LA GARA PIÙ DIFFICILE CAPITOLO 4 - UNA RIVELAZIONE

Tornati a Parigi, Jean Paul e Claude continuarono a vedersi. Claude, dopo gli allenamenti, invece di riaccompagnare subito l'amico a casa come era solito fare, lo portava a casa propria dove i due si isolavano in una stanzetta del sottotetto e facevano l'amore una sera sì e una sera no come al solito.

A quell'ora in casa solitamente c'era solo il personale di servizio e i due amici, lassù nella soffitta dove scivolavano non visti, erano tranquilli e potevano fare l'amore a loro agio. La stanzetta era ricavata in una parte del sottotetto che, ai tempi del nonno, era riservata ai servi. Suo padre aveva ristrutturato il quartiere dei servi, che ora erano meno numerosi, al terzo piano, e le camerette del sottotetto erano quindi usate come ripostigli per le vecchie cose di famiglia. Solo in quella stanzetta era rimasto un vecchio letto di legno massiccio con un alto materasso, su cui Claude stendeva un lenzuolo per non coricarsi sulla polvere.

I due amici si chiudevano dentro a chiave, per maggiore sicurezza, ma lassù non andava mai nessuno. La stanzetta aveva un abbaino come le altre. Poiché ormai faceva molto caldo, i due ragazzi lo tenevano aperto. In questo modo dal letto, incastrato giusto sotto l'abbaino, mentre facevano l'amore potevano godersi il panorama dei tetti del centro di Parigi: c'era spesso una lieve brezza e era quasi come farlo all'aperto.

Alcune volte, quando scendevano per la scala di servizio, dalle stanze dei ragazzi potevano sentire i due fratelli minori di Claude che erano rientrati. Non erano mai stati visti scendere dalla stretta scala che portava alle soffitte e che andava in basso fino alle cucine e al giardino. Dopo aver fatto l'amore, Claude riaccompagnava l'amico a casa. Continuarono così a vedersi in segreto fin quasi al giorno della partenza per i campionati.

Un pomeriggio però, il padre di Claude non andò al lavoro alla banca di famiglia come tutti i giorni ma si fermò nel proprio studio per riordinare alcuni vecchi documenti di famiglia. Infatti di lì a poco ci sarebbe stato il centenario della fondazione della Banca Berthier e Jacques Berthier, il padre di Claude, aveva in mente di far pubblicare un libro commemorativo. Aveva già radunato parecchio materiale, foto, documenti, lettere e così via, quando, a sera, si ricordò che in soffitta c'era uno scatolone con altri ricordi e documenti. Perciò salì a cercarlo.

Lo trovò nella stanzetta accanto a quella con il letto. Entrato, spalancò la finestra dell'abbaino per avere più luce, aprì lo scatolone e iniziò tranquillamente a passare le carte, le foto e i ricordi a uno a uno, mettendo da parte quelli che avrebbero potuto essere utili per la pubblicazione. Stava continuando nella cernita, quando sentì delle voci. Riconobbe quella di Claude e stava per chiamarlo e farsi vedere, quando qualcosa lo incuriosì: i due parlavano sussurrando. Restò perciò in silenzio cercando di capire che cosa stesse succedendo e di chi fosse l'altra voce.

Non riusciva a distinguere le parole poiché i due parlavano a voce troppo bassa. Chissà che cosa stava combinando suo figlio? Perché portava una persona lassù? Sentì che si chiudevano a chiave nella stanzetta accanto e questo suscitò i suoi sospetti. Rifletté un attimo, poi un timore balenò nella sua mente: per agire così di nascosto, Claude... si drogava! A volte gli atleti, per rendere di più, ricorrevano stupidamente alle droghe. In un primo momento pensò di uscire in corridoio e di andare a bussare alla porta della stanza accanto, ma poi pensò che Claude avrebbe potuto far scomparire la droga appena l'avesse sentito, e negare tutto. No...

Dalla finestra aperta venne il suono di una risata. Già, forse poteva sorprenderlo passando dalla finestra... Il cornicione era largo, vi sarebbe passato facilmente... Nonostante i suoi capelli sale e pepe era un uomo ancora agile, in forma.

Senza far rumore, Jacques Berthier si arrampicò sulla finestra dell'abbaino, uscì sul cornicione e si spostò fino a trovarsi di fronte all'abbaino della stanzetta a fianco... e vide i due corpi nudi, stesi sul vecchio letto, allacciati in un sessantanove!

