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una storia originale di Andrej Koymasky


PIETRE SPARSE CAPITOLO 1

Bonu est s'amigu, bonu est su parente, ma iscura sa domo inue non b'hat niente
Buono è l'amico, buono il parente, ma triste è la casa dove non vi è niente

Nel mare che i romani orgogliosamente chiamavano "Mare nostrum", a parte parecchie piccole isole, vi sono tre isole maggiori, veramente grandi. Approssimativamente una ha la forma di un triangolo, la seconda di un rettangolo e la terza di una lacrima.

L'isola di forma rettangolare è larga più o meno cento chilometri e lunga duecento, sorge da un mare di un blu intenso ed è coperta di montagne e di alberi. Ma le sue montagne sono molto diverse da quelle che si è abituati a vedere: non sono massicce, ma fanno pensare più ad alti cumoli di enormi rocce accatastate in disordine.

Le leggende raccontano che queste rocce erano il deposito dei proiettili usati dai Giganti durante l'ultima guerra che combatterono contro gli Dei, poco prima della fine della mitica "Età d'Oro".

Anche gli alberi dell'isola sono diversi dai normali alberi che si possono vedere in altre terre. Sono grandi, possenti, ma contorti e piegati in forme drammatiche. Le leggende raccontano che sono le immagini delle anime dei Giganti sconfitti e morenti, torturate dagli Dei dopo la loro ultima battaglia.

Qualcuno sostiene che quando soffia il vento fra quegli alberi, l'ululio che si può udire nei boschi non è altro che il suono dei lamenti di quelle anime eternamente in pena.

Su questa grande isola vi sono parecchie piccole città, paesi e villaggi in cui vive un popolo rude e duro come l'isola stessa. Un popolo antico, fiero e bello, che parla diversi idiomi che solo chi è nato sull'isola comprende. Questo popolo ha anche antiche e belle tradizioni a cui è molto attaccato. È un popolo forte e fiero, non alieno da un virile orgoglio, un popolo determinato e, a parere di qualcuno, anche testardo.

Ma proprio come sulle dure rocce delle montagne, nelle pieghe e nei crepacci si possono trovare graziosi e delicati fiorellini colmi di profumo e ammantati di tenui e piacevoli colori, nello stesso modo nelle piege dell'anima e del cuore di questa fiera gente si possono trovare angoli colmi di dolcezza e tenerezza. Sono angoli ben nascosti, ma vi sono.

La nostra storia inizia nell'anno del Signore 1872, nel villaggio di Arbatax che sorge quasi in riva al mare.

Questo villaggio era costituito da un piccolo gruppo di case costruite su un pendio che termina in un mare di smeraldo. Le abitazioni si snodavano lungo una via principale. Su in alto, annidato nelle rocce e bianco come una perla rara sul bordo di una scura valva aperta e separato dal villaggio da un folto bosco, vi è il santuario di Sant'Efisio.

Lungo la via principale sorgeva un'antica costruzione che veniva chiamata "Domus Dore" cioè Casa Dore. È una casa antica e decadente che però conserva un certo aspetto di potere e autorità che la fa emergere dalle altre piccole e povere case del villaggio e in cui vivevano otto persone. Gli abitanti di Arbatax da sempre consideravano la famiglia Dore come la più antica e la più nobile del luogo. I membri della famiglia Dore assomigliavano alla casa in cui vivevano, anche loro erano decadenti ma fieri.

Questa storia inizia in un sabato sera, alla vigilia della festa di sant'Efisio, il santo patrono dei pastori di Arbatax, cioè di una gran parte degli abitanti del villaggio. Chi si avvicinava al villaggio poteva udire da lontano un brusio confuso, fatto di scoppi e crepitii di fuochi artificiali e di voci di bambini in festa.

Ma nella via principale del villaggio, a quell'ora, si udiva solo la voce di don Antonio Dore.

