ORO, INCENSO E MIRRA | CAPITOLO 3 - ORO... |
Massimo rimase a casa di Riccardo fino alla sera del 31 dicembre. Quando questi gli disse che era ora di uscire per andare a casa del loro amico Carlo per aspettare con gli amici l'anno nuovo, Massimo gli disse: "No, non mi sento proprio; scusami con gli amici ma non mi sento ancora. Questa notte preferisco passarla da solo." Riccardo provò a insistere ma alla fine si arrese. Quando fu solo, Massimo prese un foglio e scrisse:
"Caro Riccardo, Mise il foglio sul cuscino del letto di Riccardo, infilò il giaccone e scese in strada. Prese la sua bicicletta e, inforcatala, si mise a pedalare. Guardò l'orologio: erano le 22,15. Ancora un'ora e quarantacinque minuti per la mezzanotte. Sì, doveva accadere proprio a mezzanotte: avrebbe dato l'addio all'anno vecchio con tutte le sue sofferenze. Palpò il rigonfio nella tasca del giaccone: era una bella corda di nylon, da rocciatore, spessa come un dito, robusta e di un bel rosso vivo, lunga tre metri. Quando l'aveva comprata, in quel negozio di articoli sportivi, la commessa aveva chiesto quanta ne volesse: "Tre metri." "Solo?" aveva chiesto un po' stupita la ragazza. "Sì, basteranno certo. L'importante è che sia robusta." "Oh, robustissima. Questa regge fino a trecento chili." "Bene, va proprio bene, allora." Poi la commessa gli aveva chiesto di che colore la volesse e gli mostrò i rotoli. "Rossa va bene, è il colore del capodanno, no? L'anno nuovo si deve cominciare con qualcosa di rosso indosso, no?" "Sì, signore, ma di solito è biancheria intima." aveva detto la ragazza allegra. "Vuol dire che la userò come biancheria intima." aveva detto Massimo con un sorriso strano. "Oh! Mi piacerebbe vederla con solo questa indosso." aveva risposto la commessa facendogli un sorriso malizioso.
"Tra poco arrivo anche io, cucciolo mio. Se è vero che c'è una vita oltre la vita, saremo di nuovo assieme. Se non c'è nulla... anche qui ormai non c'è più nulla. Almeno finirò di soffrire. Ti amo, Diego, dovunque tu sia. Uniti per sempre, nella vita e nella morte." I minuti passavano lenti, il parco era immerso nel silenzio. Massimo stava bene, ora, si sentiva sereno, finalmente. Sì, avrebbe iniziato l'anno nuovo con una vita veramente nuova. O con il nulla, chissà. Sperò che la bicicletta e il giaccone li prendesse un barbone di passaggio. Poi pensò con macabra ironia che stava per trasformare quell'albero spoglio in un albero di Natale: la corda rossa e lui come decorazione e, sotto, i regali. Guardò di nuovo l'orologio: le 23,56. Ancora quattro minuti. Faceva piuttosto freddo senza giaccone, ma mancavano solo quattro minuti. Si sistemò meglio il nodo scorsoio attorno al collo e pensò che era un po' come aggiustarsi la cravatta per andare a una festa. Poi si chiese quanta altra gente in quello stesso minuto stesse guardando l'orologio come lui: certamente anche la famiglia di Diego.
"Dieci, Buon Anno a tutti!" urlò felice e saltò giù dal ramo.
