logoMatt & Andrej Koymasky Home
una storia originale di Andrej Koymasky


VIAGGIO VERSO
SE STESSO
CAPITOLO 1
UN RAGAZZO QUALSIASI
DI UN QUALSIASI PAESE

La storia che vi voglio raccontare riguarda un ragazzo di nome Giovanni, chiamato Gio dagli amici e Vanni dalla famiglia. Giovanni è un qualsiasi ragazzo nato e vissuto in un qualsiasi paese di campagna, che potrebbe essere nel nord Italia, o al centro o al sud.

Ma prima di parlarvi di Giovanni, vi voglio descrivere per sommi capi il suo paese, perché possiate capire meglio lo svolgimento della sua storia.

Il suo, come ho accennato, è un piccolo paese di campagna. Sorge sulle pendici di un colle, sulla cui sommità si ergono le rovine di un antico castello. A partire dal castello e giù giù verso valle, si svolge il paese, le cui case più antiche, che risalgono al 1200, sono più in alto e le case più moderne sono via via verso valle. Il paese è traversato da una stretta e antica via principale che si snoda in tornanti arrampicandosi fino alle rovine del castello.

A valle, dove sorgono le case costruite fra l'inizio del 1900 e i giorni nostri, vi sono due piccoli laghi, uno un po' più grande e uno un po' più piccolo, separati solo da una striscia di terra su cui corre una strada, quella che poi entra in paese. Due torrenti alimentano il lago grande, e uno ne esce, portando via l'eccesso di acqua.

Chi guardasse la carta topografica, potrebbe anche leggervi sia il nome dei due laghi che dei tre torrenti, ma la gente del luogo o non li conosce o non li usa. Infatti i due laghi sono chiamati rispettivamente "Lago Grande" e "Lago Piccolo", o anche "Lago Bello" e "Lago Morto", o infine anche "Lago Azzurro" e "Lago Nero". Quanto ai tre torrenti, sono chiamati "Torrente di Sopra" e "Torrente di Sotto" i due immissari del lago più grande, e "Torrente di Mezzo" è il nome popolare dell'emissario dello stesso lago. Il lago piccolo non ha né immissari né emissari e comunica con il lago grande grazie a una fessura naturale completamente sommersa, che passa sotto la strada che li separa.

Fra il Torrente di Sotto e quello di Mezzo, fino alla riva del lago grande, c'è un bosco abbastanza folto. Fra il Torrente di Sopra e quello di Mezzo ci sono campi ben coltivati, come pure attorno al lago piccolo. Qua e là nei campi, vi sono gruppi di cascine dove vivono i contadini. Non sono vere frazioni, ogni gruppo è abitato da una famiglia allargata a tre, massimo quattro famiglie di contadini. Ogni gruppo di case ha un nome, preceduto dal toponimico "Tetti".

Ci sono così i Tetti Castagno, che prendono nome da un enorme e antichissimo castagno, i Tetti Pozzo, perché si dice che il pozzo che c'è fra le case sia il più antico del circondario, pare infatti che risalga addirittura a prima della colonizzazione di queste terre da parte dei legionari romani; Tetti Madonna, perché accanto alle case sorge un venerabile pilone con dentro l'effigie della Madonna Assunta; Tetti del Prete, perché quella porzione di terre un tempo apparteneva alla chiesa parrocchiale del paese; Tetti Bernardo, perché pare che il primo a istallarsi in quelle terre, attorno al lontano 1400, fosse un tale che si chiamava Bernardo, e così via.

Oltre alla vecchia chiesa parrocchiale, che sorge subito sotto il castello e che fu costruita attorno al 1330, sulla riva del lago grande c'è la chiesa dei Salesiani, il Santuario della Madonna del Lago, con annessa una scuola tecnica e il campo sportivo, che è di fatto in condominio fra il comune e i Salesiani, essendo stato costruito sul terreno dei Salesiani e con fondi del comune. Da una parte del complesso salesiano c'è l'imbarcadero, che oltre a barche da prendere a nolo offre anche un bar e un ristorante, e dalla parte opposta, verso il torrente di sopra, c'è una sala da ballo a due piste, una per il liscio, per la gente di mezza età, e una per i giovani, in cui un DJ fa andare musica moderna. Il "dancing", come lo chiamava la gente del luogo, apre solo la sera, di giovedì, sabato e domenica.

La parrocchia su nel paese vecchio, ha anche un cinema nel sotto-chiesa. Un nuovo cinema è stato costruito nel 1932, durante il periodo fascista, nella parte nuova del paese, non lontano dal santuario dei Salesiani. Infine, nel 1995, è stato costruito un moderno centro commerciale, oltre il ponte sul torrente di sopra, lungo la strada che porta al capoluogo di provincia. Il capoluogo dista solo ventiquattro chilometri dal paese.

