CARDELLINO PARTE SECONDA - CAPITOLO 7
Il mattino seguente, il padre di Patrick decise di anticipare la partenza, perciò entrò nella camera del figlio per svegliarlo. Appena entrato vide i due dormire nudi e semiabbracciati. Restò di sasso. Con voce gelida, cercando di trattenere la furia che stava sorgendo in lui, chiamò il figlio per nome. I due, al suono improvviso di quella voce, si svegliarono e lo guardarono. Il padre ordinò a Kutkhay di tornare nella propria stanza. Il ragazzo obbedì tranquillamente, e tutto nudo, senza tradire il minimo senso di vergogna, un po' perché non trovava nulla di immorale nella nudità, un po' perché essendo assonnato non si rese conto della situazione, si eclissò.

Quando furono soli il padre, con tono falsamente calmo, chiese: "Quant'è che dura questa... questa vergognosa... tresca?"

Patrick si era sollevato a sedere sul letto. Avendo la coscienza tranquilla non capì subito che cosa intendesse il padre e chiese: "Di che parlate, padre?"

L'uomo allora si mostrò indignato e offeso: "Non fate finta di non capire! Non vorrete mica negare l'evidenza dei fatti. Da quanto tempo avete un rapporto carnale con quel vostro servo?"

Patrick finalmente capì e trasecolò: scese dal letto e s'erse fieramente di fronte al padre, non cosciente dell'erezione mattutina che sollevava le sue mutande, ma che non sfuggì al padre.

"Ma che dite! Non c'è nulla di nulla fra me e il ragazzo!"

Il padre fece un sorriso sardonico, a bocca storta: "Perché volete negare? Vi ho sorpresi in flagrante! Eravate abbracciati, nudi, nel letto!"

"Ma no padre, vi ripeto che non vi è nulla di infame fra me e il ragazzo! Nulla di quello che state pensando!"

"Eh via, figlio mio, fatemi la grazia di non credermi così ingenuo. Quando sono entrato avevate il servo fra le vostre braccia, evidentemente appagato dopo che avevate sfogato i vostri perversi istinti su quel ragazzo. O forse è lui che ha sfogato i propri selvaggi istinti contro natura su di voi?"

Patrick guardò stupito e offeso il padre mentre sentiva una sorda rabbia crescere in lui: "Vi prego di tacere, non sapete quello che state dicendo!" protestò con voce vibrante e alta.

Il padre sembrò ritrovare il proprio controllo e con voce stranamente calma disse: "So bene che alcune disgraziate persone, anche di buona estrazione sociale, indulgono in simili pratiche degenerate, hanno questo vizio infame e infamante, ma mai avrei creduto che voi, sangue del mio sangue, il mio unico erede..."

Patrick stentava a mantenersi calmo: "Vi ripeto, mi offendete con queste vostre illazioni assurde..."

Il padre allora perse le staffe: "Tacete, sciagurato! Abbiate almeno il buon senso di non insistere! Avete violato ogni principio, sia religioso che etico che civile... avete commesso un reato che la legge punisce... ma soprattutto, se si sapesse... un De Bruine con un maschio... e poi uno schiavo! Vi rendete conto? Che direbbe la gente? Il nostro buon nome nel fango!"

"Vi giuro che fra me e il ragazzo non vi è mai stato nulla di quel che temete! Perché non volete credermi?"

"Tacete! Non giurate il falso! Ma guardatevi: siete sceso da letto con una vistosa erezione e osate negare? Ma questo obbrobrio deve finire, deve, è chiaro? E ora vi prego di vestirvi e di scendere al più presto: il calesse è già stato caricato e voglio che si parta senza più alcun indugio."

"Padre, vi scon..."

"Basta, non voglio più dover parlare di questo vergognoso e increscioso incidente."

Ciò detto il padre, giocherellando nervosamente con la catena d'oro dell'orologio del panciotto, si girò e uscì precipitosamente dalla stanza del figlio chiudendosi dietro la porta con un tonfo secco.

Patrick sedette sul letto, il capo fra le mani, chiedendosi che fare, come convincere il padre della verità dei fatti. Dopo un poco chiamò Kutkhay. Questi, dalla sua stanza, aveva sentito ogni parola del duro scontro ma non era riuscito ad afferrare il senso del discorso né quale fosse il problema: solo gli era chiaro che riguardava anche lui. Quando entrò nella stanza del suo padroncino lo guardò con una muta domanda nello sguardo.

