Qualcuno stava uscendo nel cortile e Damianu si staccò dall'albero. Quando Ettore vide il ragazzo, chiuse la porta dietro di sé, gli si accostò senza far rumore e lo strinse fra le forti braccia, facendogli sentire il suo bruciante desiderio.
Damianu fermette con forza e chiuse gli occhi, abbandonandosi contro il forte corpo dell'uomo. Ettore lo guidò in fondo al cortile, dietro all'alta siepe che nascondeva il capanno degli attrezzi. Là, nell'ombra oscura che era stata tante volte complice dei loro segreti incontri, Damianu lo abbracciò fremendo e gli si strinse contro facendogli sentire tutta la propria eccitazione.
Poi gli sussurrò, contro il volto: "Avevo paura che oggi tu non tornavi... e poi t'ho visto così scuro, così triste... ma ora sei qui, finalmente; sei qui con me!"
"Ho lasciato il mio amico Marcus con prete Portolu, con una scusa... ma dovrò tornare a prenderlo, più tardi. Volevo vederti, prima... avevo bisogno di tenerti così."
Ettore baciò Damianu: le sue labbra erano brucianti, ma era il bacio di qualcuno che cerca di dimenticare sulle labbra dell'altro la sua disperazione e i suoi problemi. Damianu sentì quello che Ettore stava provando e si mise a piangere silenziosamente.
"Damianu, non fare così," gli sussurrò Ettore, "lo sai che non mi piace vederti triste, no? Se perderemo tutto, la vergogna sarà sua, dopo che l'abbiamo accolta in casa. Lo sanno tutti che la manteniamo noi anche se è piena di soldi; lo sanno tutti che è una maledetta avara. La vergogna sarà solo sua. Se Tana fosse un uomo... lo avrei già ammazzato!"
"Crepasse, una buona volta! Crepasse, la strega!" mormorò Damianu irato. "Ma quella è attaccata alla vita più che l'edera al sughero! Quella ci vuole seppellire tutti!"
"A Nuoro..." mormorò il giovane uomo, "ho bussato a tutte le porte. Mi sono abbassato, ho pregato, ho scongiurato, mi sono umiliato... ma quelli vogliono la firma di donna Tana... e lei proprio non ci sente da quell'orecchio. Quella mi odia, sì, mi odia."
"Ma perché non hanno fiducia in te? Sei un Dore, dopo tutto. Hai la casa, l'orto, il cavallo, i mobili..."
"È poca cosa, lo sai... e poi è tutto di mio nonno, non mio."
"E se andasse don Antonio a chiedere un prestito..." mormorò Damianu carezzando in modo sempre più intimo il suo uomo.
Ettore con voce dura gli rispose: "Damianu, ti perdono perché sei solo un ragazzo! Finché campo, nessun altro della famiglia si deve abbassare... come invece devo fare io. Il mio nome... che conta. Ma il nome dei Dore... Al nonno non resta altro, ormai, niente altro oltre al nome."
"Perché non ci provi di nuovo a convincere donna Tana? Provaci ancora una volta."
"Non serve a niente, lo sai bene, e lei ci godrebbe a umiliarmi, a offendermi ancora, quell'arpia, per poi ripetermi di no. Piuttosto io mi ammazzo!"
Damianu gli pose un dito sulle labbra per zittirlo: "Di nuovo! Lo sai che non voglio sentirti dire quella parola. Mi fai paura quando parli così! No, Ettore, non devi neanche pensarla una cosa così."
"E allora non parliamone più di queste cose. Dopo tutto mica ti toccano, non ti riguardano."
"Non mi riguardano, dici? Non mi toccano? Tutto quello che tocca te mi riguarda, lo sai. Lo sai che sei tu la mia vita, no? Ascolta Ettore... quando i tuoi volevano che tu prendessi in moglie Zana Spanu... I soldi quella ce l'ha, e ce ne ha pure tanti... Tu dicevi che è troppo brutta e troppo vecchia, per te... che non ti va... ma per quello... per quello ci sono io, no? Lo sai che io sono tuo no? E allora, perché non te la sposi? Quella ti vuole ancora, visto che tanto nessuno se la piglia. Pigliatela tu... così ti pigli pure tutti i suoi soldi."
