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una storia originale di Andrej Koymasky


PIETRE SPARSE CAPITOLO 6

Su mundu est tundu, e chie non ischit navigare falat a fundu
Il mondo è tondo e chi non sa navigare cala a fondo

Terminata la giornata di lavoro, erano tutti a tavola con ziu Cosimo e la famiglia, e Rosa stava facendo le porzioni.

"Sapete che per me potete restare qui finché volete. Non dovete pensare di essere di peso, non è così, lavorate sodo tutti e due e per Rosa guardare anche Renzino non è un problema. Però capisco che vorreste guadagnare qualche moneta e come sapete io proprio non posso pagarvi un salario. Ho di che vivere, non mi posso lamentare, ma non ho di che scialare."

"Voi state facendo davvero molto per noi, ziu Cosimo, e ve ne siamo grati. Non è certo per questo che s'è fatto quel discorso. Speriamo che il Signore vi renda merito per quanto avete fatto e state facendo per noi."

"Don Antonio, che Dio l'abbia in gloria, è stato un buon padrone, e quando ho deciso di diventare un pastore a solus, fu lui che mi donò gli agnelli per cominciare. I Dore sono sempre stati generosi e buoni con noi, e quello che faccio non è gran cosa. Ma avete già un'idea su dove andare, che fare?"

"Si pensava di andare a Nuoro, o magari a Cagliari." disse Damianu.

"E come farete per il piccolo, se lavorate tutti e due? Chi ve lo guarda?" chiese Rosa parlando tranquilla perché i bambini avevano già mangiato prima ed erano tutti a letto.

"Vedremo. Qualche santo provederà." disse Matteo.

"Potreste lasciarlo qui con noi..." propose Rosa guardando il padre che annuì prontamente.

"No. Vi ringrazio, ma non vogliamo lasciare Renzino. Prima ha perso la madre, poi il padre." disse Matteo con un triste sorriso, "È sempre stato affezionato a Damianu e ora anche a me: siamo tutto quello che gli resta. Non possiamo dargli un nuovo dolore. Non lo possiamo lasciare."

"Vi fa onore, questo che dite," rispose il pastore, "ma avete pensato che vita farebbe il piccolo in città? Con quel suo problema... gli altri ragazzetti sono crudeli, a volte. Qui da noi è diverso..."

"Non abbiamo ancora deciso nulla, in verità. Penseremo anche a quanto ci avete detto, ziu Cosimu. Ma Renzino starà dove stiamo noi." disse Damianu in tono cortese ma deciso.

In quella s'udì una voce chiamare da fuori. Rosa s'alzò da tavola con un'espressione lieta in volto e corse alla porta.

"È Tonino Piras, il marito di mia figlia Rosa. Speriamo che non abbia perso anche questo posto di lavoro!" commentò ziu Cosimu con espressione preoccupata.

Damianu guardò fuori dalla porta aperta e intravide, nell'oscurità della sera, la sagoma di un uomo alto e robusto e, appeso al collo di lui, la sagoma esile e snella di Rosa. Il volto dell'uomo era chinato verso quello della donna e le loro labbra si toccavano.

Poi i due, mano nella mano, entrarono. Il volto dei due sposi era lieto.

"Buona sera a tutta la compagnia!" salutò l'uomo con tono allegro.

"Tonino, com'è che sei a casa? Il lavoro..." chiese ziu Cosimu guardandolo serio.

"Il lavoro va bene. È duro, è pesante, ma va bene. Sapete che non è la fatica che mi spaventa." rispose l'uomo sedendo a tavola, le gambe larghe, appoggiandosi allo schienale della sedia, "No, non era per me il lavoro in bottega, e neppure quello di stare lassù, tutto solo con le pecore per giorni e giorni. Qui ci dicono quello che s'ha da fare, e non ci son clienti capricciosi da contentare, e si lavora gomito a gomito e c'è rispetto e aiuto fra di noi. State tranquillo, questa volta ho trovato il lavoro che fa per me."

Rosa gli mise davanti un piatto e glielo riempì. L'uomo si mise a mangiare.

Poi si fermò e guardò verso i due ragazzi: "Scusate, non vi ho neppure salutato. Ma sono un uomo semplice, io. Ho saputo... e anche se è tardi vi faccio le mie condoglianze."

