ORO, INCENSO E MIRRA | CAPITOLO 2 - I SOGNI MUOIONO ALL'ALBA |
Avevano ancora pochi giorni di licenza. Il giorno dopo decisero di tornare al fiume, là dove s'erano dichiarati il reciproco amore. Sotto il sole, nudi, si unirono nuovamente. "Ho sete di te, Massimo." "E io di te, cucciolo." rispose Massimo eccitatissimo. Si carezzavano a vicenda pieni di brama. Sentivano le reciproche eccitazioni crescere velocemente, i loro corpi prepararsi a donare all'amante il massimo piacere. Lo sentivano premere, accumularsi e istintivamente entrambi si tesero per trattenerlo, per prolungare la bellezza di quei magici momenti. Sentivano ognuno la sete dell'altro e, all'unisono, si lasciarono andare e così donarono all'amante il desiderato frutto della reciproca passione. Erano come inebriati, golosi, felici di gustare il sapore l'uno dell'altro, di odorare il profumo muschiato e maschio dell'amante. Si staccarono, si alzarono a sedere e si abbracciarono, gli sguardi luminosi. "Hai un gusto buonissimo, sai?" disse Diego quasi stupito e felice. "Anche tu, amore." "E ora il mio corpo sta assimilando il tuo seme così io sarò fatto di un pezzetto di te e tu di me. Non è bello?" "Certo che è bello. Ma mica penserai di essertela cavata così, eh?" "Eh? che vuoi dire?" "Che stanotte ti aspetto lo stesso da me, intesi?" "Vengo, non aver paura. Ci pensi quanto sarà bello il giorno che abiteremo assieme?" "Non vedo l'ora." mormorò Massimo commosso e felice.
Alla seguente licenza, Diego portò di nuovo Massimo con sé nella villa dei genitori e andava ogni notte a trovare il suo amante. Il padre di Diego, chissà come e perché, doveva aver sospettato qualcosa. Così, una notte, mentre stavano facendo l'amore, sentirono bussare alla porta e la voce del padre che chiamava Diego. In fretta si rivestirono e Diego andò ad aprire. Il padre lo guardò duro e gli disse: "Ah, allora sei qui davvero!" "Certo, papà." "Cosa vuol dire: certo?" "Che io vengo tutte le notti qui da Massimo." "Chiudendo la porta a chiave." disse duro l'uomo. "È una questione di pudore, no?" "E lo dici così? Tu e lui, qui in casa mia? E non ti vergogni?" "No, papà. Io lo amo e lui ama me. Di cosa mi dovrei vergognare?" Massimo ascoltava, seduto sul bordo del letto, teso e imbarazzato ma fiero del suo Diego. Il padre non perse le staffe, non urlò, non fece scenate. Disse semplicemente: "Non mi va che due omosessuali stiano in questa casa, con la mia famiglia." Diego lo guardò dritto negli occhi e rispose: "È casa tua, papà. Se vuoi ce ne andiamo." "Lui se ne deve andare. Domattina." "Se non accetti Massimo, non accetti neppure me. E ce ne andiamo subito." disse tranquillo ma deciso Diego. "Sei maggiorenne. Fai quello che credi. Ma non in casa mia." "Certo papà. Come vuoi." "Dovrò avvertire tua madre ed i tuoi fratelli." "Come credi giusto, papà." rispose il ragazzo quieto ma sicuro di sé. Il padre non disse altro e se ne andò. Diego si girò verso Massimo: "Prepara la tua borsa, Massimo, e scendi con me. Anch'io faccio la mia, prendiamo la moto e ce ne andiamo. Subito." "Basta che vada via io." azzardò Massimo. "Scherzi? No no, assieme. Vestiti, dai, fai svelto." Massimo