Era un ragazzo molto bello, dimostrava meno dei suoi diciannove anni e ai cristiani piace farsi un bell'arabo. In due anni da che era venuto in Italia aveva guadagnato molto, tanto da poter spedire soldi alla sua famiglia in Marocco e poter ugualmente vivere bene. Da quattro mesi era andato a vivere da solo, così poteva portarsi i clienti a casa e farsi pagare di più. Aveva arredato il monolocale all'araba: ai clienti piaceva, dava loro l'impressione di essere in un harem, in un racconto da mille e una notte. Rasim sorrise soddisfatto. Dopo tanta miseria, ora aveva finalmente iniziato una bella vita, ricca e piacevole. Essere arabi e gay, in patria, gli aveva creato tanti problemi. Qui invece gli aveva spianato la strada. Guardò l'orologio: le 23,54. Ancora sei minuti per l'anno nuovo. E il parco era deserto. Chissà che cosa gli avrebbe riservato l'anno nuovo? Certo altri clienti, altro divertimento, altri soldi. Stava diventando una marchetta di lusso, cominciava ad avere buoni clienti fissi, stava pensando di mettere anche il telefono. Ma qualche volta gli piaceva tornare a battere nel vecchio parco in cui aveva cominciato la sua carriera. Le 23,58. Il parco era davvero deserto, i suoi amici avevano ragione. Smise di passeggiare lungo il viale e si inoltrò fra gli alberi. Le 23,59. Ancora un minuto. Forse sarebbe comparso qualcuno più tardi, all'uscita dalle feste. Rasim si fermò e si guardò attorno lentamente scrutando la semioscurità del parco. Era tutto deserto. Cioè, no: laggiù c'era una bicicletta appoggiata a un albero, quindi doveva esserci qualcuno, magari in cerca di un ragazzo come lui. Guardò di nuovo l'orologio: ecco, solo otto secondi. Contò a mezza voce, in arabo: "53, 54, 55, 56, 57..." e sentì un grido, poi un colpo secco come di rivoltella, e, guardando verso l'albero con la bicicletta, vide qualcosa cadere e afflosciarsi a terra. Per un attimo restò immobile, senza capire, poi corse verso l'albero. Giuntovi, vide a terra un corpo, una striscia rossa, un grosso ramo spezzato. La striscia rossa era una corda e univa il collo dell'uomo al ramo. E Rasim capì di colpo. Quello aveva cercato di impiccarsi e il ramo s'era spezzato. A mezzanotte precisa. Si chinò agitato sul corpo esanime e sentì che era ancora vivo. Il volto era cianotico perché la corda serrava il collo. Con mani tremanti la allentò, rovesciò il corpo e guardò il viso dello sconosciuto. Pareva molto giovane e bello; e aveva voluto ammazzarsi all'inizio dell'anno nuovo. Mah! Allah però non l'aveva permesso e... ed era stato senza dubbio Allah che l'aveva fatto uscire di casa proprio quella sera e lo aveva fatto passare proprio di là, proprio a quell'ora. Allah voleva che lui si prendesse cura di quell'uomo, era chiaro. Sfilò la corda dal collo del giovane e passò le dita sul segno che la corda vi aveva lasciato. Senza sapere il perché, sciolse la corda anche dal ramo e la arrotolò. Poi guardò di nuovo il volto del giovanotto. Chissà che cosa l'aveva potuto spingere a uccidersi? Si appese il rotolo di corda rossa alla cintura, sedette accanto al giovane esanime, ne sollevò il capo e se l'appoggiò in grembo carezzandolo lieve. Era proprio bello. Magari avesse avuto un cliente così! pensò Rasim continuando a carezzargli i capelli. Massimo gemette. "Ehi, amico, come stai?" chiese Rasim guardandolo. L'altro aprì gli occhi e i loro sguardi si incontrarono. Il ragazzo lesse in quegli occhi un dolore così profondo che gli fece male. "Cos'è successo?" chiese Massimo. "Dio la pensava diverso." disse Rasim a mo' di spiegazione. Non disse Allah, perché se no l'altro non ci avrebbe creduto: sicuramente era un infedele. "Cosa? Che dici?" mormorò Massimo confuso e si portò una mano al collo. "Non c'è, l'ho io. Si è spezzato il ramo. Non era ancora la tua ora." "Ma io dovevo morire." disse Massimo con voce stanca. "No, è chiaro che no. E Dio mi ha mandato qua per te." "Chi sei, tu?" "Rasim. Un marocchino. Una marchetta. E tu?" "Massimo. Un italiano. Un morto." rispose lugubre. "No, morto no. Sei vivo. Quanti anni hai?" "Ventiquattro." "E a ventiquattro anni volevi