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una storia originale di Andrej Koymasky


L'ANIMA NEL TELEFONINO CAPITOLO 10 - MARCUS

"Comunque, mi pare, nelle vite che mi hai raccontato tu hai sempre avuto felicità, amore, amanti eccezionali..."

"Credevo che non ti interessassero le altre. Ma se vuoi, ti posso raccontare di quando ero Marcus, un gallo-romano..."

"Di che periodo?"

"Nasco nel 392 e muoio nel 411 a diciott'anni. Nasco in una villa della Sequania, una grande villa rurale che si sta urbanizzando. A volte ci sono scorrerie di barbari, ma sono piccoli gruppi e la villa riesce a difendersi con poche perdite, anche perché quelli cercano prede facili. Ho tredici anni, il mio amico Valerius, di poco più grande di me, mi sorprende che mi masturbo. Mi vergogno da matti, perché è il mio migliore amico, ma lui sorride, mi dice che lo fanno tutti e che non devo vergognarmi affatto.

Per convincermi, si mette a farlo anche lui accanto a me. Lo guardo con invidia: lui ce l'ha più grosso del mio. Gli chiedo se posso toccarlo, lui dice di sì, anzi, mi propone di masturbarci a vicenda. Mi piace toccarlo, sentirmi toccare: è molto più divertente che da soli. Così, pochi giorni dopo, quando mi propone di farlo di nuovo, accetto subito. Allora lui, comincia a toccarmi, a carezzarmi. Lo imito. Mi piace. Quando lui mi bacia, è ancora più bello. È un crescendo, giorno dopo giorno, finché cominciamo a baciarci anche per il corpo, poi anche lì... e il passo per arrivare a succhiarcelo l'un l'altro è breve, ma soprattutto, molto piacevole.

Non ci penetriamo: potrà sembrarti strano, ma non sappiamo neppure che si possa fare, nessuno ci ha insegnato, nessuno ci ha fatto scoprire quella possibilità: stiamo scoprendo la sessualità da soli, passo a passo..."

"Non c'erano gay nel vostro paese?"

"Probabilmente sì, il solito dieci per cento circa, penso, solo che noi due non ne abbiamo incontrati. Così, facciamo l'amore come ci viene di farlo, in modo molto dolce. La nostra amicizia si rafforza, diventiamo inseparabili. Le nostre famiglie sono vicine di casa, in ottimi rapporti e il nostro sodalizio non suscita sospetti. Sappiamo che quelle cose non si devono fare, il nostro prete ce l'ha insegnato, ma noi continuiamo, semplicemente lo teniamo segreto perché troviamo sciocco non fare una cosa tanto bella, fra amici intimi. Ne abbiamo parlato fra noi due e ci troviamo perfettamente d'accordo.

Ho quattordici anni. È inverno, anzi, esattamente il primo dell'anno, che stiamo festeggiando, quando arriva un uomo insanguinato a cavallo che avverte che stanno arrivando i barbari: il Reno è ghiacciato e hanno potuto traversarlo in forze. Ci si organizza per la difesa, pensando che sia uno dei soliti gruppi: l'uomo è morto subito dopo aver lanciato l'allarme e non ha fatto a tempo a dirci quanti sono. Si nascondono le derrate, si sbarrano le strade con palizzate, si tirano fuori le armi e ci si mette di sentinella.

Il due gennaio arrivano e siamo sgomenti: avanzano in una folta linea che pare riempire tutto l'orizzonte, a cavallo. Devono essere migliaia, decine di migliaia. Sono i vandali. Si avvicinano lentamente, come un muro compatto. Si fermano. Le donne portano i piccoli nelle case, un silenzio incredibile scende nella villa. Poi, d'improvviso, la muraglia umana parte all'attacco, i cavalli lanciati al galoppo, e urlano tutti assieme brandendo le loro armi, facendole roteare e sembra che il mare si stia avventando ruggendo su di noi: il sole, per quanto pallido, trae barbagli paurosi dalla muraglia che avanza e che in un attimo si abbatte sulla villa.

