IL RAGAZZO ALBANESE | CAPITOLO 2 UN INCONTRO CASUALE |
Erano i primi di febbraio. Quel giorno ero andato a comprare un libro in Piazza C.L.N. e stavo tornando verso Porta Nuova. Camminavo sotto i portici di sinistra di Via Roma. Un po' guardavo le vetrine, un po' guardavo i passanti, come al mio solito. Mi piace osservare la gente, ce n'è di tutti i tipi... A un certo punto sentii il rumore di una frenata, poi un botto. Mi girai a guardare verso la via: un'auto ne aveva tamponata un'altra e i due automibilisti stavano scendendo per verificare i danni. Stavo per riprendere la mia strada, quando per caso guardai dall'altra parte della via. Sotto i portici del lato destro riconobbi Ylli. Provai un senso di sollievo, di gioia, e decisi di attraversare la strada per andare a salutarlo. Mentre, con cautela, attraversavo Via Roma, notai che il ragazzo stava fermo e tendeva la mano verso i passanti: stava chiedendo l'elemosina! Notai che indossava solo la sua tuta da ginnastica grigia, che non aveva il giaccone nero. Aveva la barba lunga e sembrava infreddolito. Mi fermai interdetto, chiedendomi se fosse il caso di farmi vedere da lui: temevo che si sarebbe vergognato di me... Poi mi detti mentalmente dello sciocco: se il ragazzo era ridotto a quello, non gli potevo girare le spalle! Un'auto suonò un rabbioso colpo di clacson: m'ero fermato in mezzo alla via... Terminai di traversare la strada senza perdere di vista il ragazzo albanese. Ylli non mi aveva ancora visto. Aveva un'aria triste e, mi parve, emaciata. Quando stavo per giungergli davanti sollevò gli occhi e mi vide. Un'espressione di profonda vergogna gli si dipinse in volto, abbassò la mano ma non si mosse. "Ylli... Come stai?" gli chiesi provando una profonda pietà per il ragazzo. "Male... lo vede, signore Marco..." disse a voce bassa, distogliendo quasi subito i suoi begli occhi chiari chiari dai miei. "Sei stato ammalato? Hai qualche problema? È più di un mese che non ti vedo più sotto i portici a vendere le tue cose." Scosse la testa, ma non rispose. "Senti, Ylli, ho un po' di tempo... vorrei parlare un po' con te... vieni in un bar con me, ti offro qualcosa." "No, signore, grazie, non posso... non mi vogliono in un bar così... non sono neanche pulito." "Come non ti vogliono! Sei mio ospite, sei con me. Che provino a dire qualcosa! Vieni, Ylli... Ti prego... Ti prego, vieni." "Lei prega me, signore? Me, un accattone?" "No, Ylli, io prego te, il ragazzo che mi ha fatto un bellissimo regalo di Natale. Fammi questo favore, vieni con me in un bar." "Non si vergogna a stare con me? A entrare in un bar con me?" mi chiese, senza guardarmi, muovendo i piedi a disagio. "Vergognarmi? Io? Assolutamente no. Vieni." "Come vuole lei, signore Marco." Scelsi un bar in una via traversa, dove sapevo che avevano tavolinetti un po' appartati, sperando ve ne fossero liberi verso il fondo del locale. Fui fortunato. Ordinai alla cameriera due cappuccini. La ragazza guardava Ylli con aperto sospetto. Allora le dissi: "Faccia in fretta per favore signorina. E ci porti anche un bel vassoio con un assortimento di croissants e brioches: il mio amico e io abbiamo proprio fame! E ci porti anche il conto." "Come posso farle il conto se non so quante paste mangiate?" chiese la ragazza in tono un po' acido. "Ne metta dieci, le pago tutte e quelle che non mangiamo ce le portiamo via." le risposi secco. "Anzi, mi dica subito quanto le devo, almeno pago anticipato e non le viene in mente che io possa essere un ladro... di brioches." aggiunsi in tono sarcastico. Ci sedemmo. Dopo poco la cameriera arrivò con i due cappuccini, un vassoio di paste assortite e il conto. La pagai subito. "Tenga il resto, e ci lasci in pace, ora." le dissi in tono un po' acido. Avevo fatto sedere Ylli in modo che il ragazzo, per chi