La domenica mattina sul presto Martina andò a messa su al santuario. Damianu invece portò Renzino alla messa cantata delle undici. Per l'occasione aveva indossato il suo bel costume tradizionale, che tirava fuori solo nei giorni di festa grande.
Il santuario era circondato da un vasto cortile che, a destra e a sinistra aveva due lunghe tettoie dietro le quali si aprivano stanzette, dove si radunava la gente del paese per la festa e dove riposavano i pellegrini che venivano dai dintorni. Uomini forti e alti come le rocce delle loro montagne, vestiti dei loro costumi in cui il nero, il rosso e il bianco formavano un bel contrasto; erano per lo più pastori ma c'era anche qualche contadino, qualche pescatore, qualche bottegaio e i pochi nobili del luogo. Tutti si affollavano davanti ai banchetti dove si vendevano liquori di mirto, di noci o d'altre erbe, il pane chiamato "carta da musica", succose fette d'arrosto di pecora, frutta fresca e secca e abbondanza di altri cibi e bevande.
Le donne, nei loro più bei costumi, andavano a pregare o anche semplicemente a farsi invidiare dalle vicine e farsi ammirare dagli uomini. Damianu guardava distrattamente l'allegra confusione che regnava in ogni angolo del vasto cortile, e avanzava tenendo per mano Renzino.
"Il babbo! Il babbo è là!" gridò eccitato il piccolo strattonando Damianu.
Il ragazzo allora vide Ettore fermo davanti alla chiesa che stava parlando con il prete Portolu. Damianu andava molto di rado in chiesa e se per caso incrociava il prete, distoglieva lo sguardo. L'ultima volta che s'era confessato, qualche anno prima, il prete l'aveva messo a disagio chiedendogli se faceva sesso, quante volte e come... Damianu non gli aveva detto niente di lui e di Ettore, gli aveva detto che non faceva niente, in nessun modo e con nessuno. Ma gli era parso che il prete non gli avesse creduto, e aveva sopportato in silenzio e con un senso di fastidio il lungo pistolotto del prete che lo metteva in guardia contro le "tentazioni della carne".
Perciò passò dritto tirandosi dietro il bambino ed entrò, quasi di fretta, nel santuario.
Dopo messa, Damianu trovò Ettore accanto alla porta ad attenderli. L'uomo prese in braccio il figlio, poi si rivolse a Damianu con un sorriso: "Prete Portolu è arrabbiato con te, dice che ti si vede troppo poco in chiesa e che è da un secolo che non ti confessi."
"Vuole sapere da me cose che non gli voglio dire." rispose accigliato il ragazzo guardando Ettore negli occhi.
L'uomo, avendo compreso a che il suo ragazzo si riferisse, annuì: "Io ti ho giustificato con lui, gli ho detto che ora che non abbiamo più servi hai troppo da fare. Non è cattivo, prete Portolu, tutt'altro. M'ha promesso che oggi verrà da noi e che parlerà lui con donna Tana. Cerca di esser gentile con il prete. Se comunque non riesce lui a smuovere donna Tana, come temo, fra qualche giorno vado a trovare il mio amico Marcus Laconi. Mi ha promesso di farmi conoscere una sua conoscente, una che ha parecchi soldi e che forse me ne presterebbe."
Mentre scendevano per la strada tornando alle case del villaggio, di tanto in tanto Ettore e Damianu si lanciavano brevi ma intensi sguardi. Per i due, gli occhi dell'altro parlavano assai più chiaro del prete durante la predica. "Sei mio, sei tutto mio!" dicevano gli occhi di Ettore. "Ti amo più della mia vita!" rispondevano quelli di Damianu. "Ti voglio, ho voglia di te!" gli dichiaravano gli occhi dell'uomo. "Quando mi fai di nuovo tuo?" chiedevano pieni di desiderio quelli del ragazzo...