L'uomo aveva occhi neri, la sua capigliatura era bianca come neve e aveva un corto pizzetto bianco, triangolare e ben curato. L'uomo indossava l'abito tradizionale, come usavano fare tutti i membri della famiglia Dore: aveva stivali neri che giungevano sotto il ginocchio da cui uscivano ampie brache bianche, indossava un'ampia camicia bianca con un collarino di pizzo, e attorno alla vita aveva arrotolata ben stretta un'alta fusciacca di seta rossa; sulla camicia indossava un corto gilè di lana nera aperto sul davanti. Sul capo portava l'alto capello a cono di feltro nero ripiegato su un lato, che gli pendeva sul lato destro del volto.

"Sia come sia, il ragazzetto un giorno scomparve." il vecchio nobiluomo disse, tirando uno sbuffo di fumo dalla sua vecchia pipa di coccio, rivolgendosi all'altro vecchio uomo che gli sedeva a fianco, davanti alla casa.

"Come, scomparve?" chiese "ziu" Santo Baule, il suocero del figlio maggiore di don Antonio.

"Scomparve. Da un giorno all'altro. Chi l'ha più visto? Dove è andato il ragazzo? Nessuno lo sa. Qualcuno dice che l'ha ammazzato il padre..."

"Il padre? Madre di dio! Com'è possibile pensare una cosa così?" chiese ziu Santo guardando stupito il consuocero.

"Mah... dicono così solo perché ormai non v'è più timore di dio. Quando eravamo giovani la gente non si sarebbe neppure azzardata a pensare una cosa come questa. Neanche immaginare che un padre possa amazzare il sangue del suo sangue."

"Sì, è proprio come dite voi: non c'è più timore di dio, questo è vero." assentì ziu Santo con espressione grave.

"Ma io non ci credo. Il ragazzetto che è scomparso, il figlio del pastore Primus, era davvero un poco di buono, lo devo ammettere. Pensate che a tredici anni si comportava..." disse don Antonio, poi chinandosi verso il compare aggiunse a voce bassa: "... come una donna di strada!" e di nuovo con voce normale, continuò: "Primus non ne poteva più. Così prese la frusta e le suonò di santa ragione al figlio. E perciò il ragazzetto è scappato. E adesso sarà da qualche parte nel mondo, che fa la vita del vagabondo, secondo me... anche se la gente sussurra e mormora quell'orribile cosa."

Ziu Santo Baule, che era chiamato "zio" per rispetto, in quanto non essendo di nobile famiglia non poteva esser chiamato "don", viveva nella casa della famiglia Dore. Assomigliava a don Antonio: era alto come lui, aveva la stessa età, gli stessi capelli bianchi, ma non il pizzetto, e aveva anche la stessa voce e lo stesso modo di parlare. Indossava però calzoni neri e bassi stivali e la sua fusciacca era nera. Il suo volto inoltre tradiva le sue origini plebee, da antico lavorante, e aveva un che di poco raffinato, quasi di volgare, nel suo aspetto.

"Cosa intendete dire, dicendo che il ragazzo si comportava come una donna di strada?" chiese ziu Santo abbassando anche lui la voce.

"Il ragazzo... capite... si sussurra che... pare che... pare che avesse rapporti intimi... con uomini... Sesso, capite?" sussurò don Antonio chinandosi verso il consuocero.

Ziu Santo scosse la testa, poi guardò verso il fondo della via da cui una donna completamente vestita in nero stava avanzando quasi strisciando con l'ampia gonna contro le pareti delle vechie case grigie e annerite.

"Pare... si dice... E che c'è di così strano? Quanti ragazzetti, prima di poterlo fare nel modo giusto... lo fanno fra di loro!" obiettò ziu Santo guardando di nuovo verso don Antonio.

"Divertirsi fra ragazzetti... si sa che è cosa che accade spesso. Specialmente fra pastorelli... Ma farlo con uomini adulti... beh, non è certo la stessa cosa. E, peggio pure... farlo anche con forestieri!"

"Ah, mio caro don Antonio, ma anche se così fosse, sono gli uomini che si approfittano di un ragazzetto in calore che sono da biasimare, non una creatura innocente."

"Voi scusate sempre tutto e tutti, ziu Santo." gli disse don Antonio scuotendo il capo come per disapprovare, ma sorridendogli.

