LA CERTOSA DI MONTSABOT |
3 - TENTATIVI PER APRIRE UN VARCO |
Entrato nella propria camera da letto, il giovane prese una sedia e salì a togliere le tende a fiori dalla finestra, poi prese anche il copriletto della stessa stoffa. Scelse alcuni panni dall'armadio e le cinture dei calzoni. Si tolse giacca, calzoni e camicia e, in maglietta e mutande, portò tutto nella stanza-salotto. Per sicurezza chiuse la porta a chiave, quindi, messosi davanti al triplice specchio della toeletta, iniziò a lavorare. Piegò, drappeggiò, fissò controllando il risultato allo specchio. Poteva andare, ma mancava qualcosa. Lo sguardo gli cadde sui centrini di pizzo sulla poltrona, sul tavolinetto e sulla toeletta e decise di adoperare anche quelli per rifinire l'opera e soprattutto per fare una specie di acconciatura. Si guardò allo specchio e sorrise: poteva passare per una zitella di campagna vestita con abiti un po' fuori moda... Soddisfatto riaprì la porta e andò a bussare alla camera di Roland. "Chi è?" chiese la voce del ragazzo di dentro. Facendo la voce in falsetto, Hervé rispose: "Sono la nuova governante, Mademoiselle Quicasse." "La governante? E che volete?" rispose bellicosa la voce del ragazzo. "Fare la vostra conoscenza." disse Hervé cercando di non mettersi a ridere. "C'è tempo domani... e poi io ho già il precettore, non dovete occuparvi di me." "Suvvia, fatemi entrare: non è da gentiluomini parlarmi attraverso la porta." cinguettò Hervé. "È aperto!" disse Roland col tono di chi sta per perdere la pazienza. Hervé entrò e si fermò accanto alla porta che era in penombra rispetto al resto della stanza. "Allora?" chiese bellicoso il ragazzo. "Mi avevan detto che siete un gran bel ragazzo e volevo sincerarmene di persona. Mi han detto anche che siete alquanto scontroso." "Bene, adesso avete controllato, potete anche andare." "Oh, mi congedate di già? Ed io che speravo di sedurvi!" "Sedurmi? Ma che andate dicendo?" disse Roland guardandolo con aria alquanto accigliata. Hervé vide l'espressione del ragazzo cambiare rapidamente quando riconobbe il suo precettore: stupore, un guizzo di divertimento, poi una studiata freddezza. "Ma via, Monsieur Brout, che cosa è questa mascherata? Non temete di rendervi ridicolo?" disse acido. Hervé rise e si tolse i pizzi dalla testa: "No, non temo di rendermi ridicolo." affermò con sicurezza. "Ah no? e perché?" "Perché solamente colui che non è sicuro di sé teme il ridicolo." "E voi siete sicuro di voi." "Senza dubbio. Quel che valgo non può essere compromesso da uno scherzo, da una maschera." "Quel che valete... E quanto valete?" "Sta a te scoprirlo, prima di giudicarmi." "Non ho nessuna intenzione di scoprirlo." "Ma sei tu che me l'hai chiesto." disse con aria insinuante il giovane. "Il vostro... scherzo è puerile." "Ma ci sei cascato!" "Solo perché non c'è abbastanza luce... comunque vi ho riconosciuto." "Solo perché non ho avuto tempo di travestirmi e truccarmi bene." "Vi diverte vestirvi da donna?" chiese il ragazzo con aria di disprezzo. Ma Hervé sentiva che quel disprezzo era una posa: lo leggeva negli occhi dietro cui baluginava, a stento rattenuto, il riso. "Mi diverte scherzare, come a tutte le persone giovani e sane, intelligenti e con senso dell'umorismo. Come so che sei anche tu." Il ragazzo non disse nulla. Hervé fece la parodia di un inchino e, di nuovo con la voce in falsetto e tono melodrammatico, disse: "Ah, vedo che avete un cuore di pietra, vi abbandono! Andrò a chiudermi in monastero e pregherò per voi. Addio!" e uscì dalla camera andandosi a infilare lesto nella propria stanza. Si sfilò di dosso le tende e le ripose piegate nell'armadio, ripromettendosi di renderle il giorno dopo alla cameriera. Proprio mentre sgusciava nella propria stanza, Monsieur