IL RAGAZZO ALBANESE CAPITOLO 8
IL PRIMO PREMIO

Fu proprio il nostro Marco che, tre anni fa, ebbe l'idea che in seguito si rivelò vincente.

Era incantato nel vederci quando lavoravamo alla nostra casa con i mobili in miniatura e qualche volta lui pure si divertiva ad aiutarci. Ne avevamo già terminata una e ne stavamo costruendo una seconda, e ormai eravamo diventati piuttosto bravi, anche perché Ylli ha un ottimo gusto e una grande manualità.

Un giorno Marco arrivò a casa sventolando una rivista, eccitato come un bambino.

"Nonno! Ylli! Guardate qui! Guardate qui!"

Aprì la rivista e ci fece vedere un articolo in cui si annunciava che a Norimberga si sarebbe tenuta una esposizione di "case di bambola" in legno e in scala 1:12, con premi per le tre migliori.

"Dovete assolutamente partecipare, dovete esporre al vostra, sono sicuro che vincerete il primo premio!"

Né Ylli né io ne eravamo molto convinti, anche se il suo entusiasmo ci faceva piacere. Infatti per noi quello era solo un passatempo, un hobby, e se pure eravamo soddisfatti di quanto facevamo, pensavamo di essere solo dilettanti.

Però Marco tanto insistette... o per meglio dire tanto ci perseguitò, finché quasi più per farlo smettere e per accontentarlo che per vera convinzione, mandammo il modulo di iscrizione: dopo tutto iscriversi costava poco e potevamo anche concederci un viaggetto fino a Norimberga, approfittando così per vedere le altre opere esposte e magari prendere qualche idea.

Venuto il giorno, impacchettammo accuratamente il tutto, io presi una settimana di ferie, prenotai due stanze in un alberghetto a Norimberga e partimmo tutti e tre. Nel padiglione dell'esposizione ci avevano assegnato un tavolo, protetto da un box di plexiglass. Montammo la nostra casetta giusto in tempo per l'inaugurazione, poi anche noi girammo la mostra: c'erano esattamente centoventitré partecipanti, che provenivano da mezzo mondo: non potevano partecipare all'esposizione ditte ma soltanto dilettanti.

Alcune delle casette che vedemmo erano molto belle, alcuni dei mobili in miniatura erano deliziosi. Il nostro Marco continuava a dire che la nostra era la migliore di tutte anche se a Ylli e a me non pareva proprio così: era sì una fra le migliori, però non ci pareva così eccezionale.

Poiché ogni opera esposta doveva avere un logo e un nome che la distinguesse, ed erano proibiti i cognomi, avevamo deciso di chiamare la nostra casetta "Ylli House" e come logo Marco aveva disegnato per l'occasione tre mani di profilo piegate in modo di formare al centro la sagoma di una casa.

Ylli girando per il salone faceva schizzi di particolari di altre casette e dei mobili più interessanti che vedeva, Marco frattanto prendeva fotografie, io invece chiacchieravo con altri espositori parlando delle tecniche usate per ottenere certi risultati.

La scelta dei tre vincitori avveniva tramite due votazioni, una da parte di tutti i visitatori e una da parte di una speciale giuria composta da artisti, antiquari e dai redattori delle riviste di modellismo che avevano organizzato l'esposizione. Sommando i due punteggi si sarebbero assegnati i tre premi.

Venne finalmente il giorno finale con le premiazioni. Prima assegnarono alcune targhe di merito... noi non ne ottenemmo neppure una. Poi fu dato il terzo premio a un tedesco... Il secondo premio fu vinto da un giapponese... Yilli e io eravamo rassegnati, ma Marco era eccitatissimo, sicuro, a questo punto, che il primo premio sarebbe stato nostro. Io già prevedevo la sua delusione e stavo pensando a come fare per consolarlo.

"... e il primo premio è stato assegnato sia dal voto popolare, che dalla giuria degli esperti all'opera contrassegnata con il nome..." annunciò la presentatrice e fece una pausa a effetto, mentre apriva la busta con il risultato e ne estraeva un foglietto azzurro.