annuì, si vestì, prese in fretta le sue cose e le cacciò nel borsone poi con Diego scesero nella sua stanza. Anche Diego si rivestì e stava radunando le sue cose quando entrò la madre. "Diego! dimmi che non è vero?" "Che cosa, mamma?" "Hai detto quella cosa a papà solo per provocarlo, vero? Ma perché?" "No, mamma, io e Massimo ci amiamo davvero." "Siete amici, lo so, ma..." "No mamma, siamo amanti. Eravamo a letto assieme e stavamo facendo l'amore. Lo facciamo da mesi. E siamo felici assieme, ci amiamo." "Dio mio! Ma com'è possibile che tu...? Dove ho sbagliato?" "Sbagliato? No mamma, non hai sbagliato proprio niente, tu. Semplicemente io sono omosessuale. E ho avuto la fortuna di incontrare Massimo e di innamorarmi di lui e lui di me. Che c'è di sbagliato nell'amore?" "Ma Diego! Non dire queste sciocchezze! Due maschi, è anormale, no?" "No, mamma. Per noi è normale. Non abbiamo scelto noi di essere così. Lo siamo, semplicemente. Ci amiamo e vogliamo vivere assieme, mamma. È tanto difficile da capire, da accettare? A chi facciamo del male?" "Ma tesoro, siete solo due ragazzi. È solo una cosa... la vita in caserma... è stato solo uno sfogo... ma poi conoscerete una brava ragazza e capirete che è quella la vita e non... non così. È solo una... ragazzata." "No mamma, io non sono affatto attratto dalle donne. Proprio per niente. E neanche lui. E non è solo uno sfogo: noi ci amiamo e non abbiamo nessuna intenzione di rinunciare al nostro amore." "Tu dai i numeri. Tu dai i numeri! Tu non sai quello che dici. Una ragazzata, la capirei. Ma quello che dici è anormale, amorale, assurdo, sporco. Diego, per favore, da che mondo è mondo..." "Dai, mamma! Da che mondo è mondo ci sono sempre stati uomini che si sono amati fra loro, mamma. Capisco i vostri pregiudizi..." "Non sono pregiudizi! è semplice buon senso. Se anche uno fosse come dici tu, si deve reprimere. Se no, tutta la società ti sarà contro, non lo capisci?" "Certo: come tutti i nazifascisti erano contro gli ebrei." "Non dire assurdità. Che c'entrano gli ebrei?" "Molto più di quello che credi: nei campi di sterminio sopprimevano gli omosessuali proprio come gli ebrei. Lo stesso razzismo, né più né meno." "Non essere assurdo. Dare della nazista a me! Io sto cercando di aiutarti. Lascia stare quella borsa, dai!" "No mamma. Tu non mi accetti, proprio come papà. Perciò non mi resta che andarmene." "Diego non precipitare le cose. Parliamone." "Mamma, ne parleremo il giorno in cui accetterete la mia realtà sessuale e quindi che io viva con Massimo. Fino a quel giorno..." "Ma non puoi chiederci una cosa del genere! Non potremo mai accettare che tu viva con quel... quel..." "Attenta, mamma! Quello che dici di Massimo è peggio che se lo dici di me! Se tu insulti me, io ti posso perdonare, ma se ti azzardi a insultare lui, non ti perdono!" disse duro Diego. La madre lo guardò con occhi sbarrati. Poi, lentamente, disse: "Sì, è meglio che tu te ne vada, allora. Ha ragione papà." "Bene, mamma. Addio. Saluta papà. E gli altri." La madre uscì dalla stanza con un lieve fruscio della sua vestaglia di seta senza più dire una sola parola. Diego finì di raccogliere le sue cose, prese