Laforest, che era appena rientrato, vide una figura femminile entrare furtiva nella camera che era stata della governante e che ora doveva ospitare il nuovo precettore. "Si dà da fare il giovanotto: è appena arrivato e già..." pensò lievemente divertito. Si tolse il cappello e lo porse, con la canna da passeggio e i guanti, al valletto. Quindi salì al primo piano e andò a bussare alla camera del precettore. Hervé, che non l'aveva sentito né visto rientrare, ancora con i soli indumenti intimi indosso, pensando che fosse Roland, andò ad aprire con un sorriso. Quando si trovò davanti il padrone, assunse un'aria imbarazzata. La tenuta del giovane, il sorriso tramutato in imbarazzo, non fecero che convincere l'uomo che l'altro fosse impegnato in un'avventura galante. "Scusate se vi disturbo mentre... avete visite, ma..." "Visite? Non ho nessuno con me, stavo per mettermi a letto." "Già, a letto... Sono un uomo di mondo, vi capisco, alla vostra età il sangue ribolle..." disse con un sorriso complice l'uomo. "Monsieur, vi assicuro, non c'è nessuno con me. Potete entrare e controllare di persona, se non mi credete." L'aria divertita dell'uomo cambiò in un'espressione stizzita ma non insistette: "Non è necessario. Volevo solo chiedervi se avete conosciuto mio figlio." "Sì, certamente." "E? Nessun problema?" "Come d'altronde mi avevate già preannunciato voi, non posso dire che mi abbia accettato, non ancora, per lo meno." "Già. E pensate di riuscire nel vostro compito?" "Ne sono certo, Monsieur. Anche se non so quanto tempo potrà occorrermi." "Mi auguro che non vi sbagliate. Vedremo se ho investito bene il mio denaro assumendovi." disse l'uomo e, fatto un cenno di saluto, scese di nuovo le scale. Il diniego del giovane di avere un'ospite in camera lo aveva irritato: una confessione franca, da uomini e fra uomini, gli avrebbe fatto piacere. Chiamò il valletto e gli chiese: "Non è entrato nessun estraneo in casa dopo l'arrivo del nuovo precettore?" "No, Monsieur." "Ne siete sicuro?" "Assolutamente, Monsieur." Allora doveva essere una delle serve, pensò l'uomo. Fece radunare tutto il personale, ma non mancava nessuno. "Che mi sia sbagliato?" si chiese piuttosto confuso l'uomo. La servitù, convocata così tardi, lo guardava schierata in silenzio chiedendosi che cosa avesse da dire il padrone. L'uomo si rese conto di quella muta attesa. Si schiarì la gola e disse: "Bene, volevo solo avvertirvi che per ora non abbiamo una governante ma che sarà assunta presto. Nel frattempo il valletto dirigerà la casa. Potete andare, grazie." concluse risalendo le scale per andare in camera sua. La servitù si guardò perplessa e Sophie mormorò ai compagni: "E per questo ci ha fatto radunare? Lo sapevamo già." La cameriera sussurrò: "Starà invecchiando..." e se ne andò, incurante dell'occhiataccia del valletto. Ma il padre di Roland non era ancora contento, l'idea che il nuovo precettore di suo figlio già avesse avuto l'ardire di introdurre una ragazza nella propria stanza, evidentemente da fuori visto che tutte le ragazze del personale erano lì a pian terreno, a questo punto lo infastidiva parecchio. Chiamò il maggiordomo e gli ordinò di chiudere bene a chiave tutte le porte che davano all'esterno della casa, fino a suo nuovo ordine. Quindi salì risolutamente la scala e si fermò davanti alla porta della camera del giovane precettore. Stava per bussare ma si fermò, chiedendosi se faceva bene. Possibile che si fosse sbagliato lui? Se chiedeva di controllare e non c'era nessuno, che figura avrebbe fatto? Sarebbe inoltre partito con il piede sbagliato riguardo al precettore. Decise di lasciar perdere e se ne andò. Frattanto Hervé aveva tolto tende e pizzi aveva cercato di cominciare a dare alle due stanze un aspetto