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una storia originale di Andrej Koymasky


NUMERO SPECIALE: SEI INTERVISTE INTERVISTA 2

La seconda intervista di questo numero è dedicata a un famoso disegnatore di fumetti. Come i lettori ricorderanno abbiamo avuto il piacere di pubblicare diverse storie di fumetti a soggetto gay nelle nostre pagine. I suoi hanno riscosso un grandissimo successo. Si tratta di:


ENZO FANTINI
Disegnatore di fumetti, Italia


D. Ciao, Enzo, grazie di essere venuto per questa intervista che i nostri lettori ci chiedevano da tempo. Innanzitutto una domanda professionale: perché i tuoi fumetti sono firmati E.E.&E.? Una E sei tu, Enzo, ma le altre due?

R. Mi avevi detto che volevi intervistarmi sulla mia gayezza e su come l'ho scoperta e vissuta: è tutto in quelle tre E, perciò, se te ne spiego ora il significato, la tua intervista va a monte...

D. Sì, hai ragione. Allora cominciamo da un'altra parte. Tu sei probabilmente, assieme a Tom of Finland, il disegnatore di fumetti gay più conosciuto al mondo...

R. Un grazie e un precisiamo. Grazie per mettermi assieme a quel grande disegnatore che è stato Tom. Non me lo merito. Ma ora, la precisazione: io non sono un disegnatore di fumetti gay: io sono un disegnatore di fumetti e sono gay. Che poi fra le nostre storie ci siano anche storie gay, e che per esempio la tua rivista pubblichi solo queste, è un altro discorso. La E.E.&E. produce ben dieci serie di fumetti (dieci storie diverse, con seguito) oltre a circa altre quaranta storie singole ogni anno. Di queste circa il 10% è a soggetto esclusivamente gay.

D. D'accordo, hai ragione. Tornando a Tom, il tuo stile è profondamente diverso dal suo...

R. Sì. Tom aveva una visione... onirica della gayezza, io realistica. Non tanto nelle storie in sé, che a volte sono un po' sul piano della fiaba, quanto nel modo di raffigurarle. Ho una grande, sincera ammirazione per i disegni di Tom, ma a me piace rappresentare personaggi in cui ognuno si può riconoscere.

D. Ma i tuoi personaggi hanno tutti bei corpi, bei volti.

R. Sì, certo, ma veri. Anche al cinema, gli eroi sono belli, no? Con poche eccezioni, che però ci sono anche nei miei fumetti.

D. Ti riferisci a Mark Trevis?

R. A lui e a altri. Ma nessuno, per quanto brutto, si riconoscerebbe in un personaggio brutto: ognuno ha un'immagine ideale del proprio io. Però, anche se abbellito, ognuno può riconoscersi in un corpo non da mister universo e con un pene di dimensioni medie. Quelli di Tom sono così grandi, quando sfoderati, che ci si chiede dove li tenesse il tipo prima di aprirsi la patta. Il che va bene, appunto perché quella di Tom è una dimensione onirica. Ma non è quello che interessava me.

D. Veniamo ora alla tua vita...

R. Bene. Sono figlio di N.N. Appena nato sono stato mollato in un orfanotrofio. Mollato... non implica nessun giudizio morale sui miei genitori: avranno certamente avuto i loro problemi. Non so chi siano, se sappiano che sono il loro figlio, se siano ancora vivi. Non li giudico. Comunque, io sono cresciuto in orfanotrofio. Niente di traumatico: le suore erano buone, simpatiche e ci allevavano bene. E con affetto. Niente da dire, perciò. Poi, avevo undici anni, sono stato adottato da una famiglia: lui trentaquattro anni, lei trenta, un figlio di quindici. Media borghesia, bella casa, donna di servizio ogni mattina. Una stanza tutta per me, bei vestiti, le migliori scuole. Poiché i tre sono ancora tutti vivi e vegeti, non posso dire i loro nomi, quindi inventiamoli: lui Aldo, lei Betty e il ragazzo Carlo. Preciso, il mio cognome non è quello della famiglia che mi ha adottato.

