Ettore s'era messo in strada la mattina presto, poco dopo l'alba. Era abituato a viaggiare, lo faceva ormai da anni, in cerca di denaro che non gli bastava mai. Ma questa volta era diversa dalle altre: se non li avesse trovati entro una settimana avrebbero messo all'asta sia la casa che l'ultimo campo che restava loro. Sarebbe stata la fine, per tutta la famglia, la fine per tutti i Dore.
Questa volta però si sentiva allegro e pieno di fiducia: la conoscente ricca di Marcus Laconi gli avrebbe prestato i soldi, così lui avrebbe pagato i debiti, rilevato l'ipoteca e magari sarebbero anche restati abbastanza soldi per comprare un abito nuovo per Renzino e un altro per Damianu. Sì, si diceva felice, pensando sia ai soldi che al suo dolce Damianu, la vita sarebbe cambiata, avrebbe finalmente avuto una svolta positiva.
Cavalcò per un bel po', scese fino a valle poi risalì sull'altro versante. Arrivò a un villaggio e si fermò all'osteria per bere un bicchiere e far mangiare il cavallo. Non voleva fermarsi a lungo, aveva fretta di arrivare a casa di Laconi. Ma nell'osteria incontrò don Pasquale Obinu, un ricco proprietario terriero della zona. Anche a lui aveva chiesto un prestito, in passato, ma il nobile gliel'aveva negato con una qualche scusa.
Don Pasquale lo salutò con giovialità. Ettore non aveva voglia di parlargli, ma fece finta di vederlo con piacere.
"Qual buon vento vi mena, don Ettore? Che piacere vedervi, e vedervi in ottima salute!" gli disse l'uomo.
"Mi sono fermato solo un attimo." gli rispose il giovane uomo con un ampio sorriso, "Ho promesso a un caro amico che lo vado a trovare. Sapete, m'ha chiesto di dargli una mano..." inventò Ettore.
"E come vi vanno gli affari?" gli chiese il nobile con un sorrisetto malizioso, cercando di dare un tono casuale alla domanda.
Ettore non voleva dargli soddisfazione, perciò rispose: "Per fortuna i problemi sono finiti! Donna Tana ci ha dato le sue carte valori, così abbiamo sistemato tutto. E anzi, proprio per questo vado dal mio amico, per prestargli del denaro. Sapete, se non si aiuta un amico nel bisogno, non si è degni d'essere considerati buoni cristiani." gli disse il giovane uomo per ricordargli d'avergli negato il prestito.
"Me ne rallegro. Sì, avete proprio ragione voi, quando si può, s'ha il dovere di dare una mano al prossimo." rispose don Pasquale per nulla turbato da quell'allusione.
Parlarono ancora un po', poi Ettore si accomiatò da lui, prese il suo cavallo e si rimise in strada. A sera arrivò al paese di Laconi. Ma dopo aver incontrato don Pasquale non si sentiva più allegro come prima. Ripensò allora a Damianu, e si disse che era davvero fortunato ad avere la sua completa dedizione e la sua disponibilità: non si sarebbe mai separto da lui, era un compagno troppo delizioso e gradevole. Il ragazzo era pure meglio di una sposa, perché Damianu non pretendeva mai nulla per sé.
Traversò le vie del paesetto conducendo il cavallo al passo. Il paese era triste e grigio come il suo, pensò, come tutto in quella terra tanto bella ma tanto disperata. Tanto fiera eppure tanto povera. Quella terra contorta e selvaggia come le anime dei suoi abitanti. Cupa o ridente secondo come girano i raggi del sole che la fa vivere eppure la brucia. Questi erano i pensieri di Ettore quando giunse di fronte alla casa dei Laconi.
Marcus non era in casa, ma la vecchia madre e le sue cinque sorelle da sposare, la più giovane delle quali aveva di già tre anni più di Ettore, lo accolsero con aperta simpatia.
"Marcus è nei nostri campi e tornerà solamente domattina." gli disse la vecchia madre, alta e segaligna, dal grosso naso adunco ma con occhi vivi da giovinetta. "Ma ci aveva avvertite che sareste venuto, don Ettore. Accomodatevi, dunque, casa nostra è casa vostra, lo sapete."
Ettore sedette su una sedia in sala.
