IL RAGAZZO ALBANESE | CAPITOLO 5 PESTAGGI E PAROLACCE |
Non riuscivo a mettermi l'anima in pace. Continuavo a cercarlo, giorno dopo giorno, con un misto di speranza, di determinazione e di rabbia. Volevo... pretendevo che mi dicesse perché! Perché mi aveva ferito così. A volte pensavo che se l'avessi incontrato gli sarei volato addosso e l'avrei pestato a dovere... A volte pensavo che l'avrei tratto con freddezza e l'avrei messo con le spalle al muro con le mie parole taglienti, sferzanti... Altre volte pensavo che avrei cercato di capire perché mi avesse fatto quello... perché fosse prima venuto nel mio letto poi se ne fosse andato senza dirmi neppure una parola. Non credevo che un ragazzetto potesse sconvolgere fino a quel punto la mia quieta vita. Sono sempre stato una persona tranquilla... neppure le due volte che mia moglie mi aveva abbandonato, neppure quando la mia seconda moglie era morta mi ero sentito così! Forse solamente quando era morto mio figlio Dario ne ero rimasto altrettanto sconvolto. Nei miei giri, una sera, mi tovai davanti alla chiesa di San Pietro e Paolo, e allora i ricordai che Ylli mi aveva detto che dalla finestra della pensione in cui viveva, vedeva la chiesa. Già, come mai non me ne ero ricordato prima? Forse era tornato nella pensione, forse era riuscito a recuperare le sue cose e a riprendere il suo lavoro. E forse, per non incontrarmi, ora andava a stendere la sua merce da qualche altra parte. Mi misi a esplorare tutte le porte e portoni nei dintorni della chiesa per vedere se c'era la targa o il campanello di una pensione. Non riuscivo a ricordare se mi aveva detto il nome della pensione o del proprietario. In quella zona si vedevano parecchi extra-comunitari, per la maggior parte arabi, qualche cinese, pochi negri. Tornai lì per due o tre sere, dopo il lavoro, chiedendomi come fare a rintracciare la pensione, sperando di vedere Ylli. Una sera, era già il mese di aprile, vidi all'angolo due ragazzi che mi fecero pensare, fisicamente a Ylli. Allora mi decisi e, traversata la piazzetta in diagonale, mi accostai a loro. Uno dei due mi guardò con aria interrogativa... anzi, credo, sospettosa. Per far capire loro che non avevano nulla da temere da me, sfoderai un bel sorriso e, mi rivolsi a quello che mi stava guardando. "Scusa, cercavo un ragazzo..." iniziai a dire in tono gentile. L'altro si girò a guardarmi e, con un accento straniero ma in buon italiano, mi disse: "Ah, cercavi un ragazzo?" "Sì, uno più o meno come te, sui venticinque anni, alto, snello..." "Ma dimmi tu!" reagì l'altro, "Vuoi un ragazzo come lui o come me?" chiese con un sorrisetto strano. "Lo stesso, non importa, il ragazzo che io cerco..." iniziai a dire. "Ma smamma, frocio di merda! Che cazzo vuoi?" disse quello diventando improvisamente aggressivo. "Eh? Cosa? No, hai capito male, io voglio solo trovare un ragazzo che..." "Che te lo metta in culo?" mi chiese l'altro dandomi una spinta con rudezza. Mi arrabbiai e sbottai: "Toglimi le mani di dosso, stronzo!" gli dissi. Mi volarono addosso tutti e due e cominciarono a pestarmi con ferocia, con metodo, e nonostante cercassi di parare i loro colpi, di reagire, di sfuggire loro, ebbero facilmente ragione di me e mi fecero cadere a terra e mi continuarono a colpire con calci e pugni. Gridai, anzi urlai, mi strattonavano, mi lacerarono la giacca, poi uno, continuando a pestarmi, riuscì a togliermi con violenza l'orologio mentre l'altro, lesto, s'impadroniva del mio portafogli. Proprio in quel momento sentii voci che gridavano, e i due ragazzi scapparono via, scomparendo rapidamente. Qualcuno correva verso di me. Io ero ancora a terra e tremavo da capo a piedi. Vidi arrivare un uomo, dietro di lui stava correndo un poliziotto, poi altri. Un attimo prima c'ero solo io e quei due giovinastri, ora s'era formato un capannello. Domande, confusione, qualcuno che cercava di aiutarmi ad alzarmi in piedi, altri che dicevano di non muovermi, di chiamare un'ambulanza, finché il poliziotto chiese a tutti di fare silenzio. Frattanto m'ero alzato in piedi. Tremavo come una foglia, mi accorsi che sanguinavo dal naso. Il poliziotto mi chiese che cosa mi fosse successo. A tratti e bocconi glielo