Lottiamo tutti, anche io e Valerius, come disperati, mentre quella fiumana urlante ci aggira, ci circonda, inizia a infiltrarsi per le vie. Straripano, sono ovunque, i nostri muoiono come mosche, e anche chi si arrende viene massacrato. Ormai non c'è più resistenza, gruppi penetrano nelle case, uccidono, saccheggiano, poi le incendiano. Io faccio parte di un gruppo di una trentina di uomini. Siamo circondati dalla massa urlante, che improvvisa un carosello attorno a noi, lanciando grida e aspettiamo che ci finiscano. Ogni tanto colpiscono uno degli uomini. Vedo cadere mio padre, il padre e il fratello di Valerius, altri. Ci stanno uccidendo a uno a uno, lentamente. Mi accorgo che siamo rimasti una decina scarsa, e mi rendo conto che siamo i più giovani del gruppo: pare che uccidano appositamente i meno giovani e risparmino noi...

Nonostante tutto, cerchiamo ancora di difenderci, ma quelli, passandoci vicini a cavallo, ci fan saltare via le armi. Potrebbero ucciderci, ma non lo fanno. Si divertono. Siamo disarmati, inermi, ci stringiamo l'uno all'altro e sento Valerio che mi prende la mano e la stringe in silenzio. Poi, uno dei cavalieri, continuando a fare quell'infernale carosello attorno al nostro gruppetto, si china sulla sella, protende un braccio, prende uno di noi e lo mette davanti a sé sul cavallo come un sacco, e tutti i vandali attorno a noi ridono. È come un segnale: a uno a uno siamo ghermiti in quel modo, mi sento strappare via Valerius, poi io stesso sono sollevato e vedo la terra roteare veloce sotto di me. Sono terribilmente impaurito.

Di colpo si fermano, scendono di cavallo. Io mi sento scaraventare a terra, mi sono addosso in molti, le spade balenanti, e mentre mi tengono inchiodato a terra, mi tagliano di dosso gli abiti sì che in breve sono nudo sulla terra gelida. Vedo uno dei guerrieri vandali aprirsi gli abiti fra le gambe, estrarre il membro eretto e venirmi addosso. Un attimo prima che mi violenti, vedo Valerius, nudo come me, che urla sotto un vandalo, poi sento il membro di quello sopra di me premermi con violenza contro. Urlo, cerco di dimenarmi, invano, sento le risate dei barbari che mi costringono a terra, un dolore incredibile e l'uomo sopra di me, in me, che si agita con forza. Il dolore è incredibile, e quando quello si toglie, un altro prende il suo posto. Al terzo che mi violenta, perdo fortunatamente i sensi. Non so quanto resto incosciente sul terreno. Credo un'intera giornata, perché quando riprendo i sensi, i vandali non ci sono più.

Provo ad alzarmi, sono quasi congelato. Provo fitte di dolore intense. Raccolgo i brandelli dei miei abiti, cercando in qualche modo di coprirmi. Alcune case ancora bruciano. Tutto attorno a me, cadaveri. Mi trascino cercando Valerius: è ancora privo di sensi, ma vivo. Anche altri sei attorno a me sono ancora vivi. Ho sangue fra le cosce, come quasi tutti quelli che sono ancora vivi e più d'uno dei morti. A poco a poco rinvengono anche altri. Ci guardiamo in silenzio, desolati. Non sappiamo che fare, che dire.

Poi uno degli altri si avvicina a un morto e inizia a spogliarlo. Gli altri insorgono, gli chiedono se sia impazzito, ma lui dice che a loro gli abiti non servono più, a noi sì. Così, se pure con un certo disagio indosso, alla fine lo imitiamo tutti. Poi un altro dice che forse qualche nascondiglio del cibo non è stato scoperto dai vandali e ci mettiamo a scavare fra le rovine ancora fumanti. Al quinto tentativo abbiamo fortuna. Mangiamo.

A sera, dopo aver faticato finché c'è luce a seppellire i morti, in realtà li abbiamo ammassati in una cella sotterranea di quella che era stata la chiesa, ci stendiamo esausti a dormire. Io e Valerius, incuranti di che cosa possano pensare gli altri, dormiamo stretti, abbracciati. Un po' per vincere il freddo, un po' per istinto, quasi a consolarci l'un l'altro.

Il giorno dopo ci si chiede che fare. Si pensa di andare verso sud, dove ci sono altre ville, sperando che ci accolgano. Ma per due giorni camminiamo attraversando solo ville bruciate e desolazione. Pare che siano passati dappertutto e le scene che vediamo sono anche più terribili di quello che abbiamo lasciato. In una villa, ad esempio, i corpi massacrati sono stati letteralmente tagliati a pezzi: un'inutile e gratuita crudeltà...