Primi giorni: io timido, ma sto bene. Loro gentili, carini. Aldo il giorno è in ditta: lo si vede solo la sera dalle diciannove in poi. Ma sta in famiglia, parla, si interessa della moglie, del figlio e, ora, anche di me. Betty la mattina sta in casa, perché dirige i lavori della donna di servizio, a parte qualche volta che esce per andare dal parrucchiere o per qualche acquisto particolare. Poi, dopo pranzo, esce tutti i giorni, dalle due alle diciotto e trenta perché con altre signore ha organizzato un centro di cultura femminile. Carlo è iscritto al liceo classico: esce ogni mattina alle otto e rientra ogni giorno all'una, meno il mercoledì che ha ginnastica e rientra alle tre. Quanto a me, faccio la prima media ed ho praticamente gli stessi orari di Carlo e la mia scuola media è accanto al suo liceo: la migliore della città, gestita dai gesuiti. Io rientro alle tre il martedì, sempre per ginnastica. Quindi, all'una, si pranza, Betty, Carlo e io. Si cena alle diciannove e trenta. Io vado a letto alle ventidue e trenta e Carlo, che è più grande, alle ventitré e trenta. I due, a mezzanotte e trenta...

D. Ma cos'è, una casa regolata dall'orologio?

R. Sì, hai proprio centrato il problema. Infatti non è altro che l'orologio che mi ha fregato. Ma andiamo per ordine. Carlo è il ragazzino modello, l'orgoglio di mamma e papà, il pupillo dei padri gesuiti. Un ragazzo di chiesa, come d'altronde i suoi genitori. La domenica serve sempre messa ed è iscritto all'azione cattolica. Prende ottimi voti a scuola, ha molti amici. Aldo fa parte dell'Associazione Genitori Educatori Scuole Cattoliche Italiane e ne è il rappresentante regionale. Stranamente Betty non fa parte di nessuna associazione cattolica. Neanche io, comunque.

D. Ha qualcosa a che fare tutto questo sottolineare il cattolicesimo della tua famiglia adottiva col fatto che sei gay? La chiesa cattolica non è mai stata tenera con noi, almeno ufficialmente.

R. No, non direttamente. Ma lasciami procedere per ordine, tu mi anticipi sempre la trama... (ride)

Dunque, il pomeriggio, dal lunedì al venerdì, dalle due alle sei e mezza, Carlo e io siamo sempre soli in casa, a parte il martedì e il mercoledì quando arriviamo a casa alle tre. Studiamo, si capisce. Con un intervallo autorizzato (e rispettato) fra le tre e tre quarti e le quattro e tre quarti, per la merenda e per i giochi. Carlo non sgarra, figurati io, l'ultimo arrivato. Mi adeguo subito al ritmo. Mi sta bene: mi piace abbastanza studiare e, da sempre, disegnare.

Sono nella mia nuova famiglia da un mese circa. Pomeriggio. Intervallo. Merenda. Giochi.

Carlo mi dice: "Oggi, Enzo, ti voglio insegnare un gioco nuovo. Vedrai che ti piacerà."

"Che cosa è?" chiedo io interessato.

"Vieni su, in stanza giochi." Lo seguo. Lui dice: "Giochiamo agli indiani."

"Va bene."

"Qui ho i costumi. Spogliamoci e indossiamoli."

Mi piace. Sono belli i costumi. Io rimango in mutande e sto infilando le braghe di finta pelle, quando Carlo si mette a ridere. Lo guardo stupito.

"Gli indiani mica portavano le mutandine, no? Levatele!"

"No, mi vergogno." dico io.

"Non essere stupido. Che c'è da vergognarci fra noi? Siamo fratelli, ormai, no?" dice e infatti lui se le sfila e resta nudo.

Io mi vergogno persino a guardarlo, ma non so cosa obiettare e mi levo le mutandine, infilo i calzoni (sai, quelli con le braghe separate) e metto sopra il rettangolo che copre i genitali e il sedere. Superato l'imbarazzo, ora, aspetto che mi spieghi come si gioca. Carlo, nel suo costume, è pronto. Imbastisce una storia: siamo di due tribù nemiche, lui mi sfida, mi vince, mi lega al palo della tortura, ma poi si impietosisce e mi lascia andare e diventiamo amici. Mi piace. Interpretiamo le parti. Per farla breve, fino a quando mi lega come un salame, mi diverto. Ma a questo punto, Carlo mi leva il rettangolo di tela che mi copriva davanti e dietro.

"Che fai?" dico io allarmato, arrossendo.

"Adesso ti devo torturare, no?" dice lui tranquillo.

E comincia a masturbarmi! In breve, poi si toglie il grembiule, mi gira, e me lo mette in culo. Mi fa male, grido, piango, ma che fare? In casa non c'è nessuno, e io sono legato a dovere. Mi fotte. Io a poco a poco smetto di piangere: tanto non serve a niente. Viene. Finalmente si toglie.