"Grazie, Tonino Piras. Mi ha detto vostra moglie che ora lavorate alla miniera. Lavoro duro, immagino." gli disse Matteo.

"Sì, ma come ho appena detto, non è quello che mi spaventa. Le braccia e le gambe le ho buone, ringraziando il Signore, e la salute non manca."

"Siete in molti a lavorare in miniera?" gli chiese Damianu.

"Esattamente cinquantasette lavoranti, ma presto ce ne saranno altri: s'è trovato un nuovo filone. Cinquantasette a parte i capi, intendo dire. Siamo divisi in dieci squadre."

"E dite che vi piace..." chiese Matteo.

"E non mi date del voi: voi siete Dore, io solo un Piras. Datemi del tu o mi mettete a disagio, io non ci sono abituato. Sì, mi piace. L'unico problema è il cibo: ce lo si deve preparare da noi e non è che siamo capaci. Il cibo non manca, ma è cucinato troppo male." disse l'uomo, poi sorridendo alla moglie aggiunse, "Qui a casa è tutt'altra cosa. Ma che volete, i padroni non vogliono portare su ragazze per cucinare. Capite, con tutti quegli uomini, lontani per troppo tempo da casa... Se lì vicino ci fosse una locanda, un'osteria, una cantina, andrebbe meglio."

"E com'è che sei tornato a casa?" gli chiese ziu Cosimu ancora lievemente diffidente.

"Ogni squadra a turno ha qualche giorno di riposo, una per volta, e ora toccava alla mia squadra. Ho solo cinque giorni in tutto, e uno si perde per venire, uno per tornare, non è granché. Però è meglio di niente." spiegò l'uomo versandosi da bere.

"Una cantina, stavate dicendo? Non ce n'è una vicino alla miniera?" chiese Matteo.

"No. La più vicina è giù a valle, al paese. Ma ci vuole troppo tempo per andare, tempo che non abbiamo. Il capo aveva pensato di usare una bicocca che c'è a due passi dalle nostre baracche, ma non ha ancora trovato una famiglia che voglia stare lassù per lavorarci."

"Com'è, questa bicocca? Adatta a farci una cantina? E a chi appartiene?" insisté Matteo.

"Apparteneva a un contadino, ma ora è del padrone della miniera, che ha comprato tutta la terra là attorno. È chiusa, non ci sta nessuno. Pare che prima che il padrone facesse costruire le baracche nuove ci dormissero gli uomini della miniera." spiegò l'uomo, "Io non l'ho mai vista dentro, ma da quello che dicono i compagni più anziani, c'è una stalla che dà sulla cucina e due stanzette oltre la cucina."

"E dimmi, Tonino, davvero non ci sono donne là intorno?" chiese Rosa.

"Che, saresti gelosa? Non ce n'è nemmeno l'ombra, e se pure ci fosse, non le guarderei, te lo giuro." rispose l'uomo ridendo.

"Ma giù al villaggio..." insisté la giovane donna.

"Troppo lontano, e le donne che ci sono sono guardate a vista dai loro uomini e le ragazze da marito sono guardate a vista dai loro genitori. E là girano quasi tutti con lo schioppo a spalla. Quindi, anche se non ti fidi, se pure tu non mi credessi, potresti stare tranquilla lo stesso." gli rispose l'uomo.

"E che ne so, io. So solo quello che mi dici... e tu sei un bell'uomo, non mi stupirei se qualcuna ti facesse gli occhi dolci." gli disse la moglie con un sorriso lieve.

Più tardi i due ragazzi andarono nella loro stanzetta per dormire, e dopo aver rimboccato la coperta a Renzino, si tolsero gli abiti. Restando con la sola ampia camicia indosso, si stesero ognuno nel proprio giaciglio.

"Damianu... sai a che pensavo?"

"No, Matteo. Come lo posso sapere?" gli rispose quietamente dal buio il ragazzo.

"Tu aiutavi sempre Martina a cucinare, tu sei bravo in cucina."

"E allora?"

"Non potremmo andare su noi alla miniera e aprire la cantina? Avremmo cinquantasette clienti fissi, e se prendono altri uomini, ne avremmo pure di più. E non siamo ragazze, perciò i padroni ci lascerebbero stare lassù. Se ci lasciano usare la bicocca... la stalla con qualche tavolo e qualche panca... ci compriamo un carretto e un asino per fare provviste... Renzino starebbe con noi senza problemi... Non ti pare una buona idea?"