Marco, come ho detto, era eccitatissimo e gli brillavano gli occhi, era teso, quasi proteso verso il palco. Ylli ed io eravamo sempre più preoccupati per lui.

La presentatrice guardò il foglietto e riprese: "... con il nome Ylli House!"

Assieme all'applauso si udì un urlo di gioia che fece girare tutti: era Marco che saltava e ballava gridando felice, il volto rosso per l'eccitazione, tanto che dovemmo calmarlo.

Salimmo tutti e tre sul palco per ritirare il premio che consisteva in una specie di "coppa" a forma di casetta e in un assegno del valore di cinque milioni di lire!

"Ve l'avevo detto? Ve l'avevo detto io? E voi non mi volevate credere! Avete visto? Avevo ragione o no?" ci continuava a ripetere Marco.

Tornati a casa, Marco collezionò tutti i ritagli di rivista e di giornale che parlavano del premio che avevamo ricevuto e li raccolse in un album. Frattanto Ylli e io continuavamo a lavorare alla nostra seconda casetta. Anche Marco, nel suo tempo libero, ci aiutava.

Poi, neanche un mese dopo, mio nipote tornò alla carica: "C'è un altro concorso a Boston. Dovete partecipare!" ci annunciò facendoci vedere una pagina che aveva scaricato da Internet e stampato.

Questa volta gli demmo retta subito... visti i precendenti. Così ci applicammo tutti e tre per finire in tempo la nostra seconda opera, in quanto, secondo il regolamento, per partecipare al concorso non potevamo presentare la casetta che aveva già ricevuto un premio, ma dovevamo presentare una nuova realizzazione.

Non potemmo andare a Boston, poiché Marco aveva gli esami e io non potevo prendere altri giorni di permesso o di ferie dal lavoro. Ylli non voleva andarci da solo, nonostante le nostre insistenze. Così questa volta spedimmo il tutto tramite corriere e attendemmo. Lo sapete già come andò, no? Ricevemmo un telegramma che ci informava che la nostra casetta aveva nuovamente ottenuto il primo premio, quella bella targa che vedete lì e un altro cospicuo premio in denaro.

Oltre a questo, iniziammo a ricevere anche lettere da parte di collezionisti, inizialmente dagli Stati Uniti ma poi anche da altre nazioni, che volevano sapere quanto chiedevamo per vendere le nostre opere, o anche che ci facevano direttamente un'offerta... ed erano offerte alte, che non ci saremmo mai sognati di ricevere.

Ne discutemmo assieme e decidemmo, dato che le offerte andavano dagli 1800 ai 3000 dollari (!) di fissare i prezzi in base a quante ore di lavoro avevamo impiegato e al costo dei materiali usati. Rispondemmo a tutti: su suggerimento di Marco ci facemmo stampare da una tipografia la carta intestata con il logo che aveva disegnato lui e con l'intestazione "Ylli Houses". Più o meno la risposta era su questo tono:

"La casa in miniatura che le interessa, in scala 1:12, completa della mobilia di cui all'allegato elenco e come illustrato dalle accluse fotografie, è posta in vendita al prezzo base di dollari 3000 e sarà aggiudicata a chi ci invierà l'offerta più alta..."

Bene, vendemmo la nostra seconda casetta, perché la prima avevamo deciso di tenerla per noi, per 3800 dollari! A questo punto pensammo che per Ylli poteva essere un'attività molto più redditizia che non i suoi articoli in cuoio. Sia Marco che io lo aiutavamo nel nostro tempo libero ma Ylli ci lavorava ormai a tempo pieno. Continuavano ad arrivare richieste, in quanto le foto delle nostre due prime casette apparvero in diverse riviste specializzate per modellisti e per collezionisti.

Gli ordini aumentavano e Ylli non riusciva più a stare dietro a tutti. Allora, due anni fa, decisi di andare in pensione e di mettermi a lavorare anche io a tempo pieno con lui. Inoltre, visto che i soldi arrivavano a sufficienza, e poiché a pian terreno di casa nostra il panettiere aveva lasciato il suo negozio che era così vuoto e disponibile, decidemmo di prenderlo in affitto e di istallare lì il nostro laboratorio, comprando anche nuove attrezzature.

