LA CERTOSA
DI MONTSABOT
PARTE PRIMA
1 - HERVÉ E ROLAND

Hervé aspettava con una certa nervosità di essere chiamato sul palco. Si girò a guardare verso sua zia che era seduta più indietro: era ancora sorpreso per il fatto che la donna si fosse scomodata a venire per la cerimonia del suo diploma. La zia stava ascoltando, seria e impettita, il discorso del decano e non guardò mai verso il nipote.

Il vicino di sedia gli dette una discreta gomitata richiamandolo all'attenzione: non stava bene che i diplomandi si distraessero proprio mentre il decano parlava.

Hervé finse di ascoltare il noioso discorso ma i suoi pensieri erano mille miglia lontani da lì. Ripensava alla sua vita. Non come a un film completo che si svolge su uno schermo ma piuttosto come a spezzoni disordinati, guardati su una moviola, ora al rallentatore, ora a velocità maggiore, spezzoni ancora da montare in un racconto coerente.

La zia era venuta a prenderlo, quando lui era rimasto tragicamente solo. Lui non amava la zia. Non che la odiasse, piuttosto non si sentiva a suo agio con la sorella maggiore di sua madre, rimasta zitella, una donna asciutta, ossuta, impettita, severa. No, non l'aveva mai amata. Però ora era tutto quello che gli restava. E comunque si era presa cura di lui.

Non gli aveva fatto mancare nulla, doveva ammetterlo. Nulla... a parte il calore umano, l'affetto di cui aveva sentito un terribile bisogno. Probabilmente non era colpa sua, probabilmente la donna non si era mai sentita amata e perciò non era mai stata capace di amare. Aveva un forte senso del dovere, sua zia, questo sì. E quando aveva dovuto prendersi cura del piccolo, rimasto orfano a soli dieci anni, non si era tirata di certo indietro.

La terribile disgrazia... padre, madre e sorellina minore... il calesse ribaltato giù per la scarpata... resi irriconoscibili... Non gli avevano permesso di vederli, perché non volevano che il piccolo si impressionasse. Ma questo divieto era stato crudele per il ragazzino, aveva scosso Hervé molto più che non vedere i corpi straziati dei suoi cari.

No, non gli aveva fatto mancare nulla la zia, né abiti né cibo. E soprattutto non gli aveva fatto mancare l'istruzione, gli studi che lui amava tanto. Il ragazzino aveva preso dai genitori il gusto per gli studi, la curiosità intellettuale, il piacere della scoperta, del ragionamento.

Suo padre era un maestro, la madre non lavorava, stava in casa, ma, essendo figlia di un noto medico, aveva studiato e aveva anche una notevole cultura umanistica, che in gran parte si era fatta con le sue sole forze.

Quando il piccolo Hervé era stato iscritto alle elementari, già sapeva leggere e scrivere. E non solo quello: sapeva suonare il flauto dolce, sapeva riconoscere i capolavori d'arte, conosceva brani di scrittori famosi che a volte il padre gli leggeva per farlo addormentare e che il piccolo, con la sua prodigiosa memoria, ricordava, se non parola per parola, nella loro essenza.

Suo padre... Sì, gli erano mancate la tenerezza e il sorriso di sua madre, ma ancor più aveva sentita acuta la mancanza della disponibilità e della sicurezza che gli dava suo padre.

Come pure la libertà di cui aveva goduto con loro.

Ricordava bene, pochi mesi dopo essere stato accolto dalla zia in casa sua, lo sguardo scandalizzato della donna quando, entrando nella stanza in cui lui stava facendo il bagno nella tinozza di zinco, aveva visto che il ragazzino era completamente nudo.

Al ricordo Hervé sorrise e gli tornarono in mente le perentorie parole della zia: "Copriti immediatamente, ragazzino svergognato! Le proprie intimità non si devono mostrare mai a nessuno, neppure a se stessi!"

Lui, sorpreso, aveva ribattuto: "Ma, zia, come posso lavarmi il pene se tengo indosso le mutande?"

La zia era diventata rossa e, facendo un visibile sforzo per restare calma, aveva detto: "Non ci si lava... lì! Non ci si tocca lì! Quello si lava da solo: è l'acqua che ci pensa a lavarlo. Toccarsi o guardarsi lì... è fare un grave peccato! Guai a te se ti vedo un'altra volta in questo... in questo stato!" ed era uscita impettita.