Finalmente, dietro una collina, troviamo una villa intatta. Ci sono già altri profughi, ci accolgono come possono. Ma la villa non potrebbe mantenere tanta gente, perciò gli abitanti ci invitano, con gentile fermezza, a spostarci più a sud al più presto. Decidiamo di dormire lì e di riprendere il viaggio il giorno dopo.

Partiamo all'alba in nove, portando con noi solo un po' di cibo per il viaggio. Ma dietro ai vandali sono arrivati anche gli alani. Lo scopriamo a nostre spese quando improvvisa a metà pomeriggio una banda di questi barbari ci piomba addosso. Il nostro gruppo si stringe istintivamente. Ci circondano, scendono da cavallo e, a gesti, minacciandoci con le loro spade, ci fanno capire che vogliono quello che trasportiamo. Cediamo i nostri miseri fagottelli. Poi uno dei barbari s'avvicina a un ragazzo, lo prende per un braccio e dice agli altri qualcosa. Gli altri ridono e si fanno attorno al ragazzo. Lo costringono a inginocchiarsi e crediamo che vogliano ucciderlo e invece gli mettono a nudo il sedere e lo violentano.

È come un segnale, anche io e Valerius siamo presi e non risparmiano neppure i quattro uomini anziani che sono con noi. Quando se ne vanno, hanno ucciso tre di noi che avevano cercato di opporsi, e fra questi anche Valerius. Non so perché, non avevo pianto neppure alla vista dei cadaveri di mio padre, di mia madre, degli altri della mia famiglia, ma ora piango amaramente sul cadavere di Valerius. Gli ricompongo gli abiti, lo porto fra le piante, lo copro alla belle meglio con rami di sempreverdi.

Uno degli altri superstiti mi costringe ad andar via. Non so se sia più forte il dolore dell'anima o del corpo. Cammino con gli altri, come un automa. Qualcuno propone di tornare indietro, alla villa da cui siamo partiti. Altri dicono che è meglio scendere più a sud verso i monti. A me non importa. Un giovane uomo che ha deciso di tornare indietro, mi prende e mi porta con sé: lo seguo senza obiettare.

Tornati alla villa raccontiamo la nostra nuova disavventura e chiediamo di restare. Poiché molti erano andati via, anche per l'intercessione del prete locale, ci fanno restare. Anche perché la gente non si sente sicura, e ha deciso di fortificare la villa, così qualche braccio in più, ora, fa comodo.

Passa circa un mese, in cui lavoriamo tutti, donne e bambini compresi, a erigere palizzate, muri a secco, a tentare di scavare fossati, ma quest'ultima idea è presto abbandonata: il terreno gelato è più duro del granito. Noi uomini siamo tutti ospitati nella piccola cappella, le donne nelle varie case.

Dopo un mese di duro lavoro, uno dei ragazzini messi a guardia sugli alberi circostanti, arriva gridando alla villa: stanno arrivando i barbari. Ci si dispone alla difesa e già arrivano. Sono diversi dai primi e dai secondi, questa è una colonna di suebi. Giunti ai limiti del villaggio, si spiegano lentamente, circondandolo. Uno di essi avanza un po' e, in un latino approssimativo, chiede di non fare resistenza, se vogliamo salvare la vita e il villaggio. Ci avverte che, se resisteremo, ci massacreranno tutti e bruceranno le case. Sono numerosi, troppo. Dopo una breve discussione, la gente della villa decide di arrendersi. Ci fanno sfilare e deporre tutte le armi, quindi ci dividono in due gruppi: da una parte tutti quelli compresi fra i quindici ed i venticinque anni, maschi e femmine, dall'altra tutti gli altri. Frattanto altri iniziano a saccheggiare sistematicamente le case, portando via tutto il cibo, gli oggetti di valore, tele, pelli e gli oggetti metallici.

In coda della colonna ci sono parecchi carri con le loro donne e piccoli, su cui caricano tutto. Poi iniziano a legare quelli del gruppo dei giovani, in cui ci sono anche io. Il prete chiede che vogliono fare, e quello che parla latino risponde che ci porteranno via come schiavi. Il prete protesta: per tutta risposta lo sgozzano.

