LA CERTOSA
DI MONTSABOT
2 - HERVÉ E TROVA LAVORO

"Monsieur Laforest, questo è il giovane Brout. Gli ho già accennato al motivo della vostra visita e il nostro caro giovane è assai lusingato per l'occasione che gli prospetterete. Se ne volete parlare un po' fra di voi, io vado a leggere il breviario in corridoio."

L'uomo squadrò il ragazzo: indossava abiti né modesti né eleganti, ma pulitissimi e ordinatissimi. Le scarpe anche se non nuove, brillavano impeccabili. Non sembrava innervosito dal colloquio e, pur avendo un atteggiamento rispettoso, aveva un che di fiero che non dispiacque affatto all'industriale.

"Come ha detto il Padre che vi chiamate?"

"Brout, Monsieur; Hervé Brout."

"Quanti anni avete?"

"Diciannove, signore." rispose il ragazzo un po' stupito per la domanda: essendosi lui appena diplomato, l'uomo avrebbe dovuto immaginarlo.

"Quindi siete nato nel..."

"Nel 1884, signore." lo precedette il ragazzo.

"Certo. Bene, vedete..." iniziò l'uomo e gli spiegò che cosa si attendesse da lui. Gli parlò della paga, non alta ma con vitto, alloggio e due abiti completi l'anno, quindi piuttosto buona. "... dunque, che ne dite?"

"E... scusate, signore, il giorno libero?"

"Giorno libero? Mio figlio ha bisogno di essere seguito trecentosessantacinque giorni l'anno, io non posso... trecentosessantasei il prossimo anno che è bisestile, per essere esatti. No no, nessun giorno libero, voi sarete a servizio pieno!" rispose l'industriale quasi stupito per l'inattesa richiesta.

"Vostro figlio frequenta la scuola pubblica?"

"No, lo mando in una scuola privata. Perché?"

"Comunque, mentre è a scuola, io posso ritenermi libero." disse il giovane più come una deduzione logica che come una domanda.

"Beh... sì... purché lo accompagnate fino a dentro la scuola e siate lì ad attenderlo prima della fine delle lezioni, si intende."

Hervé pensò che non avendo amici né parenti, in fondo non gli importava granché avere un giorno libero, poteva stargli bene così... e comunque valeva la pena di provare. Quindi accettò le condizioni dell'altro.

"Quando devo prendere servizio, signore?" chiese il ragazzo.

"Subito. Cioè... Prima il mio vetturino vi porterà dal nostro sarto: vi voglio vestito meglio, se dovete stare accanto a mio figlio. Poi vi accompagnerà in Villa e inizierete. La prima paga, si intende, alla fine del primo mese. Oggi è il 4 luglio, quindi il 4 agosto."

"Perfetto, signore. Grazie."

"Tenetelo solo lontano dai guai, fate in modo che si comporti bene, e che studi, non vi chiedo altro. Ah, e dite al maggiordomo che vi dia la stanza che era della governante: la nuova governante... beh, le farò preparare una nuova stanza al pian terreno. Addio giovanotto, fatevi trovare pronto entro un'ora, vi manderò il mio vetturino."

"Va bene, Monsieur Laforest. Grazie di nuovo." disse il giovane salutandolo con un lieve inchino e un sorriso.

L'uomo rispose con un gesto della mano. Il saluto deferente ma non servile del ragazzo gli era piaciuto.

Hervé salì a preparare la sua valigia: pochi abiti, molti libri, la pergamena con il diploma e la piccola scatola di tartaruga che gli aveva donato il padre per il suo decimo compleanno, poco prima di morire. Il suo unico, vero tesoro.

Scese con la valigia di cartone tenuta ben chiusa da una robusta corda, salutò e ringraziò il rettore. E attese, con lieta anticipazione, l'arrivo del vetturino: un nuovo, grande cambiamento nella sua vita; era pieno di curiosità e di aspettativa.

Lui avrebbe voluto fare l'insegnante in una scuola, ma in fondo anche un precettore è una specie di insegnante. E poteva essere un buon tirocinio: quando il ragazzino fosse cresciuto e non avesse più avuto bisogno dei suoi servigi, avrebbe potuto iniziare a cercarsi un posto come insegnante. Sarebbe stato più maturo, sarebbe stato più facile, soprattutto se avesse avuto buone referenze.

