ORO, INCENSO E MIRRA | CAPITOLO 5 - ... E MIRRA |
Roger Mapula era sulla soglia dei quaranta anni ed era ancora un gran bell'uomo. Era un medico affermato e, malgrado fosse africano e nero come la pece, aveva parecchia clientela, anche ricca. Non poteva dire che ci fosse razzismo nei suoi confronti, eppure, nonostante si fosse laureato in Italia e vi fosse rimasto dopo la laurea, sentiva di non essere completamente integrato. Ma la cosa non gli pesava: non era rassegnato, semplicemente accettava il fatto senza crearsene un problema. Quella era la sua vita... Mentre studiava all'università aveva pensato che sarebbe tornato al suo paese, dopo la laurea. Ma proprio in quegli anni si era innamorato di un compagno di facoltà, un certo Mario, e aveva deciso di restare in Italia per non separarsi da lui. Avevano vissuto assieme per altri quattro anni dopo la laurea, ma poi Mario lo aveva lasciato per un altro. C'era stato molto male e per un momento aveva pensato di tornare in patria, ma ormai aveva una buona clientela, una bella casa... così era rimasto. Dopo Mario non aveva avuto più una relazione fissa, non si era più innamorato, ma aveva avuto parecchie avventure. Si rendeva conto che ciò che attirava i maschi italiani verso di lui era soprattutto la leggenda che i negri "ce l'hanno grosso". Leggenda che lui certo non smentiva, ma si rendeva conto che non erano interessati veramente a lui come persona ma quasi solo alle dimensioni notevoli dei suoi attributi maschili. Accettava anche questo con una specie di fatalismo divertito. Che ci poteva fare? Di tanto in tanto andava in qualche discoteca gay e quasi sempre tornava a casa rimorchiando un ragazzo che non vedeva l'ora di assaggiare il suo favoloso frutto proibito. Non aveva che l'imbarazzo della scelta, di solito. E infatti, se li sceglieva. La sera del 4 gennaio andò al solito a ballare e a cercare un qualche partner: chissà che prima o poi non avrebbe trovato qualcuno capace di dargli amore e non solo sesso? Come al solito furono in diversi a ronzargli attorno e un paio anche belli, ma, diversamente dal solito non si sentì di dare corda a nessuno. Non capiva che cosa gli avesse preso quella sera, ma al momento di concludere, lasciava perdere. Eppure aveva voglia, se non altro, di sesso! Probabilmente non era dell'umore giusto, pensò. Meglio lasciar perdere e tornare a casa. Così, verso mezzanotte, già usciva. Guidava veloce lungo il viale che lo riportava a casa. Provava come una strana fretta di mettersi a letto, di dormire.
Roger guidava veloce lungo il viale deserto. Rallentò un po' alla curva per accelerare di nuovo sul rettilineo, vedendo davanti a sé una sequela di semafori verdi. Voleva arrivare a casa in fretta, farsi una bella doccia e mettersi a dormire. All'improvviso, da dietro uno degli alberi del viale, sbucò una figura che si gettò davanti alla sua auto. Frenò con forza sbandando, cercò di mantenere il controllo del veicolo, fece il possibile per non investire quel pazzo e frattanto capì che quello gli si era gettato davanti apposta: era un tentativo di suicidio, ne era certo. L'auto, slittando sull'asfalto, con un faro colpì l'uomo che fu proiettato di lato afflosciandosi a terra. L'auto si fermò, il motore imballato. Roger scese di corsa avvicinandosi preoccupato alla figura immobile sulla strada. Sembrava intatto. Gli tastò il polso: batteva. Aveva perso i sensi. Era giovane. Era bello. Perché mai voleva uccidersi? Lo visitò rapidamente controllandogli il corpo con mani esperte: non c'era niente di rotto, apparentemente. Allora lo sollevò senza fatica e lo stese sui sedili posteriori dell'auto. Dette un'occhiata al faro: era appena incrinato e spento. Risalito, mise in moto e si diresse verso la clinica privata in cui