"E io dovrei spignattare tutto il giorno."

"Io, quando non devo andare a fare provviste, ti darei una mano. E anche Renzino, crescendo, potrebbe aiutarci."

"Ma chi ce li dà i soldi per i tavoli, le panche, il carretto, l'asino, le prime provviste... E poi le pentole, i piatti, i boccali, e tutto il resto?" obiettò Damianu.

"I tavoli e le panche... chiediamo ai padroni della miniera che ce li metta lui. E anche i soldi per le prime provviste, che magari poi glieli rendiamo. Coi miei risparmi un carretto usato e un asinello, dovrei riuscire a comprarli." gli disse Matteo, sempre più convinto della propria idea man mano che ne parlava, "E poi ci sono i soldi della rendita per Renzino, pochi che siano. Possiamo anche usare quelli, che tanto tutto quello che guadagniamo è pure per lui."

"Credi che ci si potrebbe guadagnare davvero?" chiese Damianu.

"Penso di sì... penso che si potrebbe guadagnare anche il mille per cento una volta che la cantina lavora bene."

"Il mille per cento, dici? Ma quanti soldi ci vorrebbero, anche solo per cominciare?" obiettò ancora Damianu.

"Possiamo almeno andare a vedere, poi fare la proprosta ai padroni della miniera. Possiamo andare su a Lula con Tonino e lui ci può mettere una buona parola per noi. Che ci costa provare? Se poi si vede che non va... si cercherà altro." gli disse Matteo. Poi aggiunse: "Il mondo è tondo, e chi non sa navigare, cala a fondo."

Damianu dapprima pensò ai mille progetti campati in aria di Ettore... ma si disse che Matteo era diverso: aveva sempre lavorato sodo, qualsisi cosa avesse fatto in passato. Sì, per quanto somigliasse al fratello, in questo Matteo era certamente diverso da Ettore. E se la cosa avesse funionato, per Renzino poteva essere meglio stare lassù che in città.

"Si può andare a vedere, sì." ammise allora Damianu.

"Bene!" commentò Matteo soddisfatto.

Il giorno seguente Tonino volle salire su all'ovile a monte, quello sotto la "tomba del gigante", con tutta la famiglia e con i Dore. Dapprima Damianu non voleva andare, ma Renzino insisté tanto, e pure Matteo e gli altri, che alla fine i ragazzo cedette. Mentre s'avvicinavano alla loro meta, Matteo notò che Damianu era sempre più agitato e aggrondato. Non sapeva spiegarsi il perché di quello strano umore: dopo tutto si trattava di prendersi un giorno di riposo, di fare una scampagnata.

Rosa aveva preprato un grande cesto con il cibo, che trasportava in bilico sul capo, mentre ziu Cosimu portava l'otre del vino e Tonino quello, più grande, dell'acqua. I bimbi correvano attorno, ora precedendoli ora seguendoli, e garrivano allegri come rondini di primavera.

Matteo continuava a studiare l'espressione di Damianu, chiedendosi che cosa turbasse tanto il compagno. Quando furono lassù, notò che Damianu di tanto in tanto lanciava un'occhiata verso la cima, verso la "tomba del gigante" ma subito ne distoglieva lo sguardo, quasi come un ragazzo che spia la nudità di una ragazza ma teme di essere scorto e se da una parte non riesce a trattenersi, dall'altra se ne vergogna. Ma quella di Damiano non era vergogna: gli faceva più pensare allo sguardo di un ladro che tema d'essere colto con le mani nel sacco.

Così, in un momento in cui poté appartarsi con Damianu, gli chiese: "Che hai? Da quando s'è deciso di venire quassù sei diventato strano. E ora lo sei pure più di prima."

"Niente, cose mie." rispose Damianu, non con durezza, ma piuttosto con dolore.

"Le altre volte che siamo venuti quassù... con la nostra famiglia... eri allegro e felice. Sono i ricordi che ti angustiano, Damianu?"

"T'ho detto che non è niente, no?" insisté il ragazzo.

"Tra noi due... non è meglio se non ci sono segreti? Se ci apriamo il cuore? Tu non hai che me e io non ho che te... e Renzino ha solo noi due. O restiamo uniti, tutti e tre, oppure..."