Quegli sguardi brevi ma pieni di fuoco sarebbero passati inosservati a tutti, solo Matteo, per la sua speciale sensibilità e per l'attrazione che provava nei confronti di Damianu, aveva saputo coglierli e interpretarli correttamente.
Renzino, seduto a cavalcioni sulle forti spalle del padre, cinguettava felice, indicando qua e là cose che lo incuriosivano o che gli parevano belle. Il padre gli rispondeva a monosillabi, da una parte dandogli retta, ma dall'altra immerso nei propri pensieri.
Anche Damianu era chiuso nei suoi pensieri: "Se fossi donna," pensava, "magari Ettore potrebbe prendermi in moglie e potrei stare nel suo letto ad aspettarlo, e esser suo anche di fronte al mondo." Non è che Damianu veramente desiderasse essere una ragazza, se non per questo. Per il resto era contento d'essere nato uomo. Ma pensava che gli sarebbe piaciuto poter andare in giro al braccio di Ettore, poter condividere con lui il letto, invece di doversi incontrare in fretta, in segreto e non tanto spesso quanto avrebbe desiderato.
Solo stare così vicino a Ettore, come ora per la strada, gli metteva addosso una forte agitazione, lo eccitava, gli faceva provare acuto un desiderio che gli bruciava le carni. Leggere il desiderio negli occhi del suo uomo era al tempo stesso una consolazione e un supplizio: avrebbe voluto poter rispondere a quel desiderio in ogni momento e non doverlo nascondere a tutti.
Anche per l'amore che provava verso il suo uomo, Damianu si occupava di Renzino con affetto e devozione: sapeva quanto il ragazzino, dalla testa troppo grande e dai capelli biondicci e troppo radi, fosse importante per Ettore. Occuparsi di lui era per Damianu come occuparsi di Ettore, del suo forte e caldo uomo.
Tornati a casa, mentre Ettore giocava col figlio nel cortile, Damianu aiutava donna Martina a cucinare, o forse è più giusto dire che era donna Martina ad aiutare il ragazzo in cucina. Ma il ragazzo non perdeva mai di vista il suo uomo, e ora avrebbe voluto essere lui lì sul prato a divertirsi con Ettore al posto di Renzino.
Matteo andava e veniva, finendo di pulire e di riordinare le stanze. Il ragazzo osservava Damianu, e pensava con un certo rammarico che era un peccato che fosse così preso da Ettore. Damianu gli piaceva molto e non solo fisicamente. A volte Matteo pensava che, se si fosse potuto mettere con Damianu, avrebbe volentieri smesso di andare con gli altri ragazzi... anche perché capiva che Damianu non si meritava d'essere tradito, non si meritava di essere trascurato.
Matteo sentiva aumentare, oltre al desiderio, anche il proprio affetto per il ragazzo con cui era praticamente cresciuto assieme e che aveva solo due anni meno di lui. Non l'avrebbe ancora chiamato "amore", perché raramente gli uomini di quell'aspra e forte terra ammettono di amare una donna, e tanto meno un altro uomo. Eppure era proprio questo il sentimento che stava crescendo dentro di lui.
Dopo il pranzo, di primo pomeriggio, prete Portolu si recò a fare visita ai Dore. Damianu, che andò ad aprirgli la porta, lo accolse con un ampio sorriso, per fare contento Ettore: "Accomodatevi, accomodatevi prete Portolu! Siete il benvenuto in casa Dore." gli disse e lo fece entrare nella sala.
"E dove sono gli altri? Come state, voi, donna Tana?" salutò il prete.
"Don Antonio e ziu Santo sono usciti a fare due passi. Donna Martina è nell'orto con Renzino. Se volete li vado a chiamare. Ma accomodatevi, prendete una sedia, prete Portolu." disse Damianu, allontanandosi subito e lasciando solo il prete con la vecchia donna malata.
Il prete s'accostò al letto di donna Tana e vide che la vecchia lo guardava con aria sospettosa: "Che, siete venuto per darmi l'estrema unzione, prete Portolu? Sono più morta che viva, ma non ho ancora intenzione di andarmene!"