La strada che dal capolugo costeggia il lago grande, sotto il colle e dalla parte opposta del bosco, traversato il bivio che porta al paese vecchio, continua poi su verso la montagna, costeggiando il lago piccolo, salendo quindi verso l'antica abbadia benedettina che la gente chiama Sagra dei Santi Angeli. Non ci sono più i benedettini su alla Sagra, ma è stata affidata dal vescovo, da un secolo circa, a una comunità di frati trinitari, che da una ventina di anni ne hanno fatto un centro, abbastanza rinomato, di incontri ecumenici. L'abbadia dista dal paese poco più di otto chilometri.

Come ultima cosa, posso dirvi che il livello dei laghi è sui trecento metri sul livello del mare, le rovine del castello sono a cinquecento ventitré metri sul livello del mare e l'abbadia è poco al di sotto dei mille metri.

Credo che, per ora, quanto vi ho detto sia suficiente per darvi un quadro d'insieme del paese in cui è nato il nostro Giovanni, il 13 febbraio del 1976, alle due di notte, cioè il giorno prima della festa di San Valentino.

Giovanni è nato in una famiglia di contadini che abita a Tetti Malvento, un gruppo di tre cascine che sorge alle spalle del castello, su verso nord. La sua famiglia era una delle più povere del circondario, e la loro cascina la più malandata delle tre. I campi rendevano appena quel tanto che permetteva di condurre una vita non troppo grama, ma non certo agiata. Basti dire che, quando Giovanni nacque, la sua famiglia era forse l'unica a non avere ancora né telefono né televisore.

Quel 13 febbraio era una notte molto fredda, i campi erano coperti di abbondante neve, e la levatrice tardò ad arrivare. Perciò la madre di Giovanni partorì con l'assistenza delle vicine di casa. La levatrice giunse a cose fatte, appena in tempo per assicurarsi che il piccolo stesse bene e che alla madre fosse stata tolta completamente e bene la placenta.

La donna, esaminato il neonato, si rivolse alla madre: "Il piccolo è sano e bello, Teresa, e ha un bel pisellino che quando sarà grande farà felici parecchie ragazze! Quanto a voi, siete una donna forte. Tenete il letto qualche giorno, per rimettervi completamente. Tanto con questa neve e questo freddo avete pochi lavori da fare."

"Una donna forte, sì, una mula da fatica." si lamentò la puerpera.

"Eh, non vi lamentate. Dopotutto questo è il vostro quinto figlio, e stanno crescendo tutti forti e belli." le disse una delle vicine.

"La bellezza non dà da mangiare, però." continuò a lamentarsi Teresa.

Il padre di Giovanni, che attendeva seduto in cucina, aveva preprato una tazza di vino caldo con un po' di cannella per la levatrice, che lo bevve volentieri.

"Quanto vi devo, per il disturbo?" le chiese, pensando che erano soldi buttati via, visto che era arrivata in ritardo e che il piccolo era nato senza il suo aiuto.

"Niente, niente, Giuseppe, dopotutto era già nato, vostro figlio, quando sono arrivata. Se non c'era tutta questa neve e se stavate di casa meno lontano, magari arrivavo in tempo. Teneteli quei soldi, ne avete più bisogno voi che io." rispose la donna.

L'uomo, invece di esserle grato, si sentì urtato dalla risposta della levatrice, perché interpretò le parole come se lei gli rinfacciasse la sua povertà. "La terra è matrigna, qui a Tetti Malvento. Uno fatica e fatica, per ricavare poco più di niente. Tetti Maledetti, dovevano chiamarle queste case, ve lo dico io."

"Eh via, Giuseppe. Dopo tutto avete cinque figli maschi, dieci buone braccia per lavorare con voi la terra, fra qualche anno. Pensate alla Marilena di Tetti Gabella, che ha avuto solo femmine: oltre a poter dare poco aiuto nei campi, deve pure pensare a preparare loro la dote per accasarle." gli rispose la levatrice, infilandosi la pelliccetta di finto visone e serrandosi attorno al collo la lunga sciarpa di lana. "Statemi bene, Giuseppe. E fate in modo che vostra moglie si riposi almeno due o tre giorni."

"E chi mi fa i lavori di casa?" borbottò l'uomo rimettendosi a sedere, e riempiendosi un'altra tazza di vino caldo.

Un ragazzino scarno, alto un cacio e un soldo, a piedi nudi, i capelli arruffati e con indosso solo una lunga camicia di flanella troppo grande per lui, si affacciò sulla porta, stropicciandosi gli occhi: "Papà, è nato?"

"Sì, Angelo. Torna subito a letto. Ci mancherebbe che ti pigli un malanno, con quello che costano le medicine!"

"Ma è una femminuccia o ..."

"No, un maschietto."