spiegai: m'ero accostato a quei due ragazzi stanieri per chiedere un'informazione ma quelli m'erano volati addosso, m'avevano pestato e m'avevano derubato. "Li conosceva?" mi chiese il poliziotto. "No, non li avevo mai visti prima." risposi. "E perché s'è messo a parlare con loro?" "Chiedevo solo un'informazione, come le ho appena detto." "Che informazione?" chiese il poliziotto. "Scusi, che c'entra questo con quello che m'è sucesso? Io sono la vittima e lei mi sottopone al terzo grado?" gli dissi irritato. "Ha i documenti di identità?" mi chiese il poliziotto. "Se le ho appena detto che mi hanno rubato il portafogli!" gli dissi esasperato. Per la prima volta pensai che era il portafogli che m'aveva regalato Ylli per Natale... e questo mi bruciò anche più che non aver perso i soldi che c'erano dentro. "Se vuole sporgere denuncia, si presenti, con un documento valido, al posto di polizia o ai carabinieri competenti per questa zona." mi disse il poliziotto. "Adesso vada in ospedale..." disse uno dei presenti. "Non è meglio chiamare un'ambulanza?" chiese un altro. "Ma no, ma no... non è niente!" dissi io sempre più irritato da quella parete di volti che mi osservavano quasi come se fossi un'animale dello zoo, o uno spettacolo gratuito. "Ma sanguina..." disse qualcuno. "E smetterà di sanguinare!" risposi io, forse anche un po' troppo scortesemente. "Non abito lontano, vado a casa..." aggiunsi. "Ma in quelle condizioni..." Stavo di per reagire nuovo, mi sentivo infastitito, quando sentii una voce. "Marco!" Mi girai... e lo vidi: era Ylli e mi guardava con un'espressione preoccupata. "Marco, che ti è successo?" chiese Ylli facendosi largo fra la gente e prendendomi per un braccio. Provai la tentazione di volargli addosso e pestarlo... di volargli fra le braccia e baciarlo... di mandarlo al diavolo insultandolo... di chiedergli di darmi una mano, e lo guardai con aria imbambolata, continuando a tremare. "Mio dio, Marco, stai tremando..." sussurrò quasi Ylli. "L'hanno pestato." "L'hanno derubato." "Due extra-comunitari." "Bisognerebbe sbatterli tutti fuori dall'Italia!" "No, tutti in galera..." diceva la gente attorno a noi. Il poliziotto chiese ad Ylli: "Lo conosce?" "Sì, è un mio amico." rispose Ylli. "Sa dove abita?" gli chiese di nuovo il poliziotto. "Certo, dall'altra parte della stazione." "Bene, lo accompagni a casa, allora. E gli dica di farsi vedere da un medico. E domani o dopodomani di andare a fare la denuncia." disse il poliziotto, poi disse a tutti di sfollare. Ylli e io restammo soli, anche se qualcuno s'era fermato poco lontano e continuava a guardarci. "Lasciami, posso tornare a cas da solo." dissi allora al ragazzo. "No, ti accompagno a casa." mi rispose Ylli. "Non ho bisogno di te. Ci arrivo anche a solo." gli dissi con durezza. "No. Ti accompagno a casa, ho detto!" insisté in tono deciso. "Mi vuoi lasciare in pace?" "No... ti accompagno a casa." ripeté Ylli con voce sommessa. Non avevo voglia di mettermi a litigare con lui, né me ne sentivo l'energia. Avevo smesso di tremare ma mi sentivo incredibilmente debole, come svuotato. Troppe emozioni tutte assieme, prima il pestaggio, poi la gente attorno, ed ora Ylli lì accanto a me... "Lasciami il braccio. Posso caminare da solo." gli dissi brusco. "Sì, ma ti accompagno a casa." ribadì il ragazzo. Camminammo in silenzio. Di tanto in tanto qualcuno si girava a guardarmi, dovevo essere uno spettacolo, con la giacca strappata, il fazzoletto insanguinato al naso... forse ero anche sporco e spettinato, chi sa? Ma non me ne fregava niente. Mi sentivo indolenzito, mi sentivo incazzato, mi sentivo stranito. Ylli caminava accanto a me e di tanto in tanto mi lanciava un'occhiata. Mi fece fermare trattenendomi per un braccio, perché stavo per traversare con il semaforo rosso. Poi tolse subito la mano. Giungemmo sotto i portici di via Sacchi. "Adesso posso andare a casa da solo." gli dissi. "No. Ti accompagno a casa." ripeté lui, cocciuto. "Oh, cazzo!" mormorai continuando a camminare, "Ma che cazzo vuoi da me?" "Niente. Solo accompagnarti a casa e metterti a letto. E essere sicuro che prima telefoni al dottore." "Mettermi a letto? Haha, e magari infilartici tu pure? Eh no, bello