La colonna riparte e noi la seguiamo. In formazione di marcia, i carri sono al centro della colonna, affiancati da due file di guerrieri per parte. Noi siamo legati l'uno all'altro, per il collo, i polsi legati davanti, una corta corda ci collega le caviglie sì che possiamo solo fare passi, non correre. Loro avanzando cantano, un canto strano, triste e forte al tempo stesso. A notte si fermano non lontani da un torrente, formano uno stretto cerchio con i carri, al centro del quale accendono alcuni fuochi, Mangiano, cantano, poi si dividono il bottino della giornata, compresi noi schiavi, assegnando le parti in ordine gerarchico.

Ci sono altri schiavi, presi prima di noi. Non molti, tutti giovani. Così vengo a sapere quale sarà la nostra sorte: dovremo accudire ai cavalli, andare a prendere legna per i fuochi, acqua, sempre sotto scorta, fare tutti i lavori più pesanti e, abbastanza spesso, lasciarci prendere dal nostro padrone, specialmente se non è sposato. Manco a dirlo! Non tutti i barbari hanno famiglia, solo tre quarti circa.

Il mio padrone è un uomo erculeo, sui quarant'anni, i capelli stopposi uniti in due trecce. Ha moglie e sei figli, il più grande sui vent'anni, il più piccolo sui cinque. Mi mette subito al lavoro. Mi fa capire a gesti quello che vuole da me. Di notte lui dorme nel carro con la sua donna e i figli, e io, legato, dormo sotto il carro. Ma almeno ho una coperta di pelo. E mangio.

Quando non capisco che cosa vuole da me, a volte grida minaccioso, ma nel complesso non è cattivo. La moglie è peggio di lui: a volte mi picchia con una specie di bastone flessibile con cui dirige gli animali che tirano il suo carro. I due figli più grandi sono quasi sempre con i loro coetanei e non mi trattano né bene né male.

Pur essendo i carri più o meno di famiglia, la vita si svolge per grandi gruppi, probabilmente di parenti, o di commilitoni, non sono riuscito a capirlo bene. Anche il cibo lo preparano a grandi gruppi composti di più famiglie. L'ordine di marcia è rigorosamente fissato. Ogni gruppo ha il suo vessillo, una lunga lancia con un simbolo in punta. Il gruppo in cui sono ha un corno di cervo per emblema. Ogni gruppo occupa sempre lo stesso posto nella colonna o nel cerchio, e all'interno del gruppo c'è una stretta gerarchia.

Lungo il cammino assaltano diverse comunità, alcune le distruggono completamente, altre no, a seconda della resistenza che oppongono. E il numero di schiavi lentamente aumenta..."

"Avevi detto che i padroni a volte profittavano dei loro schiavi. Di te?" lo interruppe Eugenio.

"Per i primi mesi, sotto questo profilo che ti interessa tanto, non mi accade niente. Sono loro schiavo da quattro mesi, è primavera. Anche i figli più grandi, ora, quando la notte non è fredda, dormono sotto il carro. Immagino che sia perché i genitori vogliono un po' d'intimità, ma non so. Io comincio a capire un po' della loro lingua. Una notte mi sveglio sentendomi toccare. Il figlio maggiore del mio padrone, Unwin, mi sta sciogliendo le braghe.

Quando si rende conto che mi sono svegliato, mi guarda con i suoi occhi penetranti e mi ordina di calarmele. Non serve a niente opporsi, obbedisco. Lui mi carezza a lungo il sedere nudo. Mi si addossa da dietro, me lo sfrega con forza nella piega fra le natiche ma ancora non mi penetra. Mi chiedo che cosa aspetti, è chiaro che vuole quello. Mi accarezza il ventre, i genitali e a poco a poco, nonostante tutto, mi fa eccitare. Ecco che cosa voleva: appena mi sente eccitato, mi insaliva l'ano e inizia. Non è violento, me lo infila dentro a poco a poco, continuando a carezzarmi lì davanti in modo che io non perda l'erezione.

Non l'ha troppo grosso, riesce a infilarmelo dentro senza che io provi dolore: solo un lieve fastidio. Lo sento ansimare, inizia a muovermisi dentro lentamente. A poco a poco inizio a provare anche un certo piacere. È chiaro che non vuole farmi male e questo, dopo le precedenti esperienze, mi stupisce. Ora, mentre mi si muove dentro, mi masturba a piena mano. Il mio piacere aumenta e lui se ne rende conto. Anche il suo respiro si fa più rapido e profondo, quasi ansimante. Ora mi prende con un po' più di energia, ma sempre senza violenza.