"E, per il santo Figlio di Dio," ziu Santo controbatté, "perché mai pensare sempre male degli altri? Chi ci dà il diritto di giudicare?"

Don Antonio, tornando ad assumere un'espressione seria e grave, mormorò: "Viviamo in brutti tempi. Non c'è più timor di Dio e ormai pare che tutto sia permesso. I giovani non credono più in Dio, non vanno più in chiesa, non rispettano più niente: questo è il problema. E purtroppo noi siamo vecchi, e siamo deboli, le energie ci hanno abbandonato... E tutto sta andando di male in peggio."

"Eh... forse è proprio come dite voi. Però..." ziu Santo sospirò, e iniziò a battere con una mano sulla propria coscia, ritmicamente, aggrondato, ma non aggiunse più nulla.

Don Antonio lo guardò per un po', studiandolo in silenzio. Poi disse: "Ne vedremo delle belle, se dio ci conserva ancora un po' di vita. Delle belle o per meglio dire delle brutte, mio caro Santo Baule. Sì, sento proprio che ne vedremo delle brutte, voi e io."

Entrambi pensarono alla stessa cosa o, per meglio dire, alle stesse persone.

Frattanto la donna di mezza età completamente vestita in nero e che aveva sul capo un grande scialle triangolare dalle lunghe frange, che teneva stretto con una mano sul petto, aveva percorso la strada ed era giunta accanto ai due vecchi.

"Avete visto Renzino, per caso?" chiese con voce gentile.

"Dovrebbe essere con Damianu, qua in cortile." ziu Santo rispose alla figlia.

"Santa Vergine, che caldo sta facendo! Mentre ero su al santuario per la funzione sacra, credevo quasi quasi di svenire." disse l'alta e snella donna, dagli occhi neri e i cui capelli grigi facevano capolino da sotto lo scialle. Stava per entrare in casa ma si fermò, si girò verso i due uomini e chiese: "Ettore ancora non è tornato, nevvero? Se non è a casa a quest'ora, per stasera non torna. Vado a preprarare da cena."

"Che ci dai per cena, Martina?" le chiese don Antonio.

"Abbiamo ancora qualche trota. Per fortuna non abbiamo ospiti, stasera."

"Può ancora arrivare qualcuno." ziu Santo disse a mezza voce, "Questa casa non è più ricca come un tempo, ma è ancora conveniente fermarcisi a cena, per chi non vuole spendere."

"Ci sono ancora trote, è vero! Me n'ero proprio dimenticato!" disse allegramente don Antonio. "E se arriva un ospite, ce n'è pure per loro, no? Eh, bei tempi quando per le feste questa casa era piena di ospiti. Anche dieci, dodici ne avevamo certi giorni. Ma la gente al giorno d'oggi s'è scordata delle feste e non onora più né la Madonna né i santi."

"La gente al giorno d'oggi ha sempre meno soldi, mio caro don Antonio, e ha imparato a campare anche senza feste." disse donna Martina in tono spiccio ed entrò in casa.

Nella sala semibuia, mentre si toglieva l'ampio scialle dal capo e lo ripiegava accuratamente, una voce lamentosa e dispettosa si levò.

"Martina, sei tornata a casa, finalmente! Potevi almeno accendermi una lampada, prima di andare su al santuario, no? Tutti qui mi lasciano sola e al buio, come se io non ci fossi più, come se già fossi morta!"

"Zia, ancora non è notte, e senza accendere la lampada state più al fresco." le rispose la donna in tono gentile, "Comunque adesso ve la accendo, una lampada."

Martina accese un lume e lo posò sulla grande tavola in centro alla stanza. La sala era vasta, il soffitto a casettoni basso, e con la tremula luce giallastra della lampada la stanza pareva ancora più triste di prima. Anche all'interno la casa era vecchia e decadente, ma la mobilia, anche se un po' mal ridotta, conservava qualcosa della sua antica nobiltà... proprio come gli abitanti della casa.

Su un letto in fondo alla stanza era seduta una vecchia che respirava con difficoltà.