"Come stanno i parenti vostri? Tutti bene, spero." disse la madre, poi aggiunse: "Avete ancora da cenare, immagino. Aspettate che vi prepariamo qualcosa." e dette pochi ordini asciutti alle figlie.
Due scomparvero leste verso la cucina, con un lieve frusciare delle loro lunghe e ampie gonne. Le altre tre sorelle e la madre gli stavano attorno, mentre la vecchia si informava a un a uno di tutti i membri della famiglia, iniziando dai più vecchi e terminando con Renzino e con Damianu.
Dopo aver cenato Ettore disse che andava a fare due passi: le chiacchiere della vecchia e gli sguardi rapaci delle cinque sorelle l'avevano reso triste e messo di malumore. Aveva bisogno di respirare un po' d'aria pulita. Il paese, ora, gli pareva ancora più cupo e sudicio di quando vi era arrivato. Doveva essere il suo stato d'animo a fargli vedere tutto anche più brutto di quanto realmente fosse, si disse il giovanotto.
"Ma che idea ho avuto a venire fin qui? Pare che tutti siano anche più miseri che ad Arbatax... dove mai posso trovare qualche denaro?" si chiedeva Ettore, sentendosi il cuore oppresso, "E chi può essere mai la ricca donna di cui m'ha parlato Marcus? Non vedo una casa decente in questo posto dimenticato da dio, neppure a cercarla col lanternino."
Oltre a tutto, aveva dovuto sopportare anche gli sguardi delle cinque sorelle di Marcus, che parevano divorarlo con gli occhi, che vedevano in lui un possibile, o impossibile, marito. Quegli sguardi l'avevano profondamente disturbato: gli avevano dato l'impressione di vedere una muta di cani da caccia quando hanno fiutato la preda e attendono solo l'ordine del padrone per inseguirla e costringerla in un angolo da cui sia impossibile la fuga, in attesa che il padrone arrivasse ad ammazzarla per il proprio divertimento, più ancora che per portarla in tavola alla famiglia.
Pensò nuovamente al suo Damianu, e si chiese che vita mai avrebbe potuto offrire a quel dolce ragazzo se non avesse trovato il denaro. A questo pensiero si sentì una lacrima tremolare all'angolo dell'occhio. E si sentì il più miserabile degli uomini. Che uomo era, lui, se non sapeva neppure provvedere al benessere della propria famiglia? Che uomo era se non sapeva neppure garantire un futuro a suo figlio, e neppure al ragazzo che gli si era dato con tale e tanta fiducia e con assoluta devozione?
Tornò a casa dei Laconi, senza fare troppo tardi per non disturbarli troppo. Le sorelle di Marcus gli avevano preprato una camera e sul tavolinetto nell'angolo fra la porta e la finestra, vi era un lume a olio e un bicchiere d'acqua su un piattino con sotto due centrini fatti al tombolo, sicuramente da una delle cinque sorelle. Dall'altra parte della porta v'era il treppiede di ferro battuto con il catino e la brocca di coccio, uno specchio dall'argentatura chiazzata e un asciugamano bianco come la neve, con i bordi decorati con l'inserzione di due strisce fatte pure a tombolo.
Data la buona notte, si chiuse nella cameretta. Mentre si levava di dosso gli abiti, gli pareva di rivedere gli occhi delle cinque sorelle su di sé e provò un brivido di freddo. Soffiò sulla fiammella della lampada e rimise giù il tubo di vetro. Al buio, a tastoni, trovò il letto e vi salì sopra: le lenzuola gli gravarono addosso, fredde e umide. Vi si stese e coprì il suo corpo mucoloso anche con la coperta arrotolata ai piedi del letto, provando un senso di profondo disagio.
Faticò ad addormentarsi, anche se il calore del suo corpo aveva formato attorno alla sua pelle un bozzolo di tepore, trattenuto dalla leggera coperta a disegni tradizionali verdi, marrone e bianchi in tripla tela tessuta in casa.
Ma quello era un tepore alieno, ben diverso dal sano e forte calore che avrebbe provato se avesse potuto condividere il letto con il suo Damianu. Gli occhi spalancati nel buio, pensò che non aveva ancora mai potuto condividere il suo letto con il dolce ragazzo e se ne rammaricò.