un po' meno femminile e frivolo e infine s'era messo a letto pensando di leggersi un buon libro prima di addormentarsi. Roland nella sua stanza ripensava alla mascherata del suo nuovo precettore, con un misto di divertimento e di fastidio. Che nome aveva inventato quando aveva detto di essere la nuova governante? Mademoiselle... Quicasse! La signorina che rompe! Il ragazzo non poté fare a meno di ridacchiare: in effetti aveva scelto un nome appropriato. Non aveva ancora avuto modo di studiare bene quel tizio... ma doveva ammettere che, forse, era un po' meglio che avere fra le costole una governante, un'altra zitella inacidita, ficcanaso e presuntuosa. Comunque, se quello s'illudeva che gli avrebbe reso la vita facile, si sbagliava di grosso. Beh, se fosse rimasto al suo posto, potevano anche stabilire una specie di tregua... una tregua armata, si capisce. Comunque era un tipo ameno, buffo, o per lo meno non noioso come le governanti che aveva sempre avuto. Che pazza idea quella da vestirsi da donna! Sì, in un primo momento c'era cascato. La mattina seguente Roland scese a fare colazione con il padre. "Come mai non c'è il tuo precettore a tavola? Dorme ancora?" gli chiese il padre. "No, l'ho visto scendere. Mangia con la servitù, come faceva la governante." rispose il ragazzo. "No no, deve mangiare a tavola con noi, con te! Un precettore è un dipendente, ma non un servo, è un uomo di cultura... è..." "Un uomo! Quello ha solo cinque anni più di me!" rispose scontroso il ragazzo. "Roland, non ti riferire al tuo nuovo precettore dicendo quello! Ha un nome, è monsieur Hervé Brout." "Va bene. Ma perché questo monsieur Hervé Brout dovrebbe mangiare a tavola con noi? Non fa mica parte della famiglia, lui!" "Neanche un ospite fa parte della famiglia, ma non per questo lo si manda a mangiare in cucina, no?" ribatté un po' seccato il padre. "Comunque così ho deciso e così si farà, a partire da oggi a pranzo, anche se io non ci sarò." "Di nuovo? Non ci sei quasi mai a pranzo... e spesso neppure a cena." si lamentò il ragazzo. "Ragione di più per avere a tavola monsieur Brout... ti farà compagnia." "Vorrei essere io a scegliere le mie compagnie." "Quando sarai maggiorenne, le sceglierai tu. Per ora è compito mio." tagliò corto il padre. Poi aggiunse: "Ed ora tu vai in cucina e dici a monsieur Hervé Brout che da oggi in poi mangerà qui con te... con noi. Fila!" Il ragazzo si alzò scuro in volto e andò nella cucina. Quando entrò la servitù lo saluto in coro. "Bene alzato, Monsieur Roland!" Solo una voce, forte e chiara si staccò dal coro: "Oh, salve Roland, hai dormito bene?" "Sono solo venuto per avvertirvi, monsieur Hervé Brout, che per ordine di mio padre da oggi a pranzo in poi voi prenderete i vostri pasti con noi, di là." "D'accordo. Ma non hai risposto alla mia domanda." "Quale domanda?" chiese il ragazzo accigliato. "Se ti sei cambiato la biancheria intima, stamattina." "Non mi avevate chiesto questo! Mi avevate chiesto se ho dormito bene." rispose scontroso Roland. "Ah, ma il tuo udito è buono? Perché fai finta di non sentire allora?" gli chiese in tono serafico il giovane. Roland arrossì lievemente e non disse nulla. "Attendo ancora che tu mi risponda." insisté tranquillo Hervé. "Rispondo solo quando ne ho voglia!" rispose seccato il ragazzo e uscì dalla cucina. "Cerca di fartela venire in fretta, allora, se non vuoi passare per sordo o per tonto!" gli disse Hervé ad alta voce, in tono allegro. "Monsieur Hervé, non avrete la vita facile con il signorino." gli disse Sophie. "Né lui con me. Vedrete che lo farò capitolare. È solo questione di prenderlo per il verso giusto e di avere abbastanza pazienza." rispose Hervé con un ampio sorriso.