"Ma no, donna Gaetana, visto che so che sareste venuta alla festa di Sant'Efisio, se solo aveste potuto, ma non siete potuta venire, ho pensato di venirvi a salutare." le rispose il prete in tono gentile. "Sono venuto a portarvi un po' di consolazione in questa vita, perché oggi siamo qui e domani chissà. Questa vita, lunga o breve che sia, conta poco, se non ci prepariamo bene a quella che verrà."
"Eh, quando verrà il momento... sarà fatta la volontà del Signore." brontolò la vecchia in tono piuttosto acido.
"Ma la volontà del Signore bisogna farla fin da ora, su questa terra, donna Gaetana, non vale a nulla dirlo solo quand'è troppo tardi. Bisogna arrivare a quel momento ben preprati." le disse il prete in tono ancora gentile.
"E che! Io non ho mai ammazzato, mai rubato, e neppure mai fatto quei certi peccati che uomini e donne commettono anche troppo spesso fra di loro. Che peccati volete che abbia io sulla coscienza? Eh? Ditemi!" disse la donna alzando un po' il tono della voce, quasi arrabbiata.
"Non basta, non basta, donna Gaetana mia! No, che non basta. Non ci dice forse il Signore che dovete amare il prossimo vostro come amate voi stessa? Che non dovete fare agli altri quello che non volete che si faccia a voi? Non ci dice forse il Signore che è un peccato grave fare dei soldi il proprio dio mettendoli al posto Suo? Non ci invita forse il buon Dio alla generosità? È forse lui che ci comanda di essere avari e gretti e attacati al denaro?" le disse il prete, ora in tono assai deciso.
"Ah, ecco! Ecco! Solo perché ho quattro soldi da parte, soldi miei, che gli altri vorrebbero prendermi e dilapidare! Ecco perché siete venuto! Sì, sì, ora ho capito, ora ho capito!"
"No, voi non avete capito proprio niente!" tuonò il prete. "Proprio niente! Siete attaccata ai vostri soldi più che alla vostra stessa vita. Li tenete ben nascosti... e che ve ne farete, quando il Signore vi chiamerà? Che ve ne farete, eh? Ditemi, che ve ne farete? Li darete al Signore per farvi entrare nel suo regno? Ma Dio non si lascia comprare, non lo sapete? Vi chiederà perché non li avete dati a chi vi tendeva la mano chiedendo un aiuto, a chi vi implorava, a chi ne ha più bisogno di voi!"
"Ah, ecco! Ho capito, sì, ho capito bene, invece. Ma non crediate di farmi paura con le vostre chiacchiere. Prima occupatevi di convertire quelli che il denaro se lo bevono e se lo mangiano e che magari anche lo scialacquano nelle case di persone di malaffare! Convertite quelli, prima, prete Portolu, e dopo ne riparleremo." urlò donna Tana con voce talmente roca da parere più quella di un vecchio uomo che non di una donna.
"Con voi la carità d'un consiglio è fatica sprecata. Come lavare la testa a un asino: si spreca e l'acqua e il ranno!"
"E allora non sprecate la vostra acqua, non sprecate il vostro ranno e lasciatemi in pace, prete Portolu! Dio! Voi venite a parlarmi di Dio? E che ha fatto lui per me? M'ha inchiodata su questo letto, ecco cosa m'ha fatto. Dio è ingiusto, dà la salute a chi non la merita e non la dà a me che la merito più di certa gente! È ingiusto, il vostro dio." rantolò la donna.
"Non bestemmiate, almeno, donna Gaetana!" le rispose arcigno il prete.
"Siete voi che mi fate bestemmiare, coi vostri discorsi! Andatevene, andate a far confessare i peccati a chi li fa, non a me."
"Ma sì, santa Gaetana!" le rispose il prete con sarcasmo e uscì dalla casa, rosso in volto.
Damianu aveva ascoltato, da dietro la porta del vestibolo, lo scontro fra il prete e la vecchia e si sentì furente con prete Portolu per aver fatto irritare la donna, invece di blandirla.