"O cavolo, un altro! Io volevo una sorellina!"

Una delle vicine, che era entrata in cucina, lo sentì e rise: "Angelo, i bambini mica si vanno a scegliere al mercato! Uno deve accettare quello che gli manda il buon Dio, no?"

"Ma io l'avevo pregato tanto, il buon Dio, e mica m'è stato a sentire!" protestò il piccolo Angelo, e tornò in camera a dormire, imbronciato.

Il neonato fu battezzato pochi giorni dopo col nome Giovanni. Mangiava e dormiva, dormiva e mangiava e si faceva grosso giorno dopo giorno, a vista d'occhio. Pareva avere un buon carattere, non frignava quasi mai, e si guardava attorno con i suoi grandi occhi limpidi, quasi volesse vedere ogni cosa che si muovesse o che emettesse rumore.

Quando fu capace di camminare a gattoni era già primavera inoltrata, e Giovanni razzolava nell'aia fra le galline, i gatti e i cani. Gli altri bimbi delle tre famiglie che abitavano a Tetti Malvento, quando giocavano alla guerra, usavano Giovanni per ricoprire il ruolo di prigioniero di guerra: lo mettevano in una cassetta che pomposamente chimavano "prigione". Quando le bimbe giocavano alle signore, lui era il figlio ora dell'una ora dell'altra. Quando bimbi e bimbe giocavano al dottore, lui era il paziente, che si divertivano a esplorare... sottoponendolo ad accurate visite, che spesso riguardavano quasi esclusivamente il suo pisellino. Quando infine giocavano a nascondino, si dimenticavano tutti di lui.

Giovanni cresceva forte e bello come aveva predetto la levatrice. La madre, man mano che cresceva, gli passava i vestiti dei fratelli maggiori, che essendo stati usati prima di lui da tutti gli altri quattro fratelli, erano ormai consunti e rattoppati, sì che parevano ormai fatti più di toppe che di buona tela.

Quando finalmente i genitori dovettero mandarlo a scuola, alla prima elementare, il sabato la madre lo portò al mercato e gli comprò i primi abiti nuovi, tutti per lui: un paio di jeans ed una maglietta, un paio di calze bianche e un paio di scarpe da tennis, le meno care che trovò sui banchi del mercato.

Così Giovanni cominciò ad andare a scuola. Il ragazzino amava la scuola, prima di tutto perché grazie a essa aveva i suoi primi abiti nuovi, che doveva però togliersi appena rientrava a casa, e poi perché le stanze della scuola erano belle, molto più belle delle stanze di casa sua.

Amava la scuola e gli piaceva il signor maestro, un giovanotto di ventiquattro anni, che era sempre molto gentile con tutti e che li faceva anche giocare a giochi sempre nuovi e interessanti. Perciò, per accaparrarsi le attenzioni del signor maestro, Giovanni si mise a studiare con impegno. Ogni volta che il signor maestro gli riservava una lode, il ragazzino si sentiva al settimo cielo. Il maestro gli riservava più sorrisi e gentilezze che non suo padre o sua madre, aveva più pazienza con lui che non i suoi fratelli. Sì, Giovanni amava molto la scuola.

Inoltre, a scuola, c'era anche una piccola biblioteca: Giovanni, appena ne fu in grado, sviluppò una vera passione per la lettura, sia delle storie che gli permettevano di volare con la fantasia, sia dei libri di storia, geografia o di scienze, che gli svelavano orizzonti e fatti nuovi, con cui arricchire la propria fantasia.

Quando Giovanni compì undici anni, prese la licenza elementare. Il maestro, dopo la cerimonia della consegna dei diplomi di quinta elementare, volle parlare con il padre e la madre del ragazzino.

"Giovanni è stato, per cinque anni, il migliore dei miei allievi. È molto intelligente, dovete farlo studiare. Me lo promettete?"

"Signor maestro, lo sa che fino a quindici anni siamo obbligati a mandarlo a scuola, no? I carabinieri pare che non hanno niente altro da fare che controllare che i nostri figli vanno a scuola!" gli rispose Giuseppe in tono scontroso.

"Sì, lo so. Ma quello che vi volevo dire è che, anche dopo che ha assolto l'obbligo scolastico, dovete continuare a mandarlo a scuola. Sarebbe un peccato che un ragazzetto in gamba e di valore come il vostro Giovanni dovesse smettere di studiare. Me lo dovete promettere."

"E che le devo promettere, signor maestro. Dipende da come andranno le cose. Se sarò in grado di mantenere una bocca da sfamare senza che produca, perché no? Se no, dovrà lavorare i campi come me e come mio padre e i miei nonni prima. Perciò non le prometto proprio niente. Vedremo."

"Anche se dovesse essere un sacrificio, signor Giuseppe, le garantisco che sarebbe uno sforzo che vale la pena di fare. Non si dimentichi le mie parole. Giovanni ha fame di istruzione."