"Allora io sarei da vendere, Damianu? Ma sì, forse è ora di ripensarci, a questo punto. Forse tu sei più saggio di me. Magari seguo il tuo consiglio, anche se... anche se forse dovrò andare a vivere con lei. Anche se forse... anche se forse non posso portarti con me."
Damianu lo guardò spaventato e riprese a piangere silenziosamente.
Ettore gli asciugò le lacrime e lo baciò: "Lo vedi quanto sei stupido? Lo vedi quanto sei stupido a dirmi queste cose?"
"Io... per te... io faccio qualsiasi cosa... io sono solo un servo. Ma io ho solo te... non mi abbandonare, Ettore... io faccio qualsiasi cosa, per te, lo sai... ma non mi abbandonare, non mi lasciare mai, Ettore."
L'uomo lo baciò di nuovo. Il ragazzo gli offrì le sue labbra ancora tremanti per il pianto, ancora bagnate delle sue lacrime, e succhiò lieve la lingua del suo amante, mentre l'uomo gli carezzava il culetto, infilandogli una mano sotto i calzoni. Damianu fremette e gli si spinse contro, eccitato.
"Prendimi, Ettore! Prendimi! Fammi sentire che sono tuo!" gli mormorò.
Per un attimo dimenticarono entrambi tutti i problemi e le tristezze della vita, dimenticarono il mondo intero. Ettore gli aprì i calzoni e glieli fece scivolare sulle caviglie. Damianu con mani febbrili aprì i calzoni del giovane uomo e gli tirò fuori dai panni il bel membro già duro, gli si accoccolò davanti e lo preparò con cura e con passione usando le labbra e la lingua. Dopo un poco Ettore prese il ragazzo per i panni e lo tirò su, facendolo alzare. Damianu allora si girò, appoggiò le mani sul tronco dell'albero e gli si offrì, pieno di desiderio e di amore.
Ettore lo afferrò per la vita con le sue mani grandi e forti e gli si addossò. A Damianu piaceva sentirsi le mani del suo uomo sulla pella nuda, e attese trattenendo il respiro, con gioia, ora, che il suo uomo lo prendesse. Sentì il forte membro di Ettore scivolargli fra le piccole natiche e spinse indietro, rilassandosi per accoglierlo tutto dentro di sé. Lo sentì aprirlo, dilatarlo e prendere finalmente possesso di quanto gli apparteneva.
Ettore iniziò a muoverglisi dentro con vigore: quel ragazzo gli piaceva troppo... unirsi con lui, prenderlo, gli dava ogni volta un piacere quasi selvaggio. Sì, Damianu era suo, completamente suo. Neppure sua moglie s'era mai data a lui con tanta dedizione, con tanta passione, in modo così totale.
Fin da ragazzo Ettore l'aveva fatto sia con qualcuno dei pastorelli che con qualche ragazza di facili costumi, sfogando i suoi istinti e i suoi desideri con chi fosse disponibile, divertendosi spensieratamente sia con gli uni che con le altre. Ma mai nessuno s'era dato a lui così prontamente e totalmente, mai nessuno aveva saputo soddisfarlo così piacevolmente e completamente come il suo bel Damianu.
Ettore ricordò come tutto era iniziato con quel dolcissimo e bel ragazzo. Forse proprio per il fatto che l'aveva visto crescere in casa, un trovatello ma quasi uno di famiglia, non aveva mai pensato a Damianu come a una posibile conquista, nonostante crescendo si stesse facendo sempre più un bel ragazzo. Ma un giorno...
Fra le persone che erano rimaste fedeli alla famiglia Dore anche quando era iniziato il declino della famiglia, c'era ziu Cosimu, un vecchio servo che era diventato pastore "a solus", cioè indipendente, perché era riuscito a comprarsi qualche pecora che portava su al pascolo per se stesso.