Finalmente le due stanzette in cui viveva Hervé avevano preso un aspetto più consono alla sua personalità. E con Roland la "tregua armata" pareva funzionare, anche se continuavano Hervé a dargli del "tu" e Roland a rispondergli usando il "voi". Ma a differenza delle governanti, Hervé aiutava il ragazzo anche nei suoi studi e Roland non poteva non essere colpito dalla preparazione del giovane precettore e dalla sua bravura nello spiegare le cose. Inoltre avevano preso l'abitudine di andare, almeno una volta al giorno, a fare un giro in bicicletta nel parco che si stendeva dietro la villa, per interrompere gli studi del ragazzo. Roland aveva una bella bicicletta nuova fiammante, Hervé ne usava una che aveva trovato nelle rimesse e che, a dire del valletto, non era usata da nessuno. Pedalavano per i viottoli del parco, fino a raggiungerne la parte più alta, separata dal bosco che saliva su per la collina da un alto muro coperto di tegole e con finestre ovali con grate nere e oro ogni cinque metri. Lassù c'era una radura con un grande ontano al centro e un cerchio di panche di pietra. Da là si godeva il panorama della città vecchia che si stendeva giù giù fino al fiume. "Mi dicono che mia madre veniva spesso qui..." disse un giorno Roland. "Tu non la ricordi, vero?" chiese con voce sommessa Hervé. "No. La conosco attraverso le foto... attraverso quello che a volte la servitù mi dice di lei. Avrei voluto conoscerla. Era molto bella, sapete?" disse il ragazzo con un tono di triste nostalgia nella voce. "Io... io ho un ricordo vago di mia madre." disse a mezza voce Hervé guardandosi le punte delle scarpe e pensando, incongruamente, che avrebbe dovuto lucidarle. "Anche voi non avete più vostra madre?" chiese il ragazzo con un tono velato di lieve simpatia. "Né mio padre. Morirono tutti in un incidente, quando avevo dieci anni. Anche la mia sorellina di sette, con loro. Eppure ricordo molto bene mio padre. Ero molto unito, con lui... molto, molto unito." "Io l'ho ancora un padre, eppure..." mormorò il ragazzo e scosse la testa. "Eppure..." riprese, ma la voce gli tremò e tacque. Hervé lo guardò e provò un forte moto di simpatia verso quel ragazzo. Sentì che erano due anime sole, anche se lui aveva saputo reagire alla sua solitudine e aveva saputo costruirsi una vita serena, a volte anche allegra. Roland invece sembrava eternamente immerso nella malinconia. "Devo riuscire a farlo sorridere." si disse Hervé guardandolo con la coda dell'occhio. "Questa villa, questa tenuta... appartenevano a mia madre. L'aveva fatta costruire suo padre, quando ottenne da Napoleone il titolo di conte dell'Impero." "Sono molto belli, sia la villa che il parco." disse Hervé cercando di assumere un tono spensierato, sperando di dirottare i pensieri del ragazzo verso argomenti più sereni. "Una bellezza inutile, sprecata." commentò il ragazzo. "La bellezza non è mai né inutile né sprecata. Che sarebbe mai l'uomo se non sapesse vedere e godere della bellezza?" chiese Hervé cercando di dare un tono spigliato alla sua voce. "Ma a che serve la bellezza se non la si condivide con qualcuno?" chiese allora il ragazzo. "Tu... in qualche modo... la stai condividendo con me." suggerì il giovanissimo precettore guardando con un sorriso il ragazzo. "Tra voi e me c'è solo un contratto di lavoro. Abbiamo ben poco da condividere, noi due." disse Roland improvvisamente duro, guardandolo dritto negli occhi con aria quasi di sfida. "Eppure... non puoi fare a meno di condividere la tua bellezza con me, di farmela godere, che tu lo voglia o no. Quindi, vedi, malgrado tutto qualcosa lo stiamo condividendo." ribatté lieve Hervé. "La mia bellezza? Stavamo parlando della villa, del parco. Non cambiate discorso!" rispose il ragazzo accigliato. "E perché, di grazia, non dovrei cambiare discorso? Chi