Quando vengo, subito dopo viene anche lui ansando con forza. Poi si stacca da me e torna a dormire. Mi metto a posto e mi rilasso: tutto sommato, non è stato male, penso... Evidentemente anche a lui è piaciuto, perché due notti dopo tutto si ripete. E alla fine mi dice che gli è piaciuto. Io d'istinto rispondo: grazie. Lui allora ha come un breve riso e mi dice che è meglio così, perché tornerà da me.

Passano altri tre giorni, quando torna alla carica. Sto dormendo supino. Lui si accoccola accanto a me e inizia a sciogliermi le braghe. Mi sveglio e lui fa un sorriso, continuando. Io allungo una mano e lo carezzo fra le gambe. Lui allora mi fa di nuovo un sorriso soddisfatto, anche mentre gli frugo fra i panni e glielo tiro fuori. Allora mi avvicino col viso e inizio a leccarglielo. Lui fa uno scatto sorpreso indietro e cade seduto in terra, le gambe larghe, le mani appoggiate indietro. Allora mi chino su di lui e ricomincio, e quando lui freme, lo succhio. Emette un lieve gemito sorpreso, ma poi spinge il bacino verso di me, facendomi capire che apprezza quello che gli sto facendo.

Quando lo sento pronto, mi metto a quattro zampe offrendomi a lui. Mi viene sopra e mi prende, carezzandomi per tutto il corpo e masturbandomi come le altre volte. Quando viene, resta in me e continua a masturbarmi finché fa venire anche me. Solo allora si toglie e, mentre ci rimettiamo a posto gli abiti, mi dice che gli sono piaciuto. Lo ringrazio di nuovo. Anche a me è piaciuto. E voglio che diventi anche più piacevole...

A poco a poco lo coinvolgo nei giochi d'amore: gli scopro il petto, gli succhio i capezzoli e lui sembra impazzire per il piacere. Ora si unisce con me tutte le notti e una volta mi sussurra che sono meglio io delle schiave che si divideva con gli amici. Il fatto è che mi piace sempre più e che voglio dargli piacere.

Una prima conseguenza è che Unwin inizia a trattarmi con gentilezza, durante il giorno, e che una volta che la madre mi sta picchiando perché inavvertitamente ho rovesciato l'acqua, le dice di smettere. E la notte, mi assicura che la madre non mi picchierà mai più e mi carezza. Allora credo che sia pronto per un'altra cosa: lo bacio sulla bocca.

È evidente che è la prima volta, i suoi occhi si spalancano, poi inizia goffamente a rispondere al bacio e gli piace. Mi rendo conto che lo sto conquistando a poco a poco. Anche per mangiare, non ho più solo avanzi, perché Unwin ora mi porta lui il cibo.

È estate. I suebi, dopo aver espugnato un municipio e averlo saccheggiato, hanno messo il campo accanto a un laghetto. Unwin mi porta in riva e mi dice di bagnarci. Io gli faccio notare che, con le caviglie legate, rischierei di affogare. Lui allora si fa giurare che non tenterò di fuggire, e mi slega. Ci spogliamo e ci tuffiamo in acqua. Che sollievo! Mi sento libero e, per un attimo, mi viene la tentazione di fuggire nuotando... tanto più che in quel momento Unwin non è vicino a me, e io sono più al largo di lui... Ma rinuncio: gli ho dato la mia parola, si è fidato di me... E poi, dove andare in quella terra devastata?

Torniamo a riva e ci stendiamo al sole. Allora lui mi chiede perché non sono fuggito: lui ha nuotato a riva apposta per darmi la possibilità di farlo... Lo guardo stupito, poi gli dico: ti avevo dato la mia parola... Lui sorride e dice che sono un vero uomo. Ci vestiamo e io gli dico di legarmi le caviglie. Lui dice che ormai non c'è più bisogno. Io allora gli dico che in verità avevo provato la tentazione di fuggire, e che non so se non mi verrà di nuovo. Lui mi dice serio che se tenterò di fuggire lui dovrebbe cercarmi e uccidermi e non vuole. Allora insisto che mi leghi di nuovo e lui lo fa.