"Ah, fame sì, ne ha sempre. Ma pagare la scuola costa più che fargli trovare il piatto pieno." commentò la madre. "E i libri non danno da mangiare, anzi, costano cari. Magari il signor maestro è stato fortunato, aveva una famiglia che si poteva permettere di farlo studiare."

Il maestro sorrise e scosse il capo, con un velo di mestizia negli occhi: "Non so chi siano mio padre e mia madre, sono cresciuto in orfanotrofio, io. E per studiare, ho sempre dovuto guadagnarmi sia il pane che i libri. Per questo io penso che, se avessi un figlio intelligente come il vostro Giovanni, preferirei fare la fame io pur di farlo studiare. E vi garantisco che io lo so bene che cosa significa fare la fame. Ve lo chiedo con tutto il cuore, fate il possibile e l'impossibile per far studiare Giovanni." concluse il maestro e, salutatili, andò a parlare con altri genitori.

Giovanni frequentò le scuole medie. Anche qui si fece onore, continuava a studiare con impegno e con piacere. Qui non c'era più un solo maestro, ma tanti professori, alcuni simpatici, altri meno, alcuni in gamba, altri meno. E nuovi compagni. A Giovanni piacevano abbastanza anche le lezioni di Educazione Fisica, e quelle di Applicazioni Tecniche. Le prime gli permettevano di svilupparsi fisicamente in modo più armonioso, le seconde gli davano una manualità che gli permetteva di dare espressione alla sua fantasia.

Ormai grandicello, le lezioni di Educazione Fisica esercitavano un altro fascino su Giovanni: gli piaceva, quando andavano tutti assieme a farsi le docce, poter sogguardare i corpi nudi dei suoi compagni: alcuni erano più sviluppati di lui, altri erano ancora bambini. Lui guardava con malcelato piacere i corpi dei più grandi: anche se fra le gambe, come aveva previsto la levatrice, madre natura l'aveva fornito senza lesinare e senza esagerare ma senza fargli mancare nulla, i suoi compagni più sviluppati avevano corpi non più troppo efebici, che stavano maturando verso la piena virilità, che gli piacevano molto. Non vedeva l'ora di svilupparsi anche lui così.

Se all'inizio quell'ammirazione era un fatto più che altro estetico, dopo che Giovanni ebbe varcato la soglia della pubertà, cominciò a colorarsi, senza che se ne rendesse conto, di un contenuto sessuale. Stava frequentando la terza media quando un compagno di classe, che era riuscito ad appartarsi con lui nel magazzino degli attrezzi della palestra della scuola, gli insegnò a masturbarsi. Fu così che Giovanni, quasi ogni sera a letto, si masturbava, godendosi quelle gradevoli sensazioni. Inoltre, quando qualche rara volta riusciva ad appartarsi con quel compagno, si masturbavano l'un l'altro e questo per Giovanni era anche più gradevole che farlo da solo.

Preso anche il diploma di terza media, contro ogni aspettativa, il padre decise di iscriverlo all'istituto tecnico di agraria, che aveva la sede nel paese limitrofo. Giovanni ebbe così la sua prima bicicletta, comprata di seconda mano, con cui pedalava lungo la statale per coprire i quattro chilometri che lo separavano dalla scuola.

Per Giovanni questo fu un cambiamento importante. Per prima cosa, il bel ragazzetto dai capelli castani, appena mossi come le acque del lago quando soffiava la gentile brezza del primo autunno, conobbe una realtà diversa da quella del proprio paese: per la prima volta in vita sua andava "fuori", andava così lontano. Inoltre, nell'istituto, incontrò ragazzi che provenivano da paesi diversi, qualcuno persino dal capoluogo. Oltre a continuare a studiare con la sua consueta buona volontà, Giovanni entrò anche a far parte della squadra di calcio che i professori di ginnastica dell'istituto avevano organizzato.

Qui conobbe un altro Giovanni. Fu così che, poiché l'altro Giovanni era chiamato Gianni, lui fu chiamato Gio, e non Vanni come lo chiamavano quelli di casa. Gio gli piaceva di più, come diminutivo, che non Vanni. E Gianni gli piaceva più di tutti i suoi compagni di istituto.

Giovanni frequentava il secondo anno quando conobbe Gianni, che invece frequentava già la quarta, essendo di due anni più grande di lui. Due aspetti di Gianni esercitarono uno speciale fascino su Giovanni: una era il suo corpo già quasi da adulto, tanto bello per il nostro eroe da fargli quasi mancare il fiato quando lo poteva osservare. L'altra era che Gianni gli ricordava il suo maestro delle elementari: non che gli somigliasse fisicamente, ma aveva lo stesso sorriso e un carattere molto simile.