Monsieur Laforest gli aveva detto che il ragazzino era un tipetto difficile, ma la cosa non lo preoccupava; il giovane Laforest era orfano di madre, e lui sapeva che cosa volesse dire essere orfani: si sarebbero capiti. Orfano di madre e con un padre assente, per quel che aveva intuito, quindi quasi orfano quanto lui.

Il vetturino arrivò. Caricò la pesante valigia sul calessino. Si fermarono dal sarto.

Il vetturino dette un biglietto all'uomo che lo lesse, poi, sorridendo a Hervé, gli disse: "Ah, così siete il nuovo precettore del piccolo Monsieur... bene, bene, bene. Un abito completo con due camicie, estivo. Monsieur precisa solo che deve essere consono al vostro ruolo. Volete vedere alcuni figurini? Ho diverse riviste giunte da poco da Parigi." disse l'uomo facendolo sedere e mettendogli davanti un fascio di riviste.

Hervé iniziò a sfogliarle... poi indicò un figurino che gli sembrava elegante: "Questo." disse sicuro.

"Veramente... dato che sarà, almeno per ora, il vostro unico abito da indossare, perché non è certo con questi vostri abiti che potete prestare il vostro servizio, non direi che sia il più adatto... Dovreste indossarlo anche in occasioni di società, accompagnando il signorino, capite..."

"Ah. E allora, che cosa mi consigliate?"

"Beh... questo, o questo... o questo."

"Dio mio! Ma sono... funerei!"

"Sì, vi capisco, però..."

"Qualcosa di più allegro, non so..."

"Allegro? Beh... questo ha un taglio più sciolto."

"Ma è troppo scuro!"

"Un tessuto così?" propose il sarto prendendo una pezza e mostrandogliela.

"Beh... se proprio più chiaro non si può... va bene anche questa. Dite che Monsieur Laforest non avrà nulla da ridire?"

"No, non credo proprio, tanto più che si lascia sempre consigliare da me." rispose con una certa fierezza l'uomo, poi aggiunse: "Bene, prendiamo le misure, allora."

Il vetturino attendeva seduto in un angolo del negozio e guardava il ragazzo, ora in maniche di camicia, studiandolo senza averne l'aria: un nuovo abitante nella villa, il più giovane del personale; sperava solo che non facesse troppo il galletto, specialmente con la cuoca giovane, su cui aveva già messo gli occhi lui.

Terminate di prendere le misure, Hervé rimise la giacca e, col vetturino, riprese la via della Villa.

"Come è, Monsieur Laforest?" chiese il giovane all'uomo.

"Il Signore o il Signorino?" chiese l'altro girandosi appena indietro,

"Il Signore... o meglio, entrambi."

"Il Signore, in Villa, lo si vede poco. È di poche parole e basta fare bene il proprio dovere, che non ci sono problemi. Il Signorino, a parte con le governanti, è un ragazzino a modo. Assomiglia alla sua povera madre buonanima."

"Come è mancata, la Signora? Quanti anni aveva il ragazzino?"

"Oh, la povera Signora... Madame era di famiglia nobile, sapete... Nobiltà napoleonica, ma pur sempre nobiltà. Era molto buona, ma aveva un carattere forte. Mancò quando il piccino aveva due anni, dodici anni fa. Sembrava un banale infreddamento e invece..."

"E quindi il piccolo è stato allevato da una governante." commentò Hervé.

"Una governante... sì, cioè no, da almeno sei governanti. Solo la prima durò un po' a lungo, e anche l'ultima. Ma la prima si sposò e così dovette lasciare. Le altre... in un modo o nell'altro, le fece scappare il Signorino."

"Sì, lo so, me lo ha detto Monsieur Laforest. Ma come mai la prima lasciò quando si sposò? Si trasferì altrove?"

"No, il padrone non vuole gente maritata al suo servizio: o nubili o vedove. Almeno per le donne."

"Siete sposato, voi?"