Pochi giorni dopo, Ettore decise di andare a trovare il suo amico Marcus Laconi perché lo presentasse a quella donna ricca che diceva di conoscere e di cui gli aveva parlato. La sera, prima di partire, riuscì ad appartarsi ancora una volta con Damianu. Si incontrarono accanto al vecchio capanno, come sempre. L'uomo prese il ragazzo fra le braccia e gli premette addosso la propria eccitazione, baciandolo col consueto ardore.
"Questa volta sento che troverò la soluzione ai nostri problemi, sento che tornerò coi soldi, Damianu mio! Sì, e te lo giuro, non mi presenterò a casa se non avrò con me i denari. Piuttosto mi ammazzerò!"
Damianu sussultò: "Non dire quella brutta parola, te lo proibisco!" gli disse con un ardire che stupì lui stesso. "Sì, te lo proibisco." ripeté in tono più sommesso ma non meno deciso. "Tu non devi pensare certe brutte cose. Piuttosto vado io a lavorare come un somaro da qualche parte, magari in continente, e vi manderò io del denaro. Ma tu non devi neanche pensare a queste brutte cose! Non devi!"
Ettore rise in tono amaro: "E che puoi fare, tu, ragazzo mio? Neanche se lavorassi come uno schiavo quarantotto ore al giorno... Che ci potresti mandare, gli spiccioli per comprare il tabacco a mio nonno Antonio? No... tu puoi darmi solo una cosa... e lo sai bene cosa io voglio da te."
"E quella cosa... ce l'hai. Quella cosa te la sei presa, lassù alla tomba del gigante, e sai che te la darò sempre, che è tua. Lo sai. Io ti ho dato tutto quello che avevo, tutto me stesso, Ettore, lo sai." gli rispose il ragazzo guardandolo con occhi tristi ma fieri.
"E allora... dammela ancora una volta, quella cosa, Damianuzzo mio, non senti quanto la voglio, proprio ora?" gli disse l'uomo con voce eccitata.
"Sì che lo sento." rispose il ragazzo fremendo, eccitato, pieno di desiderio di darsi al suo uomo, dimenticando d'improvviso il motivo della loro discussione.
Sentì le mani dell'uomo aprirgli gli abiti e le sue mani gentili corsero febbricitanti ad aprire i calzoni del suo Ettore. Si sentiva addosso una febbre, una fretta, un'urgenza che si rinnovava a ogni occasione e anzi pareva rafforzarsi a ogni loro incontro. In breve le parti inferiori dei loro corpi furono carezzate dall'aria mite della sera così come dalle mani forti dell'uomo e da quelle calde e delicate del ragazzo.
Ettore lo baciò di nuovo con forte desiderio, togliendo quasi il fiato al ragazzo tanto era appassionato. Damianu si sentì debole debole, ma pronto a darglisi anima e corpo. L'uomo lo fece girare e Damianu si appoggiò come sempre all'albero, protendendo il suo piccolo e vellutato sedere verso la forte verga dell'uomo, offrendosi senza esitazione al suo desiderio. E quando lo sentì entrare in lui in una sola spinta, emise un lieve sospiro di contentezza. Ettore prese a muoversi dentro il ragazzo con la consueta virile irruenza, con il solito gentile vigore. Damianu lo assecondava sentendosi in paradiso, almeno per i pochi minuti che durava la loro tanto desiderata unione.
Il giorno dopo Ettore prese il cavallo e partì. Damianu lo seguì con gli occhi finché lo vide giungere in fondo alla via che curvava a sinistra e l'uomo scomparve al suo sguardo innamorato. Il ragazzo si sentì improvvisamente solo, sentì il vuoto attorno a sé e rientrò mestamente nel cortile, chiudendo dietro di sé il cancello, quasi fosse la porta di una prigione che lo rinchiudeva nella cella della desolazione, come può sentirsi un condannato dopo una sentenza ingiusta, uno che deve scontare una pena che sa di non aver meritato.