"Sei stato un guerriero coraggioso, mi piaci." dice lui girandomi di nuovo.

"Mi hai fatto male!" protesto io arrabbiato e pieno di vergogna.

"Per forza, se no che tortura era."

"Ma non era un gioco?"

"Infatti, mica ti ho frustato o messo chiodi sotto le unghie no?"

"Ma m'hai messo il tuo coso dentro e faceva male."

"Sei ferito? Sei morto? No. Mica ti metterai a fare il piagnisteo, adesso, per un gioco."

"Ma faceva male..."

"Eh, passerà."

"Slegami..."

"Dopo. Prima devi promettermi eterna fedeltà, no? Te lo sei scordato? Dopo ti slego e dopo facciamo il rito indiano dell'amicizia."

"Sì, ti prometto eterna fedeltà. Slegami, dai!"

"Lo giuri sulla tua testa?"

"Sì..." dico io che voglio essere slegato.

E mi slega. Sto per rimettermi il grembiule per coprirmi e lui dice: "No, non ancora, aspetta: prima il rito indiano dell'amicizia: io per te e tu per me."

"Va bene, io per te e tu per me."

"Ma non così: mentre diciamo queste parole dobbiamo mettere la mano sul pisello dell'altro, così..."

Alla fine ci rivestiamo. Lui mi fa un sacco di lodi, che so giocare bene, che sono proprio bravo, che ci divertiremo ancora così...

"Ma a me mica m'è piaciuto, questo gioco." protesto io.

"Solo perché è la prima volta. Vedrai che ti abituerai e ti piacerà."

"No, io non voglio più farlo..."

Carlo cambia faccia, mi aggredisce verbalmente: "Come? Noi ti manteniamo, ti diamo da mangiare, dormire, vestire, spendiamo un sacco di soldi per te e tu fai così? Lo dirò a papà e mamma e vedrai... papà usa di rado la cinghia, ma stavolta... allora sì che ti uscirà il sangue!"

Sono terrorizzato, gli credo. Conclusione: ogni pomeriggio, fra le quattro e le quattro e mezza, dal lunedì al venerdì, Carlo mi incula. E senza più bisogno dei costumi da indiano: mi fa spogliare in salotto, mi fa mettere a culo in su sulla poltrona e mi fotte. Però ha ragione lui: a poco a poco mi abituo, non mi fa più male. Come la prendo io? Niente: è un po' come pagare la pigione. Preferirei farne a meno, ma...

D. Un'iniziazione piuttosto brusca e spiacevole.

R. Sì, ma poi la routine, e diventa solo noiosa.

D. Non provavi piacere?

R. Avevo undici anni. Cominciai a provare piacere quando arrivai alla pubertà, verso i tredici anni.

D. Cioè Carlo ti sodomizzò per due anni!

R. No: per tre anni, finché lui ne ebbe diciotto e io quattordici. A quel punto odiavo Carlo, però mi piaceva sentirmi il suo arnese dentro... buffo no?

D. E come mai Carlo smise?

R. In realtà non smise. Avevo quattordici anni, Betty era andata in crociera con le madame della sua associazione. A casa c'eravamo solo Aldo, Carlo e io. Una notte, mi sento svegliare. Era Aldo. Insonnolito, gli chiedo che cosa c'era.

"Parla piano, non svegliamo Carlo. Non riuscivo a dormire. Così, ho pensato di stare un po' con te. Ma qui Carlo ci può sentire. Vieni di là."

Mi porta nella sua camera da letto. Mi fa sdraiare accanto a sé. Parla. Mi dice che gli piaccio tanto. Mi carezza. Mi dice che si sente tanto solo. E se lo tira fuori dal pigiama: mi pare enorme. Oh dio, mi dico, anche il padre, ora? Ma lui non vuole il mio culetto, no. Lui mi chiede di succhiarglielo. E quando, dopo un tempo interminabile, finalmente sta per venire, mi ordina di berlo " se no si sporca il letto." e il suo tono non ammette repliche.

D. Anche il padre!

R. Già. E anche la notte dopo e quella dopo ancora. Così, pomeriggio il figlio e notte il padre. E allora decido di fuggire di casa. Il momento migliore è il mercoledì dopo pranzo: fra le due e le tre. Così, uscita Betty che era tornata nel frattempo dalla crociera, prima che rientri Carlo, metto nella cartella di scuola un cambio di vestiti, i miei miseri risparmi (ci davano il mensile, i genitori modello) qualcosa da mangiare e vado via. Di corsa alla stazione. Compro un biglietto, prendo il treno. Fuggo a Milano: la città è grande, c'è un sacco di gente, non mi troveranno.