"Non ancora. Lo è il giardiniere. Ma la famiglia vive in città: non vuole mocciosi fra i piedi, il padrone."

Hervé pensò che il ragazzino doveva aver avuto una vita piuttosto solitaria, come lui d'altronde, anche se per altri motivi. Provò un'istintiva simpatia per l'enfant terrible che stava per conoscere e che era stato affidato alle sue cure.

Giunsero alla villa.

Sorgeva al limitare di un bosco che saliva su per la collina, ed era preceduta da una fila di campi. Il bosco occupava una metà del colle, l'altra metà essendo tutta a vigneti.

Era una costruzione dell'inizio dell'ottocento, in stile Impero, ampia, solenne, gradevole da vedersi, incastonata in quella verde natura.

Una lunga cancellata in ferro battuto ne recingeva il fronte lasciando solo lo spazio per uno stretto e lungo giardino, poi cedeva il posto a due muretti che piegavano indietro e salivano sul colle sperdendosi nel verde. Il cancello, dipinto in nero e oro, era spalancato. Il calessino si fermò davanti al colonnato centrale.

Il vetturino, mentre Hervé scaricava la sua valigia, salì le scale e chiamò il maggiordomo. Gli diede un altro biglietto da parte del padrone, quindi, fatto un cenno di saluto, tornò in città.

Il maggiordomo era un uomo sui cinquanta anni, non molto alto, asciutto, con un abito nero e solo i guanti bianchi ne rivelavano il ruolo.

"Io sono Clément, il maggiordomo. Dunque voi sareste il nuovo precettore del giovane Monsieur. Bene, dice qui il padrone che dormirete nel quartierino della governante. Vi troverete bene qui... finché durerete. Seguitemi."

Entrarono: un ampio ingresso con una elegante scala a forbice, colonne di vago stile egizio, un grande lampadario in centro, file di porte sia a pianterreno che al primo piano sull'elegante balconata.

L'uomo spiegava: "Solo voi, la cameriera e io dormiamo qui in villa, il resto del personale dorme sopra le scuderie. La cameriera e io dormiamo qui a pianterreno, accanto alle cucine, voi al primo piano, accanto alla camera dei Signori. Ora vi mostro la vostra camera, poi il resto della casa. Quindi vi presenterò al giovane Monsieur. Dice qui che dovete prendere servizio subito." disse agitando la missiva del padrone. "Ecco, voi dormirete qui." aggiunse poi aprendo una porta e facendosi da parte per farlo entrare.

Erano due stanzette, una dentro l'altra: la prima era un salottino con una poltrona e un basso tavolo, una angoliera a vetrinetta, vuota. Denotava il lungo uso da parte di una donna per i colori, per i disegni, e per l'insieme dell'arredamento. Ma la vera sorpresa fu la camera da letto: pareva una camera da bambole, tutta balze e pizzi, su una tonalità rosa e piena di fiori: fiori stampati sulla carta da parati, fiori sulle tende, fiori sul copriletto. Hervé fece come una smorfia.

Il maggiordomo la notò e disse: "Se volete cambiare qualcosa, potete farlo: metà a spese vostre e metà a spese della casa. E se ve ne andrete, resta tutto della casa. In magazzino ci sono altri mobili, comunque, e potete cambiarli."

"Oh dio, sì!" gemette il giovane, guardandosi attorno e pensando che neanche la zia avrebbe mai apprezzato uno stile tanto femminile. "Non c'è neppure uno scaffale per i libri!" aggiunse poi quasi sconcertato.

"Non aveva molto tempo per leggere, la governante, dovendosi occupare anche della casa. Per voi sarà diverso, dovendo solo prendervi cura del giovane Monsieur."

"C'è uno scaffale in magazzino?"

"Presumo di sì, ma si andrà a vedere in un altro momento, più tardi. Ora vi faccio visitare la villa e vi presento al resto del personale; venite."

Terminato il giro, conosciuta la servitù, Hervé chiese, prima di essere presentato al ragazzo, di rinfrescarsi e di mettere in ordine le sue cose.