Matteo quella stessa mattina tornò a casa: era rimasto assente per qualche giorno. Aveva trovato un lavoro provvisorio, era andato a staccare le cortecce dei grandi alberi di sughero dal fondo di ziu Spizi. I pochi denari che guadagnava con quei lavoretti, li metteva da parte, con la benedizione di don Antonio, che credeva che il ragazzo li stesse risparmiando per potersi un giorno trovare moglie e metter su casa. Matteo teneva il denaro che guadagnava dentro una scatola di latta che aveva nascosto in un anfratto del muro che divideva il cortile dall'orto.
Quando era arrivato al sughereto, il ragazzo si era presentato a ziu Spizi, che gli aveva detto da dove cominciare e gli aveva consegnato gli attrezzi. Matteo era salito allegramente fino al punto che gli era stato indicato. Lungo il viottolo aveva salutato gli altri lavoranti: li conosceva tutti. Quando giunse al suo albero, iniziò a lavorare alacremente, canticchiando. Stava staccando le lastre di sughero dal tronco del secondo albero, quando si sentì chiamare. Si girò e si aprì in un luminoso sorriso.
"Ohi, Melchiorre! Anche tu quassù a lavorare!"
"Ohi, Matteo! Come va la vita?"
"La vita va bene! Sono io che non vado troppo bene." rispose ridendo il ragazzo.
"E perché mai mi dici che tu non vai bene, bello e contento come ti vedo?" gli chiese l'amico avvicinandoglisi.
"Te lo lascio immaginare. Quando si fa la fame, ci si mostra allegri per non darlo a vedere." gli rispose Matteo facendogli l'occhietto.
"Quella fame? Quant'è che non..."
"Troppo, sempre troppo. E a te, come va con la tua Kallina?"
"Finita. Tutto finito da più d'un mese."
"T'ha mollato?"
"No, l'ho mollata io. Mi sono stufato di lei. È una patata lessa."
"Ma è graziosa, ha un bel faccino e pure un bel corpo, per quanto se ne può vedere."
"Sì, sì, d'accordo, ma... questo no, quello no, quell'altro non mi piace, questo una ragazza per bene non lo fa... m'ha fatto rimpiangere quando lo facevamo tu e io."
"Che è, mi stai facendo una proposta, per caso?" gli chiese allegro Matteo.
Asciugandosi il sudore e, smettendo di lavorare, si girò a guardarlo con aria interrogativa e lievemente provocante.
"Potrebbe pure esserlo se tu... se tu sei libero e ne hai voglia." gli rispose l'amico a bassa voce, lievemente imbarazzato.
"Libero, sono libero, perché l'unica persona che mi piace davvero sta già con un altro. Ma ora si deve lavorare... purtroppo." gli rispose Matteo guardandolo da capo a piedi con apprezzamento e con uno sguardo sempre più provocatorio.
Melchiorre era un gran bel ragazzo, specialmente ora che un velo di barba rendeva più virile il suo volto. Aveva un corpo forte ma snello, e, Matteo lo sapeva bene, un bel gioiello nascosto fra le gambe, sotto le brache. Avevano la stessa età, e per due anni erano andati a scuola assieme, da piccoli e la loro amicizia datava da allora.
Poi s'erano rivisti quando avevano quindici anni, perché Melchiorre era amico di Paulu, che aveva detto all'uno dell'altro. Così un giorno che erano andati nella foresta assieme a metter trappole, Melchiorre l'aveva preso per un braccio e, guardandolo dritto negli occhi, gli aveva detto che aveva voglia di farlo con lui. Stesi sul muschio, avevano cominciato a esplorare l'uno il corpo dell'altro, finché la voglia aveva sciolto le ultime esitazioni e s'erano uniti in tutti i possibili modi in cui due ragazzi in calore lo sanno fare.