Un giorno ziu Cosimu aveva invitato i suoi ex padroni ad andare a passare un pomeriggio al suo ovile, suoi ospiti. Aveva un ovile sulla montagna, dietro il santuario di Sant'Efisio, oltre la foresta. Tutto attorno si ergevano enormi rocce ammassate in un caotico disordine una sull'altra, come immani e maestose rovine di un'antica cattedrale, o piuttosto di un antico castello, del castello dei giganti.
Si raccontava che in un tempo ormai lontanissimo, prima il mondo che noi conosciamo fosse creato dagli dei, una terribile lotta fosse avvvenuta su quelle terre, una lotta a colpi di enormi rocce che erano cadute sulla piana schiacciandosi le une sulle altre, elevando le loro forme aguzze verso il cielo azzurro.
Poco più su dell'ovile di ziu Cosimu c'era una roccia tozza su cui si librava una lunga roccia orizzontale: nella fantasia popolare questa formazione era diventata la tomba di uno dei giganti, anzi "la tomba del gigante" per antonomasia. Durante l'abbondante e buona merenda sull'erba che lo ziu Cosimu aveva offerto agli invitati, non si parlò d'altro che delle leggende locali.
"Ho voglia di salire fin lassù." annunciò Ettore allegramente. "Qualcuno ci viene con me?"
Ettore aveva bevuto abbastanza ed era arrossato in volto e su di giri come raramente lo si era visto negli ultimi tempi, dopo che era rimasto vedovo. Ma gli altri si sentivano sazi e stanchi e risposero che preferivano riposare all'ombra degli alberi.
Solo Damianu, che da sempre nutriva una sconfinata ammirazione per il giovane e forte padrone, seguì il giovane uomo e nessuno se ne meravigliò. Tutti erano abituati a considerare Ettore e Damianu quasi come fratelli e conoscevano la devozione del giovane servo per il padrone.
Così i due presero a salire. Era il mese di maggio e il sole del meriggio inondava le rocce traendone barbagli di luce e ricamandovi profonde ombre. A destra della foresta svettava l'aspra cima sulla quale il gigante della leggenda riposava nella sua tomba di pietra. Era arduo salire, non vi era un viottolo ma bisognava saltare di roccia in roccia.
Ettore procedeva agile e sicuro, Damianu lo seguiva esitante, badando a dove posava i piedi. D'un tratto il giovane servo si trovò a passare su alcune pietre instabili; ebbe l'impressione di star perdendo l'equilibrio e lanciò un grido allarmato. Ettore si girò a guardarlo, sorrise ma tornò indietro.
"Dammi la mano." gli disse stendendo il braccio.
Damianu prese la mano che Ettore gli offriva e la strinse. Guardò verso il basso: ai loro piedi i fianchi del monte coperti dalla selva precipitavano giù, giù, fino alla riva del mare di smeraldo. Tutto attorno vi erano solo valli e montagne, montagne e valli che si susseguivano a perdita d'occhio, fino all'orizzonte. Sopra di loro gli uccelli in amore volteggiavano lievi e felici, fra il sole e il vento, nell'aria serena.
Damianu sentì improvvisamente su di sé lo sguardo bruciante di Ettore avvolgerlo e si sentì girare la testa. Ebbe l'impressione che le rocce si sfaldassero sotto i suoi piedi e che precipitassero con un fragore moltiplicato da mille echi. Ma Ettore l'aveva tirato a sé e lo teneva per la vita, sospeso nel vuoto ma al sicuro nella stretta presa delle sue forti braccia.
Poi le labbra del giovane uomo si posarono su quelle del ragazzo e vi aderirono, la lingua gliele forzò aperte e invase la sua bocca. Gli occhi dell'uomo erano come due spade che trapassavano l'anima del giovane servo, che presto sentì, forte, imperioso ed esigente, il membro di Ettore spigere contro il suo attraverso i loro panni.
Ettore allora lo posò al sicuro sulla salda roccia, senza staccarsi da lui, e con voce roca, bassa e calda ma decisa, gli mormorò: "Ti voglio, Damianu! Ti voglio! Tu devi essere mio!"
Il ragazzo tremò, si sentì svuotato di ogni energia e sussurrò, profondamente emozionato: "Io sono tutto tuo, Ettore."