Per primo fu Jean Paul a vedere l'uomo e, staccatosi precipitosamente dal compagno, gemette: "Oh, dio!"

Claude, stupito per il tono angosciato dell'amico, ne lasciò il membro e, visto il padre ritto davanti alla finestra, impallidì e esclamò: "Papà!"...

L'uomo disse: "Oh, Claude, non credevo..." e scomparve.

I due giovani erano imbarazzati, spaventati.

"Tuo padre? E adesso?" sussurrò Jean Paul pallido come uno straccio.

"Rivestiamoci..." mormorò Claude tremante.

Sentirono i passi dell'uomo allontanarsi nel corridoio, verso le scale.

"Che facciamo?" chiese Jean Paul, agitato.

"Ti riaccompagno a casa, poi... affronterò papà..."

"No, forse è meglio che me ne vada da solo. Prenderò il metro..."

"No no, ti accompagno io... così ho il tempo di pensare a cosa dirgli."

"Che puoi dire? Ha visto chiaramente quello che stavamo facendo. Mio dio! Se lo dice a Robert siamo fregati tutti e due, proprio alla vigilia dei campionati..."

"Forse lo convincerò a non dire nulla..."

"Ma se ci ferma per le scale? Magari ci aspetta là."

"Non credo. Se volesse affrontarci assieme, sarebbe qui fuori della porta. Scommetto che è andato nel suo studio. Ma come mai era a casa?"

"Che avesse sospettato qualcosa?"

"Ma no, come? Beh, ora scendiamo. Ti riaccompagno a casa."

"Mi telefonerai, poi?"

"Se potrò."

"Domattina... io non so se presentarmi agli allenamenti."

"Neanche io lo so. Cercherò di telefonarti stasera, se potrò."

Scesero in silenzio, senza incontrare nessuno. Uscirono sulla strada senza problemi. Durante il tragitto discussero su che cosa fare. L'unica speranza era che il padre non li denunciasse all'allenatore.

"Potrebbe cacciarti di casa." disse Jean Paul.

"Se lo farà... troverò una soluzione per continuare." rispose Claude.

"Continuare? Che cosa?"

"A fare atletica. Ma non so, papà è amico di Robert e forse glielo dirà... Spero che almeno accetti di dirglielo dopo il campionato."

"Sarebbe già qualcosa." ammise Jean Paul, abbattuto.

Claude lasciò l'amico davanti a casa sua e tornò subito indietro. Messa l'auto in garage, salì fino davanti allo studio del padre. Tirò un lungo respiro, poi bussò.

"Avanti." disse la voce del padre dall'interno.

Claude socchiuse la porta e si affacciò: "Sono io, papà... posso entrare?"

"Sì, certo. Ti aspettavo prima."

"Ho riaccompagnato... il mio amico a casa."

"Capisco. Siedi."

"Papà, io... non so che dirti..." mormorò Claude abbassando lo sguardo confuso e sentendosi mancare la forza di affrontare il discorso.

"Chi era quello con te? Jean Paul, mi è sembrato."

"Sì, papà, era lui."

"Già. Da molto vi vedete... così?"

"Dal campo. Sono io che l'ho... convinto. Lui non ne ha colpa, papà."

"Molto nobile da parte tua difenderlo. Ma nessuno di voi due è un bambino, ormai. Credo che lui sia consenziente almeno quanto te, no?"

"Beh... sì, papà..."

Il fatto che Claude, inconsciamente, inserisse la parola "papà" in ogni sua frase, era quasi un modo per affermare che, nonostante tutto, erano ancora padre e figlio, legati da reciproco amore...

"Bene. Sono cose che capitano, figlio mio." disse l'uomo con un sospiro, ma con espressione serena.

Claude alzò gli occhi sorpreso e guardò il padre.

L'uomo, per la prima volta, sorrise: "Ma sì, Claude, sono cose che capitano. Vedi, io ci sono passato prima di te... si diventa molto amici, si condivide tutto... e si finisce per condividere anche il piacere sessuale."

"Vuoi dire che... che non mi condanni, papà?" chiese Claude con voce incerta.

"Condannarti? Ma no, come potrei?"

"Tu, papà... non sei arrabbiato con me perché hai scoperto che io sono gay?"