D. Ma cosa pensavi di fare, a Milano? Eri minorenne, senza esperienza, senza soldi, senza casa, amici...

R. Ero incosciente. Avevo solo pensato a fuggire. Girai tutto il giorno: mi piaceva Milano. Mangiucchiai. Poi, la notte, andai a dormire al parco vicino al Castello. Il tempo era buono, per mia fortuna. Giorno dopo, come il giorno prima. A notte, di nuovo al parco pensando di dormire dove avevo dormito il giorno prima e dove avevo lasciato uno scatolone di cartone che avevo usato come materasso. Non c'è più. Decido di andare a cercarne un altro. Mentre giro, incontro un giovanotto. Mi saluta. Rispondo.

"Come ti chiami?"

"Renzo" dico io.

"Che fai di bello?"

"Niente..."

"Aspetti qualcuno?"

"No..."

"Allora, possiamo parlare un po'... Posso offrirti qualcosa?

"Grazie."

Ho un po' fame e quel giovanotto mi sembra gentile. Mi porta in un bar. Mi osserva mentre mangio il panino che gli ho chiesto.

"Hai fame, eh?" dice lui. Annuisco. "Dove abiti?"

"Vicino alla stazione." mentisco io.

Bene; usciamo, parliamo.

Lui dice: "Vieni in macchina, facciamo un giro."

Perché no, mi dico. Mi piace. Lui comincia uno strano discorso, un lungo giro di parole, e alla fine dice: "Mi piaci molto. Quanti anni hai?"

"Sedici." mentisco io.

"Bene..." dice lui. "Perché non facciamo un salto a casa mia? Ti aspettano, i tuoi?"

"No..." dico io.

A casa sua. Altre parole, complimenti, poi con fare amichevole, un braccio attorno alle spalle, poi una mano sulla gamba... Finché capisco dove vuole arrivare. Mi è simpatico, lo lascio fare. Con lui, penso dentro di me, posso anche farle quelle cose... Dopo poco siamo nel suo letto. Nudi. Mi carezza, mi bacia: è molto gradevole. Mi piace. Così, senza che lui me lo chieda, prima gli faccio quello che mi chiedeva sempre Aldo, poi mi lascio fare quel che mi faceva sempre Carlo. E mi piace da morire. È delicato, tenero. E mi fa godere almeno quanto gode lui.

Poi mi chiede: "Vuoi che ti accompagni a casa?"

Io gli dico: "Lasciami dormire qui con te. Ti ho detto una bugia, non sto di casa qui a Milano. Posso non tornare a casa, stare fuori stanotte."

Mi lascia dormire con lui.

La mattina dopo mi sveglia, mi fa fare la doccia, mi prepara un'abbondante colazione, poi mi dice: "Io devo andare al lavoro... possiamo vederci stasera?"

"Sì, certo. Dove? A che ora?" chiedo io felice e contento.

Ci ritroviamo la sera. Passo di nuovo la notte con lui. Nuovo appuntamento. Mi piace sempre più. Quel giovanotto sì che sa fare l'amore. Non mi sento usato, da lui. Penso che voglio restare per sempre con lui.

Ci incontriamo per la terza volta: mi fa salire in macchina, ma non mi porta a casa sua. Mi porta fuori. Si ferma per la strada, in campagna, sotto un solitario lampione. Non capisco.

Mi spiega: "Tu non ti chiami Renzo, ma Enzo, non hai sedici anni ma quattordici e mezzo..."

Mi prende un colpo: come ha fatto a scoprire così le mie bugie? Ma il peggio deve ancora venire: sa che sono fuggito di casa, che i miei mi cercano.

"Come fai a sapere tutte queste cose?" chiedo fra lo stupito e l'impaurito.

"Vedi, io faccio il barista proprio davanti alla centrale di polizia. C'è la tua foto. I tuoi ti stanno cercando..."

Allora gli racconto tutta la mia storia e lo prego di non portarmi alla polizia, di non farmi tornare in quella casa.

"Con te è diverso, con te mi piace. Ma non voglio tornare là. Ti prego. Fammi restare con te. Ti prego..."

Lui tace a lungo, poi dice: "Va bene, non ti porto alla polizia. Ma non posso tenerti con me..."

"Perché? Dicevi che ti piaccio..."