lavorava, e qui fece una serie di radioscopie al ragazzo per essere certo che non ci fossero lesioni interne. Quindi decise di portarlo a casa sua. Non sapeva neanche lui perché: sarebbe stato più logico lasciarlo in ospedale, in fondo. Ma qualcosa dentro di lui lo spinse ad aspettare che riprendesse i sensi per poi portarselo a casa. Massimo riprese coscienza dopo circa mezz'ora. Quando aprì gli occhi vide il viso nero e sorridente di Roger, che gli diceva: "Ti è andata male, ragazzo." Massimo mormorò con tono stupito e stanco: "Sono ancora vivo..." "Sono un bravo autista e ho una buona auto. Non hai niente di rotto. Te la senti di alzarti in piedi?" Massimo tirò giù le gambe dal lettino e, aiutato da Roger, si alzò. Si guardò attorno. "Sono medico. Questa è la clinica in cui lavoro. Adesso vieni a casa mia e resti in osservazione per almeno ventiquattro ore. Appoggiati a me." "Non serve." rispose Massimo scuro in volto, senza neppure tentare di discutere la decisione dell'altro. Roger lo condusse fino all'auto, lo fece sedere e guidò fino a casa. Lo portò in soggiorno e lo fece sedere su una poltrona. Gli versò un whisky: "Bevi, ti farà bene. Ti chiami Massimo, vero?" "Sì." "L'ho visto dai tuoi documenti. Bene, Massimo, non so perché volevi ucciderti, ma ti rendi conto che se ci riuscivi mi rendevi responsabile di omicidio colposo? Non ti sembra assurdo coinvolgere in questo modo un onest'uomo nei tuoi problemi?" "Non ci avevo pensato." "Certo, pensavi solo a morire, lo capisco, ma... Per fortuna, almeno per me, non ci sei riuscito. A ventiquattro anni dovresti essere meno incosciente, però. Certo, se non te ne frega più niente della tua vita, che può fregartene di me? Bah. Comunque ora eccoci qua. Io mi chiamo Roger." disse tranquillo. Massimo fece un cenno, imbarazzato. Bevvero il whisky. Roger studiava il volto di Massimo. Il ragazzo gli piaceva abbastanza e normalmente se lo sarebbe portato volentieri a letto, ma pensò che quello, ammesso che ci stesse, non era certo dell'umore giusto per far sesso. "Adesso è meglio che vai a dormire." "Vorrei andar via, sto bene." "No, devo tenerti in osservazione per 24 ore prima di lasciarti andare via." "A che serve? Tanto, poi..." "Poi farai tutto quello che vorrai, non posso certo impedirtelo. Ma visto che tu m'hai coinvolto, adesso devi lasciarmi fare a modo mio: voglio solo essere sicuro che se morirai non sarà a causa dell'investimento. E comunque, non sono stato io ad entrare nella tua vita, ma sei tu che ti sei gettato nella mia. Io non ti lascio andare finché non sono sicuro di non averti procurato danni mortali al corpo. Quindi adesso vieni nella camera degli ospiti e ti metti a letto. La mia camera è di fianco alla tua: se ti senti male, mi chiami." Massimo lo guardò con aria strana, poi disse: "Non vuole scoparmi, lei? Non è per quello che mi ha portato qui da lei?" Roger lo guardò stupito, poi gli chiese: "Cos'è, mica sarai gay, tu?" "Sì, certo." "Beh, certo poi... mica ce l'hai scritto in faccia, no?" "Mah, credevo che lei..." "E perché ti sei fatto quest'idea? Ce l'ho scritto in faccia io, che sono gay?" "No, lasci perdere." "Eh no, adesso m'hai incuriosito e devi spiegarmi perché sei venuto fuori chiedendomi di far sesso con te." "Ma no, io non le chiedo niente. È che ho già tentato tre volte di uccidermi, e le prime due mi hanno soccorso due gay, che avevano voglia di fare sesso con me. Così..." "Ah, non c'è due senza tre. Beh, pare che il mondo gay si sia coalizzato per impedirti di morire, allora. Sarà perché sei troppo bello per lasciarti andar via così." disse con una certa ironia Roger, poi aggiunse serio: "Comunque non credo che sia opportuno per te aver sesso stanotte. Perciò tu dormirai nel tuo letto e io nel mio. Poi si vedrà. In