Ma questi gli disse solo: "Vai a prendere l'abito di lana a scacchi."

"Padrone, che succede?"

"Nulla, stai tranquillo."

"Ma, per colpa mia il padrone vecchio è scontento?"

"Ci penso io. Tu non devi preoccuparti di nulla, chiaro?"

"Certo, signore."

Kutkhay portò gli abiti e aiutò Patrick a vestirsi, poi si ritirò nella sua cameretta, inquieto.

Patrick scese. Cercò ancora di spiegarsi con il padre ma questi non volle neanche starlo a sentire e tagliò corto dicendogli: "Per me questo argomento è chiuso. Spero solamente che non mi porrete mai più simili problemi."

Patrick capì che era inutile insistere in quel momento: il padre non lo sarebbe neanche stato a sentire. Pensò che forse, passati alcuni giorni, sarebbe stato più facile riprendere il discorso e si ripromise di farlo. Tornò in camera e si fece aiutare da Kutkhay a finire di preparare la valigia.

Questi gli chiese: "Ma, signore, che ho fatto?"

"Nulla, stai tranquillo. Al mio ritorno sistemerò tutto, non temere. Tu non hai proprio nulla da temere, mio caro Cardellino!" concluse dandogli una lieve carezza su una guancia, e partì.

Questo tenero gesto tranquillizzò un poco il ragazzo che tornò nella sua stanzetta, sedette sul letto e si mise a leggere uno dei libri che gli aveva procurato il padrone. Quando sentì il calesse partire, si affacciò alla finestra, poi tornò alla lettura.

Dopo poco la porta della sua camera si aprì ed entrarono Ulisses il cocchiere e Simpson il capocameriere.

Ulisses aveva una corda in mano e il capocameriere disse solo: "Legalo!" e afferrò il ragazzo per un braccio.

Kutkhay stava appena cominciando a capire che gli stava capitando qualcosa di brutto che i due lo stavano già legando.

Si divincolò gridando allarmato: "Che fate? Che volete farmi? Perché..."

Ma i due, scuri in volto, non gli risposero e continuarono a tenerlo ben stretto e a legarlo.

"Vi prego... che volete farmi?"

"Taci, ragazzo, noi eseguiamo solo gli ordini. Taci o ti dovrò frustare." gli disse burbero Simpson.

Ormai il ragazzo era strettamente legato. Allora il capocameriere disse ad Ulisses: "Fai quello che ti ha detto il padrone, sbrigati. E bada di fare tutto per bene!"

"Non mi piace, però." protestò fiaccamente il cocchiere.

"Gli ordini del padrone non si discutono." rispose l'altro e uscì dalla stanzetta accigliato.

"Che mi fai? Che succede?" chiese ancora il povero ragazzo al robusto cocchiere negro.

"Taci, ragazzo, non rendermi tutto più difficile. Non fare chiasso o dovrò imbavagliarti."

"Mi devi uccidere?" chiese Kutkhay temendo di intuire.

Ulisses fece un rapido segno della croce e disse: "Gesù misericordia! No! Devo solo portarti via."

"Ma dove mi porti? Che succede? Il padroncino non vuole..."

"Il padroncino ha deciso col padrone vecchio di venderti."

"Vendermi? Ma perché? Che ho fatto? Il padroncino non mi venderebbe mai, non può volermi vendere. Non ci credo, non è vero!"

"Comunque è deciso. E taci: se non taci ti dovrò imbavagliare o altrimenti assaggi la frusta. Tu non hai mai provato la frusta finora, sei stato fortunato. Ma purtroppo per te tutto è cambiato. È brutta la frusta..." disse con aria triste il negro.

"Ma io... io voglio aspettare padron Patrick."

"Il padroncino è partito e tornerà solo fra quattro giorni e tu non devi più essere qui."

Così detto sollevò di peso il ragazzo e lo portò giù per le scale. Kutkhay aveva rinunciato a divincolarsi, a parlare: aveva capito che sarebbe stato del tutto inutile; solo due lagrime gli scesero silenziosamente e lentamente dagli occhi socchiusi. Intravide confusamente la figura di Annie sulla porta della cucina che, vedendolo, s'era fatta il segno della croce ed era rientrata in fretta.

Ulisses lo depose sul pianale del carretto delle provviste, lo coprì completamente con una coperta, salì a cassetta e fece partire i cavalli. Corsero a lungo e Kutkhay capì che stavano uscendo dalla città ma non capì in che direzione stessero andando. Il carretto rollò e sobbalzò viaggiando per parecchio tempo e parecchie miglia.