alcuni oggetti personali a cui teneva di più, alcuni documenti e chiese a Massimo di mettere alcune cose nel proprio borsone perché il suo era pieno. Quindi scesero e Diego tirò fuori dal garage la moto. Stavano per partire quando arrivò il fratello maggiore: "Diego, aspetta!" "Si?" rispose il ragazzo mettendo in folle. "Papà e mamma mi hanno detto..." "Sì, e allora?" chiese Diego in tono un po' belligerante. "Sei sicuro?" "Certo." "Credo che sia inutile che io cerchi di farti ragionare." "Sto ragionando benissimo, credimi." "Beh, la vita è tua. Hai diritto di farne quel che vuoi. Dove andrai?" "In caserma." "Sì, ma dopo?" "Non lo so ancora. Se ti interessa, ti mando il mio indirizzo." "Vuoi che ti mandi le tue cose, dopo?" "Saresti gentile." "Beh, mi dispiace, Diego. Spero che tu non abbia a pentirtene." "Io no. Spero che... che invece ve ne pentiate voi, piuttosto." "Ciao, allora." "Ciao." rispose Diego e, rimessa la marcia, disse a Massimo: "Tieniti" e partirono. Guidò fino alla stazione di Novara e si fermò: "Vediamo se c'è una camera in un albergo qui vicino. Domani spedisco la moto a Falconara e torniamo in caserma in treno. Gli ultimi giorni di licenza li passeremo lì, nella nostra stanzetta della pensione. Ti va bene?" "Certo, amore, come vuoi tu; e dopo, cosa faremo?" "Dopo naja? Non lo so. Ne parleremo. Avremo tutto il tempo. L'importante è che restiamo assieme, d'accordo?" "Sì, amore, certo. Mi dispiace per te, però..." "No, a me no. Per me sei tu la persona più importante del mondo. E subito dopo vengo io. Gli altri molto dopo. Se perdessi te sì che sarebbe terribile." "Me non mi perderai tanto facilmente, sai?" gli disse Massimo con un sorriso dolce e anche Diego finalmente sorrise. Trovarono la camera e passarono la notte in albergo. Diego aveva chiesto una matrimoniale e aveva sorriso allo sguardo lievemente sorpreso del receptionist. Arrivati in camera si erano messi subito a letto e si erano abbracciati stretti stretti. "Non mi lascerai mai, Massimo?" "No, mai, te lo giuro." "Grazie." "Ormai siamo uniti, no?" gli disse con dolcezza Massimo. "Sì, è vero. Io e tu, una cosa sola. Ti amo." "Anche io, cucciolo."
"Vedi, amore, tu non hai una vera famiglia. Ora non ce l'ho più neppure io. Ma io ho te e tu hai me: siamo fortunati dopo tutto, no?" aveva detto a Massimo. Mentre finivano il servizio militare discussero sul loro futuro. "Io voglio iscrivermi all'università. Sarei andato a farla a Milano, perciò possiamo cercarci casa a Milano, se per te va bene." "Vuoi sempre studiare filosofia?" "Certo. Ma a te va di andare a vivere a Milano?" "Per me... con te va bene in qualsiasi posto." "A Milano, se vuoi lavorare come tecnico TV, non dovresti avere problemi. Ma perché non ti rimetti a studiare? Io ho abbastanza soldi per vivere bene tutti e due. Se tu volessi..." "No, grazie, no. Non sono mai stato granché a scuola io. E poi vorrei guadagnare uno stipendio, non mi va di essere mantenuto." "Capisco. Ma vorrei che tu potessi trovare un lavoro che ti piace." "L'importante è che trovi lavoro e poi me lo farò piacere. Vedremo quando saremo a Milano." "Va bene. A me basta che tu sia contento, amore."