L'uomo con mani febbrili denudò il ragazzo e si denudò rapidamente, poi sospinse Damianu a giacere sulla calda pietra liscia e nuda, e gli andò sopra con tutto il corpo, stringendolo nuovamente fra le braccia.
"L'hai già fatto con un uomo?" gli chiese con voce eccitata.
"Mai, Ettore. Né con uomo né con donna."
"Ma ora ti lascerai prendere da me, Damianu." gli disse l'uomo divaricandogli le gambe con le sue forti mani e sollevandogliele. Non era una domanda, ma un'affermazione.
"Sì." sussurrò il ragazzo intimidito e con la mano scese a carezzare il duro membro dell'uomo che si stava preparando a farlo suo.
Lo sentì duro, caldissimo, grande e forte, quasi temibile. Ma non lo sentì come un'arma pronta a trafiggerlo, non come una minaccia, piuttosto come un tizzone ardente che avrebbe cauterizzato la sua solitudine, la sua tristezza, e che l'avrebbe sanato. Sentiva che non sarebbe stato più un trovatello abbandonato, ma che finalmente sarebbe appartenuto a qualcuno.
"Fammi tuo... voglio essere tuo!" sussurrò in un tono colmo di timore eppure avido al tempo stesso.
"Sì, mio!" affermò il giovane uomo applicando la punta del suo duro membro sul vergine foro che aveva svelato mettendo il ragazzo in quella posizione.
E spinse con tutta la sua virile baldanza.
Damianu sentì un forte dolore, ma chiuse gli occhi e cercò di resistere e non emise nessun lamento, perché sapeva, se pure confusamente, che quel dolore era giusto. Nella vita, nulla si ottiene senza dolore, Damianu lo sapeva assai bene. Se voleva appartenere veramente e totalmente all'uomo, doveva accettare da lui anche quel dolore.
Ettore spinse dandogli un forte colpo di reni e il ragazzo non poté trattenere un gemito. Ma se in un primo momento aveva stretto gli occhi, subito li aprì, li spalancò e guardò Ettore in volto. Lo vide bellissimo, arrossato di passione, teso e forte come un dio che sta schiacciando sotto di sé l'ultimo gigante.
Ettore dette un secondo, fortissimo colpo e il ragazzo lo sentì entrare dentro di sé, con l'irresistibile impeto di un'armata che, sfondati i portali del castello, lo conquista, lo invade, se ne impadronisce, spazzando via ogni difesa.
Damianu si sentiva irrimediabilmente inerte e se istintivamente aveva potuto opporre una qualche resistenza, ora si abbandonò pienamente a quell'invasione. Accolse dentro di sé il vittorioso signore e tremando di emozione artigliò la schiena del suo signore e padrone, arrendendosi completamente e gioiosamente al suo virile assalto.
Ettore con un'ultima spinta si infisse completamente nel ragazzo e per pochi minuti si immobilizzò fremendo per l'intenso piacere di aver fatto suo quel bel ragazzo.
"Mio... sei mio!" disse, anzi quasi gridò, il forte giovanotto iniziando finalmente a battere con un vigoroso ritmo contro il piccolo e tenero sedere del ragazzo che aveva appena conquistato.
Damianu sentiva la virilità travolgente di Ettore sommergerlo come le onde del mare in tempesta battono contro gli scogli superbi, come il maglio del maniscalco forgia il ferro incandescente, come l'ascia del boscaiolo abbatte l'albero orgoglioso. Sentiva in Ettore la forza vincente della natura, il vigore irresistibile che tutto piega e vince, che tutto sottomette, che tutto trasforma.
"Mio... mio... mio!" continuava a ripetergli Ettore, un sorriso di trionfo sulle belle labbra, una luce di vittoria negli occhi, un timbro da sovrano nella voce, mentre continuava a martellargli dentro con virile e selvaggia gioia.
Il dolore, che dapprima era stato acuto come una serie di stilettate, era diventato sordo e continuo. Damianu lo accettava, perché vedeva il piacere illuminare il volto di Ettore ed era cosciente di essere lui a donargli quell'intenso piacere: questo lo ripagava abbondantemente.