Kutkhay era come paralizzato, oppresso da un'angoscia indicibile. Non poteva essere vero che il suo padroncino avesse voluto venderlo. Era certamente stato il padrone vecchio. Ma perché? Che cosa era successo quella mattina? A chi l'avrebbero venduto? Avrebbe mai rivisto il suo padroncino?

Si stava ponendo tutte queste domande quando il carro si fermò. Sentì Ulisses scendere e poco dopo lo udì parlare con qualcuno. Poi gli fu tolta la coperta di dosso, un paio di mani lo tirò giù dal carro che subito ripartì di gran carriera.

Chi l'aveva tirato giù era un uomo bianco, uno sconosciuto grassoccio ma imponente e forte, vestito con abiti costosi ma non eleganti, che lo guardò ben bene poi disse: "Per quel che ti ho pagato, credevo che fossi peggio! Non sei male. Come ti chiami?"

"Goldie."

"Goldie, padrone!" lo rimbeccò minaccioso l'uomo.

Kutkhay tacque.

L'uomo lo picchiò con uno staffile: "Goldie, padrone, devi dire!"

Kutkhay tacque ancora, caparbio.

L'uomo fece spallucce: "Sta' tranquillo che capirai." disse soltanto e, sollevatolo come un fuscello, lo portò dentro a un capannone di legno simile a una stalla, dove c'erano sette persone legate con anelli e catene di ferro: due donne e tre uomini, negri, e due ragazzi mulatti. Anche a lui fu messo un anello di ferro a una caviglia e fu incatenato a un anello fissato a un pilastro, quindi gli fu sciolta la corda. Kutkhay si massaggiò le braccia e le gambe indolenzite.

L'uomo lo lasciò fare per un po', poi gli ordinò: "In piedi!"

Kutkhay si alzò.

L'uomo gli saggiò i muscoli: "Muscolatura media, discreta."

Gli guardò i denti, gli rovesciò le palpebre: "Almeno sei sano."

Poi gli infilò una mano nelle braghe e gli palpò i genitali tirandoglieli fuori ed esaminandoli. Kutkhay, del tutto disorientato e come inebetito, lasciava fare passivamente.

Terminato l'esame, l'uomo borbottò a mezza voce, pensieroso: "Chissà perché ha voluto così poco?" e uscì chiudendo la porta e sprangandola dall'esterno.

Kutkhay allora si lasciò scivolare a terra e sedette appoggiandosi al pilastro. Gli altri lo guardavano in silenzio.

Dopo un poco Kutkhay riuscì finalmente a parlare e chiese: "Dove siamo qui? Che succede? È la prigione?"

Uno dei ragazzi mulatti fece una specie di risolino basso: "Siamo da Mastro Finchley, mercante di schiavi. Da dove vieni, tu? Da un allevamento o da una tenuta?"

"Ma io non sono uno schiavo..." protestò debolmente Kutkhay.

Uno degli uomini negri rise forte: "Dillo alle tue catene che non sei uno schiavo! Aspettiamo di partire per il sud, dove si terrà il mercato e dove ci venderà. Anche se tu sei un mulatto bianco, sei uno schiavo come tutti noi, ragazzo!"

Una delle donne soggiunse: "Non ti far mai sentire a dire che tu non sei uno schiavo, ragazzo. Anche se sembri un bianco. Agli schiavi ribelli li frustano e li bastonano finché o si sottomettono o crepano. E chi tenta di fuggire viene impiccato. L'unica cosa che devi imparare a dire è solo: sì, padrone, sì, padrone!"

Kutkhay si sentì venire meno, cominciò a tremare e se non fosse già stato a terra, sarebbe caduto tanto le forze lo avevano abbandonato. Lui venduto schiavo! Ma allora era proprio vero! Ma lui si era dato schiavo solo al suo padroncino che l'aveva salvato, che lui adorava... non voleva essere schiavo di nessun altro, lui! Lui era nato libero, nessuno l'aveva catturato in guerra, non era onesto! Ma in che mondo si trovava, dunque? Era possibile che fosse così il mondo di suo padre?

Un altro dei negri gli chiese: "Doveva trattarti bene il tuo ex padrone: hai abiti puliti, non vecchi e sei ben nutrito. Come mai t'ha venduto? Sei un ribelle o aveva debiti da pagare?"