Un grave peccato? No, non era possibile, la zia doveva essere un po' strana. Cosa avrebbe detto se avesse saputo che lui faceva sempre il bagno assieme al padre, nudi tutti e due, nella stessa tinozza? E lui aveva guardato e toccato... toccato suo padre anche lì. Per lavarsi.

Rivide il corpo di suo padre: un bell'uomo, snello ma forte.

Un giorno, mentre facevano il bagno, aveva chiesto a suo padre: "Papà, diventerò anch'io bello come te, un giorno, da grande?"

"Certo, e diventerai anche più bello di me!" gli aveva risposto il padre con un ampio sorriso.

Sì, doveva ammetterlo, era cresciuto bene, aveva un bel corpo, specialmente grazie alle attività di ginnastica e sportive che aveva praticato a scuola. Ma non era ancora, almeno ai propri occhi, bello come suo padre!

Anche se la zia, una volta, gli aveva detto: "Più cresci, più gli somigli."

Non aveva avuto bisogno di chiedere a chi intendesse riferirsi con quel "gli".

Era strano, nove anni dopo quel tragico incidente, l'immagine della sorellina nella sua mente era completamente svanita, quella della madre si era scolorita, solo quella del padre restava intatta. Li aveva amati tutti, ma aveva adorato suo padre. Forse l'aveva anche idealizzato, chissà... ma per lui era restato un modello, un ideale da imitare, anzi da uguagliare.

Per questo aveva voluto anche lui studiare per diventare insegnante come suo padre. La zia non s'era minimamente opposta. Lo aveva anzi iscritto nella migliore scuola, anche se era così lontana dalla loro casa e anche se la retta costava tutt'altro che poco. Lui comunque si era impegnato a fondo nei suoi studi e perciò, alla fine del primo anno, aveva vinto una borsa di studio grazie ai suoi brillanti risultati.

Certo, il cambiamento nella sua vita... i cambiamenti, per meglio dire. Il primo quando, restato orfano, aveva dovuto lasciare la sua piccola cara città, i luoghi a lui familiari, i suoi amici e compagni, per trasferirsi nella casa della zia: un'antica e austera casa isolata, sul dorsale di una collina, distante da tutto e da tutti. Nessun vicino, nessun amico con cui giocare. Anche i compagni di scuola: non poteva invitarli in casa della zia, e perciò non poteva neanche accettare i loro inviti.

"Non voglio certo avere una banda di ragazzini screanzati che imperversi qui dentro casa mia!" aveva sentenziato la donna la prima volta che lui aveva provato a chiederle se potesse invitare qualche compagno di classe a passare il fine settimana lì con lui.

La zia lo portava a scuola in calessino ogni mattina e tornava poi ad attenderlo all'uscita, puntuale come l'orologio della chiesa. Per percorrere la strada fra l'antica casa e la scuola, occorrevano quasi tre quarti d'ora di cammino al trotto. D'altronde la donna non aveva nulla da fare, viveva di rendita, lei. A differenza di papà che aveva dovuto lavorare sodo, insegnando a scuola la mattina e dando qualche lezione privata nel pomeriggio. Eppure suo padre aveva sempre trovato il tempo per stare con il figlio. La zia no.

Così, Hervé, dopo la morte dei suoi, era cresciuto solitario, nonostante il suo desiderio di avere amici. Non gli era pesato molto: aveva riempito il suo tempo con gli studi e con letture: la zia aveva una bella e ricca biblioteca, anche più fornita di quella dei suoi genitori.

Il secondo cambiamento era avvenuto a quindici anni, quando era entrato nel convitto della grande città per studiare. Un convitto austero, tenuto dai padri gesuiti. Ogni ragazzo aveva la sua cameretta. Lezioni il mattino, studi il pomeriggio, passeggiata la sera, nella buona stagione, poi il "coprifuoco": ognuno in camera propria dopo essersi lavati al lavatoio comune. Gli unici momenti in cui poteva parlare con i compagni era durante i pasti e durante la passeggiata. In tutti gli altri momenti, era tempo di "silenzio", il che significava che potevano parlare solo se interpellati da un superiore o da un sorvegliante, ma assolutamente non fra di loro. Pena severe punizioni.