guardava verso di noi dall'entrata del bar, fosse seminascosto dal mio corpo. "Io, signore, Marco..." "Adesso mangia, Ylli. Parliamo dopo. Ho tempo, come ti ho detto... Le paste sono tutte per te, quindi mangiane quante ne vuoi" Lo guardai mangiare, mentre sorbivo lentamente il mio cappuccino. Il ragazzo non mi guardava. Poi iniziò a raccontarmi quanto gli era accaduto. Lui viveva, con altri extra-comunitari, in una pensione dietro a Porta Nuova, in Via Saluzzo, vicino alla chiesa di San Pietro e Paolo, in una stanza in cui c'erano quattro letti. Quando gli altri non c'erano, Ylli tirava fuori da sotto il letto i materiali e gli attrezzi e fabbricava le cose che vendeva. Quando tornava a casa, metteva sotto il letto anche il fagotto con la sua merce. Non aveva mai avuto problemi. Ma poco prima dell'Epifania, quando dopo essersi fatto una doccia era tornato in camera, aveva visto che tutta la sua merce, e anche i suoi soldi, erano scomparsi. L'aveva detto al padrone di casa, ma l'uomo gli aveva risposto che erano cazzi suoi, lui non poteva fare la guardia delle cose degli inquilini, e che aveva solo da portarsi i soldi in bagno, quando andava a fare la doccia. Allora Ylli era andato a denunciare il furto: i poliziotti gli avevano fatto firmare il verbale di denuncia contro ignoti, e gli avevano detto che non potevano fare altro... non potevano certo occuparsi anche di cose "di così poca importanza, di così piccola entità". Mi spiegò che lui aveva un permesso di soggiorno come rifugiato politico, e aveva ottenuto dal comune una licenza come venditore ambulante, quindi era in regola... per questo aveva deciso di andare a denunciare il furto. Però entro il dieci del mese doveva pagare la stanza al padrone di casa e non aveva più soldi. Perciò il padrone di casa, senza intendere ragioni e senza nessuna pietà, a metà gennaio l'aveva sbattuto fuori, tenendosi tutta la sua povera roba, abiti, materiali e attrezzi, come pagamento di quanto gli doveva. Ylli aveva sperato, chiedendo l'elemosina, di racimolare il denaro per pagare il padrone, per riavere le sue cose, per comprare altro cuoio e ricominciare. Però quanto riusciva a raggranellare gli era appena sufficiente per mangiare qualcosa e non era ancora riuscito a venir fuori da quella situazione. Provai un forte senso di compassione per quel povero ragazzo. "E... dove dormi, ora, Ylli?" "Dove capita... nei vagoni fermi su binario morto... se non mi trovano... se non mi mandano via." "Quanto devi al padrone di casa per riavere le tue cose?" "Cento..." "Centomila lire?" "Sì, poco meno... Ma io ho solo quindici, sedici..." "Capisco. E poi comunque dovresti ricomprare il cuoio... un'altra bella spesa." "Non riuscirò mai... Ho fatto domanda a comune per sussidio... a rifugiati politici danno centoventi al mese... ma prima che accettano mia domanda, che cominciano a darmi soldi, dice l'impiegata che passa almeno quattro mesi, e così..." "Centoventimila al mese? Una miseria!" esclamai sorpreso. "Tu quanto pagavi per il tuo letto in quella pensione?" "Cento alla settimana..." "Mio dio... più di quattrocento al mese per un letto in una stanza con altri tre... ma è una cifra!" "Quella pensione chiede poco, altri chiede anche di più. Specie se uno è clandestino. Ma in quella pensione siamo tutti in regola... così costa poco." mi spiegò Ylli. "Ma non hai idea di chi ti può aver derubato?" gli chiesi allora. "Uno di miei compagni, ma non so chi, nessuno ha visto niente, nessuno sa niente. Il padrone ha cercato, ma non ha trovato niente, è naturale." "Sicuro che non sia stato proprio il padrone?" gli chiesi allora. Mi guardò sorpreso: "No... non credo, non è possibile... Signor Alfredo stronzo, sì, ma tanti anni, mai sucesso niente. Uno di altri extra-comunitari, quando nessuno vedeva, portato via tutto... Tutti