morire? Perché?" "Perché... a che serve vivere, ormai? Non ho più nulla." "Non si vive per quello che si ha, ma per quello che si è." "Non sono più nulla, io." insisté Massimo. "Sei Massimo, italiano, di ventiquattro anni, bello. E adesso vieni a casa con me." "Perché?" "Perché è il nuovo anno. Gliela fai ad alzarti?" "Non lo so; ridammi la corda: cerco un altro ramo." "No. Non oggi. Io ti ho trovato. Tu vieni a casa con me." "Ma io voglio morire." disse Massimo sottolineando quel voglio. "No, non oggi, te l'ho detto. Ti chiedo solo due giorni della tua vita, solo due giorni. Per me. Poi ti ridò la corda e fai quello che vuoi. Ma ora vieni a casa mia, con me. D'accordo?" "Due giorni?" "Quarantotto ore. Riesci ad alzarti?" chiese di nuovo il ragazzo. Massimo ci provò. Si sentiva debole ma si reggeva in piedi. "È tua quella bici, vero?" Massimo annuì. "Allora anche il giaccone è tuo. Rimettitelo fa freddo, dai!" Massimo stancamente se lo infilò. Rasim prese la bicicletta e gli fece cenno col capo di seguirlo. Per tutto il tragitto non parlarono. Rasim di tanto in tanto gli lanciava un'occhiata. Pensò che quello camminava come un condannato a morte che si avvia al patibolo: in fondo lui l'aveva condannato a vivere per altri due giorni e quello era il suo patibolo. Per voler morire, la vita doveva sembrargli intollerabile. Chissà perché? Giunsero a casa di Rasim, e questi fece entrare Massimo. "Togliti il giaccone. Fa caldo, qui." gli disse il ragazzo togliendosi il piumino bianco e posandovi sopra il rotolo di corda rossa le cui spire si aprirono come un fiore. "Siediti là." disse indicandogli il giaciglio colmo di cuscini con coloratissime fodere di broccati. Massimo vi sedette, i piedi fuori dal giaciglio, le braccia attorno alle gambe ripiegate, la fronte sulle ginocchia. "Non ho alcool io, sono un buon musulmano. Preferisci succo d'arancia, tè alla menta o caffè con la moka?" "Non importa." "Allora due bei bicchieri di spremuta di arance, fresca." decise Rasim. Gli sedette di fianco e gli porse uno dei due bicchieri: "Bevi. Alla nostra salute. Alle nostre 48 ore assieme." Massimo annuì stancamente e bevve un sorso. "E adesso dimmi perché hai deciso che vuoi morire." disse deciso il ragazzo arabo disponendosi all'ascolto. Massimo esitò un attimo, ma poi iniziò a raccontare. Non però dalla morte di Diego ma dal primo giorno in cui l'aveva notato in caserma. Gli raccontò tutto, per filo e per segno, per ore e ore. Rasim lo ascoltava senza interromperlo e visse tutte le emozioni che Massimo gli stava comunicando col suo racconto accorato. Alla fine Massimo concluse: "Vedi? Che senso ha ormai la vita per me? Capisci perché voglio morire?" Rasim non rispose; si mise invece a raccontare a sua volta: "Io sono il nono figlio. Eravamo molto poveri. Papà faceva il muratore e, quando c'era lavoro, avevamo appena di che mangiare. Quando non lavorava invece si riusciva a sopravvivere solo andando a rubacchiare un frutto, qualche erba nei campi. Ma non siamo mai morti di fame. A volte siamo anche andati a chiedere l'elemosina. Ma Dio non ci ha mai fatto mancare l'essenziale, la vera ricchezza: la vita. "Avevo dodici anni. Uno zio che stava in città venne a trovarci. Mi vide e decise di prendermi con sé. Dette dei soldi alla mia famiglia e mi portò nella sua casa di città. Mia madre mi disse: mio fratello sarà come un padre per te, obbediscigli sempre. Fai tutto quello che ti ordina. Pensai che però forse non voleva davvero un figlio, aveva già i suoi, grandi. Lo zio era vedovo e non si era risposato. Forse voleva un servo, ma mi stava bene. Infatti, appena arrivati a casa sua, mi spiegò quali erano i miei doveri, i miei lavori e mi mise subito all'opera. Pensai che dopo tutto ero fortunato: sarei vissuto in una bella casa, non mi sarebbe mai mancato da mangiare. Mi regalò una tunica nuova, mi mise un giaciglio nello sgabuzzino. Lavoravo in casa dalla mattina alla sera senza fermarmi mai, se non per mangiare colazione, pranzo e cena con lo zio e i miei cugini. La sera era stanco morto e appena mi davano il permesso di andare a stendermi sul mio