me lo impedisce? Tu? Puoi non ascoltare le mie parole, potresti forse anche impedirmi, non so come, di dirle, ma non mi puoi impedire di pensarle, di sentirle, di guardarti e di godere per la tua bellezza! Almeno in questo, l'uomo è libero, nessuno gli può togliere questa libertà." "Voi vi reputate un uomo libero? Non credete che la libertà sia pura utopia, sia pura illusione?" "Se questa utopia, questa illusione, come tu dici, mi aiutano a essere sereno, perché dovrei cacciarle da me? Comunque no, non credo che lo siano. Libertà non significa fare ciò che più ci piace, ma rimanere se stessi, in qualche modo. Rimanere se stessi qualunque abito possiamo indossare, qualunque ruolo ci sia assegnato, qualunque maschera ci obblighino a portare." "Anche se vi travestite da governante per prendermi in giro." concluse in tono ironico il ragazzo. "Anche, perché no?" rispose Hervé contento che Roland avesse ricordato quel suo scherzo proprio in quel momento. "Anche sotto quei buffi abiti rimediati alla meglio da tende e centrini, c'ero pur sempre io, monsieur Hervé Brout!" "Non vi sembra che sia stato ben poco dignitoso per voi acconciarvi in quel modo assurdo?" "Anche la dignità, come la libertà, non sta nelle apparenze esteriori. Nella Sacra Scrittura è scritto che re David danzava nudo di fronte all'Arca dell'Alleanza, e che quando gli dissero che si stava comportando in modo poco dignitoso, ne rise e continuò tranquillamente a danzare nudo." "Un uomo nudo... nudo di fronte ad altri, non può essere dignitoso!" sentenziò il ragazzo. "Che cosa distinguerebbe un re da un mendicante, se così fosse?" "Un uomo nudo... nudo di fronte a chi ama, e nudo per amore, è rivestito del più regale degli abiti, perciò! Che sia un re o un mendicante, non cambia nulla. Davide amava talmente il suo Dio che gli offerse la propria nudità, si spogliò cioè, di fronte a lui, di tutti gli inutili orpelli della regalità." "Devo ammettere che avete punti di vista assai originali, monsieur Hervé Brout, e in contrasto con la morale corrente." "Grazie per l'apprezzamento." "Non ho affatto detto che vi apprezzo per questo." ribatté il ragazzo un po' seccamente. "Vero, non l'hai detto... lo pensavi solo, forse." rispose soavemente Hervé. "Pretendete di saper leggere nel mio pensiero?" chiese in tono sarcastico il ragazzo. "No... ma mi piacerebbe saperlo fare." "Ah sì? E perché?" "Per conoscerti meglio... per forare quell'assurda corazza con cui ti stai difendendo da me." "Non ho alcun bisogno di difendermi da voi. Voi non siete pericoloso." "Spero proprio di non esserlo... e di non esserlo per te." "Siete davvero una persona peculiare, voi, Hervé." Il ragazzo si stava, molto lentamente, aprendo con lui, specialmente quando erano sotto il grande ontano, dove ormai andavano a riposarsi quasi tutti i giorni. Ciò non ostante Hervé non l'aveva ancora mai visto sorridere, anche se a volte pareva che un sorriso facesse capolino negli occhi di Roland. Il ragazzo continuava a dargli del voi, ma ormai non usava più chiamarlo "monsieur"... era un piccolo passo avanti. Così Hervé decise che valeva la pena di fare qualcosa per far decidere il ragazzo ad avere con lui un atteggiamento meno formale, meno distaccato, meno freddo. Erano nuovamente lassù nella radura, avevano appoggiato le biciclette al tronco del grande albero e stavano in piedi, fianco a fianco, guardando il vasto panorama illuminato dal caldo sole di metà pomeriggio. Avevano appena smesso di parlare dei progetti che aveva il padre del ragazzo di mandarlo a studiare, finiti gli studi superiori, alla Sorbona. Roland sembrava pensieroso. Hervé decise che voleva vederlo ridere, almeno una volta, così, d'improvviso, si girò verso il ragazzo e, senza dire nulla, iniziò a