Finalmente il sonno ebbe pietà di lui e gli appesantì gli occhi e le membra, ed Ettore si addormentò senza neppure rendersi conto di scivolare nell'oblio, almeno per qualche ora.
Il mattino seguente Ettore si alzò, sentendosi ancora più stanco e triste della sera prima. Si lavò al catino col pezzo di sapone fatto in casa, s'asciugò con l'asciugamano di lino, si rivestì e scese. Aveva appena finito di fare colazione, servito a tavola dalle cinque sorelle, che silenziose ed eccessiamente attente gli versarono il caffè, gli porsero lo zucchero, le fette di pane, il miele e un cestello di noci sgusciate: ognuna delle cinque una diversa cosa... quando Marcus rientrò a casa.
Marcus era tornato a casa stanco e di cattivo umore e quando lesse la tristezza in volto all'amico, pensò che dovesse essere in terribili condizioni e sentì l'abisso che lo divideva da Ettore: nel suo amico d'un tempo s'era spenta quella scintilla di vita che aveva avuto negli anni passati, Ettore era un perdente, uno sconfitto. Non era di certo il lavoratore pieno di energia e pronto a tutto che era Marcus, e ancora meno l'allegro compagno di bagordi di un tempo.
L'uomo osservava il suo ospite e ne provava compassione, ma al tempo stesso si chiese che cosa potesse farci lui. Si disse che era stato incauto a dirgli che poteva presentarlo a una donna ricca che poteva prestargli del denaro: come e quando mai avrebbe potuto restituirlo, Ettore? Mai! E lui non poteva mettersi in cattiva luce raccomandando un amico che non sarebbe mai stato in grado di onorare i suoi debiti.
"Ho pensato parecchio al tuo problema, Ettore. La soluzione migliore è che tu faccia un buon matrimonio." gli disse quando furono soli "Tu sei giovane, sei un bell'uomo e sei sano: una donna ricca magari un po' in là con l'età, non potrebbe che essere lieta di accasari con te, portandoti la sua dote."
Ettore provò un brivido freddo lungo la spina dorsale e pensò che l'invito gli era stato fatto non tanto per presentarlo a una donna ricca, ma piuttosto per fargli sposare una delle sue sorelle, per tendergli un laccio, per accalappiarlo.
"Vedi, Marcus, amico mio, siamo fra uomini e tu mi puoi capire..." disse allora, pensando al suo Damianu, "Il fatto è che io ho una relazione segreta con una certa persona. Purtroppo non la potrò mai sposare, ma le ho giurato che non l'abbandonerò mai, e non posso e non voglio mancare al mio giuramento. Ci si vuole molto bene, ma il destino ci impedisce di sposarci. Dopo che mia moglie morì, io che già la conoscevo, ma che mai avrei pensato di farla mia, mi trovai solo con lei e il desiderio ci vinse, ci travolse entrambi. Lei non aspettava altro che io mi facessi avanti e mi si donò anima e corpo, totalmente. Si è data interamente a me come la terra si fa permeare dall'acqua, come il legno si fa bruciare dal fuoco. No, io non la posso lasciare!"
"Ettore, amico mio, questa è la tua dannazione," gli disse Marcus scuotendo il capo, "tu sei un debole, non sai prendere la tua vita in mano!"
"Marcus, credi che non l'abbia saputo da sempre, io? Lo so, lo so bene," gli disse Ettore. "Già dai tempi in cui frequentavamo la scuola... ho smesso di studiare sennò chi sa chi potrei essere oggi. Ho perso la via, e nessuno me la può più indicare. Tutto quello che ho intrapreso s'è arrestato prima che potesse fiorire, prima che potesse dare frutto."
Marcus non capì a che si riferisse l'amico, ma una cosa gli fu anche più chiara di prima: aveva sbagliato a invitarlo, a dirgli della sua conoscente ricca e pronta a prestargli del denaro. Ettore non si sarebbe mai risollevato dallo squallore morale e materiale in cui s'era cacciato. Si chiese che fare.
Disse all'amico che doveva fare una commissione prima di accompagnarlo dalla sua conoscente, e che comunque era meglio andare a farle visita più tardi: "Sai, è una donna vecchia, la sera non riesce mai ad addormentarsi e la mattina spesso dorme fino alla buon'ora. Tu aspettami in casa. Fra non molto torno e sarà l'ora giusta per andarla a trovare."