pagliericcio, crollavo addormentato. Ma almeno mangiavo tre volte a giorno e roba buona. "In un mese la mia magrezza sparì. Ero stanco morto, non conoscevo nessuno a parte lo zio ed i due cugini più giovani che ancora vivevano in casa, ma non avevo tempo di annoiarmi. Dopo un paio di mesi ero diventato un bel ragazzino. "Il mio cugino di diciotto anni un giorno mi ordina di andare con lui nel bagno per lavarlo. Mi fa togliere la tunica per non bagnarla e così, nudo anche io, comincio a insaponargli il corpo. Vederlo nudo, toccarlo, provoca la mia prima erezione. Lui se ne accorge, si mette a ridere e mi chiede se mi sono eccitato a toccarlo. Io onestamente rispondo di sì. Mi chiede se mi piacciono i maschi e io di nuovo dico di sì. Allora lui esce dalla vasca e vedo che ce l'ha ritto e duro. Mi prende, mi fa girare e chinare, mi spalma qualcosa fra le natiche e mi violenta. Io urlo e piango e mi divincolo: mi fa male da morire, ce l'ha grosso e io sono un bambino e ancora vergine. Ma lui riesce senza fatica a tenermi fermo in posizione e ridendo continua a fottermi finché ottiene il suo godimento. Allora si sciacqua, si asciuga e mi lascia là in lacrime dandomi ordine di pulire bene il bagno. Mi asciugo anche io e mi accorgo che dietro sanguino. E quando mi muovo mi fa molto male. "Allora, quando torna lo zio, gli dico piangendo quello che mi ha fatto mio cugino. Lo zio si mette a ridere, lo chiama e gli chiede se è vero. Certo, risponde lui, Rasim è un cavallo, me l'ha detto lui. Da noi dire che un ragazzo è un cavallo vuol dire che gli piace essere inculato e che perciò lo si può montare. Mio zio allora mi dice che se sono un cavallo non devo lamentarmi e che comunque fa parte dei miei doveri soddisfare tutti i desideri dei membri della famiglia: mi ha comprato per quello. E parlava sul serio perché prima comincia a montarmi anche l'altro cugino, quello di ventuno anni e poi vuole provarci pure mio zio. Ormai non dormo più nel mio sgabuzzino sul mio pagliericcio, perché ogni notte devo farmi trovare in uno dei tre letti e a volte, nella stessa notte, devo anche passare da un letto all'altro. Così, dopo aver sfacchinato tutto il giorno, ora devo essere a disposizione dei tre uomini anche di notte. "Quando compio quattordici anni, e purtroppo per me sono sempre più bello, il mio cugino più grande comincia anche a mettermi a disposizione degli amici che invita, perché si divertano a fottermi. Devo dire però che a poco a poco mi abituo e il dolore scompare e in capo a pochi mesi comincio anche a provare piacere, specialmente col cugino piccolo, che ora ha venti anni, quello che mi aveva violentato per primo. Lui sa prendermi in un modo che mi fa godere più di tutti gli altri. Ciò non ostante io li odio tutti, perché sento che per loro non sono altro che uno schiavo, un oggetto. D'altronde m'avevano comprato dai miei genitori, no? Anche se loro s'erano illusi che sarei stato trattato come un figlio. "A quindici anni decido di fuggire e tornare dalla mia famiglia. Vado via con la sola tunica che ho indosso. Non ho soldi, ma l'avrei fatta a piedi anche se ci avessi messo tre settimane. Avrei chiesto la strada ai passanti o nei villaggi, avrei chiesto del cibo o l'elemosina. Ma lo zio, quando si accorge della mia fuga, mi denuncia alla polizia dicendo che ho rubato dei soldi e dell'oro. La polizia mi prende che sono a metà strada. Mio zio doveva forse aver pagato un poliziotto, perché quando mi prendono e mi perquisiscono, quello mi trova addosso un gioiello che io non avevo e che mio zio riconosce come suo. Così mi portano in prigione, mi fanno il processo e mi condannano a due anni di galera. "In galera si sparge la voce che sono un cavallo. Sicuramente era stato lo zio a fare in modo che si sapesse, per punirmi della fuga. Così, fin dal primo giorno divento il cavallo da monta di tutti. Ma in prigione c'è anche un uomo che si affeziona a me e dopo tre mesi decide di prendermi in cella con lui e dice agli altri che adesso io sono la sua donna e che avrebbe castrato chi m'avesse messo le mani addosso. Così faccio l'amore solo con lui