"E molto. Ma tu sei minorenne. La polizia ti cerca. E se scoprono che io ho avuto rapporti con te, che hai meno di sedici anni, io sono fregato. Perciò, ora ti riaccompagno in città, se vuoi, ma non dobbiamo più vederci. E se per caso ti prendessero, devi giurarmi che non parlerai assolutamente di me..."

Sono triste. Ma glielo giuro. Prima di lasciarlo voglio fare di nuovo l'amore con lui, ma lui non vuole.

"Credevo che davvero tu avessi sedici anni." si scusa.

Mi lascia alla stazione. Lo vedo andare via. Ho una gran voglia di piangere...

D. Quindi, si può dire che è grazie a questo incontro che hai capito di essere gay.

R. Non esattamente. Da una parte, se parliamo di piacere fisico nel rapporto con un maschio, già lo avevo provato con Carlo. Dall'altra, se intendi la coscienza di una appartenenza, allora non sapevo neppure che esistesse la parola gay e tanto meno tutta la problematica connessa con questa parola.

D. Eppure, se non altro dai compagni di scuola, avrai certo sentito usare la parola frocio e lo scherno con cui è usata...

R. Sì certo, anche se dicevano finocchio... ma era solo un termine, come "ganzo": si diceva quello è un ganzo e lo si ammirava, ma non esisteva la categoria dei ganzi... almeno, così è come l'avevo percepito io. Piuttosto si può dire che quella volta fu la prima in cui sentii di essermi innamorato. Quel giovanotto, che doveva avere sui venticinque anni, mi aveva dato, oltre a un notevole piacere fisico, affetto e io ne avevo un bisogno incredibile e mi ci sarei voluto aggrappare.

D. Capisco. Quindi, assieme al tuo primo innamoramento, la tua prima delusione...

R. Già. Ma dove eravamo rimasti? Ah, io sono alla stazione Centrale. Il giovanotto (sai che non ne ricordo il nome?) quando mi aveva lasciato, mi aveva voluto dare dei soldi. Era ormai notte. Gironzolo senza sapere che fare. Un ragazzo di due o tre anni più grande di me, l'età di Carlo, dopo avermi visto passare tre o quattro volte, mi ferma, attacca bottone. Chi sono, cosa faccio, che cerco... Istintivamente sento che posso fidarmi di lui e gli racconto a grandi linee la mia storia. È una marchetta. Mi dice: per mantenerti, mettiti a battere. Per i primi tempi puoi venire a dormire da me. Mi spiega come si fa a battere, quali sono le tariffe correnti, dove mettermi (ognuno lì ha più o meno un suo posto fisso) e mi dà appuntamento fra l'una e le due per portarmi a casa sua. Così inizio a fare marchette. A dire il vero le faccio per pochi mesi. In quei mesi vivo a casa di Gino, quella marchetta, e contribuisco alle spese. È simpatico Gino. Lui fa il mestiere più o meno dalla mia età, anche lui è scappato di casa. Ma ora è maggiorenne, non ha più problemi di essere beccato e rispedito in famiglia.

A quindici anni conosco Dario: gli piaccio, mi piace. Dario ha venticinque anni, è disegnatore di fumetti, vive da solo. Dopo un po' di volte che ci vediamo, mi propone di andare a vivere con lui. Accetto subito: Dario mi affascina, sia come personalità, che per quello che fa, che per come fa l'amore con me. E mi innamoro di lui. Dirai che ho l'innamoramento facile... (ride). All'inizio va tutto bene e, grazie a lui, riprendo a disegnare e imparo la tecnica del fumetto. Quindi gli devo molto. Lui mi mantiene quindi non ho più bisogno di fare marchette. Io in cambio gli faccio le pulizie di casa, la spesa, il bucato, da mangiare: mi piace l'idea di prendermi cura di lui. Ma per Dario io sono solo il ragazzo tutto fare: nel tutto è compreso anche il sesso. E lui ogni tanto arriva a casa con un altro ragazzo, si chiudono in camera sua, fanno l'amore. E io, nella mia cameretta, mi sento geloso da morire. Che bisogno ha di quelli? Ci sono io, no? E non è che non gli piace come fa l'amore con me, come faccio l'amore con lui. Cerco di farglielo capire, ma lui ride e dice che gli piaccio, certo, ma che lui non può mangiare solo la solita minestra: io sono il piatto base, ma ha bisogno di altri piatti di contorno... o così, o è meglio che mi cerchi un'altra sistemazione. Me lo dice chiaro, senza litigare, quasi con dolcezza, ma chiaro e tondo. Decido di restare con lui, di farmene una ragione.