Kutkhay scosse la testa mestamente: "No... non mi ha venduto il mio padrone. Io non sono un ribelle e non ha debiti, anzi è molto ricco. È il padre del mio padrone che mi ha fatto vendere, perché è arrabbiato... e non so perché."

Uno dei ragazzi mulatti gli chiese: "Era arrabbiato perché non lavoravi?"

"No, ho sempre fatto tutto quello che il padroncino mi chiedeva, in fretta e bene."

"Allora rubavi?"

"Ma no, mai!" disse scandalizzato per una simile idea Kutkhay.

Continuarono le domande, ma non ne vennero a capo. Kutkhay aveva una gran confusione in testa, tutto il mondo gli era improvvisamente crollato addosso. Ma di una cosa era certo: non era stato Patrick a farlo vendere, non l'avrebbe mai fatto: lo sentiva, lo sapeva. Il padroncino era sicuramente all'oscuro di tutto: doveva in qualche modo avvertirlo. Poi raccontò la scenata fatta dal padrone vecchio quella mattina.

Allora un ragazzo mulatto annuì: "Ah, ho capito, il tuo padrone vecchio si è divertito con te e quando ha visto che lo facevi anche col figlio, si è arrabbiato e ti ha venduto. Anche a me è capitata una cosa simile: il mio padrone si è divertito con me e quando s'è stufato, m'ha venduto..."

"Divertito? Che vuoi dire?"

"Ma sì, ha fatto sesso con te, come faceva il mio padrone..."

"Ma no, non c'è mai stato sesso col mio padrone, mai."

"Allora non capisco..." disse l'altro.

Ma ora Kutkhay cominciava forse a capire quel che era successo: era tutto un equivoco. Magari fosse stato davvero per quello, almeno avrebbe avuto il tanto desiderato rapporto col padroncino. Ma era il colmo della beffa non aver avuto neanche un po' di sesso ed essere stato venduto per quello! Kutkhay si raggomitolò a terra, chiuse gli occhi e pensò al suo padroncino: gli sarebbero mancate le sue dolci carezze, anche se non c'era mai stato nulla fra loro due. Quale sarebbe stato il suo futuro ora? Come sarebbe stato?


Passarono due giorni. Restarono incatenati per tutto il tempo. Fu loro portato da mangiare e fu portato fuori due volte per andar di corpo, guardato a vista da un uomo armato di fucile. Kutkhay trovò molto imbarazzante e umiliante evacuare sotto gli occhi di quello sconosciuto. Ma pensò che quella era solo la prima e non la peggiore delle umiliazioni che avrebbe dovuto sopportare nella sua nuova vita. Il giorno seguente furono fatti salire tutti e otto su un carro a cui furono incatenati e iniziò un viaggio di due giorni verso il sud. Traversarono villaggi e città che non conosceva, fermandosi solo per cambiare i cavalli, per un veloce pasto e per dormire.

Kutkhay s'era chiuso in un mutismo tetro che neanche i canti sommessi degli altri riuscivano ad alleviare. Di tanto in tanto qualcuno dei suoi compagni cercava di parlare con lui ma al suo silenzio, alla fine, lo lasciarono stare. Kutkhay guardava attentamente la strada per cercare di ricordarla: forse un giorno avrebbe potuto ripercorrerla in senso inverso per tornare dal suo padroncino... ma non sapeva neanche dove fosse la città in cui era stato venduto. Forse avrebbe dovuto chiedere... Ma uno schiavo, chi l'avrebbe aiutato?


Finalmente giunsero alle porte di una città di medie dimensioni. Furono fatti scendere e furono messi in un altro grande capannone, assieme ad altri schiavi. Seppe che il giorno dopo ci sarebbe stato il mercato in cui sarebbero stati messi in vendita. Alcuni degli schiavi si conoscevano e parlavano fra loro. Si scambiavano notizie, si raccontavano le loro vicende. Tutti erano nati schiavi e sembravano rassegnati alla loro condizione. C'era anche un altro mulatto di pelle molto chiara, di mezza età, incatenato non lontano dal ragazzo.

"Tu devi essere figlio di una mulatta e di un bianco, o figlio illegittimo di una bianca e un mulatto, vero?"

Kutkhay scosse il capo.

"Due mulatti, allora?" insisté l'altro.

Kutkhay scosse di nuovo il capo.

"Ma sai parlare, tu?" chiese il vicino fra il seccato e il divertito e si girò dall'altra parte.