effetti mi piaci molto, ragazzo." "Ma allora... anche lei è gay!" "Pare di sì. Ma sta tranquillo che non ti tocco. Fila a dormire, ora." Il mattino seguente Roger si svegliò e, in pigiama, andò a vedere Massimo. Dormiva ancora. Certo, pensò, è davvero un bel ragazzo questo qui! Ed è pure gay. È curiosa la vita, a volte. Si vuole ammazzare, ma parla di scopare. Dicono che amore e morte siano fratelli. Svegliò con delicatezza il suo giovane ospite: "Passata una notte decente?" "Ho dormito." "Ottimo. Se ti vuoi alzare ti mostro il bagno. Mentre preparo colazione puoi farti la doccia, se vuoi. Vieni." Massimo scese da letto. Aveva indosso solo mutande e maglietta. Roger lo guardò con desiderio ma senza dire nulla lo guidò fino al bagno. "Quando sei pronto vieni in cucina e facciamo colazione." gli disse porgendogli una sua vestaglia e lasciandolo. Dopo poco Massimo si affacciò alla porta della cucina. "Entra, siedi. Tra un attimo è pronto." disse Roger con un sorriso. Massimo sedette. Roger notò che sotto la vestaglia di seta non aveva indossato la maglietta e si chiese se avesse messo le mutande o no e una lieve eccitazione si impadronì di lui. Servì la colazione. Mentre mangiavano chiese a Massimo di spiegargli, se voleva, perché avesse deciso di uccidersi. Il ragazzo annuì stancamente. "Pare che in questi giorni non devo far altro che raccontare. Comunque..." disse e iniziò a raccontare di nuovo la sua storia. Roger aveva ascoltato attento ma impassibile. Quando parlò, la sua reazione fu del tutto inattesa per Massimo. "Bene. È la vita. Cosa ti credevi, tu, che la vita risparmiasse solo a te la sofferenza? Ti ha dato la tua dose di felicità, di benessere, ora ti sta dando la tua dose di dolore. Che uomo sei se non sei capace di accettare anche il dolore? Pensi di sfuggirlo con la morte: ma che bravo! Sei così debole? Così vigliacco? Fuggi? Ma che bravo." "Ma che senso ha ormai la mia vita, senza Diego?" "Sei vissuto per diciannove anni senza di lui. E adesso dici che non ha senso vivere senza di lui. Non ti rendi conto che sei assurdo? Certo, la sua morte ti fa soffrire: e allora? Hai accettato la gioia con lui, perché ora non sai accettare anche il dolore?" "Con lui avrei accettato anche il dolore. Ma con lui, non da solo." "Mah, e chi lo sa? Probabilmente se con lui avessi conosciuto il dolore, saresti fuggito ugualmente. Se non hai forza dentro di te, non la puoi trovare in un altro. L'altro ti può aiutare, certo, ma non può darti quello che non hai. La vita è fatta di opposti, non lo sai? Solitudine e compagnia, divisione e unione, gioia e tristezza, piacere e dolore, dolcezza e durezza. Non puoi accettarne solo la metà. Vita e morte. Non puoi scegliere. Lo so bene io, che sono medico e che vivo in mezzo al dolore." "Ma il dolore, è lecito volerlo evitare, no?" "Certo. Il compito di un medico è anche cercare di eliminare il dolore o almeno di attenuarlo. Ma per prima cosa bisogna accettarlo e solo allora si può controllarlo. E chi non sa accettare il dolore, o si imbottisce di medicinali o vuole morire. Che sia dolore fisico o psicologico, non cambia. È il dolore che rende forte l'uomo, che lo rende veramente uomo. Tu, che sei? Perché fuggi di fronte al dolore?" "È troppo grande, troppo forte." "No, ognuno di noi prova solo il dolore che è capace di provare e di sopportare, né più né meno. E il dolore lo puoi controllare, se non vincere, solo cominciando con l'accettarlo." "E perché dovrei accettarlo?" "Per lo stesso motivo per cui hai accettato la felicità prima: semplicemente perché fa parte della vita." "Ma quando il dolore è insopportabile?" "Più lo coltivi dentro di te, più lo temi, più ci pensi e più sembra crescere. Ma è solo la tua impressione, o meglio, sei tu che lo fai crescere