Quindi, di nuovo solitudine. Ma questa solitudine era, per certi versi, peggiore di quella che aveva patito a casa della zia: lì almeno era veramente solo. Nel convitto, invece, era a contatto di gomito con i suoi compagni ma gli era proibito comunicare. Di nuovo lo avevano salvato e gli studi e l'amore per la lettura, a cui aveva aggiunto una terza passione: il disegno.

Il loro insegnante di disegno, il Padre Duvalier, era veramente un ottimo insegnante e soprattutto sapeva entusiasmare i suoi allievi. Certamente assai più dell'insegnante di latino.

"Monsieur Brout Hervé!" chiamò una voce.

Il ragazzo si scosse ed ebbe come un brivido lungo la schiena: era arrivato il suo turno, non s'era neppure reso conto che già avessero iniziato a consegnare le pergamene dei diplomi.

Si alzò e salì sulla pedana, emozionato. Il decano, con la severa cappa accademica drappeggiata indosso, pronunciò la formula di rito e gli consegnò la pergamena col diploma di stato. Prendendola, Hervé si inchinò lievemente, poi si inchinò verso il corpo insegnante, infine verso la platea di compagni e familiari, come gli era stato insegnato a fare. Poi tornò al proprio posto. Allora notò che la zia, con un etereo fazzolettino di pizzo, si stava asciugando una lacrima dall'angolo dell'occhio.

Questo lo colpì: non aveva mai visto la zia piangere, non aveva versato una lacrima neppure ai funerali dei suoi!

"A modo suo, anche la zia mi vuole bene," pensò come folgorato a quell'idea. "Ma allora... perché non me l'ha mai dimostrato fino a oggi?" si chiese, piuttosto perplesso.

Questa scoperta gli procurò come un intenso calore indosso, e di colpo si sentì di nuovo un bambino, ma questa volta un po' meno sperduto di quando era entrato nella grande casa, e nella vita, della zia.

Terminata la cerimonia ci fu il rinfresco per tutti i diplomati, le loro famiglie e il corpo insegnante. La zia, come al suo solito, non mangiava: spilluzzicava delicatamente.

A un tratto la donna gli chiese, col suo solito tono asciutto: "Ed ora, nipote Hervé Brout, che avete intenzione di fare?"

Il ragazzo la guardò, poi disse, incerto: "Cercarmi un lavoro... possibilmente come insegnante."

"Quindi, immagino, non progettate di tornare in casa con me."

Non era una domanda, ma una constatazione, asciutta, senza emozioni apparenti.

"No, non credo... Il Prefetto mi ha detto che posso ancora dormire qui nella mia stanzetta fino a una settimana prima dell'inizio del nuovo anno scolastico, così nel frattempo mi potrò cercare un lavoro."

"Ho pensato che potreste avere bisogno di un po' di danaro. Perciò ho già provveduto ad aprire un conto a vostro nome presso la banca che c'è qui di fronte alla vostra scuola: ogni mese potrete andarvi a ritirare una mensilità fino a quando compirete ventuno anni, cioè per ancora due anni."

"Vi ringrazio, zia."

"Dovere." rispose la donna asciutta.

Bene, questo gli dava ancora un po' di respiro. Non aveva chiesto quanto fosse la mensilità, ma certamente la zia, da donna precisa quale era, aveva calcolato un affitto medio di una stanzetta, due normali pasti al giorno e un abito per ogni cambio di stagione. Ci avrebbe giurato. Comunque il suo era un gesto assai premuroso.

La zia andò a ringraziare il corpo insegnante, a ossequiare i Padri gesuiti, quindi salutò il nipote e ripartì.

"Hervé, vieni a festeggiare con noi, stasera?" gli chiese Daniel, un compagno di studi.

"E perché no? Finalmente siamo liberi!" rispose con un sorriso il ragazzo.

Daniel gli era simpatico: nonostante fosse di famiglia molto ricca, non aveva mai messo su arie e, per quel poco che il convitto permetteva, era quanto di più vicino a un amico avesse potuto avere lì dentro.


"Papà, non intendo minimamente mancarvi di rispetto, ma... una nuova governante non la voglio! Ho quattordici anni, ormai!"

"Quattordici anni, quattordici anni: non siete ancora in grado di badare a voi stesso! E io, lo sapete bene, sono troppo preso dagli affari per potermi prendere cura di voi con continuità. E poi, è la casa che ha bisogno di una governante, questo siete in grado di capirlo anche voi!"