Diego iniziò a frequentare l'università e Massimo si mise in cerca di un lavoro. Dopo meno di un mese fu assunto in un grande magazzino di elettrodomestici come commesso e riparatore. Tutto andava bene e soprattutto, vivendo tranquilli assieme, il loro affiatamento e il loro amore si rafforzava sempre più. A poco a poco avevano anche iniziato a farsi qualche amico. Diego studiava con passione e fin dai primi esami prese buoni voti e Massimo era fiero di lui. Ma anche Diego era orgoglioso di avere Massimo come amante. La differenza di cultura o di estrazione sociale non aveva assolutamente nessun peso sul loro rapporto. I loro amici, sia etero che gay, li consideravano una coppia ideale. Questo non escludeva che a volte avessero qualche discussione un po' accesa, che si mettessero il broncio, ma erano brevi tempeste a cui seguiva rapido il sereno, perché o l'uno o l'altro andava a porgere il ramoscello d'olivo all'amante prima che finisse la giornata. Quelle occasioni di tensione, anzi, permettevano loro di conoscersi meglio, di capire i propri limiti e quelli dell'altro e di fare del proprio meglio per adattarsi l'uno all'altro. I loro amici a volte, un po' con l'aria di prenderli in giro, un po' di fare un complimento, dicevano loro che si assomigliavano sempre più. Gli studi di Diego procedevano regolarmente, Massimo si era inserito bene nel suo lavoro e quando i colleghi avevano capito che Diego era il suo amante, nessuno aveva fatto apprezzamenti né stupide battute, ma avevano accettato il fatto con molta tranquillità. Riguardo ai contatti con le loro famiglie, Massimo si limitava a uno scambio di biglietti di auguri con la sua ogni Natale e Diego a inviarli senza mai ricevere risposta. "È già qualcosa che non li rispediscano al mittente." aveva commentato una volta Diego con un misto di tristezza e di ironia, poi aveva aggiunto: "Ma forse non lo fanno solo per pigrizia."
"Non sarebbe bello, cucciolo, se si potesse fare sempre l'amore così, nudi nella natura?" "Sì, ma d'inverno ci si prenderebbe un accidente!" rispose scherzoso Diego. "Sai che ora che il tuo corpo è maturato, più maschio, mi piaci anche più che cinque anni fa?" "Anche il tuo, Massimo. È bello crescere insieme, invecchiare insieme." "Magari ogni cinque anni si può tornare qui a celebrare la nostra unione. Però ti immagini, tutti e due vecchietti, nudi, qui a fare l'amore?" "Sarà bello anche quando saremo ottantenni, ne sono sicuro." "Sì, sono d'accordo." rispose dolce Massimo. Fecero l'amore gustandosi ogni attimo, assaporandosi a vicenda, consci che, grazie al loro amore, quello era diventato un angolo del paradiso terrestre. Dopo si bagnarono e giocarono con l'acqua come due ragazzini felici, quindi si stesero al sole ad asciugarsi. "Sai, Massimo, che con te ho conosciuto la vera felicità?" gli disse in un sussurro lieto Diego, prendendogli una mano e intrecciandovi le dita. "Sì, lo so. Perché anche per me è la stessa cosa. Tu sei la mia vita, cucciolo." "Non ho paura del futuro, accanto a te." "Neanche io. Mi basta guardarti, pensarti, per sentirmi l'uomo più forte del mondo. Non mi spaventa niente, con te vicino." "Io e tu siamo una cosa sola, è come se fossimo sposati, anche se non c'è stato il rito." "Il rito lo celebriamo ogni volta che facciamo l'amore." "È vero, perché ogni volta io mi dono completamente a te e tu a me." Continuarono a parlare così, felici, sentendosi in perfetta comunione. Tornarono a Milano e ripresero la vita quotidiana, sereni. Diego stava preparando la tesi di laurea e Massimo cercava di aiutarlo sollevandolo dalle incombenze quotidiane della gestione della casa.