dentro di te, che lo alimenti. È come quando hai mal di testa o di denti: più ci pensi più sembra crescere; meno ci pensi, più diventa sopportabile." "Ma, almeno, per il mal di testa ci sono delle medicine." "Sì, certo. Ma anche le medicine hanno poco effetto se si è spaventati dal dolore. Vedi questi grani di resina? È mirra. Al mio paese la si usa come medicina per attenuare il dolore. Ma i nostri vecchi dicono che calma il dolore solo dopo che lo si è accettato. Ecco, prendine un po', te la regalo." "Come si usa?" "Non ha nessuna importanza. Tienila con te e ricordati che il dolore fa parte della vita. Se tu rinunci alla vita per eliminare il dolore... com'è che dite voi italiani? butti via l'acqua sporca con il bimbo! È assurdo, no? È del tutto assurdo." Massimo prese i grani di mirra e li pose davanti a sé, pensieroso. Roger lo guardava senza dire nulla. Massimo, dopo poco si alzò e andò in camera, prese lo scatolino d'oro e vi ripose la mirra assieme all'incenso, la chiuse e la rimise nella tasca del giaccone. Quindi tornò in cucina. Roger stava rigovernando le stoviglie. Massimo sedette. "Ma io avevo promesso a Diego di essere suo per sempre e ora lui è morto. Perciò voglio essere suo anche nella morte." "Che grossa cavolata! Tu puoi esser suo solo finché vivi, ma soprattutto lui è vivo finché tu vivi. Vuoi ucciderlo di nuovo?" "Che? Non la capisco." "Certo, perché ora pensi solo al tuo dolore e ci pensi tanto che ti offusca la mente. Sei uno stupido." disse Roger deciso, guardandolo però con dolcezza. "Ma il dolore fisico è più facile da accettare." disse Massimo. "Dici così solo perché ora non lo provi. A volte il dolore fisico può essere così forte che sembra di impazzire. Eppure c'è gente che anche in una vita di dolore, ama la vita." "Perché? Sono masochisti?" "No. È speranza ma soprattutto è pensare agli altri più che al proprio dolore, più che a se stessi." "Gli altri? Quali altri? Io non ho altri." "Prima di conoscerlo, il tuo Diego, non era un altro? Però c'era già e aspettava te, anche se né lui né tu lo sapevate. E se tu non ci fossi stato, non avrebbe potuto conoscere la felicità che tu gli hai dato. Ognuno di noi è indispensabile agli altri, anche se non se ne rende conto. E sicuramente, da qualche parte, proprio ora c'è un... qualche altro Diego che sta aspettando proprio te." "E che forse non troverò mai." "O che invece è là dietro l'angolo, se non sei tu a evitarlo." "Ci vuole una forza che io non ho." "Non è vero, tu hai questa forza, solo che ora è coperta dal tuo dolore e non la vedi, ma c'è. Devi lasciare che il dolore esca da te, che si diradi e la forza viene fuori. Lìberati del dolore. Ma per liberartene prima devi accettarlo." gli disse Roger che era ritto accanto alla sedia di Massimo e aveva preso a carezzargli i capelli. Massimo appoggiò la testa sulle braccia e disse in un sussurro: "Mi sento stanco, terribilmente stanco." "Certo, è naturale. Nulla stanca quanto il dolore. Lasciati andare, riposa un po'. Così poi puoi riprendere il cammino." "Il cammino. Che cammino?" chiese con voce fioca Massimo. Roger allora lo prese fra le sue braccia, lo sollevò da terra e lo trasportò fin sopra il proprio letto. Ve lo depose. "Che vuoi, da me?" chiese Massimo tremante. "Incularti. E ti farò male, ce l'ho molto grosso." "Lasciami andare, ti prego." "No." "Non voglio aver sesso." "E perché? Se vuoi morire, vuol dire che non ti importa del tuo corpo, no? E a me piace. Lo voglio." disse deciso aprendogli la vestaglia e salendogli sopra col proprio corpo massiccio. Massimo tentò di opporsi ma Roger lo prese con le sue grandi forti mani, lo piegò sotto di sé, lo mise in posizione. "No, lasciami!" protestò Massimo. "Lasciati inculare, dai!" disse con voce bassa e roca Roger, sempre