Finché un giorno arriva un suo amico a cercarlo: io conosco i suoi amici, ma questo è la prima volta che lo vedo. Lo faccio entrare e gli dico di aspettarlo. Chiacchieriamo. È molto simpatico. Si chiama Edoardo, ha tre anni più di me, cioè venti. Dopo un po' mi chiede se sono il ragazzo di Dario.

"Non lo so..." rispondo io.

Si mette a ridere, mi chiede che cosa vuol dire. Gli spiego la mia situazione. Dario tarda e la nostra chiacchierata prosegue. Gli racconto la mia storia. Ascolta attento, partecipe... sento il suo calore umano. E sento di piacergli. Arriva Dario. Si chiacchiera in tre. Edoardo si ferma a cena con noi. E sento che Edoardo mi piace.

D. Un nuovo innamoramento?

R. Sì, ma non il colpo di fulmine. Graduale. Lui torna, ci vediamo di nuovo. E capisco che torna anche per me. Mi piace sempre di più, ma anche io a lui. E un pomeriggio viene: sa che Dario è occupato fino a sera tardi. È venuto per me. Gli dico che mi piace, gli faccio capire che lo desidero. Facciamo l'amore. Mi sembra di stare in paradiso. Non sono mai stato bene con nessuno come con lui: è caldo, appassionato, tenero, forte... Torna altre volte, quando sa che Dario non c'è e rifacciamo l'amore e ci piaciamo sempre più. Non mi sento in colpa con Dario: lui non fa anche peggio? Io in fondo è la prima volta che lo tradisco, e solo con uno, non con tanti.

Un giorno Edoardo mi chiede di lasciare Dario, di diventare il suo ragazzo. È innamorato di me. Mi sento emozionato: anche io lo sono di lui. Ma, gli faccio presente, prima dovrei trovarmi un lavoro, non sono in grado di mantenermi da solo.

Lui mi dice: sono ricco, davvero. Non c'è nessun problema. Il lavoro lo cercherai quando sarai maggiorenne, se vorrai. Per ora, lascia che sia io a pensare a te. Edoardo vive ancora in famiglia. I suoi sanno che è gay, ma non potrebbe portarmi a casa sua. Decide di trovare un pied-à-terre per me. Quando l'ha trovato, lascio Dario e mi trasferisco. Lui porta lì i suoi libri dell'università così ci viene a studiare e passiamo ore assieme, non solo per fare l'amore. Io, per passare il tempo, mi rimetto a disegnare fumetti. Edoardo li vede e li trova belli. Mi propone di iscrivermi a un corso privato di disegno anatomico, così posso migliorare. Con Edoardo sto d'incanto: è molto intelligente, buono, premuroso. Non mi fa mancare niente. Mi ama.

Edoardo non è una gran bellezza: cioè, è anche bello, sì, ma più che bello è sensuale. E, nonostante di fatto mi mantenga, non mi fa sentire un mantenuto. Il nostro è un amore tranquillo, ma non per questo meno forte. Edoardo è un tipo tranquillo.

Quando compio diciotto anni, dà un party in mio onore: lo chiama la "festa della liberazione" infatti ormai non devo più temere di essere trovato dalla polizia. Ci sono tutti i suoi (nostri) amici. Anche Dario, infatti sono rimasto in buoni rapporti con lui.

In questa occasione Dario vede i miei fumetti, i progressi che ho fatto e li trova belli. Mi propone di presentarmi al suo editore. Così ho il mio primo lavoro. Edoardo è fiero di me. Mi spinge a fare sempre meglio, sempre di più. Mi trova altri insegnanti di grafica. Divento davvero bravo. Vendo bene i miei fumetti. Lo stesso Dario riconosce che l'ho superato.

Comincio a vendere i miei fumetti anche all'estero, a guadagnare bene. Con Edoardo decidiamo di prenderci un appartamento vero e proprio; lui decide di lasciare la famiglia e di venire a vivere con me. Sono felice. Una bella casa, un lavoro che amo, un amante delizioso. Mi sento realizzato.

Quando ho ventuno anni, il colpo di fortuna: da Los Angeles mi chiedono di fare una personale dei miei fumetti, in grande stile. Accetto. Così, assieme a Edoardo, andiamo in America per preparare la mia mostra. Io sono molto preso dall'allestimento, dai contatti, da mille cose. Edoardo ne approfitta per andare a visitare la West Coast che non conosce. L'organizzazione della mostra mi assegna un ragazzo come assistente anche per i problemi di lingua (allora non parlavo inglese): si chiama Everett, ha diciannove anni e parla piuttosto bene l'italiano, che ha studiato a scuola.