Morto sul colpo. Qualcuno chiamò la polizia. Portarono via il cadavere. Cercarono nei suoi documenti e trovarono l'indirizzo. Un carabiniere andò a suonare alla porta, ma Massimo era al lavoro. Si informò dai vicini e seppe dove lavorava Massimo. Andò a cercarlo sul posto di lavoro per comunicargli la notizia. Il carabiniere, non immaginando il legame che c'era fra i due giovani, pensando solo che condividessero la casa, gli disse direttamente che il signor Diego De Rossi era perito in un incidente, investito da un'automobile. Massimo si sentì il sangue defluire dal corpo. Restò immobile, pallido come cera, poi barcollò. Il carabiniere lo sostenne, un collega lo fece sedere, chiamarono il direttore. Massimo chiese, con un filo di voce, dove avevano portato Diego. Il carabiniere gli dette l'indirizzo dell'obitorio. Il direttore gli fece portare dal bar un bicchierino di liquore e gli disse che, quando si fosse sentito un po' meglio, se voleva, poteva andare. Massimo si riprese. Si sentiva vuoto, completamente vuoto, ma di nuovo padrone del proprio corpo. Si tolse il camice, infilò il giaccone e si fece portare da un taxi alla camera mortuaria dell'ospedale. Diego era stato composto su una lettiga ed era coperto da un lenzuolo. Lo scostò tremante e guardò: il suo Diego aveva un'espressione seria, ma non sofferente. Era pallido come avorio polito. E Massimo pianse tutte le sue lacrime in un lungo pianto silenzioso, accorato. Avrebbe voluto urlare ma non riusciva a emettere un solo suono. Restò là, immobile, a contemplare quasi incredulo quel volto amato su cui non brillava più una sola scintilla di vita. E pianse, pianse, pianse. Molto più tardi un'infermiera gli toccò un braccio: "Può tornare domattina, se crede..." gli disse con gentilezza. Massimo capì che era ora di uscire. Annuì. Tornò a casa. Doveva organizzare i funerali. Doveva avvertire gli amici. E la famiglia di Diego. Anche se da cinque anni non avevano avuto più contatti, andava avvertita. Era giusto. Cercò il numero di telefono e chiamò: "Sono Massimo Sellari. Il signor De Rossi?" "Sono io." "Mi scusi se la disturbo... ma Diego... un incidente..." balbettò Massimo sentendosi un nodo alla gola. Poi si fece coraggio e comunicò che Diego era morto e dove avevano portato il corpo. "Ah, ho capito." fu tutto quello che disse il padre. Massimo salutò, posò il telefono e scoppiò di nuovo a piangere, scosso da singhiozzi disperati. Trovò ancora la forza di telefonare a Riccardo, il loro più caro amico, e di dirgli quello che era accaduto. Riccardo si precipitò subito da lui. Massimo lo pregò di avvertire lui gli altri amici. Questi lo fece, poi si offrì di fermarsi a dormire lì da lui e, il giorno dopo, di aiutarlo a fare tutto il necessario per organizzare il funerale. Massimo grato accettò: da solo temeva di non avere né la forza né la testa per farlo. Si sentiva vuoto, terribilmente vuoto. Dentro di lui una voce urlava: "Diego, cucciolo, perché mi hai abbandonato? Perché non sono morto io al posto tuo? Che vivo a fare, ormai?" Il mattino dopo, accompagnato da Riccardo, tornò alla camera mortuaria. Intravide il padre e la madre di Diego che uscivano dall'ufficio del poliziotto di guardia. Cercò di avvicinarli per salutarli ma i due si allontanarono veloci, salirono in auto e se ne andarono. Massimo andò dal poliziotto. "Gli effetti personali del signor Massimo De Rossi..." "Sono appena venuti i genitori. Li ho consegnati a loro." "Ah, capisco." disse Massimo. Scese con Riccardo alla