Nel nuovo laboratorio c'era molto più spazio e si lavorava anche meglio e in modo più efficiente. Inoltre, essendo a pian terreno di casa nostra, era molto comodo per noi. Io a quel punto feci le pratiche per aprire una ditta, una società a nome collettivo. Ci provenivano anche richieste per pezzi singoli, cioè un solo mobile o la mobilia per una sola stanza, ma decidemmo, finché il mercato teneva, di vendere solo casette complete.

Anche la TV si occupò di noi, e riviste nazionali, poi anche riviste di varie nazioni: stavamo diventando famosi e apprezzati, le nostre casette si vendevano appena erano finite. Ognuna era diversa dalle altre, erano tutti pezzi unici e tutti curati fin nei minimi dettagli.

Ylli era felice, e io con lui! Marco avrebbe voluto lavorare anche lui con noi a tempo pieno ma gli dicemmo che prima doveva prendere la laurea, visto che gli sarebbe piaciuto studiare sociologia, poi... ne avremo riparlato.

Marco accettò... e non se ne è pentito. Infatti in facoltà conobbe Patrizio, un ragazzo di due anni più grande di lui, ma suo compagno di corso, e si innamorarono. Non fu un colpo di fulmine, ma una graduale e reciproca scoperta, che Ylli e io seguimmo con interesse e piacere, in quanto Marco si confidava e si consigliava con noi.

Dapprima fra Marco e Patrizio c'era solamente una certa simpatia, che però, ben presto si tramutò in amicizia. Spesso studiavano assieme, o nel poco tempo libero che avevano, andavano al cinema o da altre parti assieme. La loro amicizia era sempre più forte e vera, tanto che un giorno Marco decise di confidare a Patrizio di essere gay... e il suo amico gli disse che l'aveva immaginato, anzi l'aveva sperato, perché lo era anche lui.

Oltre ad amicizia c'era evidentemente anche un'attrazione che forse inizialmente era inconscia e comunque tenuta sotto controllo, ma che dopo la reciproca confessione poté fiorire ed esprimersi anche fisicamente. In pochi mesi il loro rapporto si colorò anche di crescente affetto, finché, come Ylli e io ci aspettavamo, si tramutò in amore.

Patrizio non ha più i genitori e dapprima era vissuto in un orfanotrofio, poi, cresciuto, era andato a vivere in una cameretta nella sede di un ente religioso, dove doveva stare molto attento a non far trapelare la sua omosessualità, e dove pagava l'ospitalità facendo il sorvegliante nel collegio che i religiosi gestivano.

Patrizio aveva avuto la sua prima esperienza, e aveva capito di essere gay, quando ancora viveva in orfantrofio. Essendo un ragazzino minuto e mite, era preso in giro dai compagni e spesso era l'oggetto di pesanti o spiacevoli scherzi. Quando aveva tredici anni, un suo compagno di quindici l'aveva perso sotto la sua ala protettrice e gradualmente l'aveva convinto ad avere sesso con lui. Poi la vita li aveva separati.

Quando Patrizio era andato a vivere in quel collegio come sorvegliante, per lui era diventato molto difficile avere altri incontri o amicizie che coinvolgessero anche la sfera sessuale, un po' perché non aveva una vera vita sociale, un po' perché comunque Patrizio non ci provava con gli allievi del collegio, benché qualcuno dei ragazzi gli avesse fatto intuire di essere... disponibile.

Per il ragazzo, perciò, quando si iscrisse all'università, conobbe Marco e i due ragazzi diventarono amici, venire a sapere che il suo unico e vero amico, cioè mio nipote, era come lui fu una specie di liberazione.

Quando vedemmo che i due ragazzi si amavano e stavano molto bene assieme, e che Patrizio era un ottimo ragazzo, buono, sensibile ed onesto, offrimmo a Patrizio di venire a vivere con noi. Il ragazzo accettò subito con gioia. Perciò ripulimmo a fondo e rimettemmo a nuovo l'ex laboratorio nel mio appartamento e lo attrezzammo in modo che diventasse la loro camera da letto e la camera dove prima dormiva Marco la trasformammo nel loro studio. Così ora, da poco più di un anno, anche Patrizio vive con noi.