Così il nostro Giovanni, inconsciamente, cominciò a fare la corte al bel Gianni, nel senso che faceva sempre del tutto per stargli vicino e per rendersi utile al suo più grande compagno, in ogni modo. Gianni era il capitano della squadra di calcio dell'istituto, e presto prese a ben volere quel ragazzino appena entrato nella squadra: aveva per lui sempre un occhio di riguardo, gli insegnava i "trucchi" del gioco, lo consigliava e lo incoraggiava, vedendo in lui la stoffa per diventare un buon giocatore di calcio.

Gianni era senza dubbio il migliore, tanto che qualche procuratore di squadre giovanili gli aveva già messo gli occhi addosso e lo teneva d'occhio aspettando il momento opportuno per farlo iscrivere alla federazione per inserirlo in una squadra del campionato. Se non era ancora accaduto, era solo perché i genitori di Gianni volevano che prima il figlio prendesse il diploma: dopo tutto mancavano solo un paio di anni.

Uno dei momenti più belli per Giovanni, era quando, calcolando bene i tempi, riusciva ad andare a fare le docce contemporaneamente a Gianni: poteva almeno ammirarne le nudità a proprio agio. Questo, spesso, gli procurava delle piacevoli erezioni, ma Giovanni, superato l'imbarazzo delle prime volte, non se ne curava: capitava spesso anche a molti dei suoi compagni di squadra, e i ragazzi ci scherzavano sopra, con allusioni sessuali più o meno velate, ma senza cattiveria, anche se con una certa malizia. Quando però era Gianni ad avere una bella e vistosa erezione, il cuore di Giovanni accelerava incredibilmente i battiti: il suo "capitano" gli sembrava, in quelle occasioni, più bello che mai.

Perciò spesso, la notte nel suo lettino, Giovanni si masturbava chiudendo gli occhi e immaginando che fosse la mano di Gianni a masturbarlo, mentre lui lo faceva al suo idolo. Gli sarebbe piaciuto poter stringere nella propria mano il bel membro del suo bel capitano! Le sue fantasie non andavano molto più in là. Non che non sapesse che si potevano fare anche altre cose: a volte i compagni, fra di loro, usavano battute tipo: "succhiamelo"... oppure: "attento che te lo metto in culo"... e sapeva che c'era anche chi davvero lo faceva, gente che i compagni chiamava froci, o ricchioni, o buchi o... insomma gente a cui le donne non interessavano e che lo facevano solo fra maschi.

Sì, Giovanni aveva imparato presto queste cose, e qualche volta si era anche chiesto che cosa si potesse provare a farlo, ma poiché i compagni ne parlavano se non con scherno almeno con ironia o sarcasmo, capiva che doveva essere qualcosa da evitare. Perciò questi altri aspetti dell'intimità non entrarono mai a far parte delle sue fantasie erotiche. L'unica sua esperienza in quel campo erano state le poche volte in cui s'era reciprocamente masturbato, con piacere, col il suo compagno delle medie, perciò questo era quanto fantasticava di fare con il suo idolo, con Gianni.


Era il tardo pomeriggio di un giorno del mese di novembre, i ragazzi avevano appena terminato gli allenamenti nel campetto di calcio adiacente all'istituto ed erano tutti sciamati negli spogliatoi per lavarsi e cambiarsi. Lo spogliatoio era una grande stanza con armadietti di metallo lungo tre pareti e una doppia fila nel centro che divideva gli spogliatoi in due parti, formando così come una grande "E" maiuscola stampatello. Nelle due zone libere c'erano panche di legno. Giovanni era riuscito ad avere un armadietto vicino a quello di Gianni. Gli altri ragazzi erano già tutti o nella limitrofa stanza delle docce, o negli spogliatoi, ma dall'altra parte. Dalla parte in cui c'erano gli armadietti di Gianni e di Giovanni c'erano solo i due ragazzi.

Giovanni aveva appena aperto il proprio armadietto per prendere l'asciugamano per andare a fare la doccia, e stava per iniziare a togliersi l'uniforme della squadra, quando Gianni lo toccò alle spalle. Giovanni si girò. Gianni gli stava quasi addosso. Prese Giovanni per le braccia, gli si premette addosso, e lo baciò in bocca.

Giovanni, colto di sorpresa, in un primo momento si irrigidì, poi, la testa in fiamme e il cuore in tumulto, si arrese a quell'inatteso bacio, che gli sembrò dolcissimo e bellissimo. Gianni staccò le labbra dalle sue e accostando la bocca a una sua orecchia gli sussurrò: "Ti è piaciuto?".

Giovanni ebbe solo la forza di annuire: si sentiva rosso in viso, si sentiva tutto il corpo ardere e si sentiva debole debole come uno che ha la febbre addosso. Gianni gli premette il bacino addosso, facendogli sentire la propria erezione: "Senti che effetto mia fai! Ti piace?"