In camera trovò acqua calda e un asciugamano al lavabo. Si guardò di nuovo attorno e rabbrividì: davvero non gli piaceva l'arredamento di quella stanza! Lo trovava semplicemente orribile! Doveva cambiarlo, e al più presto... Metà a sue spese e metà a spese del padrone: un modo per evitare follie. Più che altro doveva cambiare i parati e le tende.

Si spogliò restando a torso nudo, si rasò la barba, si lavò e si asciugò, si pettinò, fece un paio di smorfie alla propria immagine riflessa dallo specchio del lavabo, quindi mise una camicia fresca di bucato, il papillon e la leggera giacca estiva. Controllò nello specchio della toletta di essere in ordine: sì, l'immagine riflessa era gradevole. Non era un narcisita, Hervé, ma, doveva ammetterlo, si piaceva. E, anche se non se ne rendeva conto, piaceva a tutti quelli che lo guardavano: un uomo nel fiore della giovinezza, dai tratti eleganti, proporzionati, dallo sguardo chiaro e luminoso, le labbra dritte ma spesso piegate in un lieve sorriso che denotava la sua gioia di vivere. Un corpo atletico, né troppo in carne né troppo asciutto. Erano non pochi, uomini e donne, che lo trovavano non solo piacevole, ma attraente.

Uscì per andare a dire al maggiordomo che era pronto per incontrare il giovane Laforest.

Stava scendendo la scala quando da una porta uscì un ragazzino biondo che prese a salire dalla sua stessa parte. Senza alcun dubbio doveva essere il giovane Roland.

"Ciao! Tu devi essere Roland." lo salutò allegramente Hervé.

Il ragazzino sollevò gli occhi e lo guardò stupito: "Ciao..." disse incerto, poi soggiunse, mentre lo misurava da capo a piedi, "ma tu chi sei?"

"Sono Hervé..."

"Hervé?" chiese il ragazzino.

"Sono appena stato assunto. Dovrò prendermi cura di te."

"Ah, la nuova governante!" disse il ragazzo assumendo immediatamente un atteggiamento scostante.

Hervé rise: "Fino a prova contraria, non mi pare di poter sembrare una donna. Sono maschio dalla testa ai piedi, come te."

L'ombra di un sorriso apparve per un istante negli occhi del ragazzo a quella battuta, ma subito lasciò il posto a uno sguardo chiaramente ostile: "Governante o precettore, cambia poco."

"Per me cambia parecchio."

"Vi hanno già sistemato?" chiese il ragazzo e il giovane notò il brusco cambiamento dal tu al voi.

"Diciamo di sì, anche se la stanza, con tutti quei pizzi e merletti, mi dà i brividi. Voglio cambiarla... Mi aiuteresti?"

"Eh? Aiutarvi? Siete voi pagato per occuparvi di me, non io di voi."

"Guerra, eh?" commentò il giovanotto con un sorriso: il ragazzino gli piaceva.

"Mi devo andare a cambiare, se permettere, Monsieur."

"Sì, certo. Posso venire con te in camera? Visto che dovremo passare la maggior parte del nostro tempo assieme, tanto vale cominciare a conoscerci."

"Già, conosci il nemico." disse Roland acido, avviandosi verso la propria camera.

Non avendo, il ragazzo, detto di no, Hervé si sentì autorizzato a seguirlo.

Entrati nella stanza del ragazzo, Hervé sedette accanto alla scrivania mentre Roland iniziava a togliersi gli abiti. Si guardò attorno cercando di capire quali fossero gli interessi, i passatempi del ragazzo. Lettura, certamente, e questo gli fece piacere, e poi...

Roland, restato a petto nudo e mutande al ginocchio, si portò davanti al lavabo e iniziò a lavarsi vigorosamente. Hervé, terminato il giro della stanza con gli occhi, lo guardò. Lo vedeva di tre quarti, di schiena: quello che vedeva era un bel corpo, non più da bambino e non ancora da uomo, senza più l'ambiguità di forme dell'infanzia e già in via di maturazione. La schiena larga, liscia, la pelle morbida quasi vellutata ma la muscolatura ancora in via di definizione. Anche le gambe, sode, non erano più quelle di un ragazzino. Sotto le ascelle due folti ciuffi ne tradivano il grado di maturazione. Attraverso lo specchio ne vedeva anche parte del petto e del ventre. I piccoli capezzoli scuri e il ventre incavato erano piacevoli da guardare.