noi abbiamo chiave casa... Anche io avevo chiave casa, prima." Pensai un po', mentre Ylli mangiava qualche altro croissant. Ordinai un altro cappuccino per lui. Poi gli dissi: "Ascolta, Ylli, adesso vieni a casa mia, ti fai una bella doccia o un bagno, mettiamo in lavatrice i tuoi vestiti, e ti do qualcosa di mio da metterti addosso... ti starà tutto un po' corto, sei almeno cinque centimetri più alto di me, ma per un po', andrà bene. E puoi anche dormire da me, ho una stanza libera, quella dove dormiva mio figlio prima di sposarsi. Va bene?" Il ragazzo mi guardò stupito: "Io a casa sua, signore Marco?" chiese guardandomi negli occhi con quei suoi occhi chiari chiari, limpidi e trasparenti. "Per il momento, almeno finché non troviamo una soluzione." "Perché fa tutto questo per me?" "Perché... perché non hai nessuno. E perché posso farlo. Ho una camera in più, come t'ho detto. E mangiare da solo o mangiare in due non cambia molto. Almeno per un po' di giorni. Ma non voglio lasciarti in mezzo a una strada. E tu mi sembri un bravo ragazzo." "Lei è troppo buono, signore Marco... Io non so..." "Ylli, non sono troppo buono, no. Ma penso che se non si dà una mano a chi è nel bisogno, non si merita di essere chiamati uomini. Quando io ho avuto problemi, ho avuto anche chi mi ha dato una mano. È come una catena, da una mano si riceve, da una mano si dà. È un dovere morale." "Io... non so come dire grazie, signore Marco..." "E allora chiamami solo Marco. Quel 'signore' non mi piace. D'accordo?" "Sì... Marco. Io cerco di non dare nessuno fastidio. Lei è molto buono con me. Io non so come dire grazie." Gli sorrisi: "Allora andiamo, Ylli?" "Sì..." rispose il ragazzo, "sì, Marco. Io adesso posso solo dire grazie ma... spero un giorno potere dare a lei con mia mano quanto ricevo con mia mano." "Anche non a me... magari a qualcun altro che ha bisogno, quando sarai in grado di aiutarlo." Mi feci dare un sacchetto di carta dalla cameriera, vi misi dentro le paste che restavano e uscimmo dal bar. Camminammo in silenzio, a passo svelto, finché finalmente giungemmo a casa mia. Salimmo al quarto piano con l'ascensore, aprii la porta di casa, e gli mostrai subito dove avrebbe dormito. Poi gli feci vedere il resto di casa. "È bello qui da lei..." disse il ragazzo guardandosi attorno. "Sono gli stessi mobili dei miei genitori, qualche pezzo anche dei miei nonni, credo. È roba vecchia, ma solida. Adesso ti prendo qualcosa per cambiarti e vai subito a fare un bel bagno, d'accordo? Dopo mi dai la tua roba, così la mettiamo in lavatrice." "Sì, ho bisogno di lavarmi bene. Grazie, Marco." Andammo in camera mia, gli scelsi la biancheria intima e qualcosa di caldo da mettersi sopra, gli detti un paio di asciugamani, poi lo portai in bagno. Gli feci vedere dove tenevo il gel-doccia e lo shampo, gli detti un rasoio usa e getta, uno spazzolino da denti nuovo e lo lasciai solo, uscendo dal bagno. Notai che non aveva chiuso a chiave la porta. Dopo poco sentii l'acqua della vasca scorrere. Restò in bagno per quasi un'ora. Io frattanto controllai le provviste in cucina prendendo nota di che cosa dovevo comprare e mentalmente misi giù il menù per il pranzo e per la cena. Poi mi ricordai che sarei dovuto andare in ufficio, anzi, ero già piuttosto in ritardo. Allora telefonai in Provincia dicendo che mi prendevo un paio di giorni di permesso per improvvisi problemi di famiglia... Mi risposero che non c'erano problemi: il periodo era un po' morto e la mia impiegata era in grado di svolgere il lavoro, con l'aiuto del ragazzo con il contratto provvisorio. Telefonai anche alla mia impiegata avvertendola e dandole qualche istruzione riguardo alle pratiche in sospeso. Per fortuna era una donna efficiente, quindi non avevo proccupazioni. Finalmente Ylli venne fuori dal