"E chi sta al fresco, qui?" riprese a lamentarsi, "dove lo senti tu il fresco? Damianu, figlio del demonio, dove ti sei cacciato? Potresti portarmi un po' d'acqua, no?" gridò poi con voce stridula la vecchia.

Donna Martina uscì dalla stanza, traversò il piccolo corridoio poi la cucina e si affacciò alla porta che dava sul cortile. La cucina era più vasta e anche più scura di fumo che non la sala.

"Damianu, vieni dentro che è tardi. E porta un po' d'acqua alla zia Tana."

Il ragazzo entrò, prese la brocca dell'acqua e riempì a metà un bicchiere.

"Damianu, disgraziato, me la vuoi portare quest'acqua o no?" la vecchia di nuovo gemette in tono basso ma iroso.

Il ragazzo entrò nella sala, s'accostò al letto e porse il bicchiere alla vecchia. Mentre zia Tana beveva rumorosamente, il servo la guardava. Mai due esseri umani avrebbero potuto essere più dissimili...

Damianu era snello e di corporatura minuta e pareva ancora un adolescente. La sua bocca era un po' troppo larga e aveva denti quasi perfetti, di un bianco incredibile, belli come perle; i suoi occhi blu erano dolci e tristi, ma il suo sguardo era quello di una persona matura. Un sorriso da adolescente e uno sguardo da adulto erano sempre sul volto del servo, che teneva il capo leggeremente piegato indietro, più come se il suo abbondante casco di corti capelli neri gli pesasse in capo che non in un atteggiamento di sfida o di orgoglio. Era aggraziato e sembrava anche più giovane di quello che realmente fosse, solo le sue mani snelle e la sua pelle liscia tradivano la sua vera età.

Il corpo grosso e pesante, tozzo anche se non grasso, della vecchia era invece segnato dal dolore, come il suo volto. "Io sono nata solo per soffrire", ripeteva spesso la vecchia. Pareva che ogni cosa la infastidisse e che lei vivesse solamente per infastidire tutti. La vecchia era come la pompa dell'acqua, che a ogni movimento della leva prima aspira poi fornisce acqua: lei pareva aspirare dolore e riversarlo poi sugli altri.

Damianu tornò con passo agile e silenzioso in cucina e posò il bicchiere accanto alla caraffa dell'acqua, poi uscì di nuovo nel cortile ad accendere il fuoco sotto i fornelli che c'erano accanto al forno, sotto la tettoia. Quando faceva troppo caldo, si cucinava all'aperto per non affumicare né riscaldare troppo la casa, e la zona con la tettoia che proteggeva il forno era così trasformata in cucina. In quella famiglia era Damianu, più che non donna Martina, che da tempo si occupava di cucinare. Il ragazzo era di fatto un ottimo cuoco.

La luna piena pareva appesa sul fondale ancora pallido del cielo quasi come un lampione di carta, e illuminava lo stretto e lungo cortile. Da lontano continuavano a venire i rumori di voci e dei fuochi d'artificio, recati a tratti da folate di un venticello lieve. Un ragazzino di sette anni, con una testa troppo grande e pochi capelli biondicci in capo, entrò dal cancelletto che dal fondo del cortile portava nell'orto.

"Damianu, Damianu, vieni! Da qua dietro puoi vedere bene i fuochi!" gridò con la sua vocetta acuta ed eccitata.

"No, Renzino, è ora che rientri, invece. È tardi, e comunque i fuochi li vedi pure da qui."

Di fatto le tracce di alcuni fuochi artificiali s'incrociarono sul cielo pallido e pareva quasi che tentassero di raggiungere la luna prima di aprirsi in un fiore di tenue luce colorata per poi ricadere sfarfallando.

"Cadono qui vicino? Cadono nella foresta?" chiese Renzino in tono preoccupato.

"No, cadono molto più lontano, più lontano di sicuro." gli rispose il servo in tono gentile.

"Più lontano, quanto? E dove? Magari qualcuno cade anche sul mio babbo? Gli possono fare del male?"

"Speriamo di no." gli rispose Damianu, "Pensi che tornerà, stasera, Renzino?"

"Io penso proprio di sì. E tu, Dami?" gli chiese il ragazzino con un sorriso pieno di speranza.