Dopo quel giorno, Ettore aveva preso assai di sovente Damianu, e il ragazzo non solo gradualmente non aveva più provato dolore, ma inizò a sentire anche un crescente piacere fisico, oltre al piacere di sapere di appartenere a Ettore, che amava con tutto se stesso, con tutto il proprio essere.
Il più delle volte Ettore, calata la notte, prendeva il ragazzo proprio là accanto al capanno degli attrezzi, al riparo dell'alta siepe, in fondo al cortile, accanto alla porticina che dava sull'orto e poi nella foresta.
Questo stava pensando Damianu mentre, le mani appoggiate al tronco dell'albero e il bacino proteso indietro, accoglieva in sé con estremo piacere le forti, virili e appassionate spinte dell'uomo che frattanto gli manipolava i genitali turgidi con entrambe le mani. E finalmente, come accadeva solitamente, Damianu provò il supremo piacere e venne; quasi subito anche Ettore raggiunse il godimento dentro di lui.
Rimasero per qualche istante immobili, ansanti. Ettore si sfilò dal giovane servo, lo fece girare, lo strinse a sé e lo baciò con vigore in bocca. Damianu rispose con passione al bacio del suo uomo. Poi, ritrovata la calma dei corpi e dei cuori, entrambi si riassettarono gli abiti. Ettore uscì per andare a riprendere il suo amico Marcus e Damianu andò a sedere, contento e appagato, sul gradino della porta del vestibolo.
Il ragazzo non aveva ancora voglia di mettersi a dormire, di andare a stendersi sul suo giaciglio ai piedi del letto della vecchia donna Tana. Sentiva ancora la presenza di Ettore, sia dietro nel suo canale, sia sulle sue labbra, nella sua bocca. Questa gradevole e forte sensazione era una delle poche cose piacevoli della sua vita.
Un altro momento che Damianu godeva, anche se ora accadeva sempre più di rado, era quando Ettore lo faceva studiare: gli aveva insegnato a leggere e scrivere e gli aveva fatto leggere tutti i suoi libri. Damianu era un ragazzo intelligente. Ettore ragionava con lui e gli aveva raccontato tante cose, come pure l'origine dell'uomo, la storia della loro terra dai tempi dei fenici all'unità d'Italia, e poi gli aveva anche narrato di terre lontane e di affascinanti civiltà.
Seduto al buio, Damianu ricordava. Ripensava a quando la famiglia Dore era ricca e felice, quando servi e serve riempivano la casa, quando i mendicanti e i bambini poveri venivano accolti e aiutati, quando gli ospiti, che venivano dai paesi vicini, riempivano la stalla e l'ampio cortile con i loro cavalli e i loro cani, in festosa confusione. In quei tempi Damianu era servito e rispettato davvero come uno della famiglia: erano i servi a occuparsi di lui, come di Matteo, e non toccava ai due ragazzi fare da servi agli altri.
Tutti i problemi erano cominciati nel giorno della disgrazia. Il padre di Ettore cadde nella via, proprio davanti alla casa, mentre rientrava. Non si rialzò più. Prima che lo riportassero in casa, le sue ultime parole alla moglie furono: "Martina, moglie mia... prenditi cura del mio Matteo." così il ragazzetto, che la gente da sempre sussurrava essere il figlio bastardo del morto, fu preso in casa dai Dore.
Uno dopo l'altro, mese dopo mese, i servi dovettero lasciare la casa e solo Matteo e Damianu restarono in casa, in quanto erano parte della famiglia, e presero il posto dei servi. I debiti della famiglia mangiarono tutti i suoi beni: i cattivi investimenti di don Antonio, le cambiali di suo figlio, don Antioco, e gli interessi degli usurai che avevano prestato denaro a don Ettore, consumarono in pochi anni terre e cavalli e pascoli e vigne e pecore della famiglia Dore.
Ettore a giorni era allegro e buono, a giorni triste e cattivo: scorazzava di paese in paese, di festa in festa per godersi la vita, e poiché la famiglia non gli riforniva di monete la scarsella, s'era rempito di debiti. Poi un giorno Ettore aveva portato a casa una ragazza, bella ma povera, di nome Cosima: l'aveva sposata senza dire nulla alla famiglia.