Il giorno seguente si tenne il mercato e gli schiavi furono posti in vendita. Al mattino presto il mercante con alcuni aiutanti fece denudare tutti gli schiavi, li fece lavare sommariamente, poi fece indossare ai maschi un paio di ampie braghe di cotone chiuse a vita da un cordino e alle donne una tunica, sempre dello stesso cotone bianco, piuttosto attillata. Quindi furono portati, sempre incatenati, sotto un tendone in cui sarebbero avvenute le contrattazioni e le vendite. Presto giunsero vari compratori che cominciarono ad esaminare la "merce". L'esame era quanto di più umiliante Kutkhay avesse mai subito: sembrava che gli schiavi fossero considerati bestiame più che esseri umani. La quasi totalità dei compratori erano proprietari di vaste tenute coltivate a cotone e cercavano soprattutto maschi robusti e giovani. Pochi cercavano schiave per i servizi domestici. Kutkhay non era ritenuto abbastanza robusto per essere comprato per la lavorazione del cotone. Poco prima di mezzogiorno giunse un uomo sulla cinquantina, elegantemente vestito, tendente alla pinguedine. Si guardò attorno e, appena vide Kutkhay, gli si avvicinò. Il mercante cominciò subito a decantarne le lodi. L'uomo, brusco, disse:

"Sì, sì, vedo da solo. Tu alzati, ragazzo!"

Kutkhay obbedì meccanicamente. L'uomo lo guardò a lungo da capo a piedi, poi ne saggiò i bicipiti, ne palpò il petto, gli controllò la dentatura e gli occhi, poi scese con la mano, prima a palparne il sedere piccolo e sodo, poi l'infilò deciso nell'apertura dei calzoni e, guardando dritto il ragazzo negli occhi, prese a manipolarli. Kutkhay non poté impedirsi di avere un'erezione e abbassò lo sguardo confuso, sotto lo sguardo divertito dell'uomo.

"Quanti anni ha il ragazzo?"

"Sedici, signore."

"È davvero un bel maschio, figlio di una mulatta e di un bianco, potrebbe quasi passare per un bianco... e poi, guardi, non ha neanche un segno o una cicatrice addosso..."

"Sì, lo vedo. Quanto ne vuoi?"

Cominciarono a mercanteggiare sul prezzo. Era evidente che l'uomo lo voleva, anche se cercava di pagarlo meno di quanto gli chiedeva l'altro. Discussero a lungo, e alla fine l'uomo se ne andò, rifiutando di pagare il prezzo richiesto. Arrivarono altri acquirenti, gli schiavi in vendita erano sempre meno, ma Kutkhay non era stato ancora comprato.

Nel pomeriggio, fra gli altri, arrivò un nuovo cliente che sembrò interessato al ragazzo. Era un uomo sui quaranta anni, alto, snello, elegantissimo, evidentemente ricco. Aveva uno sguardo severo che contrastava stranamente con movenze quasi delicate. L'abito, di finissima seta color lavanda, era assai attillato e ne mostrava le forme del corpo quasi come una seconda pelle. Alle dita aveva anelli sfarzosi ed un'elegantissima catena d'oro al panciotto. Calzava stivali lucidissimi, portava il cilindro sulle ventitré e aveva una sottile canna da passeggio.

Si avvicinò subito a Kutkhay.

"È un bel ragazzo, sano, intatto. Ha sedici anni, è figlio..." iniziò a decantare il mercante.

"Non m'interessa. Calagli i calzoni."

Il mercante si girò verso Kutkhay, sciolse il legaccio delle braghe che scivolarono a terra.

L'uomo gli girò lentamente attorno senza toccarlo, guardando attentamente il corpo del ragazzo: "Non c'è male, fisico ben proporzionato, e è ben dotato per un sedicenne. Ma è... docile?"

"Certo, farà tutto quello che gli sarà richiesto."

"È nato schiavo?"

"Sì, certo." mentì il mercante.

"E come mai è in vendita?"

"Ah, debiti di gioco..." mentì ancora il mercante che stava studiando il cliente con attenzione. Poi, intuendo dallo sguardo di questi che tipo di schiavo stesse cercando, azzardò: "Era il preferito del padrone, che se ne è separato con vero dispiacere... è un ragazzo caldo, docile, ubbidiente e... disponibile."

"Già già. Come si chiama?"

"Goldie, per via della pelle dorata. Guardi che perfezione di proporzioni, che corpo..." insisté il mercante ormai quasi certo della sua intuizione.