Giovanni annuì di nuovo: certo che gli piaceva, però... "Se ci vedono gli altri..." mormorò confuso.

"No che non ci vedono... Gio, vuoi diventare il mio ragazzo?"

Giovanni spalancò gli occhi: "Il tuo ragazzo?" sussurrò con voce impercettibile.

"Lo so che ti piacerebbe... ho visto come mi guardi sempre. Vuoi?"

"Il tuo ragazzo..." ripetè Giovanni con voce di sogno, non credendo alle proprie orecchie, alla sua fortuna. "Il tuo ragazzo?" chiese ancora. Sentiva i compagni vociare dall'altra parte degli armadietti, sentiva che erano entrambi in pericolo: cosa sarebbe successo se qualcuno fosse arrivato in quel momento? Perciò si affrettò a rispondere: "Sì. Sì, certo. Sì."

Gianni lo baciò di nuovo, gli sorrise e finalmente lo lasciò. I due ragazzi si tolsero tutto di dosso e, con l'asciugamano davanti al pube per nascondere le loro erezioni, andarono finalmente a fare la doccia. Giovanni si mise sotto l'acqua, questa volta voltando le spalle agli altri, sperando che la sua erezione se ne andasse in fretta: aveva quasi l'impressione che questa volta, se gli altri avessero notato la sua erezione, avrebbero capito che cosa era appena accaduto fra lui e Gianni. Era un timore, un pensiero assurdo, ma Giovanni era ancora talmente turbato da non essere capace di pensare razionalmente.

Solo una voce dentro di lui continuava a ripetere, anzi, a cantare: "Gianni mi vuole. Vuole che io sia il suo ragazzo. Gianni mi vuole come ragazzo. Gianni vuole me. Gianni ha scelto me. Il suo ragazzo, io. Gianni... oh Gianni!"

Giovanni non era più tanto ingenuo da non capire che cosa questo significasse: Gianni voleva fare l'amore con lui. E lui, anche se fino ad allora non ci aveva mai pensato in modo esplicito, era prontissimo a fare qualsiasi cosa Gianni avesse voluto da lui. Proprio qualsiasi cosa. Anche... ma sì, anche prenderglielo in bocca o lasciarselo mettere nel culetto, concluse Giovanni dentro di sé. A questi pensieri il suo membro, che stava iniziando finalmente ad afflosciarsi, riprese vigore e Giovanni si sentì nuovamente un forte calore addosso, non dissimile da quello che aveva provato quando poco prima Gianni l'aveva baciato.

Baciato! Dio quant'era stato bello quel bacio. A Giovanni pareva ancora di sentirne il sapore in bocca. Sì, Gianni baciava proprio bene. Anche se Giovanni non aveva mai baciato, non era mai stato baciato da nessuno, sentiva che Gianni sapeva baciare bene, semplicemente lo sapeva.

Terminata la doccia, Giovanni si asciugò e uscì. Vide che Gianni lo seguiva. Giunti ai loro armadietti, c'erano altri due compagni che si stavano rivestendo, perciò sia Gianni che Giovanni non si dissero nulla, ma scambiarono qualche battuta con gli altri. Giovanni quasi non guardava Gianni, per paura di tradire di fronte agli altri quello che stava provando. Aveva ancora la testa, e il cuore, in subbuglio.

"Ehi, Gio, mi stai a sentire? Dove ce l'hai la testa? Sabato dopo la partita, ci vieni o no in pizzeria con noi?" gli chiese uno dei compagni.

"Eh? Non so... non so ancora..." rispose Giovanni cercando di metter a fuoco quanto l'altro gli stava dicendo.

Sabato, dopo la partita... Chissà cosa sarebbe successo, sabato dopo la partita. Chissà se Gianni aveva già qualche progetto? Lui avrebbe fatto qualsiasi cosa avrebbe detto Gianni, si capisce.

"E tu, Gianni, ci vieni?" chiese il compagno rivolgendosi al capitano della squadra.

"Certo che ci vengo. Sono mai mancato?" rispose il ragazzo con voce normale.

Allora ci vado anche io, pensò Giovanni, ma non disse nulla. Temeva che se avesse detto così gli altri potevano capire che cosa era successo fra lui e Gianni.

"Se non ci sono problemi, cerca di venire anche tu, Gio." gli disse Gianni.

"Eh?, Sì, certo, sì, cercherò di venire." rispose il ragazzo sentendosi arrossire e perciò girando subito la testa verso l'armadietto per non far vedere agli altri il suo rossore. Certo che ci vengo, se ci vai tu, pensò con calore.

S'era finito di cambiare.

"Vieni?" gli chiese semplicemente Gianni.

"Sì..." rispose Giovanni prendendo la sua borsa.