e mangio anche meglio. E con me è persino gentile, anche quando ogni notte mi fotte con il vigore di un toro in calore. Quando sto per uscire, mi dà l'indirizzo di un suo amico che mi avrebbe aiutato. "Ho sedici anni e mezzo. Quello mi propone di venire a lavorare in Italia clandestino. Lui mi può procurare il trasporto. Vado a salutare i miei, poi torno da quel tale. Per pagarmi il trasporto, quello mi fa lavorare per sei mesi in un bordello per maschi, ma è di parola, perché quando compio diciassette anni, attraverso la Francia, mi fa entrare in Italia e arrivare fino a Milano da un altro suo amico. Quello di Milano mi mette a dormire in una stanza con altri sette marocchini e di giorno mi fa andare in giro a vendere accendini e altre cazzate per la strada. Ma dopo un paio di mesi incontro un ragazzo tunisino che fa marchette e quello mi dice: tu sei bello e se fai marchette puoi guadagnare un sacco: più che col tuo lavoro di merda. "Così comincio a fare marchette e a guadagnare parecchio e posso mandare più soldi alla mia famiglia perché siano meno poveri e non siano costretti più a vendere altri figli. E questo monolocale è mio, vesto bene, mangio bene, mi scelgo i clienti che mi piacciono di più. E in tutti questi anni ho imparato una cosa: l'unica vera ricchezza è la vita. Non si può e non si deve buttarla via." "Ma tu, se non altro, hai un motivo per vivere, aiutare i tuoi. Vivi per loro. Io avrei fatto qualsiasi cosa per Diego. Ma ora lui non c'è più e io non ho più nessun motivo per vivere." "Ti sbagli. Anche se non avessi la mia famiglia o se non avesse bisogno di me. E poi non avrei neanche mai immaginato di poterli aiutare un giorno. No, la vita è un dono che non si deve e non si può sprecare. Adesso nel tuo cuore è notte per il dolore e non capisci, non puoi capire. Ma tutto passa, nella vita. E poi, non sai cosa ti riserva il futuro. Io non lo sapevo che mi riservava questo, quand'ero uno schiavo, o un prigioniero o un ragazzo di bordello. Ma io ho sempre pensato che la vera ricchezza è una sola: la vita." "Sono stanco, Rasim. Ti dispiace se dormo?" "No, anzi. Ti farà bene. Quando ci svegliamo ti cucino un bel cuscus. L'hai mai mangiato?" "No, ma perché ti occupi di me, un estraneo?" "Perché Dio t'ha messo sulla mia strada, Massimo. E tu m'hai promesso in regalo quarantotto ore della tua vita. E poi ora ti conosco un po' meglio, non siamo più estranei."
Rasim si svegliò a mezzogiorno. Ancora trentasei ore, pensò. Si mise subito a cucinare il cuscus per sé e per quel bel giovanotto che Allah aveva fatto cadere sulla sua strada. Il buon odore del cibo quasi pronto svegliò Massimo. Lì per lì il giovane non capì dove fosse, poi ricordò. Guardò Rasim, che ora aveva indossato una tunica bianco panna e che era indaffarato ai fornelli. Lo guardò in silenzio, a lungo, chiedendosi che senso avesse che lui fosse finito là, in casa di quel ragazzo arabo. Che senso aveva che quel ragazzo si occupasse di uno sconosciuto, di uno di un'altra razza, di un'altra lingua, di una altra religione: un perfetto estraneo. Rasim si girò e lo vide seduto sul basso materasso poggiato sul pavimento, circondato dai variopinti cuscini e gli sorrise. "Dormito bene?" Massimo ebbe un sussulto: ogni mattina Diego gli rivolgeva quella domanda, proprio con quelle parole e quel tono, sorridendogli. "Allora, hai dormito bene?" chiese di nuovo Rasim. "Sì, grazie. E tu? Sveglio da molto?" "Ho dormito bene anch'io. Il cuscus è quasi pronto, tra poco possiamo mangiare." "Non ho molta voglia." "Per forza, non ami la vita, ora. Ma mangerai con me, me lo devi. Queste ore le hai regalate a me, ricordati." "Sono il tuo schiavo?" "Puoi pensarla così, se vuoi." rispose allegro Rasim. "Allora vuoi anche scopare?" chiese Massimo ripensando al racconto del ragazzo. "Mi piacerebbe moltissimo fare l'amore con te. Ma non credo proprio che a te vada." Massimo si sentiva vuoto, eppure poteva sentire la simpatia e il calore umano che quel ragazzo gli stava offrendo. Si chiese se, visto che aveva donato quelle ore della sua vita all'altro e visto che l'altro lo desiderava, poteva