L'uomo uscì di fretta. Ettore, provando un impulso che neppure lui avrebbe saputo spiegarsi, quando Marcus fu uscito lo seguì di lontano, pronto a rifugiarsi sotto l'arco di una porta se Marcus si fosse girato. Ma l'uomo tirò dritto, svoltando per le viuzze del villaggio una paio di volte, senza mai voltarsi, finché si fermò davanti a una casa che Ettore arrivando non aveva visto perché era giunto al paese da un'altra via. Era una casa bella, ricca e in buono stato.
Marcus tirò una catenella e s'udì lo squillo di una campanella. Dopo poco la porta s'aprì e l'amico vi si infilò dentro. Allora Ettore tornò indietro e sedette sulla panca di pietra che v'era davanti alla casa dei Laconi: non aveva voglia di entrare, di trovarsi di nuovo assediato dalle cinque sorelle nubili dell'amico.
Non ebbe da aspettare a lungo. Non era passata neanche un'ora quando Marcus tornò. Ettore subito notò che l'amico non aveva più l'espressione stanca e preoccupata di prima, ma che anzi ora pareva allegro e sollevato, come se si fosse levato un peso di dosso.
"Vieni, amico mio, a quest'ora credo che non disturberemo donna Rachele." gli disse con aria decisa.
Ettore si alzò e lo seguì. Man mano che passavano per le stesse viuzze che aveva percorso poch'anzi, seguendo in segreto l'amico, il suo cuore si faceva pesante. E quando Marcus si fermò davanti alla bella casa e tirò la catenella, lo squillo della campana risuonò nel cuore di Ettore come una campana a morto.
Una serva li accolse in silenzio e li fece accomodare in un elegante salottino. Dopo poco entrò una donna avanti con gli anni, bassa e un po' grassa, vestita con abiti neri decorati di pizzi anche neri. I due giovani uomini si alzarono subito in piedi.
"Oh, Marcus, che piacere vederti! Come sta la tua mamma? E le tue sorelle?"
"Bene, ringraziando il Signore. E voi, donna Rachele?"
"Non male, non male... meglio dell'ultima volta che ci si è visti." disse la donna con un sorriso affabile e fece cenno ai due uomini di sedere.
Marcus fece le presentazioni. A Ettore non piacque per nulla il sorriso freddo e formale con cui la donna gli diceva che aveva piacere di conoscere un caro amico di Marcus.
Quando affrontarono il motivo per cui Marcus aveva portato da lei don Ettore, la donna ascoltò, poi disse che purtroppo in quel momento proprio non aveva denari a disposizione, che le dispiaceva molto...
Ettore uscì dalla casa della donna con la morte nel cuore, con la disperazione nell'anima. "Marcus è andato dalla vecchia per dirle di negarmi il denaro." si disse. "Perché mi ha fatto questo? A che pro invitarmi qui? Voleva umiliarmi e voleva davvero solamente affibbiarmi una delle sue sorelle, allora. Mi ha tradito, non doveva comportarsi così. Aveva da dirmi allora quali erano le sue vere intenzioni."
Ripartì quasi subito: non voleva fermarsi a mangiare dai Laconi, il cibo non gli sarebbe andato giù. Ripercorse la strada del ritorno lentamente, pensando a che cosa doveva fare, a questo punto. D'improvviso capì. Sì, sapeva quel che avrebbe dovuto fare. Doveva solo fare tutto nel modo giusto.
Era immerso nei suoi foschi pensieri, quando si sentì chiamare. Fermò il cavallo e guardò: a lato della strada vi era un uomo alto, forte, robusto e grosso che teneva per un braccio un ragazzotto. Ettore riconobbe il pastore Primus, quello che la gente accusava di avere ammazzato il proprio figlio.
"Don Ettore, guardate, guardate qui!" disse con voce tonante e piena di sdegno l'uomo, scuotendo per il braccio il ragazzotto, che aveva gli occhi fissi a terra, "Guardatelo, mio figlio! S'è girato tutta la Sardegna a cercar fortuna, lo sciagurato. Ma quando ha visto che la vita fuori era peggio che con suo padre, è tornato a casa! Ecco, ora lo porto dai carabinieri, poi dal parroco, poi dal sindaco... devono saperlo tutti, devono saperlo tutti che un padre non può ammazzare il sangue del suo sangue. E quando tutti lo sapranno, quando tutti l'avranno visto bene in faccia, gli dirò, davanti a tutti sissignore, gli dirò davanti a tutti che vada al diavolo, che non è più mio figlio!"