Damianu abbassò il capo e infine, con voce bassa e esitante, gli raccontò di quando era salito lassù, fin quasi alla "tomba del gigante", assieme a Ettore, e di quello che era accaduto fra di loro, di come tutto fosse cominciato proprio in quel luogo.

Matteo annuiva: sì, ora capiva che cosa stesse provando il suo compagno: "Ma quindi, questo posto ha solo ricordi belli, per te."

"Che mi fanno sentire anche di più la mancanza di Ettore. Ma mi fa capire anche quanto m'ero illuso su di lui."

"Perché illuso? Lui ti amava. Tanto da non volerti far morire con lui. Se ti avesse fatto morire con lui, sarebbe stato solo egoismo. Io non sapevo che cosa avesse in mente, non lo potevo immaginare, o avrei agito diversamente, Damianu, te lo giuro. Però io so che ha pensato a te, al tuo bene. Io ne ho le prove."

"Prove? Che prove?" gli chiese Damianu guardandolo accigliato.

Matteo infilò una mano nella tasca interna della sua corta giacchetta di panno nero e ne tirò fuori un foglietto gualcito che porse all'amico. Damiano aprì il foglio e appena riconobbe la scrittura di Ettore le sue mani iniziarono a tremare. A voce bassa, rotta dall'emozione, lesse le parole che Matteo conosceva quasi a memoria, perché di nascosto di Damianu le aveva lette e rilette moltissime volte.

"Matteo, per l'amore di dio e di nostro padre, devi prendere con te Damianu e Renzino, e portarli assolutamente su da zio Cosimu, prima che faccia sera e dovete dormire lì. È di estrema importanza! Non dire nulla a nessuno di questo biglietto. Non mi tradire, almeno tu. Capirai il perché entro domattina. Mi raccomando, Matteo, conto su di te, non mi tradire e fa' quello che ti chiedo! Tuo fratello Ettore."

Damianu strinse il foglietto in mano appallottolandolo. Poi, il volto scuro come un cielo che annuncia la tempesta, andò verso il fuoco che Tonino aveva acceso e ve lo gettò dentro. Restò a guardare il foglietto ridursi in cenere. Poi si girò verso Matteo, e con voce bassa e debole, lo ringraziò.

Matteo si chiese se avesse fatto bene o male a dare il foglietto all'amico, se leggerlo avesse fatto bene o male a Damianu. Si chiese perché l'amico l'avesse gettato nel fuoco... Lui, al posto di Damianu l'avrebbe conservato come una reliquia e invece il suo amico l'aveva distrutto per sempre.

A notte, mentre Renzino dormiva, nel buio della loro stanzetta, Matteo gli chiese: "Perché l'hai bruciato?"

"Perché Ettore s'è lasciato bruciare. Perché se n'è andato senza di me. Sì, a modo suo mi amava, sono d'accordo con te. A modo suo."

"Ognuno non può che amare a modo suo, Damianu." gli sussurò Matteo dal buio.

"Ma chi ama condivide tutto con l'amante, tutto, non solo la vita, ma anche la morte."

"No, non sono d'accordo: tu una volta m'avevi detto che avresti dato la tua vita per lui, per dargli la felicità, per dargli la vita. Se tu saresti stato pronto al sacrificio per lui, perché non accetti il suo sacrificio per te?"

"No, Matteo: lui non s'è sacrificato per me. Lui s'è ucciso, e ha fatto morire i suoi, perché non sapeva reggere alla vergogna di aver contribuito alla rovina della famiglia e di non essere stato capace a tirarla fuori dai problemi. Lui s'è ucciso per debolezza, per vergogna, per non sentirsi condannare dai suoi e per... per vigliaccheria. E non ha neppure avuto il coraggio di affrontarmi, di darmi la possibilità di scegliere se lottare contro la sua decisione o se lasciarmi porre fine a tutto assieme a lui."

"Sei crudele a dire questo di Ettore, Damianu."

"Sì... sì lo so... perché lui è stato crudele con me."

"Non riesci a perdonarlo?" gli chiese Matteo.

"Perdonarlo?" chiese Damianu sorpreso. "Perdonarlo... Non gli serve più, ormai, il mio perdono."