Chiuse il lucchetto dell'armadietto e mise in tasca la chiave. Salutati i compagni, uscì dalla palestra con Gianni. Non era inusuale che i due uscissero assieme: per tornare a casa dovevano fare un tratto di strada assieme, prima che Gianni girasse a destra e Giovanni tirasse dritto per tornare al proprio paese. Presero le loro biciclette, ma invece di inforcarle, si avviarono a piedi.

Appena furono sulla nazionale, Gianni, continuando a camminare, gli chiese: "Vuoi davvero diventare il mio ragazzo?"

"Perché io?" gli chiese Giovanni, felice e incredulo al tempo stesso.

"Perché mi piaci, e perché ho visto come mi guardavi. Vuoi, allora?"

"Sì."

"Capisci cosa ti sto chiedendo, no?" insisté Gianni.

"Sì. Vuoi... vuoi fare... vuoi fare quelle cose con me." riuscì infine a dire Giovanni.

Gianni annuì con un sorriso: "L'hai già fatto con altri, prima?"

"No, mai."

"Ma con me, lo vuoi fare." disse Gianni.

"Sì. Tutto quello che vuoi tu, Gianni. Tutto. Però..."

"Però?" chiese l'altro continunando a camminare ma girandosi a guardarlo.

"Però dovrai insegnarmi tutto, io non so niente, a parte... a parte menarmelo." disse Giovanni arrossendo, poi aggiunse: "Tu lo sai come si fa, no?"

"Certo."

"L'hai già fatto... con tanti?" chiese Giovanni sentendo una punta di gelosia dentro.

"Sì, non molti ma abbastanza. Ma nessuno è mai stato veramente il mio ragazzo. Tu sei il primo."

"Perché proprio io?" chiese di nuovo stupito, ma compiaciuto, il ragazzo.

"E perché no? Te l'ho detto, tu mi piaci molto. Sarei contento se tu diventi il mio ragazzo."

"Contento..." gli fece eco Giovanni assaporando il suono di quella parola. Si guardò attorno e la natura gli sembrò bella come mai prima. Poi guardò Gianni in volto, e anche lui gli sembrò bello come non mai. "Il tuo ragazzo, sì." concluse sentendosi felice.

"Adesso io devo proprio tornare a casa, però sabato, dopo la partita..."

"Andiamo in pizzeria..." gli ricordò Giovanni.

"Sì, e dopo... tienti libero. A casa mia i miei non ci sono. Tu vieni da me, e così..."

"Così divento per davvero il tuo ragazzo." concluse Giovanni sentendosi incredibilmente felice. "Però..." aggiunse poi fermandosi e facendo fermare Gianni e guardandolo dritto negli occhi, "però tu mi devi promettere una cosa."

"Cosa, Gio?"

"Che se io sono il tuo ragazzo... tu non le fai più con nessuno... quelle cose. Me lo prometti?"

"Certo. Se tu sei il mio ragazzo, se tu lo fai con me, ti giuro che non lo faccio più con nessuno."

"Non devi giurare. Mi basta che me lo prometti. Dio, che voglia di farmi baciare di nuovo da te! Peccato che qui non si può. Passano troppe macchine!"

Gianni sorrise: "Avremo tutto il tempo sabato sera."

"Non arriverà mai, sabato sera. Ma i tuoi... a che ora tornano?"

"Tornano domenica sera. Ci saremo solo tu e io in casa, te l'ho detto."

"Mi piacerebbe fermarmi a dormire da te, allora." disse Giovanni tutto d'un fiato, poi si pentì: non stava bene invitarsi da soli.

"Chiedilo ai tuoi. Se dicono di sì, ne sarei contento anche io." gli rispose Gianni riprendendo la strada.

"Davvero ne saresti contento? Saresti contento di dormire nello stesso letto con me?" chiese Giovanni sentendosi eccitato e ancora più felice.

"Certo che sì, col mio ragazzo sì, mi piacerebbe dormire nello stesso letto, dopo che abbiamo fatto l'amore."

"Fatto l'amore..." gli fece eco Giovanni e di nuovo sentì un forte e piacevole calore indosso.

Erano arrivati al bivio dove Gianni doveva girare a destra. I due ragazzi si salutarono, inforcarono le loro biciclette e ognuno pedalò per la propria via. Giovanni si sentiva leggero e felice come mai s'era sentito. "Sabato non arriverà mai!" gridò al vento mentre pedalava veloce. "Sabato divento il ragazzo di Gianni!" gridò poi, e rise, rise, rise felice, tanto che lacrime gli scendevano dagli occhi, subito asciugate dal vento che gli carezzava il volto radioso.

Tornato a casa, posata la bicicletta sotto la tettoia, entrò in cucina.

"Alla buon'ora! È questa l'ora di tornare a casa, Vanni?" gli chiese la madre.