più eccitato. "No, no!" gridò il giovane divincolandosi. "Dopo, se vuoi, puoi anche andare ad ammazzarti, ma adesso ti voglio godere." "Lasciami!" urlò Massimo cercando con tutte le forze di respingere l'uomo, ma invano. Roger riusciva a tenerlo fermo. Il corpo ripiegato in due di Massimo era tutto un tremito e quando Roger fremendo si accinse a prenderlo, il giovane trattenne il respiro. Roger spinse. "No!" si lamentava Massimo rabbrividendo. Roger raccolse le sue forze, immobilizzandosi per un attimo, poi con un gran colpo gli affondò dentro. Massimo sentì una fitta lancinante, come se tutto si squarciasse dentro di lui, ma non oppose più la minima resistenza a quella improvvisa e decisa invasione e Roger affondò completamente in lui con quell'unica, poderosa spinta. Massimo, gli occhi strettamente serrati, emise un forte, lungo gemito, come quello di un animale ferito a morte. "Lasciami, ti prego!" invocava il giovane con voce rotta, cercando di trattenere le lacrime che sembravano voler uscire. Roger tenendolo immobilizzato saldamente sotto di sé, iniziò a battergli dentro con un ritmo forte e a ogni affondo il corpo di Massimo sobbalzava sul letto. "Oh, no, basta, basta." gemeva il giovane a ogni colpo. Roger, continuava con vigore a prendersi il giovane. Questi sentiva i muscoli dell'uomo guizzare a ogni penetrazione, sentiva il piacere che l'altro traeva dal suo corpo contro la sua volontà e questo aggiungeva dolore al suo dolore che si faceva sempre più forte. Questo lo sconvolgeva, ma non poteva sottrarsi a quella violenza e allora la accettò, quasi rassegnato. Massimo si abbandonò completamente a quella dolorosa penetrazione, gemendo sottovoce come un animale ferito. E il dolore sembrò svanire lentamente. Roger continuava con immutata energia e piacere, con un ritmo sostenuto e regolare, con forza piena di determinazione. Sembrava che l'orgasmo dell'uomo dovesse esplodere da un momento all'altro, eppure non arrivava mai. I due corpi erano coperti di minute goccioline di sudore che brillavano al guizzare dei muscoli di Roger, instancabile nella sua cavalcata. Finalmente un fremito iniziò a pervadere lo scuro corpo dell'uomo, si rafforzò, parve moltiplicarsi. I suoi colpi si fecero più forti e Roger iniziò a soffiare dalle narici, a ritmo dei colpi forsennati, e finalmente raggiunse l'acme del piacere, profondamente infisso in Massimo. "Perché l'hai fatto?" chiese Massimo senza muoversi. "Perché non volevi?" gli chiese in risposta l'uomo. "Mi hai violentato." "Ti ho semplicemente preso prima che tu ti buttassi via." "Perché sei più forte. Potrei denunciarti." "Ma che ti importa, se tanto vuoi morire." "Ma non sono ancora morto." "Appunto!" disse trionfante l'uomo scendendo dal letto e richiudendosi la vestaglia sul poderoso corpo nero. Massimo restò inerte sul letto, immobile, gli occhi chiusi. Si sentiva completamente svuotato di ogni energia. In fondo, era vero, anche la violenza appena subita, non gli importava molto. Roger si accorse che pian piano il ragazzo stava scivolando nel sonno. Solo quando lo vide addormentato, Roger lo coprì col soffice piumino e andò a rivestirsi. Massimo dormì a lungo. Di tanto in tanto Roger andava a guardarlo, senza svegliarlo. Ne guardava il volto lievemente contratto da cui traspariva una sensazione di dolore, più spirituale che fisico, di un'intensità profonda. Roger pensò che, rispetto al volto privo di espressione che aveva il giovane quando lo aveva incontrato, questo affiorare di emozioni e sentimenti poteva rappresentare un passo avanti. Avrebbe voluto saper fare qualcosa per quel ragazzo, per portarlo fuori dalla sua lucida disperazione. Nonostante l'avesse costretto a quel violento rapporto fisico, provava per lui una specie di tenerezza