"Questo non lo so, forse gli serve, forse no." commentò Matteo, "Ma una cosa so, di una cosa sono sicuro, Damianu. Perdonarlo serve a te, farebbe del bene a te. Sei tu che hai bisogno di perdonarlo, per non continuare a farti del male."

"E se io volessi farmi del male?" chiese il ragazzo in tono di sfida.

"Ne faresti anche a Renzino... e ne faresti anche a me... e ripeteresti proprio lo stesso sbaglio che stai rimproverando a Ettore."

Damianu non rispose. Ma si chiese perché, oltre a ricordargli la sua responsabilità verso il bambino, responsabilità che lui sapeva bene di avere e che aveva accettato, continuava a mettercisi di mezzo anche lui. Che responsabilità poteva avere lui, verso Matteo? Da che traeva questa convinzione il suo compagno?

Matteo, rannicchiato sotto la sua copertella, stava pensando a Damianu: se prima della notte dell'incendio aveva avuto modo di conoscerlo, osservarlo, desiderarlo, ma tutto sommato in casa Dore aveva avuto una vita non proprio collegata, anzi piuttosto indipendente da quella dell'altro servo, ora passavano assieme praticamente tutte le loro giornate e le loro vite erano strettamente intrecciate.

Questo da una parte gli faceva sentire sempre più forte l'attrazione verso Damianu, e non solo fisicamente, ma dall'altra capiva di non avere speranze fin tanto che il compagno si sentiva così legato, focalizzato, in bene e in male, al suo fratellastro, a Ettore.

Ettore s'era, in qualche modo, sempre interposto fra lui e Damianu, anche se non volontariamente, anche se inconsapevolmente, e ancora s'interponeva fra loro. Questa era una forte differenza fra lui e Ettore: il fratellastro era abituato a prendersi ciò che voleva, senza pensare alle conseguenze. Matteo, nonostante fosse un ragazzo allegro e spensierato, in realtà era abituato a pesare sempre attentamente le conseguenze di quello che faceva.

E ora, nonostante la crescente attrazione che provava verso quel ragazzo che stava dormendo accanto a lui, separati solo dal piccolo Renzo, Matteo sapeva che doveva aspettare, che doveva trattenersi, che non doveva lasciar trasparire né i suoi desideri né i suoi sentimenti. Ma per quanto avrebbe dovuto attendere? Quanto a lungo avrebbe saputo aspettare?

Dal giorno dell'incendio Matteo non aveva più avuto incontri di sesso e cominciava a sentirne la manacanza. Sfogarsi da solo di tanto in tanto, lo sapeva bene, non era che un palliativo. E quando lo faceva, se prima nelle sue fantasie c'era solo una indistinta immagine di maschio, ora c'era sempre e solo Damianu. Il suo compagno non era il più bello né il più sensuale paragonato ai ragazzi con cui aveva fatto l'amore, eppure nessuno l'aveva mai attratto così tanto sia sul piano fisico che come personalità.

Matteo pensava che forse l'idea di trasferirsi a Lula, lontano da Arbatax e da tutto quanto ricordava la loro vita passata, poteva essere positivo anche per quello... poteva forse avvicinare ulteriormente Damianu a lui, creare le condizioni perché fra loro, o meglio in Damianu, scattasse quella molla liberatoria che permettesse a tutti e due di prendersi cura l'uno dell'altro anche sul piano dell'affetto, del sentimento, dell'unione fisica.

Essendo sempre stato estremamente onesto con se stesso, condizione questa indispensabile per essere onesti con gli altri, Matteo si chiedeva fino a che punto il proprio desiderio di stringere fra le braccia Damianu, di fare l'amore con lui, venisse dal "gusto del proibito" o da un'effettivo desiderio di dare e ricevere amore. Matteo sapeva bene che quando un cibo è proibito, uno nella mente se lo figura anche più saporito e gustoso di quanto effettivamente sia.

Un'altra cosa Matteo capiva bene: la differenza fra lui e Damianu. Lui aveva vissuto tutte le sue relazioni sessuali, fino a quel momento, solo come una serie di piacevoli incontri. Damianu invece, per quanto ne sapeva, aveva conosciuto un solo uomo, un solo intenso e grande amore. Damianu s'era dato totalmente ed esclusivamente a Ettore che era stato il suo primo e unico uomo.