bagno, indossando i miei abiti: era buffo, gli stavano veramente un po' corti, specialmente sulle gambe e sulle braccia. Aveva in mano il fagotto degli abiti che si era tolto. Rasato bene, lavato e pettinato, aveva di nuovo un aspetto gradevole. "Questi, dove li metto?" "Vieni, torniamo il bagno: la lavatrice è là, la carichiamo subito. In un'oretta saranno pronti per essere stesi. Poi andiamo a fare un po' di spesa. Mi dai una mano, no?" "Certo, Marco, volentieri." Avviata la lavatrice, aggiunsi sulla lista della spesa quello che mancava, gli detti un mio giaccone da montagna quasi nuovo che non usavo da un po' e uscimmo. Man mano che si passava da un negozio all'altro per fare le compere, lui voleva tenere tutti i pacchetti. Mi fece ricordare quando Vanni era ancora un adolescente e si andava a fare la spesa assieme, e questo pensiero mi fece provare un grande senso di tenerezza. Tornammo a casa. Mentre mettevo a posto la spesa, poi cominciavo a preprare il pranzo, Ylli era seduto in cucina. Mi aveva chiesto se potesse aiutarmi, ma gli dissi che, in cucina, preferivo fare tutto da solo, non mi facevo neppure aiutare da mio figlio. "Ha un figlio, Marco?" "Sì, uno solo, Vanni, che ha trentadue anni, e un nipote, suo figlio, che si chiama come me e ha sedici anni." "Sedici? Allora suo figlio Vanni ha avuto figlio quando aveva sedici anni?" chiese stupito. "Sì... un errore di gioventù." gli dissi e gli spiegai come erano andate le cose. Poi gli raccontai anche dei miei tre matrimoni... "E così, ora, sono solo." conclusi. "Non ha avuto una vita fortunata, una vita facile, Marco." mi disse il ragazzo. "Neanche brutta, però. E anche tu... non mi pare che tu abbia avuto una vita facile, mio povero Ylli." "No... è vero... anche se ho avuto anche io qualche momento felice." mi rispose il ragazzo con voce tenue. Per un po' tacemmo tutti e due, poi Ylli iniziò a raccontarmi a grandi linee la sua vita. Era nato in una famiglia cristiano-ortodossa nel sud dell'Albania, in un villaggio a grande maggioranza musulmano. Questo aveva creato non pochi problemi sia alla sua famiglia che a lui fin da piccolo. Non una vera e propria persecuzione, ma una costante discriminazione. Le cose erano peggiorate dal fatto che suo padre e sua madre erano anti-comunisti, quindi invisi alle autorità governative. Finché, sette anni prima, il padre era stato messo in prigione con l'accusa di cospirazione contro lo stato e poco dopo la madre era misteriosamente scomparsa. Fu allora che Ylli decise di fuggire. Con un gommone traversò assieme ad altri albanesi l'Adriatico e, giunto in Italia, avevano tutti chiesto asilo politico. Ylli e qualcun altro l'avevano ottenuto, quindi aveva avuto un permesso di residenza permanente. Se questo da una parte gli permetteva di trovare un lavoro, dall'altra non glielo garantiva. Aveva vissuto facendo vari lavoretti provvisori, trasferendosi sempre più a nord sperando di trovare di meglio, finché era arrivato qui, circa cinque anni prima. Mi disse che allora aveva conosciuto un uomo che gli aveva insegnato a lavorare il cuoio, quindi per un po' aveva lavorato per lui; quell'uomo aveva un negozio dove vendeva le sue cose. Ma tre anni prima questo uomo s'era trasferito in Australia e chi aveva rilevato il negozio non aveva più voluto la sua opera. Così lui s'era messo in proprio, riuscendo in qualche modo a sopravvivere, almeno fino al giorno della sua disavventura. Mentre mangiavamo, Ylli mi chiese: "E così ora lei non vuole più avere una donna, Marco?" Sorrisi: "No, me ne sono bastate tre e due divorzi." "Ma non si sente solo?" "Qualche volta... sì a volte mi sento un po' solo. A volte mi manca una persona a cui dare affetto e da cui riceverne. Sì, c'è mio figlio, c'è mio nipote... ma loro hanno la loro vita. Qualche amico, ma... non so