Un'ultima cosa vi voglio dire, prima di concludere questa storia.

Ultimamemte ho molto riflettuto sulla mia vita e in particolare sugli avenimenti di questi ultimi cinque anni, cioè su quanto vi ho appena raccontato. Allora, permettetemi di esprimervi anche il frutto di queste mie riflessione... e abbiate pazienza se può sembrare che voglia finire con "la morale della favola".

Avendo riordinato i miei pensieri, ve li voglio esporre su quattro argomenti: la sessualità e l'amore; le barriere sociali; la solitudine; la comunicazione...

La sessualità e l'amore.

Come forse avete capito dal mio racconto, io sono sempre stato un "normale" nel senso che si dà banalmente a questa etichetta. Fino all'età di cinquantasette anni io mi sono sempre sentito attratto da persone dell'altro sesso (i miei tre matrimoni ne sono la conseguenza e la prova), non ho mai provato la minima attrazione né curiosità né interesse verso persone del mio stesso sesso e neppure ho mai avuto esperienze.

Riguardo ai "gay" (anche se rifuggo dalle etichette, ora la uso per semplicità di discorso), non ho mai avuto né simpatia né fastidio nei loro confronti. Secondo me ognuno è come è; le loro "scelte" o per meglio dire il loro "orientamento" sessuale, perché in realtà non si tratta affatto di una scelta, semplicemente non mi riguardava. Per dirla come si esprimerebbe mio nipote Marco II, pensavo che fossero "solo cazzi loro".

Quindi ero un "normale" sereno e convinto, che non ha mai sentito la necessità né l'utilità di affermare e tanto meno di difendere la propria sessualità o il proprio modo di esprimerla. Diciamo pure che in realtà non mi ero mai neppure posto il problema di giudicare, capire, difendere o condannare i gay. Non più di quanto io potessi essere interessato alle tribù del nord-est dell'Australia o non più di quanto potessi essere interessato ai problemi dei coltivatori di fragole delle vallate del cuneese. So che esistono, ma non ho rapporti con loro, perché non sono né un etnologo né un commerciante di fragole.

Questo, probabilmente, è quanto mi ha fatto accettare piuttosto rapidamente il fatto di scoprirmi innamorato di Ylli: per me era ed è soprattutto e prima di tutto una persona, non un "maschio". Questo è ciò che, purtroppo, mio figlio Vanni non ha capito. Non ha saputo, o potuto, o voluto capire.

Quindi, di fronte al fatto, per me del tutto nuovo e inatteso, di sentirmi innamorato di quel ragazzo, non ho avuto né una reazione di fuga, né di stupore, né di morbosa curiosità... L'ho accettato e vissuto serenamente e onestamente.

Poteva essere una persona di sesso femminile o no, poteva essere una persona di nazionalità italiana o no, poteva essere più giovane, più vecchia di me o della mia stessa età... non aveva alcuna importanza: era la persona che aveva suscitato in me sentimenti di amore e che era desiderosa di darmi il suo amore.

In questo sicuramente mi ha aiutato proprio uno dei miei valori: il rifiuto, fin da quando ho raggiunto l'età di ragione, di accettare e subire una qualsiasi etichetta, un qualsiasi schema pre-costituito, e il mio costante desiderio di essere me stesso, onesto innanzitutto con me stesso e, di conseguenza, con gli altri.

Barriere sociali.

Anche le barriere sociali sono, dopo tutto, il frutto di una affannosa "etichettatura" del nostro prossimo. Nazionalità, povertà o ricchezza, età, sesso, religione, e così via, spesso diventano un elemento di divisione nella nostra società.

Quanti di noi vedono nei "vu cumprà" solo degli alieni? Il ricco vede nel povero un "poveraccio" che o è sfigato (di nuovo uso i termini del mio Marco) o non ha saputo industriarsi, cioè un incapace. Il povero vede nel ricco o un che "ha culo" o un profittatore, se non un ladro, anche se non tale per la legge.