fargli solletico. "Che fate!" protestò il ragazzo arretrando di un passo e guardandolo stupito. "Voglio vederti ridere!" dichiarò il giovane prendendolo per un braccio e continuando a fargli solletico. "No... no... smettetela..." disse il ragazzo cercando di svincolarsi, ma non riuscì a trattenere le risa. "Ecco, vedi... sei molto più bello, quando ridi!" dichiarò Hervé continuando imperterrito. "E non ti senti meglio, a ridere almeno un po'?" "Basta... basta, smettetela!" protestò il ragazzo. Iniziò una specie di lotta, il ragazzo rideva nonostante cercasse di assumere un'aria seccata. Si divincolava, Hervé non gli dava tregua, Roland perse l'equilibrio e cadde sull'erba, involontariamente trascinando su di sé il suo giovane precettore che, per non farlo sfuggire, l'aveva bloccato con le gambe e le braccia e continuava a fargli solletico. "Basta... smettetela..." continuava a ripetere il ragazzo fra le convulsioni di risa, me gli occhi gli brillavano di una luce che Hervé non vi aveva mai visto, una luce bella, incredibilmente bella. Il volto di Hervé era sopra, quasi a contatto con quello di Roland. Con un lieve movimento, il giovane lo abbassò e pose le sue labbra su quelle di Roland e lo baciò. Il ragazzo si divincolava sotto di lui, cercava di sfuggire a quel bacio, a quel corpo, ma sempre più debolmente. Sentiva il suo giovane precettore sopra di lui, attorno a lui, dappertutto, e la sua lingua dentro la sua bocca che cercava la propria. Un fuoco lo invase tutto, un calore intenso, un senso di stordimento... una dolcissima debolezza. E i due quasi contemporaneamente sentirono anche, chiaramente, l'uno l'eccitazione dell'altro che si manifestava attraverso i loro membri diventati improvvisamente turgidi e duri, e che ora premevano e palpitavano contro il corpo dell'altro. Questa consapevolezza fece defluire via tutte le forze dal corpo di Hervé, e dette invece al ragazzo la forza di liberarsi, di alzarsi, correre alla propria bicicletta. Il volto rosso, i capelli scarmigliati, gli occhi brucianti come per un improvviso attacco di febbre, il ragazzo guardò verso Hervé che si stava lentamente alzando in piedi. "Non dovevate farlo! Che vi ha preso! Non dovevate! Come vi siete permesso..." gli gridò il ragazzo, inforcò la propria bicicletta e scese a rotta di collo verso la villa. Hervé per un momento restò lì in piedi, confuso, ansante, quasi tremante per l'intensità dell'emozione che l'aveva afferrato. Andò alla sua bicicletta, ma si appoggiò al tronco dell'albero. Già, che gli aveva preso? Come aveva osato? Certo che non avrebbe dovuto... perché era successo? Se Roland non fosse scappato via... (questo pensiero lo folgorò come una rivelazione) lui l'avrebbe spogliato... l'avrebbe baciato per tutto il corpo aspirandone la giovane freschezza, assaporandone la calda eccitazione, l'avrebbe carezzato per tutto il corpo che sentì di desiderare con acuto dolore... avrebbe persino (persino!) tentato di unirsi a lui... di unirsi carnalmente a lui! Che gli aveva preso? Come aveva potuto? E oltretutto... ora Roland aveva tutte le carte in mano per farlo licenziare, per liberarsi di lui molto più in fretta di quanto gli ci era voluto per liberarsi delle governanti. Cacciato con disonore... avrebbe perso il lavoro e forse non ne avrebbe trovati altri. Ma soprattutto avrebbe perso Roland! Avrebbe perso il suo Roland... il "suo" Roland? Sì, Hervé era abituato fin da bambino a essere onesto con se stesso e ora doveva riconoscerlo, ammetterlo a se stesso, accettarlo... lui si era innamorato di Roland! Innamorato! E l'aveva appena perso, per sempre e con disonore. Avrebbe potuto tentare di negare, ma non sarebbe stato degno di lui. No, non poteva negare, non poteva cercare giustificazioni. Un uomo