Everett (Evy) è gay. Ed è un ragazzo di una bellezza incredibile: il prototipo dei miei eroi dei fumetti. Passiamo assieme giornate intere, preparando tutto per il vernissage. Si sta molto bene assieme: è molto simpatico e c'è una forte intesa. Ogni sera lui mi riaccompagna in albergo, sale da me e facciamo i programmi per il giorno dopo... e una sera accade. Lui sa che sto con Edoardo, non si sarebbe mai azzardato a fare il primo passo. Sono io a farlo: mi piace troppo, quel ragazzo. Per me, in fondo, è solo un'avventura, penso... ma oltremodo piacevole. Anche a letto, è una bomba.

Dopo quella prima volta la cosa si ripete, con enorme piacere reciproco e io mi sento sempre più attratto da lui. E sono turbato: io amo Edoardo, lo amo davvero, ma Evy mi piace da morire.

Quando Edoardo torna, sento che devo parlargliene. Lui è splendido, dolcissimo. Mi dice che mi capisce. Per quel poco che conosce Evy, lo trova un ragazzo delizioso. Mi dice che non è geloso, se è vero che continuo ad amarlo... Edoardo riparte. Certo che lo amo, ma mi accorgo che la cosa con Evy sta diventando sempre più seria. Anche perché sento che lui si sta innamorando di me. Perciò parlo con Evy. Gli dico che forse è meglio che si smetta di fare l'amore. È addolorato, mi chiede perché.

"Perché io non posso e non voglio lasciare Edoardo, lo amo. Ma noi due ci stiamo innamorando. Si creerebbe una situazione insostenibile. E poi, dopodomani, il vernissage. Cioè, fra dieci giorni io torno in Italia. Comunque dovrebbe finire."

"Portami in Italia con te..." dice lui, "io sono innamorato di te, non posso rinunciare..."

"Ma io non posso lasciare Edoardo."

"Non ti ho mica chiesto questo." dice lui.

Mi sento perso, quasi intrappolato, non so più che fare: non voglio rinunciare a Edoardo, vorrei non rinunciare a Evy. Quella sera torna Edoardo e gli parlo di nuovo.

Lui non sa cosa dirmi, cosa consigliarmi: "Sono parte in causa, capisci? Non voglio perderti, ma non voglio neppure farti essere triste."

Evy, inaspettatamente, torna in albergo e sale da noi. Vuole parlare con Edoardo. È una strana conversazione a tre. Stiamo su tutta la notte.

A un certo punto Evy dice ad Edoardo: "Tu mi piaci e credo di piacerti anche io."

"È vero." dice lui.

"Allora... perché non facciamo l'amore in tre?"

Io lo guardo sbalordito, dico che non è possibile. Edoardo sembra incerto. Discutiamo ancora. E finisco per cedere. È l'alba, quando ci troviamo a letto tutti e tre e facciamo l'amore. Pensavo fosse imbarazzante, che si creassero tensioni, che... e invece è qualcosa di incredibilmente bello, per tutti e tre. C'è una speciale armonia, un naturale fondersi: è bello, e non solo per me, avere due persone che ti amano contemporaneamente. Che ti amano, ho detto, non che fanno l'amore. Sentivo l'amore di Edoardo e di Evy, ma anche che fra loro due stava nascendo qualcosa.

Quando alla fine, intrecciati sul letto, ci abbandoniamo al relax del post-orgasmo, Edoardo sussurra: "È stato meraviglioso."

"Vero?" dice Evy raggiante.

Sì, lo è stato. Anche vedere Edoardo ed Evy scambiarsi effusioni, invece di ingelosirmi o di farmi sentire escluso, mi dà un senso inaspettato di gioia, di tenerezza. Così è per gli altri due.

In quegli ultimi giorni Evy resta con noi, giorno e notte. E rifacciamo l'amore in tre e ogni volta è più bello, se possibile. E anche fra Edoardo ed Evy nasce un sentimento forte... Così, quando è ora di tornare in Italia, diciamo a Evy che lo aspettiamo: di fare i bagagli, chiedere il visto e venire a Milano. È raggiante.

Torniamo a casa. E sentiamo che Evy ci manca, a tutti e due. Arriva. È una festa. Inizia la vita a tre.