Ciò nonostante Cosima fu accolta bene: era non solo bella ma molto buona, e aveva la capacità di rendere buoni quelli che vievevano accanto a lei. Anche don Ettore pareva diventato un altro, un uomo migliore. Ma due soli anni più tardi, poco dopo la nascita di Lorenzo, cioè di Renzino, il bimbo dalla testa troppo grossa, donna Cosima era morta d'un morbo misterioso. Domus Dore piombò nella tristezza e gli ospiti si fecero sempre più rari.
Poi un giorno arrivò da Torino donna Tana Dore. Pareva che, essendo ricca, le sorti della famiglia si potessero risollevare. Non fu solo per questo però che la presero in casa, ma perché, gravemente malata, asmatica e completamente sola, senza famiglia, necessitava di assistenza e perciò i Dore, di cuore largo e generoso, la presero volentieri con loro.
Ma donna Tana, nonostante vedesse i bisogni della famiglia, teneva stretti i cordoni della borsa, e non solo questo, ma oltre a farsi mantenere, angheriava tutti in casa con il suo malumore, le sue lamentele, i suoi giudizi impietosi e cattivi. E spesso annoiava tutti raccontando sempre le stesse storie di quando viveva a corte ed era dama di compagnia della regina.
Damianu pensava che metà delle storie di donna Tana fossero inventate, perché ogni volta s'ammantavano di nuovi particolari che le davano importanza. Damianu rifletteva che, con il passare del tempo, la memoria della vecchia avrebbe dovuto dimenticare i particolari e non invece trovarne di sempre nuovi.
L'unico a cui Damianu poteva pensare come a un amico era Matteo, di due anni più grande di lui, un ragazzo allegro e dagli occhi dolci, un po' sventato ma buono e servizievole, estroverso quanto Damianu era introverso. I due giovani erano molto diversi e, per molti aspetti, avevano caratteri complementari.
Matteo, a differenza di Damianu, era amico di tutti, in paese. Ma in modo del tutto speciale era amico dei giovani pastori non ancora in età di maritarsi. Fin da ragazzino infatti, spesso si era appartato con uno o l'altro dei ragazzetti, ora nascondendosi col compagno nella foresta, ora in una "pinnetta", cioè uno di quei ripari fatti dai pastori, formati da un muro circolare di pietre murate a secco con una stretta apertura d'accesso e sormontato da un alto cono di paglia, ora in qualche altro angolo sicuro, per calarsi i calzoni e giocare con l'uno e con l'altro come spesso gli adolescenti usano fare fra di loro.
Ma mentre i giovani pastori, pur divertendosi volentieri con Matteo o fra di loro, non facevano che sognare questa o quella ragazzina e pensare al giorno in cui avrebbero finalmente potuto farlo con una di loro, e poi un giorno sposarsi e fare figli, Matteo non provava assolutamente nulla per il gentil sesso: a lui piacevano esclusivamente i ragazzi come lui.
I loro segreti giochi infantili, man mano che crescevano, s'erano fatti più intimi e più spinti e Matteo provava un grande piacere sia a succhiare un bel membro che a farselo succhiare, sia ad assaggiare l'ebrezza di penetrare un bel culetto, sia a farsi penetrare. Ora, a ventidue anni, Matteo era uno dei più esperti e bravi in paese a fare quelle cose, cosicché, se anche i più grandicelli gradualmente smettevano perché iniziavano ad amoreggiare con una ragazza o perché si erano sposati, Matteo trovava sempre altri ragazzini che, crescendo, sentivano con urgenza gli stimoli della carne e perciò si accompagnavano volentieri a lui.
Erano spesso proprio i fratelli più grandi che facevano incontrare, almeno la prima volta, i loro fratelli più piccoli con Matteo. "A lui piace farlo, e ti può insegnare tutto" dicevano i giovani pastori ai loro fratelli adolescenti. Nessuno dei ragazzi del villaggio pensava male di Matteo, neanche quelli più grandicelli, perché solo i vecchi, che ormai avevano trovato la pace dei sensi, si divertivano a giudicare e condannare chi ancora provava certi stimoli.