"Non lo so." rispose il ragazzo in tono triste, il volto scuro, poi si pentì di averne parlato col piccolo. "Il tuo babbo torna a casa quando vuole."

"È lui il padrone, no? È così forte, lui; lui comanda tutti, vero?" chiese Renzino e il tono della sua voce non ammettva un 'no' come risposta. "Lui può fare tutto quello che vuole. Può anche fare il cattivo se vuole, giusto? Nessuo può toccarlo, nessuno lo può punire, vero?"

"Proprio così, proprio così..." ammise il ragazzo in tono serio.

Tacquero entrambi, mentre Damianu accudiva il fuoco.

"Dami!" Renzino strillò all'improvviso, "Eccolo il babbo, sta arrivando! Lo senti il suo cavallo?"

Il ragazzo rizzò la testa, in ascolto, poi scosse il capo. No, non era il passo del cavallo di Ettore Dore, del padrone. Lui sapeva riconoscere perfettamente il passo di quel cavallo quando risaliva la via dopo una lunga e stancante giornata. Comunque il cavallo si fermò davanti al cancello del cortile.

"Ho paura che stasera avremo un ospite. Speriamo che sia il primo e l'ultimo a venire." Damianu sussurrò un po' seccato.

Ma donna Martina uscì sul cortile esclamando in tono allegro: "Lo sapevo, io, lo dicevo! Abbiamo un ospite, stasera."

"Ma che bella notizia!" mormorò Damianu fra i denti.

"Apri il cancello, Damianu. Ah, non sarebbe stata veramente una festa stasera senza neppure un ospite a tavola con noi!"

Mentre il ragazzo spalancava il cancello, un uomo scese dal proprio cavallo e salutò i due vecchi ancora seduti davanti alla casa: "Vi trovo proprio bene, che Dio vi benedica!" esclamò in tono allegro.

"Più che bene." rispose don Antonio, e aggiunse ridacchiando, "Non vedete che siamo ancora due giovanottelli?"

"E Ettore? Dov'è Ettore?" chiese l'uomo.

"Ettore forse torna domattina. È dovuto andare fino a Nuoro per affari di famiglia."

"E donna Martina, come sta? Oh, eccoti qui, Damianu!" disse l'ospite entrando nel cortile, tirandosi dietro il cavallo per la cavezza. "Quanto aspetti a trovarti una moglie, eh, Damianu? Dove lo lego il cavallo, qui sotto la tettoia?"

"No, qui sotto donna Martina e io dobbiamo cucinare."

"Ah, Damianu, un uomo che cucina! Non è lavoro da uomini, questo!" gli disse l'uomo con lieve sarcasmo.

"È lavoro da servi." rispose il ragazzo serio.

"Damianu, legalo a quell'albero, che nella stalla non c'è più posto. C'è troppa roba." disse donna Martina tornando nel cortile ad accogliere l'ospite. "Siete a casa vostra, venite. Che piacere rivedervi..." disse poi la donna al nuovo arrivato.

Damianu prese il cavallo e andò a legarlo verso l'angolo dove c'era il capanno degli attrezzi, davanti alla siepe che lo nascondeva. Sorrise per la bugia della padrona. "Eh sì," pensò il ragazzo, "la festa non è festa senza ospiti, ma intanto il tetto della stalla è crollato e non ci sono i soldi per ripararlo... e donna Martina si vergogna a farlo vedere."

"Stanno tutte bene le vostre sorelle e vostra madre?" chiese Martina all'uomo guidandolo dentro la casa.

"Sì, grazie, stanno tutte bene e sono tutte belle e fresche come rose di maggio." rispose l'uomo seguendola. "E voi, voi piuttosto, come state?"

Nella sala la vecchia donna asmatica guardò verso l'uomo che stava entrando. Questi si accostò al letto.

"E voi, donna Tana, come state, eh?" le chiese l'uomo, alzando un po' la voce.

"Ah, siete voi Marcus Laconi. Adesso vi riconosco... c'è così poca luce qui dentro!" rispose la donna accarezzandosi il colletto di pizzo sul petto scarno, "Ma ditemi, si sono sposate le vostre sorelle?"