Questo però non spaventava il bel ragazzo, anzi, pensava, era ora che anche lui si desse totalmente ed escusivamente a un altro... e che quest'altro poteva essere proprio Damianu. Era ora che smettesse di volare di fiore in fiore per dedicarsi completamente a coltivare quell'unico fiore che aveva al tempo stesso così a portata di mano eppure così irraggiungibile, almeno per il momento.

Quando Tonino dovette tornare alla miniera, i due ragazzi affidarono Renzino a Rosa e intrapesero il viaggio col marito della donna fino a Lula.

Renzino, prima che partissero, aveva chiesto loro: "Ma tornate, no? Non mi lasciate qui, vero?" e i suoi occhioni esprimevano un'intensa preghiera e un vago senso di angoscia.

"Certo che torniamo, noi due non ti lasceremo mai!" gli aveva detto Damianu, accoccolato davanti al bimbo, stringendolo a sé e carezzandogli la testa troppo grande con evidente affetto. "Matteo e io non ti lasceremo mai, mai, promesso!" gli ripeté con dolcezza.

Matteo provò un senso di piacere e di gioia nel sentire Damianu palare di loro due e non solo di se stesso, promettere a nome di tutti e due. Anche lui si accoccolò accanto ai due e li cinse in un lieve abbraccio, appoggiando la fronte contro quella di Renzino e Damianu.

"Sì, noi tre siamo una famiglia, non ci separermo mai, Renzino." disse Matteo.

"Non andate anche voi due lassù col babbo e con la mamma?" chiese il piccolo.

"Non per nostra scelta, non di nostra volontà." gli sussurrò Damianu.

Lungo la strada, Tonino disse loro: "Vi siete presa una bella responsabilità, ragazzi, a provvedere a quel povero piccolo. Avete del fegato, lo devo ammettere."

"Quando la vita ti mette sulle spalle un fardello, non te lo puoi scrollare di dosso. Specialmente quando questo fardello è la vita di un piccolo che non ha più nessuno che si prenda veramente cura di lui." disse Damianu.

"Credo che abbiate avuto una buona idea a venire a parlare coi padroni, specialmente se tu, Damianu, ci sai veramente fare in cucina." disse Tonino cambiando discorso.

"Pensi che i padroni ci diranno di sì? Anche se non è che abbiamo abbastanza denaro per cominciare?" gli chiese Matteo.

"Se accettano l'idea, se pensano di guadagnarci, sono sicuro che saranno loro a investire anche in questo. Certo è che noi minatori ne saremmo felici. E se noi siamo contenti, si lavora più di buona lena. Perciò i padroni non potranno che esserne soddisfatti." rispose Tonino.

Giunsero in vista della ferita che forava la montagna e attorno a cui s'affacendavano minuscole figure in un incessante viavai. Damianu pensò al formicaio che s'era fermato a osservare con Renzino dopo il funerale. "Sì..." si disse il ragazzo, "in fondo che siamo noi se non formiche che s'affannano tutto il giorno, mentre qualcuno dall'alto ci osserva incuriosito. Qualcuno che ci può schiacciare come se nulla fosse, o dimenticarsi di noi dopo pochi minuti."

Man mano che s'avvicinavano alla loro meta, sulle pendici del monte Arbu, la strada di terra battuta, incessantemente percorsa dai carri trainati da grossi e forti, lenti cavalli mansueti, carri pieni dei blocchi estratti dalla miniera di piombo e zinco, invece d'essere bianca come tutte le altre diventava grigia per i pezzetti che tracimavano dai bordi e la polvere che trafilava dalle fessure del fondo, sì che era ormai un lungo nastro grigio scuro.

Incrociando i carri che salivano vuoti e scendevano carichi, Tonino ne salutava i conducenti con un gesto, un saluto oppure una battuta di spirito: pareva che conoscesse tutti e che tutti lo conoscessero. Uno dei conducenti fece fermare per un attimo il cavallo.

"Ohilà, Tonino! Porti su nuove braccia? C'è già la coda, sai, appena s'è sparsa la voce che cercano altri uomini per lavorare nel budello! Giovanni e vecchi... c'è di tutto. Quando manca il pane, si corre ovunque si riesce a rimediare un po' di lavoro."