anche dargli il proprio corpo per una volta, prima di disfarsene. Diego non c'era più, il suo corpo non era più di nessuno: poteva usarlo chi voleva. Rasim mise un tavolo basso vicino al giaciglio, sul tappeto, e due cuscini ai lati. "Vieni su un cuscino. Mangiamo all'araba, con le mani. Ti insegno." Mise le pentole sul tavolo quindi gli fece vedere come si faceva. Massimo lo imitò, tanto per fargli piacere. Mangiarono. "Ti piace?" chiese il ragazzo. "È buono." rispose Massimo per gentilezza. Finito di mangiare Rasim gli portò una ciotola di acqua tiepida per sciacquarsi le mani e un panno. Poi preparò un buon tè alla menta che sorseggiarono lentamente. Rasim sgombrò il tavolo e lo pulì mentre faceva suonare musica araba a basso volume dal registratore. Tornò a sedere sul cuscino di fronte a Massimo. "Così l'illusione di essere al mio paese è quasi perfetta." "Ti manca, il tuo paese?" "No, perché ce l'ho qui nel mio cuore. Non mi manca, perciò. E poi sto bene qui in Italia. Tutta questa messinscena non è per me, è per voi italiani. Il cuscus l'ho fatto per te e per te ho messo la tunica. Io di solito mangio spaghetti e indosso jeans. Della vostra roba, solo il maiale non mangio." "Perché sei musulmano?" "Esatto." "Ma tu ci credi?" "Sì certo." "Perciò credi che ci sia un paradiso?" "Sì, è così." "E allora il mio Diego ora sarebbe in paradiso?" "Era un uomo giusto: sicuramente è in paradiso." "Vorrei crederci anche io." "Ma anche se non ci credi, lui c'è." rispose Rasim con tono ovvio, ma con un sorriso. Massimo aveva le mani sul tavolo, le dita intrecciate, la testa china e lo sguardo fisso sulle mani. Non pensava a nulla, il cervello era vuoto. Dentro di sé sentiva solo quell'urlo che non voleva uscire, quelle lacrime che non volevano scendere. Rasim gli chiese: "Sei mai stato in Marocco?" "No, mai. Mai stato fuori d'Italia a parte una volta a Parigi." "Molti italiani vanno a passare le vacanze in Marocco. È un bel paese. Ma anche l'Italia è un bel paese. Forse ci vivrò per sempre, se non mi becca la polizia e non mi manda via. Un giorno smetto di fare marchette. Un giorno mi trovo un amante." "Un italiano?" "Perché no?" "Ricco?" "Oh, quello non ha importanza. Ricco, giovane, bello: tutte cose secondarie. Deve essere buono, onesto, capace di amare, questo solo. Qualcuno che io possa stimare, amare, a cui possa dedicare la mia vita." "Io l'avevo trovato. È morto." "Ma ti ha donato i cinque anni più belli della tua vita, no?" "Sì." "Ed è morto certamente felice, perché aveva te nel cuore." "Lo spero." "Certo che è così. Se mi proponessero di avere cinque anni di felicità intensa e vera e poi morire, accetterei." "Io li ho avuti, quindi posso morire." "È diverso. Puoi morire, certo, ma non ucciderti." "Perché? Non è mia la vita?" "Oh no, per quarantotto ore è mia. E se tu dopo ti ucciderai, ucciderai anche una parte di me." "Non ti capisco." "Peccato." "Non hai mai odiato la vita, tu, Rasim?" "No, mai." "Neppure quando ti hanno violentato a dodici anni?" "Certo che no. Ho odiato chi mi ha violentato, non la vita." "Io però sono stato violentato dalla vita." "Ma no, tu sei stato violentato da un autista che non ha rispettato lo stop, non dalla vita." "Hai uno strano modo di ragionare.." "Non so se è più strano il mio o il tuo, amico." Parlarono tutto il pomeriggio. Poi Rasim preparò la cena, mangiarono. Parlarono ancora, finché Rasim decise che era ora di mettersi a dormire. Si stesero vicini. Dopo un po' Massimo chiese: "Dormi, Rasim?" "No, non ancora." "Se vuoi fare l'amore con me, per me va bene." Rasim per un po' non parlò, non si mosse. Poi accostatosi a Massimo, al buio lo toccò lieve, lo carezzò. Sentì che l'altro era inerte. Indubbiamente Massimo gli piaceva molto, ne era attratto. Avrebbe voluto usare il sesso, per la prima volta, non per trarre un vantaggio personale, come con i clienti, danaro o piacere che fosse, ma soprattutto per quell'essere che Allah l'aveva mandato a cercare. Avrebbe voluto usare tutta la propria arte per risvegliare il desiderio in Massimo, perché il desiderio è vita. Ma la completa inerzia