L'età, poi... Una cosa che spesso mi dà fastidio nei miei coetanei è che credono di essere arrivati, di sapere e capire ormai tutto, di aver perso la curiosità e il desiderio di continuare a maturare e che vedono nei giovani solo esseri immaturi, stupidi, senza valori... Nei giovani spesso c'è l'atteggiamento opposto: un "vecchio" è uno incapace di capire, un pallone gonfiato, uno che ha smesso di vivere, uno che vive più di principi che di valori...

Forse hanno ragione tutti e due... ma forse hanno torto tutti e due. A mio parere ogni età è bella in se stessa e per se stessa, con tutti i suoi lati positivi e negativi, e un essere umano è semplicemente un essere in continua evoluzione. Ogni età ha i suoi affanni, i suoi sogni, le sue debolezze e le sue forze. E chi dice, con rimpianto o sufficienza "beata gioventù", semplicemente non ricorda tutti i problemi che aveva avuto nella propria.

Se su un piano "amministrativo" può avere senso distinguere fra italiani, europei, extra-comunitari eccetera, su un piano umano queste etichette (ancora una volta) mi infastidiscono. Amor di patria e nazionalismo sono due cose opposte. Io posso essere fiero di essere italiano (nonostante tutte le cose che non mi piacciono e che vorrei poter cambiare) ma questo non mi fa sentire né superiore né inferiore a nessun'altra persona di altre nazionalità.

Troppo spesso per noi un "marocchino" o un "albanese" come uno "zingaro" o un "ebreo", un "negro" o un "tedesco", perché no?, sono prima di tutto degli alieni. E, si sa, c'è sempre diffidenza verso gli alieni. Perché? Perché per noi non sono "persone" a pieno titolo, ma "diversi". Perché non cerchiamo di capire e quando non capiamo non diamo la colpa a noi stessi, ma all'altro. Si sa, la colpa non è mai nostra, ma degli altri.

Quello che ha permesso a Ylli e a me di incontrarci è anche il fatto che per me lui non era un albanese né io per lui un italiano. No, lui era per me semplicemente un ragazzo, una persona, e io lo ero per lui. Lui per me, malgrado la sua evidente povertà, non era un essere da guardare dall'alto in basso compiacendomi di essere a un livello sociale più alto del suo, né per lui io ero solo un "ricco" da spennare, di cui profittare.

Il mio impulso di aiutarlo non era un tentativo di sgravarmi la coscienza e di non pensarci più, non era elemosina calata dall'alto, era solo condivisione dettata da simpatia umana. Quella "simpatia" che ogni essere dovrebbe avere per un altro essere. Chiamatela solidarietà, chiamatela condivisione, chiamatela come volete. Io la chiamo "umanità".

Certo, lo so, io non avrei potuto agire nello sesso modo, poniamo, verso tutti i ragazzi che stendevano le loro merci sotto i portici di Porta Nuova: non ne avrei avuto né la forza, né la capacità, né le possibilità. Ma se ognuno di noi lo facesse con uno... forse non ci sarebbero più ragazzi e ragazze che si guadagnano a stento di che vivere facendo gli ambulanti, più o meno clandestini o ricorrendo a mezzi più o meno legali.

Solitudine.

La vita a volte ci porta a essere più o meno soli. Ylli e io in quel momento eravamo due esseri soli. Più o meno consciamente, entrambi avevamo bisogno di colmare le nostre rispettive solitudini. Questo è un dato di fatto. Se non fossimo stati soli, probabilmente le cose sarebbero andate in un altro modo. Chi non è solo spesso neppure si accorge o, peggio pure, non si cura della solitudine degli altri.

Ma troppo spesso un essere che è o si sente solo cerca chi riempia la propria solitudine, però a patto che l'altro si adegui alle sue regole. Siccome questo è tutt'altro che facile, troppo spesso la persona sola è... diffidente.

Due solitudini non si trasformano in compagnia semplicemente sommandosi. Purtroppo conosco persone che, pur vivendo in una famiglia, in un gruppo, sono tremendamente sole. A volte mi pare che una persona sola viva come una chiocciola: la vedi esplorare prudentemente, lentamente e incessantemente l'ambiente con i suoi cornetti protesi, ma appena trovano un ostacolo (vero o presunto che sia) appena entrano in contatto con "altro" si ritraggono e si sigillano dentro al proprio guscio.