Dopo di allora s'erano incontrati e l'avevan fatto più volte assieme, con reciproco gusto, anche perché, se pure a entrambi piaceva più metterlo che prenderlo, ognuno dei due ragazzi si lasciava prendere dall'amico per poi essere lui a mettersi sotto l'altro. Avevano continuato nei loro segreti incontri, finché Melchiorre s'era messo a fare la ronda alla bella Kallina.
E ora eccolo qui, pensò Matteo, che ne ha di nuovo voglia. Il fatto che il suo amico gli avesse detto che preferiva lui a Kallina, procurava un certo senso d'orgoglio al bel Matteo.
"Più tardi, magari dopo la cena, ci si potrebbe trovare un posto tranquillo." gli propose titubante Melchiorre.
"Con tutti gli altri attorno, troppo lontano si dovrebbe andare!" gli rispose Matteo, più per stuzzicarlo che per dirgli di no. Anche lui, infatti, alla sola idea di farlo di nuovo con Melchiorre, già stava provando una gradevolissima eccitazione.
"Ma io conosco un buon posto, e mica troppo lontano." insistette l'amico.
"E dove sarebbe, questo buon posto?" gli chiese Matteo fingendo di essere poco interessato.
"Sai il pilone di sant'Antioco?" gli chiese il giovane.
"Lì? Sarebbe come farlo davanti a tutti!" controbatté Matteo.
"Ma no. Di lì, se prendi lo stradello che va al rio e che scende al paese dall'altro versante, ci sono le rovine del vecchio mulino. Ci si può arrampicare fino al sottotetto, la parte che ancora sta in piedi. Le assi sono ancora forti, e sono coperte di foglie secche, e lì nessuno ci vede."
"Hai già esplorato il posto?" gli chiese un po' stupito Matteo.
"Ci portavo Kallina... anche se poi, come t'ho detto, non è che ci si combinava granché, lei e io."
"E che ci vorresti fare, con me, lassù?" gli chiese con un sorrisetto malizioso il ragazzo, già deciso ad andarci.
"Le solite cose... tu lo fai a me e io lo faccio a te. Come si faceva una volta, no? Tu puoi andarci passando per lo stradello, io conosco un'altra via, così non ci vedono uscire dal casolare assieme, dopo che abbiamo cenato. Magari io ci vado un po' prima e t'aspetto là. Che ne dici, eh?" insisté Melchiorre con una luce di speranza nei begli occhi del colore delle cetonie dorate.
"Si potrebbe fare." rispose Matteo fingendosi incerto: gli piaceva giocare così con l'amico per vederlo insistere, per vedere la luce del desiderio brillare nei suoi occhi chiari.
"Su, dai, Matteo. Ci divertirermo, lo sai. T'ho mai deluso, io?"
"No, mai, questo è vero." ammise Matteo, condiscendente.
"E allora? Ci vieni?"
"Ma sì... dopo tutto siamo amici, tu e io."
"Non mi fai lo scherzo di farmi aspettare tutta la sera, no?" gli chiese il ragazzo con un sorriso timido.
"Certo che no: se ti dico che ci vengo, ci vengo. Ma come hai detto tu, non subito. Mi dovrai aspettare un poco."
"T'aspetterò. Certo che t'aspetterò." gli disse Melchiorre con un sorriso riconoscente. "Vorrei che ci si potesse andare già ora."
"E, mi raccomando, non cominciare senza di me." gli disse malizioso Matteo, "Ti voglio pieno di voglia, se lo dobbiamo fare."
"Certo che no, ti aspetterò, te l'ho detto. Allora è combinato?"
"È combinato!" gli disse Matteo e si rimise a lavorare di buona lena, contento per la prospettiva.
Per tutto il giorno, di tanto in tanto, Matteo ripensava alla serata: sapeva che sarebbe stata piacevole. E ne aveva davvero bisogno. Certo, se invece di Melchiorre ci fosse potuto stare Damianu, Matteo si sarebbe sentito ancora più contento.