camera mortuaria. Riccardo, dopo aver sostato con Massimo accanto al corpo di Diego, chiese all'infermiere: "Mi scusi, per organizzare i funerali di Diego De Rossi..." "Sono passati i genitori e hanno incaricato una ditta di pompe funebri." Massimo che aveva sentito la risposta, disse accorato: "Dovevo venire prima... dovevo venire prima. Si stanno riappropriando di Diego, me lo stanno portando via." "Ma no, ti tolgono solo preoccupazioni." "No, lo sento. Lo hanno ignorato per anni e ora..." disse Massimo. Si girò verso il corpo di Diego e ne sfiorò il viso con una carezza. Poi scosse la testa più volte, sconsolato. L'amico gli pose una mano sul braccio, commosso e gli disse: "Vieni via, adesso, Massimo. Non puoi fare più nulla per lui, ormai." "Più nulla, vero? Più nulla! Povero cucciolo mio, ti hanno ammazzato e io..." "Via, Massimo, andiamo." "No, aspetta, voglio guardarlo ancora. Ieri mattina, quando sono uscito di casa, m'ha dato un bacio e m'ha detto: a presto, amore! Sì, a presto, cucciolo, a presto!" mormorò Massimo con voce rotta e carezzò di nuovo la guancia cerea di Diego con tenero affetto. "È ancora bello, vero?" chiese poi all'amico. "Pare che dorma." rispose questi. "No. Quando dormiva aveva un volto più sorridente. Non avrà sofferto, vero? Han detto che è morto sul colpo." "Non ha un'espressione sofferente." "È vero. Ma non sorride più, non può sorridere più, ormai." disse sconsolato Massimo. Sentiva le lacrime premergli negli occhi ma neanche queste volevano più sgorgare. Dentro di sé continuava a sentire quell'urlo che non riusciva a emettere e che gli spezzava il cuore. "M'aveva detto: a presto." mormorò ancora, disperato. "Vieni via, Massimo. Non serve a nulla che tu stia qui a torturarti." gli disse Riccardo. "Lasciamelo guardare ancora. Poi non lo vedrò mai più... mai più..." "Perché non torniamo a casa?" "Aspetta ancora un po'. Puoi informarti quando hanno fissato i funerali? Così puoi dirlo agli amici." "Va bene. Aspettami qui, allora." disse l'amico e uscì dalla camera mortuaria. Massimo carezzò una mano di Diego. Voleva piangere ma non gli uscivano le lacrime, voleva urlare ma non gli usciva la voce. Voleva abbracciarlo, ma non riusciva a muoversi. Riccardo tornò: "Domani lo porteranno a Novara. Gli faranno i funerali in cattedrale dopodomani. Poi lo seppelliranno nella tomba di famiglia." gli disse mesto. "Vedi? L'hanno ripreso loro. Me lo portano via, te l'avevo detto, io..." "Se vuoi ti accompagno a Novara. Verranno anche gli amici, penso." "No, non lo so, forse dopo; forse andrò a vedere la sua tomba. Ma il funerale... ci saranno tutti loro... la sua famiglia. L'avevano rifiutato, allora. Adesso se lo sono ripreso. Non lo volevano in casa, ma nella tomba sì. Non mi va di vederli." "Ma loro forse si aspettano di vederti al funerale." "No davvero. Cinque anni fa mi hanno ignorato, poco fa mi hanno ignorato, l'hai visto." "Forse non t'avevano visto." "No no, m'hanno visto e si sono affrettati ad andarsene." "Beh... Andiamo, ora?" "Sì, Mi riaccompagni fino a casa? Vorrei provare a dormire." Arrivati a casa Massimo infilò la chiave nella toppa per aprire: "Strano, avevo dato tre giri." mormorò aprendo; appena ebbe messo piede nell'ingresso, si trovò di fronte i genitori di Diego. "Che ci fa lei qui?" chiese il padre duro. "È... è casa mia." disse Massimo sorpreso per quella domanda. "No, si sbaglia. Questa era la casa di Diego, non la sua. Lei non ha più nulla da fare qui. Ora questa casa è nostra e noi non