Gli occhi dell'uomo infatti carezzavano il corpo snello e dolce del ragazzo, soffermandosi in particolare fra le sue gambe ben tornite, quasi calamitato dal folto ciuffo di peli e da quel che vi si mostrava mollemente adagiato in centro. Si avvicinò al ragazzo e ne carezzò la pelle vellutata del sedere indugiandovi a lungo. Poi andò ad esaminare un ragazzo mulatto, infine discusse con il mercante finché si accordò sul prezzo per i due schiavi e pagò.

Allora chiamò ad alta voce uno dei suoi schiavi che attendevano fuori: "Jeremy, prendi questi due ragazzi e portali a casa col calesse. Di' a Moses di lavarli a fondo e di istruirli a dovere: quando torno li voglio trovare pronti, capito?"

"Sì padrone, subito padrone."

"E di' a Moses anche di prendere le misure per gli abiti: dovranno cominciare a lavorare al più presto."

"Certo padrone. Devo aspettare il padrone?"

"Ma no, bestia. Torno più tardi a cavallo. Fila!" tagliò corto l'uomo che uscì.

Il negro chiamato Jeremy si fece lasciare l'atto di proprietà dei due ragazzi, fece tirar su loro le braghe e li portò fuori tenendoli per le catene. Li fece salire su un elegante calesse, fissò le catene, salì a cassetta e partì. Traversò la città e s'inoltrò in campagna per un paio di miglia fra vaste distese di campi coltivati a cotone. Poi giunse a una specie di boschetto tagliato da una strada secondaria che imboccò, finché fra gli alberi comparve una bella e ampia casa di campagna. Un alto muro con eleganti cancelli di ferro battuto racchiudeva una parte degli alberi del bosco e la casa stessa. Fermato il calesse sul retro, tolse le catene ai due ragazzi e li guidò in una grande cucina dove li affidò a un altro negro segaligno, dai capelli completamente bianchi.

"Strigliali a fondo Moses e istruiscili: più tardi arriva il padrone che li vuole assaggiare. E fagli fare i vestiti."

"Va bene Jeremy, va bene." brontolò il vecchio che subito preparò una tinozza riempiendola d'acqua calda. "Spogliatevi, entrate e lavatevi a fondo, compresi i capelli e le orecchie. E non bagnate tutto, ché dopo chi asciuga sono io."

I due ragazzi obbedirono in silenzio. Moses armeggiò un po' ai fornelli, poi si accostò alla tinozza:

"Come ti chiami, tu?"

"Jimmy."

"E tu?"

"Goldie, signore."

Il vecchio scoppiò a ridere: "Io sono solo un vecchio schiavo, non un signore." Li guardò attentamente, poi chiese: "Quanti anni avete?

"Io diciotto." rispose il mulatto.

"Io credo sedici." aggiunse Kutkhay.

"Misericordia, quasi un bambino. Ma qui dentro purtroppo crescerai in fretta."

Detto ciò il vecchio si insaponò un dito e saggiò il foro fra le natiche di Jimmy, poi di Kutkhay. Entrambi ebbero uno scatto ma lo lasciarono fare, anche se si vergognavano l'uno dell'altro.

"Mmmh, siete stretti, specialmente tu Goldie. Il padrone sarà contento." osservò annuendo serio.

"Che mi fa il padrone?" chiese questi presentendo la risposta.

"Si divertirà col tuo bel culetto, ragazzo mio. Prima di metterti a disposizione dei clienti. Qui dentro abbiamo tutti assaggiato la verga del padrone. Questo è un bordello di lusso per i signori a cui piacciono i maschi, e il lavoro non manca."

Kutkhay guardava il vecchio con aria incredula: "Ma io... io non ho mai..." disse pensando che quella volta dell'iniziazione non contasse: quello era un rito.

"Non l'hai mai preso nel culetto? Ti credo, figlio. Beh, questa sarà la tua prima volta, ma non l'ultima, stanne certo. All'inizio ti farà male la verga del padrone: è davvero grossa. Ma ti abituerai, ti abituerai come tutti noi. Mangerai bene, avrai vestiti eleganti e soprattutto non dovrai lavorare nei campi. È schifoso, il lavoro nei campi: ne ammazza più del vaiolo. Lubrificati bene il buco, specialmente le prime settimane, e rilassati. E tu Jimmy, l'hai mai preso in questo bel culetto sodo?"

"Qualche volta, dal cuoco del padrone, in cambio di qualcosa di buono da mangiare..." rispose disinvolto il ragazzo.