"No, non ancora..." rispose l'uomo, seccato per quella domanda che sapeva essere stata fatta con malizia.

I due vecchi entrarono nella sala, direttamente dalla porta che dava sulla strada, trascinandosi dietro le sedie e sedettero a tavola, dove con un gesto invitarono a sedere anche l'ospite. Dopo poco arrivarono anche donna Martina e Renzino con la cena.

"Questo è il filgioletto di Ettore, vero?" chiese l'uomo guardando il bimbo. "È l'unico figlio, mi pare... Ettore non pensa di sposarsi di nuovo?"

"No, no." rispose donna Martina con un sorriso triste, "Per il momento pare proprio che non ci pensi a prendere moglie. Sì questo è il suo unico figlio. Oh, ecco Damianu. Servitevi, Marcus, fate come se foste a casa vostra. Vi piacciono le trote, no? Prendete questa..."

Mentre erano a tavola qualcuno bussò alla porta che dava in strada.

"Il babbo! Il babbo!" gridò eccitato Renzino.

"Ma no, il babbo mica busserebbe a casa sua, no?" gli disse Marcus Laconi ridendo.

Un uomo alto e magro e vestito dimessamente stava parlando con Damianu sulla porta di casa: "Io vengo da Orzulei e mi chiamo Pilimu Salis. Mi manda Pietro Cossu, che è un grande amico di don Antonio e che gli manda questa lettera."

Damianu fece entrare l'ospite e andò ad avvertire don Antonio. Il nobile vecchio prese la lettera e invitò il nuovo arrivato a fermarsi a tavola con loro, ma l'uomo ringraziò e preferì fermarsi in cucina con il servo.

Era giovane ma doveva essere molto povero. Aveva occhi tristi e grandi, ma molto svegli. Damianu sentiva la sua rabbia calare: in fondo, visto che i Dore facevano i gran signori con chi non ne aveva bisogno, con uno scroccone come quel Laconi, era giusto che dessero da mangiare anche ai poveracci.

"Siedi qui, prendi questa trota." gli disse offrendogli parte del suo cibo, "Adesso ti do anche un bicchiere di vino."

"Il Signore ti ricompensi, ragazzo mio. Sei il servo dei Dore, tu?"

"Eh, sì."

"Ma tu non sei del paese, parli diverso... di dove arrivi, tu?"

"Da qualche parte del mondo."

L'uomo si versò un altro bicchiere di vino: "Ma dimmi... hai la fidanzata, tu?" gli chiese allegro.

"Macché. Non mi interessano le ragazze, a me! Non ho tempo per le ragazze, io!" rispose Damianu un po' secco.

"Ah no? Non ti interessano le ragazze? E allora magari... magari ti andrebbe di... di divertirti un po' con me." disse l'uomo ridacchiando e facendogli l'occhietto.

Damianu lo guardò per storto: la battuta proprio non gli era piaciuta. Poi andò a servire i padroni a tavola.

"Quand'eravamo più giovani Ettore venne a trovarmi al mio paese," stava raccontando Marcus, "andammo assieme, di nascosto dei miei, alla festa al villaggio vicino, a cavallo. Dio mio, quanto ci si è divertiti! Quando si è ragazzi si è un po' sventati, abbiamo scialacquato tutto il denaro che avevamo in tasca... ma ci siamo proprio divertiti."

Ziu Santo disse. "Ettore è un buon ragazzo, buono come il vino da messa, anche se è stato sempre un ragazzo un po' troppo allegro e s'è sempre goduto la vita a modo suo."

"Finché si è giovani, s'ha da godere!" rise forte l'ospite.

Damianu andava e veniva con i piatti. Quando tornò in cucina, vide che vi stava entrando Matteo.

"Ohilà Damianu! Salve straniero!" disse il giovane allegro come un bambino, "Che me lo dai qualcosa da mangiare, Damianu? Ho fatto tardi per guardare i fuochi: quest'anno erano proprio belli, pareva che piovessero raggi di sole!"

Damianu gli mise davanti un piatto e uscì dalla cucina di cattivo umore.