dell'altro alle sue lievi carezze gli fecero capire che l'altro non era ancora in grado di capire. "No, dormi, ora. È meglio." "Sì, è meglio. Ma allora, che vuoi da me?" "Mah, si deve sempre volere per forza qualcosa dagli altri?" Rasim lo sentì rilassarsi e allora capì che, pur nella sua inerzia, l'altro era stato teso. "Perché mi hai detto che se volevo fare l'amore con te, potevo?" chiese. Massimo non rispose. "Mi piaci, ma non mi interessa un corpo vuoto." "Morto, vuoi dire?" "Che vuol morire, piuttosto." "Non credi che ne abbia diritto, motivo?" "No, non lo credo, né diritto né motivo." "Forse tu sei più forte di me." "Io? Non lo so, chissà. Ma ora dormi, dormiamo." "Non so se ci riesco. Ma cercherò di non darti fastidio." Il ragazzo si chiese che cosa potesse fare per quel giovane. Se Allah glielo aveva messo sulla strada, voleva dire che lui doveva fare qualcosa, ma perché Allah non gli faceva capire che cosa? Il ragazzo era immerso in questi pensieri quando sentì il respiro dell'altro farsi regolare, profondo e capì che era insensibilmente scivolato nel sonno. Chiese ad Allah di illuminarlo e si lasciò andare anche lui al sonno. Quando Massimo si svegliò ebbe una sensazione di dolce tepore. Si rese conto che il suo corpo era coperto da un soffice piumino. Aprì gli occhi: Rasim s'era già alzato, aveva indosso la sua solita morbida tunica di lana sottile e si stava muovendo silenzioso per la stanza. Massimo lo guardò a lungo in silenzio. Ripensava a quello che c'era stato fra lui e il ragazzo nel buio della notte. Il ragazzo lo desiderava, lui gli si era offerto, il ragazzo non aveva fatto nulla. Per Massimo quel ragazzo era strano, incomprensibile. Il ragazzo era una marchetta, eppure non lo aveva portato da sé per soldi. Il ragazzo aveva detto che Massimo gli piaceva, ma non aveva cercato il proprio piacere. Si chiese se l'avesse fatto per pietà, ma non aveva affatto l'atteggiamento di compatirlo. Era un bel ragazzo e anche simpatico. Eppure lui non si era sentito né si sentiva attratto da Rasim. In fondo, pensò, per lui la vita non aveva più senso e quindi neppure la ricerca del piacere. Non aveva desideri, non aveva nulla. "Sveglio da molto?" gli chiese Rasim. "Da un po'." "Hai avuto freddo?" "No, è ben riscaldato qui." "Sì. Quand'ero piccolo ho patito tanto freddo e ora che ho i mezzi, non voglio più patirne." "Freddo? In Marocco?" "Oh, sì, sulla montagna d'inverno e di notte fa veramente freddo. Ho comprato il condizionatore sei mesi fa. Così qui ci sono 23 gradi e la giusta umidità per tutto l'anno. È il mio lusso più grande, questo. Vedi, non ho ancora il televisore, o l'auto, o il telefono, ma il condizionatore sì. Così si sta bene con indosso solo una leggera tunica e il corpo sta bene." spiegò con un certo orgoglio Rasim. Massimo si alzò mentre il ragazzo finiva di preparare la colazione. Guardava quel pezzetto d'Oriente trapiantato a Milano e provava la strana sensazione di trovarsi sul set d'un film. Con un bellissimo attore arabo, Rasim. Il ragazzo gli aveva raccontato la sua storia eppure lui non lo conosceva; era appunto come raccontare la trama di un film: la conosci, al limite lì per lì ti coinvolge, ma in fondo non ti riguarda, ne resti estraneo. Massimo guardò l'orologio e contò le ore che mancavano alla mezzanotte. Avrebbe potuto andarsene anche prima, non era certo il ragazzo che avrebbe potuto trattenerlo, ma aveva fatto una promessa e in fondo non gli costava molto mantenerla. Rasim si mise a raccontare altre cose sulla propria vita, sui suoi sogni, sulle sue speranze. Massimo ascoltava: non gli interessava nulla, ma aveva l'impressione che il ragazzo avesse bisogno di essere ascoltato e comunque così il tempo passava. Infatti a un certo punto Rasim, dopo pranzo, gli disse: "Queste cose non le ho mai raccontate a nessuno. I miei amici arabi, che poi veri amici non sono, non le capirebbero, anche quelli che fanno marchette giurano di non essere gay; ai miei clienti non interesserebbero, quello che gli interessa è solo godere usando il mio corpo per cui pagano; quindi tu sei il primo." "E perché le