Lo sguardo di Hervé non era ancora colorato dal desiderio sessuale, il giovane infatti era ancora vergine, nonostante i suoi diciannove anni. Ma di una cosa era conscio: il corpo maschile gli sembrava bello almeno quanto quello femminile. Non che ne avesse visti, se non nelle riproduzioni d'arte durante i suoi studi... a parte il corpo di suo padre con cui faceva il bagno prima che morisse.

Suo padre, una volta che lui, mentre facevano il bagno, gli aveva giocosamente sfiorato il membro, ne aveva allontanato la mano con dolcezza, dicendogli che gli dava lievemente fastidio essere toccato lì. Poco dopo però, il piccolo Hervé aveva visto il membro dell'uomo allungarsi, ingrossare, drizzarsi e allora aveva chiesto al padre che cosa stesse accadendo.

L'uomo gli aveva detto di sedere nell'acqua davanti a lui e gli aveva spiegato: "Vedi, Hervé, il pene serve a tre cose. Una la sai già... che cos'è?"

"Fare la pipì?" aveva detto quasi sicuro di sé il piccolo.

"Esatto. Ma serve anche per altre due cose che capirai meglio quando sarai grande: a provare piacere e a fare bambini..."

"Fare i bambini? Con il pene? Tu hai fatto me con questo?" chiese il piccolo stupito, indicando il pene del padre.

"Certo: vedi, quando diventa duro come ora a papà, il papà lo può infilare in una fessura che la mamma ha qui fra le gambe al posto del pene, e, baciandosi, carezzandosi per tutto il corpo a vicenda e sfregandolo su e giù in quella fessura, sia la mamma che il papà provano un piacere sempre più forte finché dal pene esce come un liquido bianco pieno di semini invisibili. Se uno di questi semini riesce a entrare nel nido d'amore della mamma e incontra un uovo, anche lui tanto piccolo da non vedersi, il seme e l'uovo si uniscono e di lì nasce un bambino che per nove mesi cresce nella pancia della mamma e infine esce fuori."

"Allora per quello la mamma aveva il pancione prima che nascesse la mia sorellina?"

"Sì, proprio così."

"E anche per me tu hai messo un semino nel nido d'amore della mamma?"

"Sì, certo."

"Ma tu il semino l'hai messo solo due volte?"

"No: mettere il proprio seme nella persona che sia ama non fa sempre nascere un bambino. Lo si mette soprattutto perché è un gesto d'amore... e poi potrebbe anche nascere un bambino, ma questo lo decide il buon Dio, non gli sposi. E mettere il seme è comunque un gesto di amore e dona un grande piacere come sempre l'amore fa."

"Ma adesso, perché il tuo pene è diventato duro duro? Mica c'è la mamma qui!"

"A volte diventa duro da solo, a volte toccandolo, a volte perché sono con la mamma." gli spiegò dolcemente il padre.

"Ma prima mi hai detto che ti dava fastidio se lo toccavo, e dopo hai detto che dà piacere a toccarlo..." notò il piccolo con estrema logica.

"Dà fastidio essere toccato quando non si vuole fare l'amore."

"Non mi ami, papà?"

"Certo che ti amo, ma l'amore fra genitori e figli è diverso, non si esprime anche con il pene."

Il piccolo annuì: la spiegazione gli era sufficiente. Ma guardava affascinato il pene ancora eretto del padre.

Alla fine disse: "Posso toccarlo solo una volta? È così diverso da prima!"

Il padre sembrò incerto, poi disse: "E va bene, ma questa sarà la prima e l'ultima volta, d'accordo? E solo un po'."

Il bambino allungò la mano, lo sfiorò, poi lo cinse e strinse lievemente: era caldo, sodo, fremente.

Guardò negli occhi il padre che gli sorrise e disse con dolcezza: "Bene, adesso basta, Hervé."

Il piccolo annuì e tolse la mano, poi chiese: "Anche il mio diventerà così?"