"Primus... siete un bravo uomo, e anche buono. Io vi capisco... però... dategli un'altra possibilità, dategli una speranza. Aiutatelo a trovare la via, prima che sia troppo trdi, non fate di lui un fallito."
"È lui, è lui, don Ettore, non io, che fa di se stesso un fallito. Dovrebbe vergognarsi e, per la vergogna si dovrebbe ammazzare!" esclamò l'uomo rosso in viso. "Io non alzerò neppure una mano su di lui, sarebbe solo fatica sprecata. D'ora in poi voglio solo pensare a me stesso e ai casi miei, non più a questo sciagurato."
Ettore provò pietà per il ragazzotto, ma i suoi problemi erano troppo gravi per soffermarsi a lungo su quel sentimento.
"Tornate in paese?" chiese allora Ettore all'uomo, "Vi state tornando?"
"Sì, don Ettore. Vi serve qualcosa?"
"Allora," disse Ettore scendendo da cavallo, "dovete portare un biglietto che ora vi scriverò e lo consegnerete a Matteo, ma a lui soltanto e in modo che nessuno, ripeto, nessuno vi veda darglielo. Soprattutto non deve vedervi Damianu! Avete capito bene?"
"D'accordo, don Ettore, farò come mi dite." gli rispose l'uomo intimorito per il tono intenso e pieno d'urgenza con cui l'altro gli aveva parlato.
Ettore tirò fuori da una tasca un mozzicone di matita e un pezzo di carta e vi scrisse sopra il suo messaggio:
"Matteo, per l'amore di dio e di nostro padre, devi prendere con te Damianu e Renzino, e portarli assolutamente su da zio Cosimu, prima che faccia sera e dovete dormire lì. È di estrema importanza! Non dire nulla a nessuno di questo biglietto. Non mi tradire, almeno tu. Capirai il perché entro domattina. Mi raccomando, Matteo, conto su di te, non mi tradire e fa' quello che ti chiedo! Tuo fratello Ettore."
Ettore sapeva che Primus e suo figlio non sapevano leggere perciò gli consegnò il biglietto piegato in due. L'uomo se lo mise in tasca, gli assicurò che l'avrebbe consegnato a Matteo senza che nessuno lo vedesse e, quasi trascinando il figlio, riprese la via verso Arbatax.
Ettore girò il cavallo, tornò al villaggio che aveva traversato poco prima e andò all'osteria. Sedette a un tavolo e dopo poco l'oste gli andò a chiedere che potesse servirgli. Ettore ordinò un buon pasto e il miglior vino. Mangiò e bevve in abbondanza e più mangiava e più beveva, più si sentiva certo di aver trovato la giusta soluzione a tutti i problemi della famiglia Dore. La casa, per lo meno, non sarebbe stata messa all'asta.
Terminato di mangiare pagò l'oste, poi uscì a passeggiare per il villaggio, conducendo il cavallo dietro di sé per le briglie. Più camminava e più si sentiva leggero. La decisione che aveva preso gli metteva indosso una specie di strana euforia. "I problemi dei Dore sono finiti, finiti!" si ripeteva in mente e uno strano sorriso aleggiava sul suo bel volto.
"Marcus dice che sono un debole: avrà da ricredersi, parola mia! Vedrà che sono forte, più forte di lui, vedrà che nulla mi può spaventare." si diceva e si sentiva sempre più euforico.
Ettore passò poi dallo speziale e gli chiese qualcosa per dormire: da un po' di tempo non riusciva prendere sonno, gli spiegò. Pagò l'involto con la polverina, poi chiese quanto ne doveva prendere ogni sera, se era veramente efficace, dopo quanto tempo faceva effetto, se poteva prenderla sciogliendola nel vino senza far perdere al vino il suo buon gusto né alla polvere la sua efficacia... e, rassicurato, uscì tranquillamente.