Forse la chiave di volta del problema è non tanto cercare di colmare la propria solitudine, quanto quella di fare il possibile per colmare quella dell'altro. La cura della solitudine, credo, sia dare calore umano: se do calore umano a un altro, vuol dire che posseggo calore... quindi al tempo stesso riscaldo anche la mia vita.

La solitudine si vince con la condivisione. Non solo e non tanto una condivisione di cose materiali, ma anche solo di un sorriso, anche solo della disponibilità a stare ad ascoltare, far sentire all'altro che non ci è indifferente ma che "vale" per noi. La solitudine si vince tenendo la porta del proprio cuore aperta, affinché gli altri possano lanciarvi uno sguardo dentro e magari entrare, senza bisogno di bussare e attendere una risposta.

Lasciando la porta aperta, potrebbe anche entrare un ladro che ci deruba di quanto abbiamo di più prezioso... ma, vedete, il cuore è come il pozzo di San Patrizio, qualunque cosa ne porti via... ce n'è ancora altrettanta. Non si esaurisce mai. E allora, anche se passa di lì un ladro, che importa: può portare via quello che vuole che non ci impoverisce.

Perciò, tanto vale lasciare la porta aperta.

Comunicazione.

Il maggior problema che c'è stato fra Ylli e me è stato un problema di comunicazione. Così come fra Vanni e me. Ma posso anche affermare che quello che è iniziato fra Ylli e me è cominciato per un desiderio, magari inconscio, di comunicare.

Se io avessi comprato da Ylli una delle sue cinghie di cuoio senza guardarlo negli occhi, senza scambiare un sorriso, con quella cinghia l'avrei "legato" lì, su quel marciapiedi sotto i portici, solo, nella sua condizione.

Se a poco a poco non ci fossimo parlati, detto il nome, trattati con gentilezza frutto di un reciproco rispetto, non avremmo iniziato a comunicare. Ylli era per me uno sconosciuto, come io ero uno sconosciuto per lui. Ma a poco a poco, quella prima cinghia di cuoio è diventato un legame fra di noi.

La nostra comunicazione, se anche era inizialmente dettata solo da curiosità da parte mia o solo da "senso degli affari" da parte sua, sarebbe rimasta su un piano superficiale e probabilmente, anzi certamente, si sarebbe rotta prima ancora che si rompesse la cintura di cuoio.

L'iniziare a parlare, a dirci chi eravamo, è stato solo il primo passo sulla via della comunicazione.

Il secondo passo è stato il suo dono di un portafogli (ah, mi sono dimenticato di dire che, svuotato dai soldi ma con i miei documenti dentro, fu poi ritrovato e ancora uso quel portafogli che Ylli mi donò per Natale di cinque anni fa), e il mio pacchettino con i torroncini e il presepietto (che a ogni Natale Ylli tira fuori ed espone nel soggiorno).

Il suo dono era un vero dono, cioè un gesto gratuito, come era il mio, che non era fatto per "sdebitarmi", per ripagarlo, ma per fargli piacere, per dirgli "per me sei una persona, e una persona importante". Per comunicare bisogna essere in due, è chiaro... come pure per amarsi e l'amore vicendevole è la forma più sublime e totale di comunicazione.

Ecco, quel duplice gesto è stato il nostro primo "atto di amore".

Ma come l'amore, anche la comunicazione va sempre alimentata.

Dove Ylli e io siamo entrati in crisi è stato quando io mi sono espresso male e Ylli ha capito male: come conseguenza né lui né io ci si è preoccupati di capire l'altro, di dirgli che cosa non capivamo, di essere totalmente aperti, onesti, sinceri con l'altro. Per fortuna le cose poi si sono chiarite ma in fondo è stata quasi solo fortuna. Quanto avremmo perso, sia io che lui, se non avessimo saputo ristabilire la comunicazione!

E qui, onestamente, il merito è stato più suo che mio... Ma io ho imparato la lezione.

Questo mi fa capire che forse anche con Vanni, nonostante tutto, un giorno si potrà ristabilire la comunicazione, perché sono convinto che dentro il suo cuore c'è ancora amore per me, come nel mio c'è amore per lui.


F I N E


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