri perché delle cose per il fatto che lui era ancora un ragazzino, o forse neanche loro sapevano rispondere? Qualcuno sembrava infastidito dai suoi perché, così a poco a poco cessò di porre domande, anche se continuava a osservare ogni cosa e a riflettere su tutto.
Quando era stanco si arrampicava di nuovo sulla sommità della roccia e si stendeva ai caldi raggi del sole lasciando asciugare l'acqua sulla sua pelle vellutata finché restava solo un lievissimo velo di sale luccicante alla luce perlacea dell'incipiente primavera. Qualche volta pescava qualche granchio o qualche conchiglia succolenta. Altre volte semplicemente guardava i gabbiani volteggiare maestosi e gridare rochi e si perdeva in pigre fantasticherie. Sulla lucida distesa del mare si vedevano sempre più spesso le barche dei pescatori allontanarsi veloci o tornare a sera cariche di pesci, sospinte dai lenti ma potenti colpi delle pagaie. A Kutkhay piaceva guardare i corpi snelli e forti degli uomini sulle barche, specialmente di quelli più giovani, anche perché spesso, quando andavano in mare, si toglievano i perizomi e così il ragazzo poteva ammirarne i bei genitali pienamente sviluppati e circondati da un folto cespuglio di peli. Non era ancora la vera e propria stagione della pesca: la maggioranza degli uomini si dedicava ancora alla caccia nella foresta. Ma i primi branchi di pesce cominciavano a muoversi e qualche pescatore più giovane si avventurava a intercettarli. Si toglievano i perizomi per non farli bagnare dall'acqua salata che li avrebbe resi meno resistenti: Kutkhay era affascinato dalla varietà di forme e di dimensioni dei membri che poteva così vedere. Quelli di loro ragazzini sembravano quasi tutti uguali... Lontano, verso nord, s'intravedeva una stretta lingua di terra proiettata sul mare: era il sito del villaggio estivo della tribù vicina. Da parecchio tempo non vi erano più ostilità con le tribù vicine, perché la natura era prodiga di cibo con tutti. A parte gli schiavi, Kutkhay non aveva ancora mai visto gente dei territori confinanti con il loro. Si chiese se ci sarebbe stata una guerra prima o poi: il fratello maggiore ne aveva già combattute tre, e molte più suo padre. L'ultima c'era stata quando lui era molto piccolo e non la ricordava se non per i racconti uditi dagli adulti. Il loro schiavo era stato catturato durante quell'ultima guerra. Era giovane, poco più vecchio di Tumchey ma più giovane del fratello maggiore. Era forte, allegro e di poche parole. Chissà, si chiedeva Kutkhay, che effetto fa essere schiavi? Che cosa si prova, che cosa si sente? Non aveva nostalgia della sua gente? E non gli mancava la sua donna? A volte qualche schiavo fuggiva: se non era ripreso dalla gente del villaggio e ucciso, tornava fra la propria gente, di nuovo libero... chissà perché il loro schiavo non aveva mai tentato di fuggire? Possibile che si trovasse bene a essere schiavo? Kutkhay alzatosi si avviò verso il villaggio, dicendosi che erano troppi i perché senza risposta.
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