Camminando, di tanto in tanto dava un calcio a un sasso, e si divertiva a vedere quanto lontano riucisse a farlo andare, rimbalzando e rotolando sulla strada sconnessa e non lastricata di quel piccolo villaggio dimenticato da Dio come tutti gli altri della sua bella isola. Guardava il cielo di un azzurro tanto intenso da fare male agli occhi e sorrideva, guardava la mare di smeraldo solcato da lievi scie di bianca spuma in eterno movimento e si sentiva leggero, guardava la foresta che ammantava le pendici dei monti e si stupiva per la sua bellezza, guardava le rocce che si protendevano forti e possenti verso il cielo e si sentiva fatto della loro stessa essenza.
Poi, quando il sole iniziò a scomparire dietro i monti, colorando il cielo di una lunga striscia rossa simile alla passatoia che si stende in chiesa per le feste grandi e che dal portale conduce fino all'altare maggiore, salì agile sul proprio cavallo, lo spronò e, al trotto, carcollando agile e leggero sulla sella di buon cuoio che era prima appartenuta a suo nonno, poi a suo padre, poi al fratello maggiore e ora a lui, si avviò verso Arbatax, verso casa.
Giunto in casa, trovò ad attenderlo sul cancello donna Martina: "Salve, sono in tempo per la cena?" le chiese allegramente.
Martina lo guardò chiedendosi quali buone nuove potesse recare per essere così allegro: "Certo che sei in tempo, Ettore. Ci si stava per mettere in tavola."
"Ottimo. Il nonno? Tuo padre?" le chiese entrando in casa.
"Sono già seduti a tavola." gli ripose la donna chiudendo il cancello, mentre lui legava il suo cavallo.
"E Renzino? Come mai non è qui ad attendermi come sempre?" chiese.
"Matteo e Damianu sono andati con lui su all'ovile da ziu Cosimu."
"Ah sì? E perché?" chiese Ettore fingendosi un po' stupito, per vedere che scusa avesse inventato Matteo.
"Ha detto Matteo che ziu Cosimu aveva bisogno di una mano, e allora Renzino ha voluto andare con loro." rispose Martina togliendo la pentola dal fuoco ed entrando in casa, seguita da Ettore.
"E Damianu è con loro?" chiese il giovane uomo.
"Sì, te l'ho detto."
Ettore passò in cucina per lavarsi le mani. Quando si misero a tavola anche loro, Ettore era allegro e ciarliero.
"Che nuove ci porti?" gli chiese don Antonio mentre iniziavano a mangiare.
"Non ora, non ora. Domattina vi dirò e vedrete che tutto sarà risolto." rispose allegro Ettore addentando di gusto un pezzo di agnello al mirto.
"La donna di cui ti parlò Marcus t'ha fatto il prestito?" gli chiese un po' stupito ziu Santo.
"Molto meglio, molto meglio. Ma trattenete la curiosità fino a domattina. Quando Matteo e Renzino e Damianu torneranno, tutto il paese saprà che i Dore non hanno più nulla da temere per il futuro."
Dal letto donna Tana gracchiò: "E che mai sarà questo gran segreto? Mi sa che è un'altra delle tue baggianate. Tu non sei che un buono a nulla; che possono ottenere di buono i Dore da uno come te?"
"Suvvia, donna Tana, non siate sempre acida come l'aceto..." la rimproverò Martina in tono dolce, volendo difendere il cognato senza offendere troppo la vecchia.
"No, lasciatela dire." intervenne allegramente Ettore. "Vedrete che da domattina in poi anche donna Tana non troverà più alcun motivo per parlare male di me, quando si saprà ciò che ho in serbo per tutti voi!"
"Non puoi darci almeno un indizio, Ettore?" gli chiese ziu Santo, incuriosito, versandosi il vino nel bicchiere.
"Un indizio, ziu Santu? Un indizio... Ma sì..." disse Ettore con un ampio sorriso, "ci sarà festa grande, e tutto il paese accorrerà per vederla, tutto il paese, ve lo garantisco. Anzi, vi dico, magari pure dai pesi vicini correranno e si parlerà dei Dore a lungo, come mai se ne è parlato."
"Festa grande? Un matrimonio?" chiese don Antonio tagliandosi un pezzo di cacio, cercado di interpretare l'allegria del nipote.