la vogliamo più qui. Se ne vada!" "Ma..." "Se ne vada o chiamo la polizia!" disse il padre secco. "Ma lui ha la residenza qui. Le sue cose sono qui!" disse Riccardo interponendosi. "Mi ridia le chiavi di casa e se ne vada o chiamo la polizia!" ripeté il padre a Massimo. "Ma certo, la chiami! Lei non ha diritto di..." iniziò Riccardo alterato. Ma Massimo disse amaro: "Ma che me ne frega a me? Si tengano tutto! Non hanno perso un figlio, loro, hanno guadagnato un'eredità. Se la godano, ci si ingozzino, se la mettano nel culo. Io ho perso Diego, non loro! non loro!" concluse e, lanciate le chiavi di casa con tutte le forze sul volto dell'uomo, si precipitò fuori. Riccardo disse ai due: "Ci rivedremo, comunque!" e seguì in fretta Massimo che correva giù per le scale. Lo raggiunse: "Massimo, andiamo subito da un avvocato. Non possono farti questo. Tu hai diritto almeno a prenderti le tue cose, e poi è casa tua." "Lascia perdere. Che me ne frega a me della roba? Se la mangino e gli vada per traverso." "Sono perfidi, senza cuore. Tutto quello che c'è in casa era vostro e perciò almeno la metà è tuo. E il conto in banca, ci sono anche i tuoi soldi, no?" "Sì, una parte." "Ritirali, allora, subito." "Ma che m'importa dei soldi, ormai?" "Massimo, la vita continua. Diego non avrebbe permesso una cosa del genere e perciò neanche tu la devi permettere." "Diego è morto. È finito tutto." Riccardo tacque capendo che in quel momento era inutile insistere. Poi chiese: "Che pensi di fare, ora?" "Non lo so." "Vuoi venire a casa mia?" "No grazie. Forse mi cerco una camera d'albergo, non lo so." "Ma ti serviranno dei soldi. Andiamo subito in banca, dai!" "Ma..." "Dammi retta. Qual era la vostra banca? Dove avevate il conto?" "La Cariplo, qui a pochi isolati." "Andiamo, allora." Massimo lo seguì. C'era gente. Fecero la coda in silenzio. Quando fu il suo turno disse che voleva ritirare soldi dal conto. L'impiegata batté il numero sul computer poi disse: "Mi dispiace, signor Sellari, ma il conto è stato bloccato per il decesso del titolare." "Ma ci sono anche i suoi soldi, no? Il conto è anche suo, no?" intervenne Riccardo. "No, il conto è intestato De Rossi e il signor Sellari ha solo la firma, che col decesso del titolare, non ha più valore. Se il signor Sellari può dimostrare che parte della somma è sua, il giudice può autorizzare un prelievo. Non certo la banca. È la prassi." Nonostante Massimo non volesse, Riccardo volle parlare col direttore, che confermò quanto aveva detto l'impiegata. "Mi scusi, ma quando e da chi è stato bloccato il conto?" chiese allora l'amico. "Quindici minuti fa ho ricevuto una telefonata dal padre del defunto, il signor De Rossi, con la richiesta di bloccare il conto finché non saranno svolte le pratiche ereditarie. Se il signor Sellari può dimostrare al tribunale di aver diritto a parte o tutta la somma, dopo potrà ritirarla. Non ora, mi dispiace." Uscirono. L'amico insistette con Massimo che prendesse un avvocato per tornare almeno in possesso del suo e disse che sia lui che gli amici avrebbero testimoniato che parte dei beni erano di Massimo. Ma il ragazzo non volle saperne: "No, non importa, non m'interessa: è solo roba, sono solo soldi." "Ma non puoi lasciarti mettere in mezzo a una strada così, non è giusto." "Diego è morto. Anche questo non è giusto. Aveva ventiquattro anni come me ma lui è morto." "Ma tu sei vivo. Devi pensare alla tua vita." "Sì, è vero, sono ancora vivo, purtroppo." "Massimo, capisco che tu sia distrutto