"Gay? Ma no, figlio mio. Darsi piacere fra amici, fra amici intimi, non significa affatto essere gay. Sono solo parentesi, destinate a chiudersi come si sono aperte."

"Temo di no, papà. A me piace... farlo."

"Ma certo, se no non lo faresti. Ma vedrai che prima o poi conoscerai una ragazza che ti farà cambiare idea. Proprio come è capitato a me." disse l'uomo tranquillo.

Claude spalancò ancor più gli occhi: "A te, papà? Vuoi dire che anche tu..."

"Sì, Claude. Io e Robert, il tuo allenatore. Proprio come tu e Jean Paul. E vedi che sia io che Robert siamo ora felicemente sposati e con una bella famiglia. Non siamo gay né io né lui. Quindi non metterti strane idee in testa e stai tranquillo. Prima poi smetterete, è naturale, non devi preoccuparti."

"Vuoi dire che davvero tu e Robert... eravate amanti?"

"Ma no, non amanti. Ci si divertiva assieme, e assieme si allentava la nostra tensione sessuale, in amicizia. Amici intimi, non amanti. Se avessi immaginato che era solo quello che stavate facendo, non vi avrei disturbati..."

"Solo quello? Perché, cosa altro pensavi che stessimo facendo?"

"Temevo che ti drogassi..."

"Droga? Ci mancherebbe altro! Mica voglio rovinarmi, io!"

"Vedi, temevo che ti pesasse non essere più il primo, il migliore, e che per aumentare le tue prestazioni... c'è chi l'ha fatto, chi lo fa, purtroppo."

"Non certo io, papà."

"Bene, questo è l'importante."

"Papà... non dirai a Robert di... di me e Jean Paul?"

"Certo che no, perché? Quello riguarda solo voi due, nessun altro."

"E... posso ancora vedermi con Jean Paul?"

"Ma sì. Ricordati però: non più di due volte per settimana! È la regola aurea. Credo che Robert ve l'abbia detto, no?" disse sorridendo Jacques.

Claude sorrise e annuì: "Papà, grazie... abbiamo avuto una paura..."

"Cercate solo di non farlo capire agli altri, siate molto discreti. Anche se si sa bene che accade, lo sport è un ambiente strano, anomalo. Se foste scoperti sareste finiti, lo sai. Purtroppo c'è molta ipocrisia, a questo mondo, e molta di più nell'ambiente sportivo."

"Papà, devo telefonare a Jean Paul per tranquillizzarlo."

"È spaventato?"

"Anche più di quello che ero io, papà. Temeva di essere espulso prima del campionato."

"Può vincere?"

"Oh sì. Dice Robert che al novantacinque per cento l'oro sarà suo."

"Bene, digli di mettercela tutta, allora. E non esagerate, voi due!" disse Jacques tendendo la mano al figlio e stringendogliela con vigore.

"Grazie, papà."

"Comunque l'idea della soffitta, è buona." gli disse il padre strizzandogli l'occhio, mentre il figlio stava per uscire.

Claude andò immediatamente in camera sua, prese il telefono e chiamò Jean Paul.

Il ragazzo arrivò subito al telefono: "Claude! Allora?"

"Tutto bene, nessun pericolo!"

"Davvero? Che ha detto?"

"Ti racconterò poi quando ci vediamo. Comunque non lo dirà a nessuno, neanche a Robert, e non è arrabbiato con noi."

"Non è arrabbiato?"

"No. Quindi dormi tranquillo, stanotte. Domattina passerò a prenderti per tempo, così potrò raccontarti tutto. E devo anche darti una notizia che, ne sono sicuro, ti farà molto piacere."

"Piacere? Di che si tratta?"

"Domani, te lo dirò domattina, amico mio."

"Non riesco a immaginare..."

"No, non ci riusciresti di sicuro. A domani, Jean Paul."

"A domani. Grazie d'avermi chiamato. M'era venuto un mal di testa e un mal di stomaco spaventosi."

"Fatteli passare, amico mio! E domani... ti dirò il resto. Buona notte."

"Buona notte."

Jean Paul tornò in camera sollevato e si gettò sul letto, cercando di rilassarsi. Dunque il padre di Claude non era arrabbiato con loro, e non avrebbe detto niente a nessuno! Era una persona molto aperta e moderna, evidentemente. E dire che a vederlo pareva una persona molto borghese e conservatrice... A volte ci si sbaglia a giudicare la gente. Certo che, quando se l'era trovato davanti, mentre lui aveva il membro del figlio in bocca, si era sentito morire: era stato il momento più orribile della sua vita!