Quasi tutti i ragazzi erano passati attraverso quelle esperienze, ma chi prima chi poi le aveva abbandonate per mettersi con una ragazza, quindi semplicemente pensavano che, prima o poi, anche a Matteo sarebbe accaduta la stessa cosa. Né si stupivano che per il dolce e bel Matteo quel momento non fosse ancora giunto.
D'altronde, se pure rare volte, qualcuno dei giovani pastori che erano stati compagni di Matteo in quei giochi fra ragazzini, benché sposato, per un motivo o per un altro non disdegnavano di cercare ancora, in gran segreto, l'intima compagnia del giovane. E Matteo non rifutava mai quelle proposte, specialmente con i più belli fra i suoi antichi amici.
Matteo era cresciuto con Damianu e a un certo punto aveva anche provato lo stimolo e il desiderio di fare qualcosa con il bel ragazzo. Ma proprio quando finalmente stava per decidersi a far capire, a palesare a Damianu i propri desideri, s'era reso conto che Damianu era diventato il ragazzo di don Ettore; perciò Matteo non s'era azzardato a fare nulla.
Pareva che Matteo fosse l'unico in casa ad aver saputo leggere e decifrare chiaramente certi sguardi che Damianu e don Ettore si scambiavano. E un giorno era anche riuscito a sorprendere, non visto, uno dei segreti incontri fra i due. Li aveva visti unirsi, proprio là dietro la siepe, accanto al capanno degli attrezzi. La scena l'aveva fatto eccitare incredibilmente.
Comunque Matteo non solo non aveva detto nulla quel giorno né a Damianu né a nessun altro, ma provando un profondo affetto per Damianu, quando pensava o vedeva che i due segreti amanti si appartavano per un nuovo incontro, vegliava in modo discreto su di loro perché nessuno in casa potesse sorprenderli né sospettare qualcosa. Matteo si era anche reso conto che Damianu, a differenza di lui, non faceva quelle cose con altri, ma esclusivamente con don Ettore.
La prima volta per Matteo era stata quando aveva quattordici anni. Doveva portare un messaggio di don Antonio a uno degli ultimi pastori che i Dore ancora avevano al loro servizio. Il ragazzetto aveva oltrepassato la foresta e s'era inerpicato su per le pendici della montagna, agile e svelto. Doveva recarsi all'ovile di "Su Sassu", ne conosceva perfettamente la strada e sapeva che, per fare prima, non gli conveniva seguire il viottolo ma tagliare su per le rocce. Doveva salire, poi scendere per un breve tratto.
Era giunto in cima alla faglia e guardava in giù per scegliere dove passare quando si fermò, poi d'istinto s'acquattò dietro una pietra a guardare: Paulu, il figlio di sedici anni del pastore, e Zua, il cugino di quindici anni, stavano fra un cespuglio e le rocce e, questo fu il motivo che fece fermare Matteo, avevano le brache abbassate: Paulu stava montando Zua proprio come Matteo aveva a volte visto fare ai cani. Zua stava a quattro zampe e Paulu gli era addosso e un po' sopra e gli stava pompando nel sedere con colpi veloci e vigorosi.
Il ragazzetto, anche se l'aveva già visto fare ai cani, non aveva mai pensato che lo potessero fare anche "due cristiani", come dicevano i vecchi, cioè due esseri umani. Scivolando cautamente di roccia in roccia, senza mai perderli di vista, Matteo si avvicinò silenziosamente al posto in cui i due pastorelli stavano facendo "quelle cose".
Poi Zua l'aveva visto e l'aveva guarato con occhi preoccupati, mentre Paulu, ignaro, continuava a pompargli dentro con immutato piacere ed energia. Matteo gli aveva sorriso, istintivamente, quasi per tranquillizzarlo. Zua aveva risposto timidamente al suo sorriso. Per un po' si guardarono in silenzio, scambiandosi un sorriso di tanto in tanto, finché Zua gli aveva fatto cenno di avvicinarsi.