"Bene, ti sarà più facile, allora. E poi qualcuno dei signori ama farselo mettere, farsi montare da uno stallone di razza e allora può anche essere divertente... Ma adesso asciugatevi. Vi prendo le misure, poi vi cerco qualche abito provvisorio."

Li guidò, ancora nudi, fino al guardaroba, prese loro le misure poi fece loro provare diversi abiti finché trovò per entrambi due ampie camicie di fine seta bianca aperte sul petto, due paia di coulotte di seta nera che li fasciava mettendone in risalto sia i culetti che l'equipaggiamento fra le gambe, un corto gilet aperto di seta nera ed un paio di pianelle di tela bianca.

"Per adesso può andar bene così. Sì, state bene, siete attraenti. E tu Goldie sei il primo schiavo di pelle chiara, sembri quasi un bianco. Credo proprio che piacerai al padrone e anche ai clienti. Hai anche belle labbra... l'hai mai succhiato tu? Sai come si fa?"

Kutkhay rispose, esitando appena: "Sì, da ragazzino, con un compagno..."

"Bene, allora sei già esperto. E tu Jimmy?"

"Io, veramente, mai..."

"Imparerai in fretta: il padrone ti sgrosserà. A lui piace schiantarlo in tutti i buchi possibili. Vedete di compiacerlo, se volete durare a lungo, e di compiacere i clienti in qualsiasi modo. Chi non lavora bene è punito chiudendolo in cantina al buio e senza mangiare. O in altri modi non meno spiacevoli... Adesso venite su con me."

Li portò fino al sottotetto dove assegnò loro due pagliericci vicini, poi li fece girare per la grande casa illustrandone loro la struttura e l'organizzazione. Di tanto in tanto incontravano altri giovani schiavi, tutti maschi e tutti piuttosto belli, che stavano facendo le pulizie e mettendo in ordine le stanze per gli ospiti-clienti. Infine li portò in una bella stanza del secondo piano in cui troneggiava un grandissimo letto a baldacchino.

"Qui dorme il padrone. Aspettatelo qui. Quando arriverà salutatelo dicendo: sono pronto, padrone. E parlate solo se sarà lui a chiedervelo. Non contrariatelo mai, obbedite prontamente e cercate di non farlo arrabbiare: non è cattivo il padrone, ma se si arrabbia... c'è da vedersela brutta davvero. Non curiosate e non toccate niente in giro. Adesso sedete su quel sommier, ma appena entra alzatevi in piedi. Beh, buona fortuna Jimmy, e anche a te Goldie. Ah, dimenticavo..." disse infilando una mano in tasca, porse loro una scatoletta e disse soltanto: "Lubrificante." e uscì.

I due ragazzi sedettero in silenzio. Kutkhay tremava lievemente, non tanto per paura, quanto perché non sapeva che cosa gli avrebbe riservato la vita d'ora in poi, separato dal suo padroncino, in quel bordello di lusso. Voleva tornare da Patrick, lo voleva con tutto se stesso. Ma capiva, più per istinto che per ragionamento, che sarebbe stato difficile, forse impossibile. Doveva trovare il modo di inviare una lettera al suo amato padrone.

"Speriamo che almeno qui si mangi bene..." sussurrò Jimmy a un certo punto.

Kutkhay lo guardò sorpreso.

L'altro continuò tranquillo: "Quello del cuoco era grosso, non mi fa paura quello del padrone. È vero, all'inizio faceva proprio male, ma ci si abitua poi. Ma di' un po', sei mai stato con una donna, tu?"

"Ero sposato, ho un figlio..." mormorò Kutkhay.

"Sposato? Io ci avevo provato con la figlia dello stalliere, una gran bella ragazza nera di quindici anni, ma non ho combinato granché. Non se lo faceva mettere, quella, diceva che voleva restare vergine. Però me lo faceva con la mano e qualche volta anche con la bocca... e mi piaceva. Ma io non potevo neanche succhiarle le tette... guarda, a ripensarci m'è venuto duro..."

Kutkhay guardò i calzoni attillatissimi e leggeri del compagno e li vide gonfi e palpitanti. Vi posò la mano e palpò delineandone la forma e saggiandone la consistenza: "Caspita, ce l'hai grosso!"

"Sì." disse il mulatto con un sorriso fiero e aggiunse: "A vederlo a riposo non sembra... ma quando si sveglia fa la sua bella figura, non è davvero secondo a nessuno."