A poco a poco si rilassò e quando lo chiamarono per cena andò a mangiare abbastanza tranquillo. Si chiese quale potesse essere la sorpresa a cui Claude aveva accennato e che lui non sarebbe neppure riuscito a immaginare...

Ci ripensò anche quando andò a letto e mentre si addormentava, ma per quanto si sforzasse non gli veniva in mente nulla di possibile, di verosimile che potesse fargli "molto piacere" come gli aveva detto Claude.

Il mattino seguente scese ad aspettare l'amico. Dopo pochi minuti lo vide arrivare. Salì in auto. Claude era sorridente e disteso.

"Allora?" gli chiese Jean Paul mentre l'amico ripartiva.

"Papà s'è scusato per averci interrotto."

"Scusato? Scherzi?"

"No, per niente. Ha detto che se avesse immaginato che tu ed io stavamo facendo l'amore, non ci avrebbe disturbati."

"Ma va là!"

"Ha detto che è normale che due amici si procurino sollievo l'un l'altro, specialmente due atleti. E che fra atleti e amici è sempre successo."

"Ha detto così?"

"Certo. E ha aggiunto che ai suoi tempi l'ha fatto anche lui."

"Te l'ha confessato?"

"Molto tranquillamente... E indovina chi era l'amico con cui lo faceva?"

"Chi?"

"Il tuo bel Robert!"

Jean Paul restò a bocca aperta: "Vuoi dire che... che tuo padre e Robert... facevano l'amore fra di loro? Proprio come noi due? Adesso capisco perché Robert aveva cercato di difendere quell'atleta, cinque anni fa... Dunque, anche Robert è gay?"

"Papà dice di no. Sia lui che Robert, quando hanno conosciuto la donna giusta, si sono orientati dalla parte giusta..."

"Ma io sono gay."

"Anche io. Ma forse papà ha ragione per quanto riguarda loro due."

"Già, è probabile. Ma davvero non avrei mai immaginato che Robert... E se invece anche Robert fosse gay e si fosse sposato solo per... dovere?"

"Boh? Come si fa a saperlo? Mica glielo puoi chiedere, no?"

"Certo che no. Ma ci pensi, se fosse gay?"

"Non sognare troppo, adesso. Ah, e papà mi ha detto che possiamo continuare a usare la soffitta, per i nostri incontri. Ho pensato che per maggiore sicurezza possiamo chiudere a chiave anche la porta del corridoio da capo alla scala di servizio."

"Cavolo! Mi fa un certo effetto sapere che tuo padre sa di noi due e che gli sta bene..."

"Mah. Lui è convinto che cambieremo, come è successo a lui e a Robert."

"Claude, ieri non abbiamo potuto concludere. Pensi che potremmo farlo questa sera?"

"Sì, certo, ne ho una gran voglia anche io..."

Quel giorno Jean Paul osservò a lungo Robert cercando di capire se l'allenatore fosse o no gay. Ora che sapeva della sua storia giovanile col padre di Claude, lo vedeva con occhi diversi. Lo sentiva più vicino a sé, più raggiungibile, in un certo senso. Ma certo non poteva capire, solo guardandolo, se l'uomo fosse o non fosse gay. Soprattutto, si disse, non doveva rischiare di confondere il proprio desiderio con la realtà.

Finalmente venne il giorno della partenza per i campionati europei di atletica. La nazionale di Francia partì con un aereo speciale dall'aereoporto Charles De Gaulle. Alla partenza fotografi, televisione, reporters, interviste. All'arrivo altri fotografi, altre televisioni, altre interviste. Autobus dell'organizzazione li caricò e li portò alle residenze loro assegnate. Come al solito lui ebbe la camera assieme a Claude. Li avevano sistemati in un collegio universitario riadattato per l'occasione. Quella stanza era stata progettata per un letto, perciò ci stavano un po' stretti, in due. C'era appena lo spazio per girarsi attorno.

Le loro gare si sarebbero svolte nel terzultimo e nel penultimo giorno degli incontri, quindi nei giorni precedenti passavano un po' di tempo a guardare le gare delle altre specialità, a fare un po' di blando allenamento, a girare per la città. Claude era più conosciuto di Jean Paul perché era il campione di Francia, così a volte veniva fermato per un'intervista o per un autografo, e Claude non perdeva occasione per dire di tenere d'occhio Jean Paul che, aggiungeva, sarebbe stato la rivelazione di questi giochi.