Matteo allora aveva terminato la sua discesa ed era finalmente comparso davanti ai due pastorelli. Questa volta era stato Paulu a fermarsi e a guardarlo preoccupato. Matteo aveva sorriso anche a lui.
"Ti piace quello che stai facendo con Zua, no? Continua, allora." gli aveva detto con voce soffice.
Paulu continuava a guardarlo preoccupato, anche se restava saldamente infisso nel culetto del cugino.
Zua aveva dimenato lieve il bacino, per incoraggiarlo a continuare e aveva sussurrato: "Dai, Paulu, non smettere." e aveva fatto cenno a Matteo di avvicinarsi di più.
Matteo s'era fermato davanti a Zua e subito il ragazzetto, togliendo le mani da terra, aveva aperto le brache di Matteo, gliel'aveva tirato fuori, già semieretto, e s'era tuffato a succhiarglielo con evidente gusto e con bravura. Matteo sussultò per il piacere poi s'aprì in un ampio sorriso. Non avrebbe mai pensato che potesse essere così bello fare quella cosa! Allora anche Paulu aveva sorriso a Matteo e aveva ricominciato a pompare spensieratamente nel culetto del cugino.
Quando finalmente Paulu si fu sfogato, gemendo forte per il godimento, si era sfilato da dentro il cugino e aveva detto a Matteo: "Dai, fottilo anche tu, ora. A Zua piace un sacco prenderlo in culo. Non è vero Zua?"
Il ragazzetto annuì con viso allegro, allora Matteo aveva preso il posto di Paulu: aveva applicato il suo membro duro e ben insalivato da Zua nel foro ancora rilassato, aperto, gli era affondato dentro in una sola spinta... e aveva iniziato a muoversi avanti e dietro come aveva visto fare a Paulu: anche questo gli piaceva moltissimo. Paulu s'era rimesso a posto i calzoni e li guardava ora con un sorrisetto maliziososo e divertito. Matteo provava sensazioni fortissime e molto belle nel muoversi avanti e dietro dentro il caldo e stretto canale di Zua reso scivoloso dal seme di Paulu, e dopo poche spinte, venne anche lui, gemendo a sua volta per il piacere.
Quando finalmente i tre ragazzi riemersero da quel riparo, avevano tutti e tre un'aria soddisfatta e felice. Sedutisi su un sasso, parlarono di quanto avevano fatto: Matteo era pieno di domande a cui, soprattutto Paulu, rispondeva con semplice fierezza. Sì, fra loro lo facevano piuttosto spesso. Sì era bello sia succhiare che farselo succhiare. Sì era bello sia metterlo che prenderlo. Sì, lo facevano davvero quasi tutti, i ragazzi, lassù.
Così anche Matteo cominciò a partecipare a quei segreti e piacevoli momenti di piacere con i giovani pastori e anzi anche a ricercarli con crescente desiderio. La prima volta che fu lui a esser penetrato, fu proprio Paulu a farlo, e poiché il ragazzo non era ancora completamente sviluppato, Matteo non provò affatto dolore ma solo piacere.
Ora Paulu era sposato, Zua era fidanzato, e Matteo lo faceva con altri giovani pastori, anche se Paulu a volte, benché purtroppo di rado, si appartava ancora con lui: specialmente quando la moglie era incinta o aveva le mestruazioni e non si lasciava prendere volentieri dal focoso e inesauribile marito.
"Chie non hat menzus, cun muzzere si coscat'" (Chi non ha di meglio, si corica con la moglie) gli diceva ridacchiando Paulu quando aveva voglia di farlo con Matteo. In altri termini gli diceva che, dopo tutto, lui era meglio di sua moglie, e questo faceva piacere a Matteo, che si lasciava volentieri penetrare dal suo antico compagno di "giochi".
Matteo infatti aveva abbondanza di culetti di pastorelli ancora adolescenti che si lasciavano penetrare da lui, quindi non si dava pensiero se Paulu non assumeva più il ruolo passivo con lui. E Paulu, indubbiamente, ci sapeva fare.