Finalmente giunse la sera. L'aria profumava di erbe e dell'odore della foresta. Una brezza lieve e gradevole spazzava a tratti il prato davanti al casolare. Il cielo di nero velluto era terso e trapunto di stelle vivide come preziosi diamanti. La luna calante era ancora abbastanza grande da illuminare il cammino.
Terminata la cena, mentre gli uomini e i ragazzi, attorno alla lunga tavola, chiacchieravano e cantavano nella grande stanza comune dove più tardi avrebbero steso i loro giacigli, Melchiorre s'alzò e, lanciata un'eloquente occhiata a Matteo, uscì dalla porta del fondo, quella che dava verso il fienile.
Matteo restò ancora per un poco con i compagni, scherzando e ridendo con loro. Quando pensò che fosse passato abbastanza tempo, s'alzò anche lui e senza dire nulla, uscì dalla porta sul davanti, quella che dava sull'aia. Nessuno parve far caso a lui. Uscito, aspirò profondamente la buona aria che sapeva di primavera e si avviò, a passo non troppo svelto né troppo lento, verso il pilone. Di qui prese il viottolo che scendeva verso l'antico mulino.
C'era abbastanza luce per vedere dove camminava. Man mano che s'avvicinava alle rovine, sentiva l'eccitazione e il desiderio risvegliarsi in lui e rafforzarsi a ogni passo. Giunto in vista della scura sagoma della costruzione in parte crollata, che faceva pensare a pochi denti rovinati e storti che sporgono dalle gengive di un gigante, Matteo chiamò sottovoce.
"Melchiorre?"
Da un angolo, su in alto, vide il volto dell'amico sporgersi, chiaro sotto i raggi della luna: "Sono qui... vieni su. Il muro a destra è saldo e è quasi come una scala. Lo vedi?" gli disse l'amico
"Sì." rispose Matteo e s'arrampicò agilmente, senza nessuna difficoltà.
Quando arrivò all'altezza dell'antico pavimento del primo piano vide la sagoma dell'amico, in ombra, che gli tendeva una mano. Senza prenderla, Matteo fece un lungo passo e si trovò sull'assito del pavimento. Ne restava solo un triangolo irregolare, con due pareti ancora in piedi e il terzo lato che s'apriva sul vuoto. L'angolo delle due pareti ancora sorreggeva un tratto di tetto, sì che il tutto formava come una bassa nicchia, un'alcova in cui si stava a mala pena in piedi.
"Vieni qui... Ho ammassato le foglie, così staremo più comodi." gli sussurrò l'amico con una voce in cui si sentiva vibrare il desiderio.
Matteo gli si avvicinò e gli pose una mano fra le gambe palpandolo: "Ce l'hai già bello tosto... mica te lo sei toccato aspettandomi, no?"
"No, te l'avevo promesso... dai, sediamoci, ora. Spogliamoci."
"Tu spogli me e io te, come si faceva una volta."
"Sì, va bene."
In breve furono entrambi nudi e pienamente eccitati. Poi Matteo si chinò fra le gambe dell'amico e si mise a leccargli, mordicchiargli e succhiargli il membro con crescente piacere. Melchiorre fremette e mugolò a bassa voce, contento. Poi a sua volte si chinò sul pube dell'amico per rendergli le stesse attenzioni. Stesi su un fianco, gli snelli corpi dei due ragazzi formavano un perfetto anello di piacere, dato e ricevuto al tempo stesso con vero godimento. Nel silenzio della notte si udiva solo il lieve fruscio dei loro corpi sulle foglie secche e di tanto in tanto il rumore dei risucchi delle loro bocche o i loro bassi mugolii soffocati dalla soda carne che si muoveva incessante, avanti e dietro, fra le loro labbra.
Dopo un poco, Matteo si staccò dall'amico e lo fece staccare da sé: "Siediti, mettiti con le gambe incrociate." gli suggerì. Poi sedette in grembo all'amico, fronteggiandolo e cingendogli la vita con le forti gambe nude, e scese giù facendosi penetrare. L'amico si teneva il membro dritto in su con una mano, perché si insinuasse senza problemi nel foro compiacente di Matteo.