Sì, era vero, non si prendeva cura di lui: spesso non vedeva il padre per quasi tutta la settimana, e anche la domenica... probabilmente la passava con l'amante. Ma Roland non aveva intenzione di cedere su questo punto.

"Comunque non voglio una governante che si occupi anche di me!" protestò ancora. Poi aggiunse: "Oppure la farò scappare come Madame Sorel!" e si morse la lingua.

Ma il padre non parve meravigliato della cosa. Semplicemente non rispose e, salito sul calessino, fece cenno al vetturino di partire: il dovere lo chiamava e aveva già perso anche troppo tempo con il figlio.

Ma Monsieur Laforest, durante il tragitto, ripensò che in parte il figlio aveva ragione: ormai era diventato un ometto e dover stare fra le sottane di una donna come un bambino doveva iniziare a pesargli. Eppure non poteva lasciarlo solo: un ometto, sì, ma in fondo ancora troppo giovane... Avrebbe trovato una soluzione. Ah, se solo fosse stata ancora viva la sua povera moglie buonanima!

Roland rientrò in casa, arrabbiato e più che mai deciso a non cedere. Una governante! Certo, le aveva fatte scappare lui, e se ne sentiva fiero. Madame Sorel era stata la più ostica, ma c'era riuscito. Aveva preso con freddezza il rospo fra le lenzuola e, dato che Roland vi aveva anche messo un cartello con su scritto: "Provate a baciarlo, chissà che diventi un bel principe. Roland" la donna aveva detto acida: "Almeno questo avete di buono: che non siete il tipo che tira il sasso e nasconde la mano!"

Aveva resistito al topo infilato nella toeletta della donna, anche se aveva starnazzato come un'oca nel vederlo scappare quando ne aveva aperto lo sportello, non aveva fatto una piega quando lui le aveva messo il sale nel caffè... ma quando infine Roland, passato un intero pomeriggio nel parco della villa, aveva raccolto un barattolo pieno di vermi di tutti i tipi, lombrichi, vermi pelosi, vermicelli verdi e gialli, vermi neri, e ne aveva distribuito un po' per ognuno dei vasi di camelie sulla finestra della stanza di Madame Sorel, e quando la donna era rientrata in camera a sera e aveva visto quell'ammasso brulicante, ebbene, questa era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. La donna si era licenziata in tronco!

Roland, ripensandoci, sorrise dentro di sé divertito. No, un'altra governante... l'avrebbe certamente fatta scappare a gonne levate, più veloce del vento, giurò fra sé e sé.

Il padre, preso dagli affari dell'acciaieria, s'era dimenticato del problema della governante. Lui doveva lavorare sodo, se voleva che la sua industria diventasse ancora più importante: dalla bottega di fabbro del nonno alle moderne accierie a cui lui aveva dato vita continuando l'opera del padre, ne era passata di acqua sotto i ponti! Ma non poteva mollare neppure per un attimo. La gente pensa che i ricchi facciano soldi stando in panciolle, ma lui sapeva bene che è tutt'altro che così!

Durante il parco pranzo che s'era fatto portare in ufficio, però, l'industriale si ricordò del problema del figlio... Una governante... Beh, forse poteva dare un colpo al cerchio e uno alla botte: una governante che si occupasse della casa e della tenuta e un precettore per il piccolo. Un costo in più, ma... Magari, pensò, prendendo un ragazzo appena diplomato dai gesuiti, non avrebbe dovuto pagarlo troppo. Uno di quei ragazzotti di campagna che sarebbero stati solo felici di lavorare in una casa importante.

Terminato il pasto, decise di andare subito dai reverendi padri gesuiti: "Prima mi tolgo il dente," pensò, "meno mi farà male".

E un'inserzione sul giornale per trovare una nuova governante... Sì, prima dai Gesuiti, e poi al giornale.

"Così posso lavorare tutto il pomeriggio senza pensieri." si disse mentre il calessino fermava accanto al Convitto.

Fu subito ricevuto dal Rettore: Laforest era troppo importante per essere fatto attendere.

Quando ebbe spiegato che cosa cercasse, il sacerdote gli disse: "In effetti abbiamo un ottimo ragazzo, di buona famiglia, appena diplomato e in cerca di un lavoro. È un orfano: un tetto e un lavoro sarebbero perfetti per lui. È un ragazzo di buoni sentimenti e di merito, ve lo assicuro."