Ma quella notte, dopo avermi sciolto le caviglie, è lui che, per la prima volta, mi sugge i capezzoli, mi carezza, mi bacia a lungo prima di prendermi. Mi piace sempre più fare l'amore con lui ma anche a lui con me, evidentemente. Mi piace anche come mi prende: con vigore e tenerezza. E dopo avermi preso, non torna più nel suo giaciglio, ma si frema con me a carezzarmi... È il mio padrone, è vero, ma è anche il mio amante...

I barbari non attaccano solo ville e municipi gallo romani, ma anche fra di loro spesso hanno scontri cruenti. Durante quei mesi hanno tre scontri, due con vandali e uno con alani, ma vincono sempre i suebi. Nell'ultimo attacco dei vandali, mentre sto rintanato sotto il carro, vedo Unwin cadere da cavallo e un nemico cerca di colpirlo. Allora, uscito dal carro prendo un pesante recipiente metallico appeso lì e con tutte le forze lo tiro al vandalo colpendolo al petto mentre sta calando il fendente. Unwin ha tempo di rialzarsi e, dal basso, trafigge il nemico. Risale a cavallo ma prima mi lancia un'occhiata.

I vandali, visto inutile il loro tentativo di sopraffare i suebi, si ritirano velocemente e i suebi, dopo un breve tentativo di inseguimento, tornano al campo trionfanti. Fanno una gran pira dove bruciano i loro morti in un rito solenne, sistemano le vedove e gli orfani, poi celebrano la vittoria.

Unwin, dopo, dice al padre di come io gli ho salvato la vita, e chiede che mi sia ridata la libertà. La cosa non ha precedenti, viene discussa da tutti gli uomini liberi del gruppo. Ma alla fine viene accettata.

In realtà non saprei dove andare, perciò chiedo a Unwin di tenermi con lui. Solo che ora non sono più legato, e mangio con gli uomini liberi. Viene l'inverno. Unwin decide di continuare a dormire sotto il carro. Non è l'unico giovane a dormire fuori dai carri perciò la cosa non meraviglia e possiamo continuare a fare l'amore.

Verso la fine dell'inverno la nostra colonna viene attaccata dalle legioni imperiali. Non le si era viste da un anno. Vincono. Liberano gli schiavi, ma gli altri mi accusano di essere un amico dei barbari e perciò mi portano via in catene, assieme ai superstiti, fra cui purtroppo non c'è Unwin: è morto in battaglia.

Ci portano a Treviri. Per alcuni mesi restiamo incatenati nella prigione. Ma con l'avvento della primavera, ci viene offerta la possibilità di lavorare la campagna per un ricco signore del posto. Io accetto assieme a pochi altri. Il nuovo padrone mi tratta con molta durezza e disprezzo, peggio degli altri schiavi, probabilmente perché sono un gallo-romano e perché mi giudica un traditore.

Così decido di fuggire. Ho quasi diciotto anni. Durante la schiavitù a Treviri ho spesso sesso con gli altri schiavi: visto che gli schiavi non possono avere donne e che io sono uno dei più giovani... Per me va bene, anche se chiaramente nessuno di loro è Valerius o Unwin. Uno di loro, nei miei confronti, è sempre più gentile degli altri, sia quando si accoppia con me che durante la giornata. Perciò gli confido il mio piano, chiedendogli aiuto. Lui dice che sta bene lì, che non intende fuggire, ma mi assicura il suo aiuto. E invece, mi tradisce: per farsi grande agli occhi del padrone, quando sto per fuggire, lo avverte.

Lui fa finta di nulla. Fa appostare semplicemente alcuni arcieri. Quando metto in atto il mio piano, credendomi al sicuro, ho appena il tempo di uscire dal tracciato dei campi e di inoltrarmi nel boschivo che vengo trafitto da una freccia a un braccio. Corro, una seconda freccia mi colpisce alla schiena, cado, sento altre frecce penetrarmi mentre perdo i sensi e la vita mi abbandona."

Eugenio emise un sospiro. Poi disse:

"Erano tempi barbari, quelli. Per fortuna da secoli l'Europa è diventata un paese civile..."

"Credi? Allora eccoti la storia di Ignace, nato a Bruxelles il 13 febbraio 1807 e morto a Bristol il 29 aprile 1838."

"No, adesso non ho tempo, mi dispiace. Me la racconterai domani. Ti troverò ancora?"

"Certo, non sono passati ancora i giorni necessari, perciò non c'è pericolo che io debba andarmene. A domani, allora."


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