è tale anche perché si assume la responsabilità delle proprie azioni. Anche se inizialmente a tutto aveva pensato, meno che a quello. Anche se all'inizio le sue intenzioni erano completamente aliene da quello. Ma poi... quel bacio... e la forte eccitazione che ne era seguita nel sentire il corpo del ragazzo sotto il suo... Ma da quando era innamorato di Roland? E come aveva potuto non accorgersene prima? Certo, se se ne fosse accorto, avrebbe evitato tutto quello... Capiva che non aveva senso, l'uomo deve innamorarsi della donna, sposarla, fare figli... non innamorarsi di un altro uomo, lo sanno tutti. Eppure, ora lo sapeva, era successo proprio così: lui si era innamorato di Roland, di un ragazzo! Hervé non ne faceva un problema di religione, di morale, e tanto meno di leggi. Semplicemente non aveva mai dovuto affrontare prima quel problema, non aveva parametri per misurarlo, per capirlo. Hervé era un vergine, e non solo fisicamente, ma anche per quanto riguarda i desideri, la sessualità in generale. A differenza di Roland (anche se lui questo non lo sapeva) non si era neppure mai masturbato. Questa sua totale verginità però fu un vantaggio per Hervé: infatti non si sentì sporco, sbagliato, diverso nello scoprire di provare desiderio e amore per il ragazzo. Prese semplicemente atto, dentro di sé, che era una cosa possibile, visto che gli era appena capitata. Imprevista, mai pensata prima, ma possibile, reale. Mentre il suo corpo ritrovava la calma, anche la sua mente stava rimettendo ordine nei suoi pensieri. Quanto aveva provato era stato bello, su questo non aveva dubbi. Ora per lui Roland era molto più di un ragazzo di cui prendersi cura, era finalmente una persona degna di essere amata. Ma nello stesso tempo sapeva bene, perché i padri gesuiti l'avevano spiegato ai loro studenti, che un simile amore non è ammesso né dalla religione né dalla società. Era bello... ma non era ammesso. Per un attimo Hervé dimenticò il problema del suo posto di lavoro. Sedette su una panchina e si mise a riflettere. C'era, in quel momento, qualcosa di più importante del suo lavoro, dello scandalo, di tutto il resto: doveva capire, doveva fare una scelta di fondo. Era bello, ma non era ammesso. Però Hervé era un giovane uomo sano, non solo nel corpo ma nell'anima, sano, intelligente e onesto. Perciò capì che non aveva importanza che fosse bello o brutto, ammesso o proibito, doveva capire se fosse giusto o sbagliato. Ma che cosa fa sì che una cosa sia giusta o sbagliata? Per deciderlo non poteva basarsi su esperienze personali né su esperienze di altri, ma solo sui valori che aveva assorbito durante la sua giovane vita, grazie ai suoi studi. Giusto: si dice di cosa o azione o comportamento conforme a criteri di giustizia; si dice di cosa che corrisponde a verità; si dice di cosa opportuna e conveniente. Si ha giustizia rispettando i diritti altrui, e verità quando qualcosa è autentico, genuino. Il desiderio è giusto quando non lede i diritti altrui, l'amore è vero quando non è egoista. "Quindi, è giusto che io ami e provi desiderio per quel ragazzo? Sì, se lo rispetto, se non penso al mio piacere ma al suo. Ma non è giusto che io gli imponga qualcosa che lui non vuole. Roland mi ha chiesto come mi sono permesso... ecco, non era giusto che io mi permettessi qualcosa che lui non voleva. Mi ha detto più volte di smetterla... ecco, lì ho sbagliato. Sì, non ho sbagliato a desiderarlo, ad amarlo ma a imporgli quello che sentivo... e ora ne devo pagare le conseguenze... e le pagherò." concluse Hervé. Andò a prendere la bicicletta e scese a piedi verso la villa, pronto a subire il suo destino. Non era certo lui la persona che tira il sasso e nasconde la mano!
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