"Certamente, ma fra qualche anno, a poco a poco. Tutto il tuo corpo sta crescendo e perciò anche il pene crescerà e maturerà, finché sarà in grado di produrre il seme. Quando sarai completamente sviluppato, sarà ora di cominciare a pensare a trovarti una sposa a cui donare il tuo amore e quindi anche il tuo seme. Hai capito?"

"Certo papà. E così anche io avrò i miei bambini e tu sarai nonno." concluse il piccolo annuendo.

Il padre lo abbracciò e gli disse: "E sarò felice e fiero di te."

Suo padre era stato l'unico uomo nudo che avesse mai visto e potuto anche toccare. E il corpo del padre gli era sembrato bellissimo, sia con il membro morbido che quando l'aveva visto dritto e duro. E quel magico momento di intimità, non lo avrebbe dimenticato mai.

In seguito, almeno fino a quando era entrato in convitto, non gli era mai più capitato di poter vedere un maschio nudo. Al convitto neppure, a dire il vero, ma quando andavano a fare la doccia dopo le attività sportive, anche se dovevano farla con le mutande indosso, aveva potuto vedere la seminudità dei suoi compagni e, uscendo dalla doccia con le mutande bagnate e aderenti al corpo, aveva potuto intravedere anche la forma e le dimensioni degli attributi dei compagni. Poi dovevano mettersi indosso un ampio accappatoio e cambiarsi sotto questo in modo di non essere visti: uno dei sorveglianti era sempre presente perché le regole fossero rispettate.

In convitto, a quattordici anni, ebbe la sua prima pseudo-esperienza sessuale. Aveva spesso erezioni, ma aspettava semplicemente che gli passassero. Aveva anche qualche polluzione notturna, ma lui già sapeva che stava semplicemente cominciando a produrre il seme.

Una sera un compagno di classe gli aveva sussurrato: "Lo sai? Se la notte ti metti a letto nudo e togli il lenzuolo da sopra a te, e poi con una mano ti accarezzi il corpo e con l'altra ti accarezzi il coso, pian piano ti sembra di essere in paradiso, e alla fine ti esce un latte bianco, così non sporchi le mutande e la camicia da notte e le lenzuola. Due piccioni con una fava."

"Sì, lo so." aveva risposto lui ripensando alle spiegazioni del padre.

Ma non sapeva ninente sul fatto di carezzarsi il corpo da soli: aveva sempre pensato che si dovesse essere in due.

Così quella notte provò: dopo che fu passato il sorvegliante di notte, si tolse di dosso le lenzuola, si denudò e iniziò a carezzarsi. All'inizio era vagamente piacevole, ma poi il piacere aumentò, aumentò ancora finché, in una sequela di spasmi, il suo pene duro e fremente contro il ventre, si scaricò con una serie di piacevolissime contrazioni e di fiotti. Rimase per alcuni istanti immobile, respirando pesantemente, gustando quelle sensazioni che pure stavano svanendo, rilassandosi a poco a poco e pensò che doveva essere bellissimo farlo con la persona che si ama, l'uno all'altro. Ti amo tanto che voglio portarti in paradiso... vieni... pensava.

Dopo quella notte lo rifece spesso e pian piano imparò a conoscere il proprio corpo, a capire dove e come toccarsi per aumentare il piacere, come fare a prolungare, abbreviare, rendere più intenso il piacere.

Pensò: "Ecco, adesso conosco due degli usi del pene. Mi manca solo il terzo: fare un bambino. Ma arriverò anche a quello, devo solo finire di svilupparmi."

Mentre si masturbava la sua mente era totalmente vuota, piacevolmente bianca, nessuna immagine accompagnava quelle notturne sessioni solitarie. Al massimo, qualche volta, rivedeva l'immagine del padre adagiato nella vasca che lo guardava con quel suo bel sorriso pieno d'amore mentre lui ne ammirava il corpo adulto, maturo, maschio. Non era un'immagine sensuale, ma solo un modello: anche io un giorno sarò bello così, si diceva l'adolescente mentre si masturbava con crescente perizia.