A sera, tornati nella loro cameretta, facevano l'amore ogni volta. Avevano deciso di smettere solo due giorni prima delle gare, per essere in forma perfetta e non correre rischi.

Fraternizzarono con gli atleti delle altre nazioni, scambiando distintivi e indirizzi. Furono fotografati in giro per la città e durante gli allenamenti. Per Jean Paul erano i primi campionati all'estero a cui partecipava e si sentiva eccitato e felice. Claude invece era più tranquillo: aveva partecipato ai precedenti campionati europei e aveva guadagnato il bronzo. Poi ci sarebbero state le olimpiadi, il sogno di tutti gli atleti.

La Francia non aveva mai ottenuto l'oro per il decathlon alle Olimpiadi, fino ad allora, e Robert aveva detto che se Jean Paul avesse preso l'oro in questa occasione, come era quasi certo, avrebbe messo una seria ipoteca sull'oro delle olimpiadi. Robert ci contava. E Jean Paul, ora, ci teneva almeno quanto lui ma non per se stesso, per Robert. A Jean Paul sarebbe importato poco dimostrare di essere il migliore. Ma se Robert voleva l'oro, lui avrebbe fatto del suo meglio per dargli questa soddisfazione.

Finalmente venne il primo dei due giorni delle gare del decathlon. Jean Paul, gara dopo gara, attirò l'attenzione di tutti i mass media e degli spettatori, degli esperti e dei profani. Vinse i 100 piani, poi i 400 ed i 1500 metri. Fu primo nel 110 ad ostacoli, e con buon distacco rispetto al secondo. Batté il record europeo nel salto in alto, vinse, se pure per un soffio, il salto in lungo e pure il salto con l'asta. Tutti gridavano al miracolo. Vinse al lancio del disco, fu secondo al lancio del peso e vinse il lancio del giavellotto. E l'oro fu suo. Fu un vero trionfo. La sua fotografia era su tutti i giornali che lo definirono "un atleta completo" e "forse il migliore del nostro secolo".

Jean Paul conobbe l'ebrezza della gloria. Ricevette telegrammi di congratulazioni persino dal presidente della repubblica. I suoi stessi avversari gli chiesero autografi.

Quando tornarono in patria, ebbe accoglienze trionfali. Titoli a scatola sui giornali: "Il piccolo grandissimo ragazzo di Poitiers", "Jean Paul, la gloria di Francia", "Una vittoria conquistata con disinvoltura" e così via.

Quando tornò a casa a Poitiers, la città gli aveva preparato accoglienze degne di un eroe e il sindaco gli consegnò le chiavi della città. Per l'occasione il padre e la madre si erano fatti abiti nuovi. A casa fu tutta una processione di parenti, amici, vicini, sconosciuti...

Jean Paul era stordito. Non era nella sua natura essere così al centro dell'attenzione.

Quando finalmente poté tornare a Parigi, messa la medaglia d'oro nella sua scatoletta foderata di velluto blu, andò a trovare Robert.

"Allora, Jean Paul, come ci si sente, da campioni?" gli chiese l'uomo accogliendolo e facendolo accomodare nel suo studio.

"Confuso. Stordito."

"Contento?"

"Per te, Robert. Questa vittoria è tua."

"Mia? No, ragazzo mio, è tutta tua. Sei tu che hai la stoffa del campione. Io l'ho solo tirata fuori. È tutto merito tuo, Jean Paul, credimi."

"No, Robert. Io ho vinto solo per te."

"Per me?"

"Sì, per te. Per me mi sarebbe bastato partecipare. Ho vinto per te e perciò questa medaglia è tua. Tienila tu."

"Ma no, che dici? La medaglia l'anno messa al collo a te."

"E ora voglio metterla al collo a te."

"Ti ringrazio, ragazzo, sei molto gentile, ma non posso accettarla."

"Tu devi accettarla. Ti prego..."

"Non ne vedo il motivo..."

"Accettala, Robert... ti prego..." insisté con dolcezza Jean Paul e, tolta la medaglia dalla sua scatoletta, ne svolse il nastro e la mise al collo di Robert.

L'uomo era commosso e chiese: "Ma perché?"

"Perché... perché io ti amo, Robert. Sono innamorato di te!"


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