"No, vengono su per vedere se si può finalmente aprire la cantina." rispose Tonino, "Sono bravi a cucinare e se i padroni accettano, finalmente si potrà mangiare da cristiani! Sono su i padroni?"

"Ah, bene, bene! Sì, i Pisanu ci sono, don Bastiano e don Zua. Don Egidio è restato giù in paese." gli rispose il carrettiere.

"Chi veramente piglia tutte le decisioni è don Zua Pisanu, perciò siamo fortunati." rispose Tonino allegramente. "Beh, dio t'accompagni, Severo!"

"E accompagni voi pure. E se oltre al buon cibo avrete pure buon vino e qualche mazzo di carte da scopa, tutti noi carrettieri diventeremo certamente vostri buoni clienti, ragazzi." rispose l'uomo e fece ripartire il cavallo.

Giunti a poca distanza dalla miniera, Tonino indicò loro la bicocca, poi, poco più oltre, le baracche dei lavoratori e quella dei sorveglianti. Tutto era coperto da una fine polvere grigia, che dava un aspetto surreale alla scena. Davanti alla baracca dei sorveglianti v'era una lunga coda di uomini di ogni età, silenziosi e in fila indiana, il primo dei quali stava parlando con tre uomini seduti dietro a un tavolo.

"Quello seduto a sinistra è don Zua, quello a destra è don Bastiano, e quello in centro è il capo dei sorveglianti, ziu Castigu." spiegò Tonino. "Voi aspettatemi qui, ragazzi, che vado a parlare con don Zua."

I ragazzi studiarono i tre uomini, specialmente quel don Zua da cui pareva dipendesse tutto. Era un uomo corpulento, indossava alti stivali neri con gli speroni, calzoni neri, un'ampia camicia bianca e la fusciacca di seta rossa. Aveva poi un corto gilé nero aperto davanti, tutto filettato in verde come i calzoni. In testa il solito alto cono di feltro nero ripiegato a destra della testa.

L'uomo aveva capelli brizzolati e fittamente ondulati, sopracciglia folte e cespugliose, un naso forte, labbra leggeremente carnose e un acceno di doppio mento. Mentre Tonino gli parlava girò gli occhi verso i ragazzi: erano stranamente chiari, parevano slavati dalla pioggia e scoloriti dal sole, eppure erano incredibilmente penetranti.

Don Zua Pisanu si sollevò dalla sedia quasi a fatica, ma poi si mosse con passi sorprendentemente svelti e sicuri.

"Salute a voi, ragazzi. Mi si dice che sareste disposti a mettere su una cantina per i nostri uomini, là alla bicocca."

"Sì, don Zua Pisanu. Damianu è esperto in cucina, traffica con pentole e fornelli, con spiedi e sapori fin da ragazzino, e tutti e due siamo buoni lavoratori." gli disse Matteo.

"E verreste a vivere quassù solo voi due... o vi portereste qualcun altro?" chiese l'uomo soppesandoli con lo sguardo.

"Porteremmo su anche mio nipote, il figlio orfano di mio fratello. È un ragazzino di sette anni." rispose Matteo.

"E voi due siete fratelli?" chiese ancora l'uomo.

"No, Damianu è mio zio... anche se è più giovane di me," spiegò Matteo con un lieve sorriso, "infatti è stato adottato da mio nonno."

L'uomo annuì per dire che aveva capito, poi chiese: "Ma di che famiglia siete?"

"Siamo Dore, i Dore di Arbatax." rispose Matteo con una certa fierezza.

"Ah... ho saputo della terribile disgrazia... Ai tempi di mio nonno, la vostra famiglia era più ricca della mia. Siete proprio mal ridotti, se per campare oggi dovete mettere su una cantina. Mi dispiace, ragazzi, che siate ridotti così. Ma così è la vita, i figli pagano per gli sbagli dei padri. Non basta essere ricchi, bisogna anche saper far fruttare la ricchezza e non sperperarla e i vostri vecchi non l'hanno saputa amministrare."

"Quello che è stato è stato. Ci permettete di aprire la cantina quassù alla miniera?" chiese Damianu per tagliare corto quel discorso che non gli piaceva sentirsi fare.

"Se ne può parlare. Sì, se ne può parlare. Venite, dunque." disse l'uomo guardandoli con aria grave, e si avviò verso la bicocca.


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