mio! Togliti dai coglioni!" "Sì, ma solo dopo che hai telefonato al dottore e che ti sei messo a letto! Dopo mi tolgo dai coglioni." rispose Ylli con forza. "Dio, quanto sei stronzo!" gli dissi, ma era una resa. Arrivammo a casa mia. Volle aiutarmi a ripulirmi, volle assistere alla mia telefonata al dottore, volle aiutarmi a togliermi gli abiti di dosso e vedermi nel letto. Poi fece per sedersi su bordo del mio letto. "No! Togliti di lì, tu il mio letto non lo tocchi neppure!" gli gridai. Sobbalzò quasi, ma si scostò, e si inginocchiò sullo scendiletto, in modo che il suo volto fosse all'altezza del mio. "Che cazzo fai? Che vuoi, eh? Cos'è, ti metti a pregare, adesso?" gli chiesi irato e sarcastico. "No, voglio solo parlare." "Parlare. Ah, lui vuole parlare. E di cosa? Di come te ne sei andato via di qui senza dirmi una parola? E perché l'hai fatto? Parlarmi di cosa m'hai fatto? Parlarmi di quanto sei stronzo? Di cosa vuoi parlare, eh?" "Sì, di tutto questo... Io ti devo parlare, Marco." "Signor Marco, per te. E mi dai del lei." "Sì, ha ragione, signor Marco... Ma mi stia a sentire, per favore." mi disse ed i suoi occhi chiari chiari erano incredibilmente belli. "No, non ho voglia di starti a sentire. Sono a letto, no? Avevi detto che ti toglievi dai coglioni, no?" "Per favore... lo chiedo per favore. Per favore, signor Marco... per favore..." "E perché dovrei farti un favore? Per cosa? Perché ti sei fatto inculare da me? Me lo dici perhé dovrei farti un favore, eh?" "Perché lei è buono, signor Marco." "Buono? Buono ma non coglione! Ma che cazzo vuoi, da me? Non ti basta il male che mi hai fatto? Non vedi come mi hai ridotto? Tu m'hai fatto questo, tu..." gli dissi quasi disperato, arrabbiato con me stesso, perché sentivo che ancora ne ero stupidamente innamorato. "Io, signor Marco? Io ho ridotto il signor Marco così?" mi chiese con uno sguardo smarrito, senza capire. "Sì, tu, proprio tu! Ti ho cercato... ti ho cercato per tutti questi giorni, anche stasera ti cercavo. E lo sai perché mi hanno pestato, quelli? Perché mi hanno derubato? Lo sai?" "No..." "Perché ho detto a uno di quelli che cercavo un ragazzo... e quello ha pensato che gli facevo una proposta, ha creduto che io ero un frocio... e sì, magari anche tu, magari anche tu hai pensato che ero solo un frocio da usare e poi da buttare via! Anche tu... anche tu... E io, come un imbecille, come uno stronzo, che mi ero innamorato di te! Innamorato di te... che stronzo... che stronzo..." "No, io no! Io..." "Non me ne frega un cazzo! Di te non me ne frega più un cazzo! Vattene da casa mia, lasciami in pace. Sei tu che hai voluto darmi il culo, non te l'ho chiesto io! Io non ti ho chiesto niente! Io non voglio niente da te, voglio solo che ti togli dai coglioni! Via da casa mia, subito!" Ylli si alzò senza dire neanche una parola, lo sguardo basso, e uscì dalla mia stanza. Dopo poco sentii la porta d'ingresso chiudersi. E allora scoppiai a piangere come uno stupido: l'avevo trovato... e l'avevo mandato via. "Stupido... stupido... stupido..." ripetei più e più volte a bassa voce, singhiozzando, e non sapevo neppure io se lo stavo dicendo a me stesso oppure a lui, al ragazzo albanese che era riuscito a sconvolgere la mia vita, che non aveva voluto accettare la mia amicizia quando gliel'avevo offerta. Mentre cercavo di calmarmi, pensai che la mattina dopo avrei dovuto telefonare in ufficio per avvertirli che non potevo andare al lavoro, perché avevo avuto un... incidente. Poi sarei dovuto andare dal medico, a cui avevo detto che non era necessario che venisse lui da me, che ero in grado di muovermi da solo. Mi sentivo terribilmente stanco, avrei voluto addormentarmi e dormire per mesi... per anni... finché fossi stato in grado di svegliarmi avendo dimenticato tutto, proprio tutto, specialmente Ylli. Mi assopii e mi risvegliai più volte. La lampada sul mio comodino era accesa e illuminava la sveglia, dove vidi arrivare le dieci, poi le undici e trenta, poi le due di mattina, le tre e tre quarti, le quattro e un quarto... Quando alle sette la sveglia suonò, mi pareva di non aver quasi dormito, mi sentivo spossato. Però mi alzai dal letto. Andai a fare una doccia e controllai