perché, non mi sono mai trovato veramente bene con la gente della mia età. Sì, incontrarsi ogni tanto, fare due chiacchiere, va bene, ma niente di più." Terminammo di mangiare, così l'invitai a venire a sedersi in soggiorno. Quando entrò vide, appeso alla parete, un mandolino. "Lei Marco suona quello strumento?" "Il mandolino? No, non son capace. Era di mia madre... lo tengo lì più che altro come ricordo. Lei lo suonava abbastanza bene." "Posso... posso provare a suonare il madorlino di sua madre, Marco?" "Mandolino, senza la 'R'. Certo che puoi, anche se sarà scordato... Sai suonare il mandolino, tu?" "Quando ero piccolo avevo imparato abbastanza bene. Adesso è tanto che non suono, forse non sono più abbastanza bravo." Lo staccò dalla parete, sfilò il plettro che era infilato fra le corde, lo provò, regolò un po' le corde, poi iniziò a suonarlo. Doveva essere qualche vecchia canzone folkloristica albanese. Il ritmo e la melodia erano molto particolari, molto diverse da quanto io avessi mai udito. Era un po' incerto, a volte si fermava e rifaceva una frase musicale, ma non era male. Quello che però mi affascinava sopra a tutto, era l'intensità dell'espressione del suo volto mentre suonava. Osservavo le sue dita muoversi agili, svelte sulle corde, e il suo lieve sorriso velato di tristezza, e i piccoli movimenti del capo con cui accompagnava il ritmo della musica che stava suonando. Era completamente assorto, direi quasi assente. Dopo un po' smise e mi guardò, facendo un sorriso di scusa: "Non sono più bravo come un tempo." mi disse. "Ma a me è piaciuto. Perché non mi suoni ancora qualche cosa?" "Io però conosco solo vecchie canzoni di Albània." "Sì, va bene, mi sembrano affascinanti. Te ne ricordi ancora una?" Annuì, e riprese a suonare. Questa seconda canzone era un po' più gioiosa della prima, ciò nonostante, mentre suonava, il suo viso fu velato di nuovo da quella lieve melanconia che avevo notato mentre eseguiva la prima canzone. Mi chiesi quali ricordi, quali emozioni quella musica potesse suscitare in lui. Provai un forte senso di tenerezza verso quel ragazzo e un confuso desiderio di prenderlo fara le mie braccia e di coccolarlo, quasi fosse stato un bambino. Poi smise di suonare: "Adesso basta, mi fa un po' male le dita, ho perso abitudine." disse e andò a riappendere il mandolino alla parete. Si muoveva con una grazia elegante, lieve, quasi da ballerino. Pensai che era davvero buffo con i miei abiti troppo corti indosso. Di corporatura, a parte l'altezza, non eravamo troppo dissimili, Ylli era forse un po' più magro di me e soprattutto un po' più snello. Poi pensai anche che Ylli era un bel nome, che gli si addiceva... pensai che era più bello che non il suo equivalente italiano Elia. Dopo la cena ritirai i suoi panni asciutti, li stirai, li piegai e andai a portarglieli in camera. Stupidamente non pensai a bussare ed entrai. Era inginocchiato accanto al letto, con le mani giunte, e stava pregando. Mi fermai interdetto, e quando si girò guardarmi, un po' sorpreso, ma senza cambiare posizione, gli chiesi scusa. "Avrei dovuto bussare, scusami." "È casa sua, Marco, non deve chiedere scusa a me." "No, è stato poco educato da parte mia. Comunque... qui ci sono i tuoi abiti, te li appoggio qui sulla sedia." Si alzò: "Lei ha stirato mia roba... non doveva. Potevo fare io. Io non voglio dare un peso a lei, fa già anche troppo. Io se posso aiutare, fare qualcosa, lei deve dirlo. Io per lei e non lei per me." "D'accordo, non ti preoccupare. Ah, ho dimenticato di chiedertelo, vuoi un pigiama, per dormire? Posso prestarti uno dei miei." "Io sempre dormito solo con mutande e qui è caldo. Va bene così, grazie." "Buona notte, allora, Ylli." "Buona notte a lei, Marco. E... grazie di tutto."
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