"Domattina... domattina lo saprà tutto il paese... stanotte dormiteci sopra e abbiate un po' di pazienza. Anche voi, donna Tana, anche voi vedete di dormirci su, che ne vale la pena!" disse il giovane uomo girandosi a guardare la vecchia asmatica.
Donna Tana, seduta sul suo letto, lo guardò con espressione arcigna e scosse il capo: "Questo vino gli ha dato alla testa!" commentò con voce aspra.
Dopo la cena i due vecchi andarono a sedere per un po' davanti alla casa ed Ettore, presa anche lui una sedia, andò a sedere fuori con loro. Don Antonio e ziu Santo ne furono stupiti: era alquanto inusuale che Ettore si unisse ai due vecchi.
Parlarono per un po, poi Martina uscì un attimo per dare la buona notte e chiese: "Chi dorme stanotte accanto a donna Tana? Volete che ci dorma io?"
"Ma no, ma no, ci dormirò io, per questa volta. Dopo tutto non l'ho mai fatto, è ora che mi occupi io di lei!" le rispose Ettore. "Tu vai a dormire, sarai stanca per la giornata."
Poco più tardi i due vecchi rientrarono e si ritirarono nelle loro stanze. Allora Ettore rientrò in casa, si fermò accanto al letto e chiese a donna Tana se avesse bisogno di qualcosa, ma la vechia non gli rispose: stava già ronfando sonoramente.
Il giovane uomo passò nel vestibolo e sedette sul gradino, guardando in cortile le ombre scure degli alberi, la sagoma della siepe che nascondeva il capanno degli attrezzi, il cielo nero e trapunto di stelle che parevano lacrime di ghiaccio.
La notte avanzava e il paese si stava rilassando nel sonno, solo Ettore ancora vegliava, seduto sul suo gradino. Non s'era mai sentito così bene. L'unica cosa che avrebbe reso quella notte perfetta sarebbe stato avere lì con lui Damianu, anzi, non lì con lui, ma fra le sue braccia e nel suo letto.
"Non l'ho mai avuto con me nel mio letto..." si disse, "... non gli ho mai potuto dare quello che avrei voluto, quello che si meriterebbe..."
Guardò di nuovo il cielo, cercando di contare le stelle come faceva da bambino, e arrendendosi dopo poco.
"Non gli ho neppure mai detto che lo amo!" sussurrò al silenzio della notte.
Una forte emozione lo afferrò e una lacrima tremolò nell'angolo dei suoi occhi.
"Damianu... oh mio Damianu... mio... mio... mio!" mormorò al silenzio del proprio cuore.
E rivide come in un sogno quel magico giorno di maggio, lassù, subito sotto la "tomba del gigante" quando per la prima volta il ragazzo era stato suo, e gli parve di poter provare di nuovo la dolcezza con cui il ragazzo s'era lasciato ghermire, la prontezza con cui gli si era donato anima e corpo, la virile forza con cui aveva accettato il dolore, l'interezza con cui l'aveva ricambiato con amore. E si rese conto con ammirato stupore che lassù, in realtà, era stato Damianu che l'aveva fatto suo!
Era notte fonda e l'intero paese ormai era sprofondato nelle accoglienti braccia di Morfeo, il dio del sonno.
La quiete della notte fu improvvisamente rotta dalla campana della chiesa che suonava a martello.
La gente fu strappata dai sogni che compensavano le fatiche della giornata e della vita e saltò giù dai letti, si alzò dai giacigli.
"Al fuoco... al fuoco..."
Tutti corsero, chi con secchi d'acqua, chi con asce, chi solo a guardare le alte fiamme che rumoreggiando divoravano l'antica "Domus Dore". Erano fiamme alte e forti, e ruggivano feroci, e quando all'alba solo un denso fumo nero si alzava ormai dalle rovine della casa crollata su se stessa, non s'era riusciti a salvare nulla e nessuno.
La gente, stanca e ancora sbalordita, s'avviò lentamente e tristemente verso le proprie case, commentando a bassa voce la terribile disgrazia che, come qualcuno sommessamente notava, aveva posto la parola fine a tutta la serie di disgrazie che negli ultimi anni parevano essersi accanite sull'antica e nobile famiglia che aveva vissuto nella Domus Dore.