per questa tragedia. Chiunque lo sarebbe. Ma devi reagire, devi..." "Per che cosa? Loro hanno perso un figlio e pensano solo ai soldi, alla roba. No, loro non l'hanno perso, l'ho perso solo io, solo io. Che vuoi che me ne importi dei soldi, della roba?" Riccardo insisté ancora ma inutilmente. "Senti, tu comunque non puoi stare così in mezzo a una strada. Tanto per cominciare ora vieni a casa mia. Sentiremo gli amici e tutti insieme qualcosa faremo. Tu hai un buon lavoro, comunque, grazie a Dio." "Ah, il lavoro... Puoi telefonare chiedendo se mi danno qualche giorno?" "Sì, certo, non preoccuparti per questo, adesso. Penso a tutto io. Vieni a casa mia." Massimo lo seguì. L'amico gli disse di stendersi sul letto e di cercare di dormire un po'. Frattanto lui si mise a preparare qualcosa da mangiare. Trovandolo con gli occhi aperti gli disse di andare in cucina a mangiare e, dopo parecchie insistenze, riuscì a fargli buttar giù qualcosa. Massimo era assente, lontano, inerte. Riccardo cercò di farlo parlare, reagire, ma inutilmente. Più tardi, mentre finalmente Massimo dormiva, Riccardo fece un giro di telefonate agli amici raccontando loro tutto quello che era accaduto. La reazione di tutti fu la stessa: dovevano aiutare Massimo a riavere le sue cose. Così decisero di riunirsi nei giorni seguenti a casa di Riccardo per parlarne con Massimo. Ma il ragazzo respinse tutte le loro proposte, continuando a ripetere come in una cantilena: "No, non voglio, non m'importa; non serve a niente." Il giorno di Natale furono in molti a invitarlo ma Massimo rimase a casa di Riccardo a letto per quasi tutta la giornata. Per tutti quei giorni Massimo avrebbe voluto disperatamente piangere, ma non c'era riuscito. Il dolore gli ottundeva tutti i sensi, gli annebbiava il cervello. Il 28 dicembre pregò uno degli amici di portarlo a Novara, al cimitero. Cercò la tomba della famiglia De Rossi e trovò la lapide col nome di Diego. Vi depose un'unica rosa rossa. Neppure lì gli riusciva di piangere. "Addio, Diego, cucciolo mio." mormorò sottovoce sfiorando con i polpastrelli il freddo marmo grigio, le lettere di bronzo del nome, le date di nascita e di morte. L'amico che l'accompagnava, profondamente commosso, pianse silenziosamente per lui. Massimo restò lì ritto, in silenzio, per alcuni minuti, poi fece un profondo sospiro, rizzò le spalle e giratosi verso l'amico, disse: "Possiamo tornare a Milano, ora." L'amico lo guardò perplesso: pareva che in Massimo fosse avvenuta come una trasformazione. Pensò che forse quell'ultimo addio aveva dato al ragazzo la forza di uscire dalla sua muta disperazione. Riaccompagnatolo a Milano, lo lasciò davanti al portone della casa di Riccardo. Massimo lo ringraziò e lo salutò. "Ci vediamo per capodanno, Massimo?" "Non lo so, forse. Anno nuovo vita nuova, dicono, no?" rispose con voce quasi lieve il ragazzo. L'amico lo guardò sorpreso e disse: "Sì, dicono così... Ci vediamo, allora." Massimo non rispose, fece un cenno di saluto e guardò l'amico allontanarsi con l'auto nel traffico. Allora si ricordò della bicicletta che Diego gli aveva regalato per il suo ultimo compleanno e si chiese se almeno quella fosse ancora nell'androne della loro casa. Prese la metro. Arrivato sotto casa entrò nell'androne. La bicicletta era ancora lì. Prese la chiave del lucchetto dal portamonete e l'aprì. La carezzò, pensando al suo Diego, la portò fuori, l'inforcò e si mise a pedalare nel traffico serale.
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