Hervé guardava il corpo di Roland e pensava che anche lui si stava formando a poco a poco e che sarebbe diventato un bell'uomo. E provò il desiderio di alzarsi e di toccare quel torso nudo, per sentirne la freschezza e la sodezza. A questo pensiero sentì qualcosa risvegliarsi fra le gambe, premere sotto i suoi panni. Non li collegò immediatamente come causa ed effetto: in fondo era ancora un ragazzo ingenuo, nonostante i suoi diciannove anni.

Roland si stava rivestendo. "Ma dovete proprio sorvegliarmi anche mentre mi lavo?" chiese indispettito.

"Sorvegliarti? Ma che dici. Mi piace stare in compagnia, è tutto. E magari parlare un po' con te."

"Non mi va di parlare." rispose il ragazzino asciutto sedendo dall'altra parte del tavolo, aprendo il libro che vi era posato sopra e immergendosi in lettura.

Hervé lo osservò divertito: un osso duro, il ragazzino. Il bel ciuffo di capelli biondi, un po' ribelli, gli ricadeva sulla fronte nascondendone gli occhi verdazzurri. Il giovane si chinò un poco per leggere il titolo del libro: "Robinson Crusoe", lesse; non lo conosceva, non doveva essere letteratura francese.

D'improvviso il ragazzo alzò gli occhi dal libro e lo guardò: "Tra poco è ora di cena. Voi cenerete in cucina con i dipendenti, come han sempre fatto tutte le governanti."

Hervé sorrise, ma non corresse il ragazzino: se si divertiva a dargli della governante, facesse pure.

Questi continuò: "Io invece cenerò in sala da pranzo, si capisce."

"Molto bene. E che cosa faremo dopo cena?" chiese soave Hervé.

Il ragazzino aggrottò le sopracciglia: "Dopo cena? Dopo cena... io verrò qui a leggere il mio libro. Voi fate quel che più vi aggrada." rispose quasi stizzoso.

"D'accordo. Ma tu leggi tutto il giorno? Non fai sport, non vai a cavallo? Non hai qualche altro divertimento?"

"Non dopo cena, comunque." rispose secco Roland e si riimmerse nella lettura del suo libro. Poi risollevò lo sguardo e, in aria di sfida, disse: "E perché vi ostinate a darmi del tu mentre io vi do del voi?"

"E perché ti ostini a darmi del voi quando io ti do del tu?" ribatté con lo stesso tono, facendogli il verso, il giovane, poi soggiunse con tono normale: "Abbiamo solo cinque anni di differenza."

"E una diversa posizione sociale, mi pare." precisò acido il ragazzino, ma così dicendo arrossì: evidentemente non era una scusa in cui credesse molto.

"Ma io sono ostinato almeno quanto te." ribadì blando Hervé facendogli un sorriso amichevole.

Roland si rimise a leggere e non lo degnò più di uno sguardo né di una parola finché suonò la campana della cena.

"Potete scendere," disse il ragazzino secco, alzandosi in piedi.

"Grazie per il permesso, altezza serenissima!" rispose con occhi divertiti il giovane alzandosi a sua volta e facendogli un inchino caricaturale.

E scese fino alle cucine.

A tavola lo riempirono di domande: di dove venite, quanti anni avete, dov'è la vostra famiglia, e così via. Lui rispondeva cortesemente con un sorriso, ma la sua testa era altrove. Era su, nella sala da pranzo: come avrebbe fatto ad addomesticare il ragazzino? Se solo fosse riuscito a farlo ridere, la metà del lavoro sarebbe stata fatta: attraverso una buona risata passa la via maestra della vera comunicazione.

Così, a un tratto chiese: "Com'è il signorino?"

Questo improvviso cambiamento di argomento prese alla sprovvista un po' tutti.

Il maggiordomo disse: "Un ragazzino, ancora, ma con carattere."

"Non è cattivo... con noi si comporta bene, solo con le governanti... ne ha fatte di tutti i colori!" disse bonaria la cuoca anziana.

La cuoca giovane ridacchiò: "Sì sì, proprio di tutti i colori. Pensate che a Mademoiselle Juneaux, che l'aveva praticamente allevato dopo la morte della povera Madame Laforest, arrivò a farle la pipì sopra."

"Beh, non è raro che i bambini piccoli si facciano la pipì addosso." disse Hervé.