"Che ragazzo musone, quel servo!" disse lo straniero a Matteo, studiandolo di sottecchi.

Matteo, iniziando a mangiare di buon appetito, lanciò un'occhiata all'ospite e disse, con una certa fierezza: "Damianu e io qui siamo più che servi, siamo gente di famiglia."

"Ma la vecchia malata, di là, è la moglie di don Antonio?"

"La moglie di don Antonio? Ma che dite? No, no, donna Tana è una lontana parente. Una donna ricca, ma avara come una genovese. Si tiene stretti i suoi soldi quando potrebbe fare una bella vita... e si fa mantenere dalla famiglia, togliendole anche quel poco che ha... Dice che era una dama di compagnia della regina, lassù a Torino... Mah, sarà pure vero... Dice che, quando morirà, lascerà tutto a Renzino, il figlio di don Ettore. Ma quella, prima, farà morire e seppellirà tutti noi."

In quella si sentì il passo di un cavallo sul selciato della via.

Damianu entrò di fretta nella cucina. "Matteo, questo è don Ettore! È tornato!" disse eccitato, e uscì quasi di corsa in cortile ad aprire il cancello.

Pochi minuti dopo entrò in cucina un uomo giovane, alto e snello e completamente vestito di nero. Matteo si alzo dalla tavola. Il giovane uomo fece un cenno di saluto all'ospite.

"Matteo, lascia riposare un po' il mio cavallo e, quando hai finito di mangiare, portalo dal maniscalco. Domattina, poi, lo porti al pascolo." disse e si slacciò gli speroni che appese a un chiodo nel vestibolo.

L'ospite che era in cucina guardò con curosità il nuovo arrivato: notò che assomigliava molto a Matteo, aveva lo stesso colore della pelle, occhi grandi e dall'espressione dolce, la stessa piega delle labbra. Ma don Ettore era più alto del servo, e a differenza di questi aveva un'espressione seria e preoccupata, mentre Matteo pareva un ragazzo spensierato e allegro.

Il giovane padrone andò nalla sala, dove Marcus Laconi lo accolse con allegria. Don Ettore sembrava contento di rivedere il suo antico compagno di divertimenti. Ma donna Martina e i due vecchi si resero subito conto che il giovanotto non recava buone notizie.

In cucina, quando Matteo uscì per occuparsi del cavallo del padrone, mentre Damianu rigovernava, l'ospite povero gli chiese: "Ma allora è vero che quel Matteo è il figlio illegittimo di don Antioco, il padre di don Ettore..."

"Ma che dici!" gli rispose scorbutico Damianu, guardandolo torvo.

"Eh via! Sono proprio due gocce d'acqua. E poi... di don Antioco si dice che gli piacesse... saltare la cavallina con le ragazze dei dintorni."

"Non si deve mai parlare male dei morti... perché i morti non si possono più difendere." lo rimbeccò seccamente Damianu.

Il ragazzo finì di rigovernare, poi uscì sul vestibolo e sedette sul gradino, guardando assorto verso la montagna.

Terminata la cena Matteo invitò l'ospite povero a uscire con lui per accompagnarlo mentre portava il cavallo del padrone dal maniscalco. Anche don Ettore uscì con l'amico Marcus. Donna Martina andò a letto con Renzino. I due nonni andarono di nuovo a sedere in strada e a chiacchierare ancora un po'. Damianu allora rientrò e terminò di rigovernare. Quindi tornò in sala e, come ogni sera, preprò il suo giaciglio a terra, accanto al letto di donna Tana, che stava già ronfando pesantemente.

Poi andò a preprare due giacigli in cucina per Matteo e per l'ospite povero. Marcus Laconi avrebbe dormito in una delle stanze di sopra, con i padroni. Sentì i due nonni salire per la scala e andare a letto.

Damianu non aveva ancora voglia di dormire, perciò uscì in cortile passando per il vestibolo. Si appoggiò con la schiena a un albero, davanti alla tettoia, e guardò la luna che pareva sorridere sorniona su nel cielo. La notte era tranquilla e calda ma Damianu era teso e preoccupato.


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