Kutkhay a quel breve contatto aveva provato un fremito di piacere. Pensò che era contento che avessero il pagliericcio vicino... Jimmy aveva un corpo davvero gradevole, l'aveva osservato bene mentre si lavavano e pensava che doveva essere piacevole fare l'amore con lui. Pensando a questo anche lui si eccitò.

Jimmy se ne accorse e ridacchiò: "Anche il tuo si sta risvegliando... pensi a tua moglie?"

"No, stavo pensando a te."

Il giovane mulatto lo guardò sorpreso: "E... pensare a me ti fa questo effetto?"

"Non lo vedi?" disse Kutkhay con un sorriso appena abbozzato.

"A me non si è mai risvegliato per un maschio..." disse l'altro con aria perplessa, ma con una mano scese a palpare il turgore del compagno. Kutkhay lo lasciò fare. "Però, onestamente, mi piace toccartelo..." disse Jimmy continuando a palparlo.

"Anche a me piace, ma forse è meglio che smetti, o vengo e poi il padrone si arrabbia."

"Hai ragione, sì. Ma tanto abbiamo il pagliericcio assieme... avremo occasione, no?" disse Jimmy con un sorrisetto malizioso e Kutkhay pensò che il compagno era facile da convincere.

Di nuovo tra i due scese il silenzio. Attraverso le tende delle finestre la luce diminuiva, segno che la sera stava avanzando piano piano. Dal boschetto giungevano rumori di animali e i colpi di un'ascia, ritmici, lontani. Dal piano inferiore della casa salivano di tanto in tanto rumori ovattati che mostravano come nella casa fervessero attività varie.

Poi si udì il galoppo di un cavallo che si fermò davanti alla casa e i due ragazzi capirono che il loro nuovo padrone era tornato. Restarono in silenzio, tesi, in attesa. Sentirono la sua voce gridare qualcosa ma non ne distinsero le parole. Udirono i suoi passi salire la grande scalinata di legno, avvicinarsi alla stanza e subito i due ragazzi si alzarono in piedi, un attimo prima che la porta si aprisse.

L'uomo si soffermò sul vano della porta, li guardò, poi girandosi indietro disse a qualcuno: "Barney, accendi tutti i lumi della camera, sta diventando buio qui dentro." ed entrò lasciando la porta aperta.

Andò verso il grande letto a baldacchino e sedette sul bordo stendendo le gambe e dicendo semplicemente ai ragazzi: "Stivali!"

Subito i due gli si inginocchiarono davanti e ognuno gli sfilò uno stivale. Frattanto era entrato un giovane nero con uno stoppino acceso in mano e accese a uno a uno i molti lumi della stanza che presto fu piena di luce, quindi uscì richiudendo la porta. Frattanto l'uomo continuava a dare laconici ordini ai due ragazzi che a poco a poco, obbedendo, lo stavano spogliando. Quando fu completamente nudo salì sul letto sedendovi in centro.

"Adesso nudi, tutti e due!" ordinò.

I ragazzi eseguirono subito l'ordine sotto lo sguardo attento dell'uomo che, man mano che i due corpi gli si rivelavano in piena luce, si stava eccitando visibilmente. Kutkhay non perdeva d'occhio il padrone e vide che l'aveva davvero di ragguardevoli dimensioni.

Quando furono nudi Jimmy si ricordò delle istruzioni ricevute e con voce incerta disse: "Sono pronto, padrone." seguito con un attimo di ritardo anche dalla voce di Kutkhay.

"Bene bene bene... Sali sul letto, tu, mulatto. Vieni qui..." disse l'uomo allargando le gambe e guidandovi il capo del ragazzo che aveva afferrato con entrambe le mani.

Kutkhay guardava la scena con gli occhi spalancati e si eccitò. Poco dopo il padrone se ne rese conto e con un sorriso lascivo fece cenno a Kutkhay di salire sul letto, lo afferrò per un braccio, lo tirò a sé poi spingendogli giù la testa, lo sostituì al mulatto.

Poi disse a questi con aria divertita: "Lubrifica il tuo compagno, preparalo bene: prima di assaggiare te voglio divertirmi col ragazzino."

Jimmy si accoccolò dietro al compagno e fece quanto gli era stato ordinato. L'eccitazione di Kutkhay, nel sentire il dito di Jimmy spalmargli la crema, aumentò ancora. Dopotutto, forse, non era così male quello che gli stava accadendo... Stava per essere sottoposto a un nuovo rito di iniziazione, in un certo senso...


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