Evy si rivela un ottimo scrittore di trame per i miei fumetti: le scrive in inglese e poi le traduce con Edoardo in italiano. Edoardo allora ha l'idea: lui ci può fare da manager, io disegno, Evy crea le storie: fondiamo così la E.E.&E. Il mercato anglofono è nostro: abbiamo un successo incredibile.

Ecco, ora ho risposto anche alla tua prima domanda...

D. Da quanti anni siete assieme, voi tre?

R. Fai il conto, ora io ho ventisette anni, Evy venticinque e Edoardo trenta: sono sei anni circa.

D. Nessun problema, in questi sei anni, nel vostro rapporto a tre? Non deve essere facile...

R. Al contrario. Problemi ci sono, è naturale, come in qualsiasi ménage. Ma ogni volta il terzo si interpone, fa da cuscinetto, smorza i toni, concilia... e tutto va a posto. Perché ci amiamo, davvero, tutti e tre. Vedi, inoltre, se in una coppia uno dei due non si sente di fare l'amore, e a volte capita, l'altro, per quanto possa accettare, si sente... escluso, frustrato. Con noi non succede. Se a uno di noi non andasse di fare l'amore, gli altri due lo possono fare tranquillamente.

D. Quindi tu sei un fautore del rapporto a tre...

R. No. Dico solo che ogni rapporto è unico e ha il proprio equilibrio. Noi abbiamo trovato il nostro. Funziona perfettamente.

D. Chi prende le decisioni fondamentali?

R. Tutti e tre assieme. E anche questo funziona: vedi, se in una coppia i due hanno pareri opposti, o si litiga o uno dei due deve cedere, ma in fondo non lo trova giusto, specialmente se ha l'impressione di dover cedere sempre lui. In tre, c'è naturalmente sempre una maggioranza: la decisione è presa in modo democratico, senza rinunce. Ma soprattutto, perché noi tre ci amiamo davvero. Non si tratta di una società per azioni... (ride)

D. Grazie, Enzo, per averci raccontato la tua storia. Ma ora passiamo a domande più professionali. Quanto c'è, nei tuoi fumetti, di vissuto personale?

R. A livello di storia, niente, anche perché le storie le pensiamo tutti e tre assieme, le scrive Evy e le illustro io. A livello di disegno, c'è tutta la mia visione, la mia personalità.

D. Nel racconto della tua vita non hai mai usato parole o descrizioni crude, mentre i tuoi disegni sono espliciti, realistici. Come mai questa contraddizione?

R. Non ci vedo alcuna contraddizione: quando tu mastichi un cibo, lo frantumi con i denti, lo insalivi, lo rigiri con la lingua, lo deglutisci... ma se devi descriverlo a parole, di solito dici: ho mangiato quel cibo. Chi ti ascolta lo riempie dei significati esatti, consciamente o inconsciamente a suo piacere. Il ruolo della parola e del disegno, voglio dire, è diverso. Va bene, faccio un esempio diverso: vedo dalla tua espressione che questo non ti ha convinto: se tu guardi due che fanno l'amore, vedi, per esempio, che uno dei due lecca il membro all'altro, lo fa scivolare fra le labbra, lo succhia, muove la testa su e giù e pensi: quello sta facendo una pompa a quell'altro. Ciò che vedi e ciò che verbalizzi dentro di te, sono due cose diverse. È più chiaro, adesso?

D. Sì, ho capito che cosa vuoi dire. Un'altra domanda: mentre tu disegni, quando rappresenti certe scene, ti ecciti?

R. (ride) A volte sì. Non sempre: è mestiere. Un po' come il medico: a volte soffre per la sofferenza del paziente, ma non sempre, per fortuna, o non potrebbe fare il medico. Ci deve essere un certo distacco professionale.

D. Un'ultima domanda Enzo: per rappresentare dei nudi (o non) maschili così perfetti eppure non stereotipati, così individuali, a chi ti ispiri? Hai dei modelli in carne ed ossa?

R. Ho una collezione incredibile di foto di nudi maschili. Quando si crea un nuovo personaggio, vedo quale dei modelli delle foto mi ispira di più, quindi inizio a disegnarlo in varie posizioni, prendendo spunto dalla foto per i suoi attributi fisici. Se vedo che mi viene bene, la foto iniziale non ha più importanza: ormai il personaggio vive da solo. Ma la foto iniziale mi dà le coordinate per il corpo di quel personaggio.

D. Bene, con questo concludiamo questa interessante intervista. Grazie mille, Enzo, da parte di tutti i nostri lettori.


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