il mio corpo: era pieno di ecchimosi. Però non dovevo avere niente di rotto, non avevo ferite. Forse la gente era corsa in tempo per non farmi subire una sorte peggiore. Forse ero stato fortunato che passasse nei paraggi un poliziotto. Poi anche Ylli... scacciai dalla mente la sua immagine, il suo nome: non volevo più pensare a lui, volevo cancellarlo dalla mia memoria, dalla mia mente, dalla mia vita. Andai in cucina a farmi un caffè. Era finito nel barattolo di vetro, perciò andai a prenderne una lattina nella dispensa... Tolsi il pacchetto del caffè Lavazza e, dietro, fece capolino una lattina di caffè Illy... Il nome di Ylli scritto al contrario... Dio, possibile che quel ragazzo mi perseguitasse così? Anche dall'etichetta del barattolo di caffè? Chiusi quasi con rabbia lo sportello della dispensa. Mi preprai il caffè. Non avevo voglia di prepararmi altro, quella mattina. Però avevo un po' fame. Decisi di scendere fino al bar sotto i portici per farmi fare un tost... avrei aspettato lì l'ora per telefonare in ufficio, poi sarei andato dal medico. Mi infilai il soprabito, controllai di avere le chiavi in tasca e aprii la porta per uscire. Ylli era lì, in piedi, appoggiato alla ringhiera della tromba delle scale. Appena mi vide si rizzò. "Che cazzo ci fai, qui?" gli chiesi sottovoce. "Aspetto lei, signor Marco." "Da quanto mi aspetti?" "Sono tornato stamattina alle sei, per essere sicuro di essere qui quando il signor Marco usce di casa." "E che vuoi?" "Niente, solo parlare. Lei non mi vuole in casa, ma la strada è di tutti e io posso parlare. E io devo parlare. Dopo quello che ha detto ieri sera io devo parlare, devo. Sì, devo parlare." ripeté quasi gemendo. "Che IO ti ho detto ieri sera? Io ti ho detto solo che devi lasciarmi in pace, che devi toglierti dai coglioni." "Ma lei, signor Marco, mi ha detto che... mi ha detto che lei era innamorato di me." Chiusi gli occhi e mi chiesi quando glielo avessi detto. E mi chiesi perché glielo avessi detto. Sentii il vicino aprire la porta. "Vieni dentro." dissi seccamente al ragazzo e rientrai. Non volevo che il vicino sentisse certi discorsi, certe parole. Entrò dietro di me e rimase lì in piedi mentre richiudevo la porta. Mi sfilai il soprabito e l'appesi al portamantelli. "Andiamo in soggiorno." gli dissi. Mi seguì. Gli indicai una poltrona e sedetti nel sofà di fronte a lui, solo il basso tavolinetto di vetro ci separava. Ylli sedette sul bordo della poltrona, in una posizione quasi rigida, evidentemente in imbarazzo. "Allora, sentiamo. Cosa è che DEVI dirmi?" "Io... posso parlare, signore Marco? Può starmi a sentire tutto fino quando ho finito di dire tutto? Io, dopo, vado via, giuro, io dopo non sto più sui coglioni di Signor Marco. Però mi sta a sentire tutto, fino alla fine?" mi implorò. "Sì, basta che non la tiri troppo lunga. Devo telefonare in ufficio, poi devo andare dal medico. Non ho tutta la mattina da sprecare." gli dissi in tono scortese. "Io cerco di essere corto, ma mi lascia parlare, per favore. Io... è difficile dire tutto in modo sincero, ma questo voglio fare. Io ho vergogna a dire tutto, ma devo dire a signor Marco. Io ho mai detto a nessuno queste cose, io..." "Va bene, va bene, ho detto che ti sto a sentire e ti sto a sentire. Vuoi deciderti o no a dirmi quello che mi vuoi dire e poi lasciarmi finalmente in pace?" "Sì. Io, quello che ho detto di me a signor Marco era tutto vero, ma non è tutto, c'è altro. Quando io ero bambino, io..." "Oh, dio, e adesso cominci da Adamo ed Eva?" "Adamo e Eva? No, quando io ero bambino..." "Ricordati che non ho tempo. Ecco, guarda, vedi l'orologio lì sulla mensola? Ora sono le sette e mezzo: ti do tempo fino alle otto e mezzo, poi... poi io me ne devo andare." "Sì, capisco, ma allora, per favore, mi lascia parlare senza interrompere, per favore. Va bene?" "E va bene, ma sbrigati. E guarda spesso l'orologio, non ho intenzione di stare qui un minuto più di quanto ti ho detto." "Sì, guardo l'orologio. Quando io ero bambino..." ricominciò paziente e cocciuto Ylli, e io mi appoggiai allo schienale preparandomi a sentire che cosa potesse avere di tanto importante da dirmi.
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