racconti a me?" "Perché non ho altro da darti." "Da darmi? Tu non mi devi nulla. E a me non interessa nulla." "Perciò neppure quello che ti ho raccontato." "Non volevo dire questo, ma... in fondo è vero. Perché sono incapace di interessarmi a qualcosa, ormai." "Però sei stato ad ascoltarmi. Perché?" "Non lo so. Sinceramente. Scusami." disse Massimo. Rasim sorrise: il fatto che l'altro gli chiedesse scusa voleva dire che in fondo gli interessava, almeno un poco, di lui. Più tardi gli fece vedere un bel libro fotografico sul Marocco. "Vedi quante cose belle ci sono al mio paese? Io non le ho mai viste, le conosco solo dalle foto. E allora penso che è buffo che c'è gente che arriva da lontano per vedere e fotografare e io che abitavo là, che ci sono nato, non sono mai andato a vederle. La vita è buffa. Adesso che sono lontano vorrei andare a vederle. Però non vorrei mai tornare a vivere là. Vorrei tornarci un giorno come turista. Ma poi penso: chissà che mi riserva la vita?" "La vita non è buffa, è crudele." "No, a volte siamo noi crudeli con noi stessi o lo sono gli altri con noi o tutt'e due." "La vita mi ha tolto tutto." "No, t'è rimasta la vita che è la cosa più preziosa. Aspetta..." disse Rasim alzandosi in piedi. Andò a frugare in un cassetto e tornò con la mano chiusa a pugno: "Ti voglio regalare qualcosa." aprì la mano e la tese verso Massimo: "Prendila, è d'oro, è una scatoletta." Massimo la prese: era lavorata in filigrana in modo molto raffinato, era molto bella. "Indovina che cosa c'è dentro?" chiese Rasim sorridendo malizioso. "Non saprei." "Aprila." disse il ragazzo. Massimo la aprì: "Ma è vuota." "Appunto. Vedi, la scatoletta è come la vita: è un contenitore bello, raffinato, prezioso, d'oro puro. Pronto per contenere tutto ciò che ci vuoi mettere. E se non ci metti niente, è vuoto. Se no è pieno di quello che vuoi: sabbia o polvere d'oro, cenere o diamanti, letame. Ma è un bellissimo contenitore, prezioso. Te lo regalo. È un antico lavoro dei nomadi del mio paese. Tu aprila, quando vuoi, e ricordati che è stata fatta per contenere qualcosa, quello che vuoi, ma non per rimanere vuota." "No, grazie, tienila tu. Per te magari è un ricordo." "No, voglio che la tenga tu, invece, almeno ti ricorderai del giovane Rasim, un marocchino gay che fa marchette." "Me ne ricorderò finché vivo." disse con amara ironia Massimo. Il ragazzo sembrò non intuire quel che sottintendeva quella battuta e rispose con un sorriso dolce e quieto. Rimasero assieme fino alla mezzanotte del due gennaio. Rasim cercò di coinvolgerlo con mille piccole cose, ma l'altro continuava a reagire quasi per inerzia, senza vera partecipazione. E guardava sempre più spesso l'orologio. Finché si alzò: "Bene, Rasim, le quarantotto ore adesso sono passate." "Sì, è vero." "Io allora vado." "Va bene." "Addio, Rasim." "La pace sia con te, amico." rispose Rasim restando seduto. Massimo uscì di là, quasi sorpreso che il ragazzo non avesse cercato di trattenerlo. Si tirò dietro la porta, prese la bicicletta sul pianerottolo e scese. La notte era fredda e il respiro gli usciva in una densa nuvola bianca dalle labbra socchiuse. Il pensiero di Diego, che non l'aveva abbandonato in quelle 48 ore anche se a volte pareva essersi sopito, tornò acuto, vivo, doloroso. La vita è un dono prezioso, d'accordo. Più prezioso dell'oro, è vero. Ma a Diego era stata rubata e così ora la sua non aveva più né senso né valore. Una scatola vuota, d'oro ma vuota, proprio come il regalo di Rasim. E dentro di lui quell'urlo che non voleva uscire, quella domanda martellante: perché? perché? perché? Camminò a caso, portando la bicicletta a mano. Poi la inforcò e cominciò a pedalare. Girò per vie semideserte finché arrivo in un corso. Il corso saliva, scavalcava la ferrovia, scendeva. Massimo fermò: perché no? Quasi come Diego, un colpo e via! Tornò indietro. Appoggiò la bicicletta sul parapetto del cavalcavia e guardò sotto, verso i binari. Bastava scavalcare quando avesse visto di lontano arrivare un treno, calcolare i tempi, un breve volo e...
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