"Se lo raccomandate voi, Padre, sarà certamente la persona giusta. Anche se il mio ragazzino, devo ammetterlo, è un caratterino difficile. Sarebbe possibile incontrare subito questo ragazzo di cui mi parlate?"

"Penso di sì, lo mando a chiamare. E... potete tranquillamente parlare con lui qui nel mio studio, vi lascerò soli, dopo aver fatto le presentazioni."

"La ringrazio, Padre. Se il ragazzo si rivelerà la persona giusta, mi ricorderò delle vostre opere."

Non dare mai niente per niente, era chiaramente la sua filosofia: prima vediamo se la merce è buona e solo poi pago.

Roland frattanto stava nella sua stanza, immerso in lettura. Stava leggendo il "Robinson Crusoe" in inglese... e sognando di essere lui a vivere quella incredibile avventura. Non lo avrebbe preoccupato di essere solo in un'isola, lui era abituato alla solitudine. Nessuno dei servi di casa aveva figli, e anche quando a volte si trovava con i cugini, erano sorvegliati a turno dalle varie governanti col loro severo cipiglio. E poi i cugini erano noiosi... I suoi veri amici erano i libri.

"Signorino, dovrei rifare la camera." disse la voce querula della cameriera da dietro la porta.

Josette... Roland si alzò in fretta e andò a controllare la camicia da notte: no, non c'erano tracce compromettenti.

"Entrate" disse allora.

"Scusatemi, signorino, se non vi dispiace, potreste andare in un'altra stanza, almeno non vi disturbo?" chiese la donna entrando con i secchi e le scope.

Roland uscì senza rispondere, portandosi dietro il libro.

Josette... doveva avere ventisette anni, era al loro servizio da quando lui si ricordava. Josette che lo guardava con occhi maliziosi che lo mettevano a disagio, da quella volta che...

Era stato circa un anno prima. Roland aveva avuto la sua prima polluzione notturna. La mattina s'era svegliato e aveva notato una macchia umida sul davanti della sua camicia da notte, proprio lì davanti, all'altezza dell'inguine. Lì per lì aveva temuto di essersi fatto la pipì addosso e la cosa l'aveva imbarazzato non poco. Non gli era mai capitato, prima. Ma poi, toccandosi, aveva notato che era qualcosa di appiccicoso. Aveva portato le dita al naso e aveva sentito un odore strano. E il liquido era biancastro e mucillaginoso... non era pipì, pareva piuttosto... pus!

Preoccupato si alzò la camicia da notte, seduto sul letto, e si esaminò accuratamente la zona sottostante la macchia: passò le dita sull'inguine, poi sui testicoli, sul pene... niente. Eppure quel liquido era lì. Allora, lentamente, fece scivolare giù la pelle del suo piccolo membro per vedere che non ci fosse una pustola interna, e vide che lì ce n'era altro di quello strano liquido, quindi veniva proprio di lì. Brillava, quasi. Aveva un odore particolare... come di liscivia. Ma tutto pareva in ordine. Fece scivolare ancor più giù la pelle del prepuzio fino a scoprire completamente il glande. Niente.

L'unica cosa che notò, fu che il suo membro stava crescendo di volume... eppure non provava lo stimolo di fare la pipì. Fece scivolare di nuovo in su la pelle, ancora preoccupato ed esaminò di nuovo accuratamente il membro. No, no, niente, era sano, roseo, liscio come velluto. Ancora una volta fece scivolare giù la pelle fino a scoprire completamente il glande e notò che il suo membro continuava a crescere in volume e lunghezza. Con un fazzoletto lo ripulì delicatamente: il lieve sfregare della morbida tela di batista sul glande gonfio gli procurò una sottile sensazione, come un tremolio, piacevole. Lo passò e ripassò anche quando era ormai completamente pulito: la sensazione si faceva sempre più forte, sempre più gradevole.

Sorpreso, compiaciuto, proseguì: la sinistra teneva giù la pelle e la destra sfregava il glande e il suo pene era duro come mai prima, pulsava e il piacere aumentava. Un qualcosa di mai provato, di misterioso stava accadendo in lui. Il fazzolettino di batista gli sfiorò i testicoli e si accorse che anche lì gli dava piacere e che anche il sacchetto s'era come ristretto, indurito e non era più soffice come al solito. Lasciò andare il fazzoletto e si carezzò con i polpastrelli: fremette. Era bello toccarsi così, molto bello. Come mai non se n'era mai accorto prima, neppure quando si faceva il bagno e se lo sfregava con la spugna?