Tutti ridacchiarono e la cuoca giovane spiegò: "Quello di farsi la pipì addosso quando era sulle gambe di Mademoiselle fu solo l'inizio. No no, le fece la pipì sopra, ho detto. Una sera, mentre Mademoiselle leggeva in salotto, lui scivolò silenziosamente sopra il tavolinetto delle chicchere che era alle spalle di Mademoiselle, senza farne cadere neppure una, si aprì i calzoncini e la annaffiò sull'acconciatura, sul collo, sulla schiena..." e all'idea rise quasi convulsamente.

"Beh... farò attenzione a non sedermi mai con un tavolino di dietro." mormorò Hervé divertito anche lui all'idea della terribile birichinata.

"No, ormai è cresciuto." disse scuotendo il capo il giardiniere.

"Sì sì, cresciuto," sentenziò la cameriera, Josette con un'espressione maliziosa, "sta diventando maturo, almeno laggiù!" aggiunse indicandosi verso l'inguine.

"E che ne sai tu?" la rimbeccò il vetturino.

"Lo so, lo so, eh, se lo so. Più di una mattina ho trovato la sua camicia da notte con una macchia inequivocabile proprio davanti, al punto giusto! È chiaro che il signorino si..." disse e, interrompendosi, fece il gesto con la mano.

La cuoca giovane ridacchiò.

Hervé fulminò la donna con gli occhi: "Se anche fosse, non sta a voi a rendere pubblica la vita privata del Signorino. Quello che venite a sapere per via del vostro lavoro, dovete tenerlo per voi!" disse con voce dura e secca.

La cameriera ridacchiò: "Oh, ma fra noi... mica vado a dirlo in giro, no?"

"Ci mancherebbe altro," disse il maggiordomo, "e comunque ha ragione il Signor Hervé, questi sono pettegolezzi gratuiti che fareste meglio a evitare."

"Uuuhhh, quante storie: prima abbiamo pure parlato della pipì su Mademoiselle, no?"

"Ma quella era una cosa pubblica, che tutti sapevamo perché Mademoiselle lo raccontò. Il precettore ha ragione. Se anche fosse vero che si dà piacere con la mano, questa è una cosa privata che non sta a voi divulgare." disse il vetturino.

"Se anche fosse vero? È vero! L'odore era inconfondibile!"

"E che ne sapete voi dell'odore, se non siete ancora sposata?" chiese con bonaria malizia il giardiniere.

La cameriera arrossì, colta in fallo.

Hervé allora disse: "Inoltre potrebbe essere stata semplicemente una polluzione notturna."

"Pollu... che?" chiese la cuoca aggrottando le sopracciglia.

"A volte, specialmente ai maschi giovani, il seme esce da solo, mentre dormono. È un fenomeno naturale." spiegò Hervé.

"Ve l'hanno spiegato a scuola, o...?" chiese Josette maliziosa.

"Certamente, a biologia." rispose il giovane sereno.

"Oh dio che discorsi! Vogliamo cambiare argomento per favore?" intervenne il vetturino guardando imbarazzato la cuoca giovane che stava in silenzio, ma bevendosi tutte quelle spiegazioni.

"Comunque, avrete del filo da torcere, col signorino. Vedremo quanto resisterete..." disse Sophie, la cuoca anziana.

"Resisterò, resisterò, non dubitate."

"Sembrate sicuro di voi." disse il maggiordomo, "Meglio così."

"Non è presunzione, credetemi. Vedete, sono un orfano anche io e ho perciò molto in comune con il giovane Roland. Credo di capirlo. E anche lui mi capirà. Inoltre sono maschio come lui, ho solo cinque anni più di lui: tutte ottime carte da giocare. E le giocherò, siatene certi." disse a mezza voce Hervé quasi parlasse più a se stesso che agli altri.

"Beh, auguri!" disse Sophie alzandosi, quindi, rivolta alla cuoca giovane, disse: "Su, Danielle, aiutami a rigovernare."

"Io devo andare a prendere il padrone." disse Alain, il vetturino. Anche Hervé si alzò e, salutati gli altri, salì in camera sua: gli era venuta un'idea...


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