Quando lo sentì bene infilato dentro e spinto a fondo, Matteo pose le braccia sulle spalle e attorno al collo di Melchiorre e facendo forza, aiutato dall'amico che lo teneva con vigore per la vita, iniziò a molleggiare su e giù.
"Ti piace, Melchiorre?"
"Sì, Matteo... finalmente! Ne avevo davvero voglia, ne avevo proprio bisogno."
"Sfregami i capezzoli, dai." gli disse Matteo.
"I capezzoli? Mica sei una donna, tu." gli disse stupito l'amico.
"Anche un maschio gode, a farseli stuzzicare, mica solo le donne." gli spiegò il ragazzo.
Melchiorre ci provò. Matteo dovette spiegargli come farlo, più o meno forte a seconda dei casi, come sfregarglieli o pizzicarli ma senza fargli male, finché l'amico capì come andava fatto.
"Quasi come con una ragazza... E ti piace?" chiese l'amico in un mormorio.
"Sì, certo. Dopo lo faccio io pure a te e vedrai che ti piacerà."
"Come l'hai imparato?" gli chiese l'amico.
"Provandoci: se piace alle ragazze, non vedo perché non può piacere anche a un ragazzo, ho pensato, e infatti..."
"Ma davvero è bello? Davvero ti piace?" chiese un po' stupito l'amico.
"Dopo ti faccio provare... quando sarò io a fottere te." gli rispose Matteo.
"Dai... dai, Matteo, più forte, più svelto... dai, che sto per venire!" lo incitò l'amico.
"Sono o non sono meglio di Kallina?" gli chiese Matteo battendogli in grembo il proprio culetto con maggiore vigore e velocità e facendo palpitare l'ano.
"Con lei... ci si toccava appena. Non ha mai voluto fare niente di... niente di serio."
"E ti piace, con me?" insisté Matteo.
"Sì che mi piace... e almeno non mi devo levare all'ultimo minuto per non metterti incinta!" ridacchiò l'amico cominciando a spingere in su con crescente vigore man mano che sentiva l'orgasmo approssimarsi. "Eccomi... eccomi... sto per godere!" ansimò a un tratto, poi, con un lungo "Aaaaghhh..." gli si scaricò dentro stringendolo con forza a sé e spingendo in su con vigore tutta la sua asta per versargli il più a fondo possibile tutto il suo carico virile.
Per un poco restarono fermi, Melchiorre ansava lievemente e fremeva a tratti.
"Signore, se ne avevo bisogno!" sospirò poi, mentre il suo respiro lentamente si calmava. "Grazie, Matteuzzo... Adesso tocca a te. Come me lo vuoi mettere, tu? Così o alla pecorina?"
"No, non te lo ricordi più? A me piace che ti stendi sulla schiena e che mi metti le gambe sulle spalle, no?"
"Sì, è vero. Levati, ora. Però mettici parecchia saliva: io è da un bel pezzo che non lo piglio più lì, lo sai."
"Non ti preoccupare." gli disse Matteo pregustando la prossima penetrazione, mentre cambiavano posizione.
Preparò l'amico, gli si addossò e, con calma e perizia, gli si infilò tutto dentro: "Va bene, Melchiorre?" gli chiese fermandosi per un poco.
"Sì... sì va bene." sussurrò l'amico sorridendogli.
I loro occhi brillavano nella semi-oscurità della compiacente alcova. Allora Matteo iniziò a muoversi dentro l'amico avanti e dietro con sapienti movenze. Poi cominciò a sfregare ad arte i capezzoli dell'amico. Melchiorre emise un basso e lungo gemito di piacere.
"Hai ragione, Matteuzzo... anche lì è bello per davvero, a fare così!" mormorò il ragazzo compiaciuto, chiudendo gli occhi e abbandonandosi pienamente alle sapienti cure dell'amico.