protettiva, ma sapeva che era Massimo a dover reagire, sapeva che chiunque avrebbe potuto fare ben poco. Ci aveva fatto l'amore: aveva pensato che il giovane avesse bisogno di quel contatto fisico violento e glielo aveva dato, anche con piacere. Ma non si illudeva che quel rapporto, per quanto intenso, avrebbe potuto davvero aiutare il ragazzo. Forse, invece, proprio quel lungo sonno poteva essergli utile. Perciò non lo voleva svegliare. Massimo si svegliò verso sera. Si sentiva indolenzito e la testa era come ovattata. Ricordò la violenta penetrazione a cui era stato sottoposto: non avrebbe mai creduto di poter accogliere in sé un membro così grosso quasi senza problemi. Quel ricordo lo fece sentire strano e per un attimo desiderò che Roger fosse ancora lì su di lui. Stava per chiamarlo, quando il ricordo di Diego lo bloccò. Scese dal letto e si avviò silenziosamente nella propria camera, dove si rivestì. Un mal di testa, lieve ma persistente, lo accompagnava e dietro gli faceva male a ogni movimento. Andato in soggiorno vide che Roger stava leggendo. Questi, quando lo sentì entrare, lo salutò con un cenno del capo: "Hai dormito molto. Avrai fame. Ti scaldo qualcosa, è tutto pronto. Io ho già pranzato e cenato e non ho voluto disturbarti." "Sì, va bene, mangio qualcosa." rispose Massimo. Seguì Roger in cucina. Questi gli servì un pasto leggero ma sostanzioso. Poi, mentre sparecchiava, gli chiese: "Arrabbiato con me?" "No." "Che vuoi fare, ora?" "Non lo so." "Le ventiquattro ore stanno per passare, direi che l'investimento non ti ha dato conseguenze." "Sì. Vorrei andare, ora. Se solo tu volessi accompagnarmi dove ci siamo incontrati." "Perché proprio là?" "C'è la mia bicicletta, vorrei riprenderla." "Ah, va bene, ti ci porto. E dopo che farai?" "Non lo so ancora." "Hai un posto dove andare?" "No, mi cerco un albergo, credo." "Hai bisogno di soldi?" "No." rispose Massimo. "Trovare un albergo a quest'ora sarà difficile. Perché non ti fermi ancora qui da me, stanotte? Il posto c'è, come hai visto." "No. Preferisco andare." "Come vuoi." rispose Roger. Lo riaccompagnò fino al luogo dell'investimento. Qui giunti Massimo indicò la propria bicicletta e Roger fermò lì accanto. "Allora Massimo, ciao." "Ciao." "Questo è il mio biglietto da visita: se avessi voglia di rivedermi, senza complimenti." Massimo scese dall'auto. Si chinò per salutare il medico negro, che gli fece un sorriso e ripartì. Andò alla bicicletta l'inforcò e si avviò. Pedalava a caso, finché si accorse di essere vicino alla Stazione Centrale. Scese, mise il lucchetto alla bici ed entrò. Poteva dormire là, per quella notte. Poi avrebbe deciso. Ma domani, oggi era troppo stanco.
Erano un giovane re arabo, un re bianco e il terzo era un re nero. L'arabo aveva un cofano d'oro in mano, il bianco un incensiere e il nero un flacone di mirra. E quel giorno era il 6 gennaio, il giorno dell'Epifania, dei Tre Re. E lui li aveva incontrati, e aveva ricevuto i tre doni, e ora li aveva in tasca. Si sentì la testa girare vorticosamente. Come in trance uscì dalla stazione, riprese la sua bicicletta e si mise a camminare a piedi, sentendosi completamente frastornato.
Camminava cercando di riordinare i propri pensieri, i propri sentimenti, le proprie emozioni, ma gli sembrava di non riuscirci: era tutto un groviglio inestricabile. Ricordi, immagini, pensieri gli si mescolavano dentro in modo caotico. Si accorse di essere entrato in un giardino. Vide una panchina. Vi appoggiò la bicicletta e sedette. E scoppiò a piangere. E tutto il dolore per la morte del suo Diego poté finalmente sfogarsi. E finalmente gridò, urlò, singhiozzò, il corpo scosso per l'intensità devastante delle emozioni che provava.
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