Chiuse gli occhi mentre si carezzava, ora con entrambe le mani, i genitali gonfi e palpitanti, quasi ad assaporare meglio quelle strane sensazioni. Un lieve, dolce tremito lo percorse e capì che stava per accadere qualcosa. Riaprì gli occhi e guardò la punta del glande scoperto e ora arrossato e dal taglietto vide sgorgare come una goccia chiara di liquido perlaceo. Non era certamente pipì, era quella cosa bianca... per farla uscire meglio, spremette l'asta dura, dal basso in alto, due o tre volte e la perla ingrandì il piacere aumentò: si rese conto che stringendo il proprio pene con la mano e muovendola su e giù le sensazioni aumentavano e si facevano di un'intensità tale da fargli tremare tutto il corpo.

Strinse maggiormente la mano, la mosse più rapidamente su e giù: oh dio! questo era piacere puro! Il respiro gli si fece pesante, quasi affannato, tremiti sempre più intensi gli si diffondevano dal pene su su per il corpo, giù per le gambe. Dovette lasciarsi cadere indietro sul materasso, sentendosi improvvisamente senza forze, ma la sua mano si muoveva su e giù sull'asta calda e l'altra carezzava i testicoli sodi e tesi. Improvvisamente ci fu come una scossa elettrica, uno spasmo, e sentì che stava uscendo qualcosa dalla punta del suo membro. Aprì gli occhi e vide che il liquido bianco gli stava colando sulla mano e si sentì di colpo debole debole... Ma di una debolezza dolcissima.

Il corpo gradualmente si rilassò con una serie di tremiti sempre più distanziati. Finché un basso e tremulo sospiro gli sgorgò dal profondo dei polmoni e si rilassò completamente. Allora portò la mano bagnata davanti al volto per sentirne l'odore: strano, ma gradevole. Il liquido colò e non fece a tempo a togliere la mano, che un filo lucente gli scivolò sul volto e lo sentì anche sulle labbra.

Istintivamente, senza pensare, si leccò le labbra: anche il gusto era strano, ma piacevole. Allora portò la mano bagnata dal suo seme alla bocca e leccò ancora: questa volta lo sentì lievemente salato, o per meglio dire, dolce-salato. Non era certo pipì, né pus. Qualunque cosa fosse, era il risultato di un piacere intenso, bellissimo.

Con la camicia da notte si ripulì, poi, sentendosi di nuovo in forze, si alzò. Andò a lavarsi, si vestì, lasciando, come al solito, la camicia da notte su letto sfatto.

E non ci pensò più. Ma poco dopo arrivò Josette a rifare la camera. Presa la camicia da notte, vide la macchia.

La portò al naso e l'annusò, poi si girò verso il ragazzino e disse con aria maliziosetta: "Oh, il signorino sta diventando un uomo, eh?" sventolò la camicia da notte come un trofeo e rise.

Roland non capì che cosa volesse dire la cameriera, ma lo sguardo malizioso, il fatto che avesse scoperto quella macchia, lo fecero arrossire e si sentì terribilmente imbarazzato. La donna si mise a pulire la camera continuando a ridacchiare. Roland uscì per evitare le occhiatine divertite e malliziose della cameriera, che lo infastidivano.

Per un po' non fece più nulla, nel timore che la cameriera ridesse di nuovo di lui. Ma il ricordo di quell'intenso piacere non lo abbandonava, così, infine, pochi giorni dopo, decise di riprovarci: solo che questa volta teneva un tovagliolo a portata di mano per non macchiare la camicia da notte.

E riprovò quelle meravigliose sensazioni che le sue mani e i suoi genitali suscitavano nel suo corpo ed emise di nuovo quel liquore profumato.

Non sapeva neppure di aver scoperto la masturbazione, sapeva solo che poteva provare piaceri impensati e intensi. Così intensificò quelle nuove pratiche. E, mese dopo mese, si spiò crescere, emettere sempre più liquore, provare emozioni sempre più intense...


DIETRO - AVANTI