"Oggi l'allenamento è durato un po' di più."

"Vai ad aiutare tuo padre a finire di mungere le vacche. Fra poco si va a tavola, la cena è quasi pronta. Prima cambiati, però! E fai in fretta."

"Sì, mamma, certo mamma."

Salì in camera di corsa, si cambiò in un batter d'occhio, e scese subito per andare ad aiutare il padre. Mentre, assieme a lui, finiva di mungere le vacche, Giovanni si chiedeva se doveva chiedere il permesso di dormire fuori a suo padre o a sua madre... o magari a tutti e due durante la cena. Si chiese poi che scusa potesse trovare per fare quella richiesta. Giovanni non aveva mai dormito fuori casa, prima di allora. Versò il secchio di latte nel grande fusto di acciaio della cooperativa. Avevano finito. Andarono alla pompa dell'acqua per lavare i secchi. Giovanni pompava l'acqua, il padre li lavava.

Vide Carlo che tornava con il carretto pieno di legna da ardere. Poi arrivò anche Francesco, con un cesto pieno di frutta che aveva raccolto nei campi. Entrarono tutti in cucina. La madre stava finendo di apparecchiare la tavola, aiutata da Daniele. Si misero tutti a tavola.

"Angelo non c'è?" chiese Carlo.

"No, è andato a Tetti Ghiaccio. Cena lì." rispose la madre scodellando il cibo.

Carlo ridacchiò: "Allora fa sul serio con la Rosina!"

Il padre, cominciando a mangiare, disse: "Certo che fa sul serio. Se si sposano, lei ci porta in dote il campo da basso!"

"Ah, credvo che se la volesse sposare per arare un altro campo... quello che la Rosina ha fra le gambe!" controbatté Carlo ridacchiando.

Il padre gli lanciò un'occhiataccia, la madre fece il gesto di dargli uno scapellotto. I fratelli scoppiarono a ridere.

"Quello che Angelo fa con Rosina non mi riguarda. A me interessa solo quel campo, che è un ottimo campo." disse secco il padre.

"Sabato sera, dopo la partita..." cominciò a dire allora Giovanni.

"Vai in pizzeria coi tuoi compagni a buttare via soldi!" gli disse la madre che s'era rassegnata malvolentieri a quelle cene fuori casa.

"Sì... ma poi... non torno a casa, dormo fuori." concluse Giovanni pensando che, dirlo come un dato di fatto, gli dava più possibilità di non ricevere un no per risposta.

"E da quando in qua decidi tu dove dormire?" gli chiese il padre in tono severo.

"Magari ha trovato anche lui un campo da arare..." insinuò Francesco ridacchiando.

"No, devo andare a studiare a casa di un compagno, perché lunedì abbiamo il compito in classe e lui mi deve aiutare a capire..." iniziò a dire Giovanni, improvvisando.

"Tu e i tuoi stupidi studi!" tuonò il padre. "Domenica tocca a te pulire la stalla! Te lo sei già scordato?"

"Ma se gli va male il compito in classe, è come se tu papà avessi buttato via i tuoi soldi per farlo studiare, no?" intervenne Daniele, che prendeva sempre le parti di Giovanni. "Le stalle le pulisco io, per questa volta."

"Tu devi aiutarmi a rifare lo steccato!" gli disse il padre seccato.

"Ti aiuto anche a rifare lo steccato, papà. Ma visto che Giovanni è l'unico qui dentro che ha la testa fina, se deve studiare è bene che studi sul serio." lo rimbeccò Daniele.

"Allora, papà?" chiese quasi sottovoce Giovanni, lanciando prima un'occhiata grata al fratello, poi al padre un'occhiata piena di speranza.

"Allora, allora! Tanto fate sempe quello che volete, voi! Avrei dovuto usare il bastone per tirarvi su come dio comanda. Fai quello che ti pare!"

"Grazie, papà." mormorò Giovanni, poi aggiunse "Grazie, Daniele."

Era fatta!

Più tardi Daniele gli si accostò: "Davvero devi andare a studiare, Vanni?" gli chiese quando nessuno li poteva ascoltare.

"Sì." mentì il ragazzo, ma arrossì.

"A me lo puoi dire, lo sai che io non ti tradisco, no?" insisté il fratello.

Giovanni si vergognò per la bugia. Arrossì di nuovo, poi disse: "No... volevo solo... un compagno mi ha invitato a casa sua per... per farmi vedere un gioco nuovo che gli hanno regalato... uno di quei giochi elettronici..." mentì di nuovo il ragazzo, sempre più a disagio per le bugie che era costretto a dire al fratello.

"Non è una compagna, per caso? A me lo puoi dire..." insisté Daniele.

"No, davvero." Almeno questa non era una bugia. "E quando posso, faccio io qualcosa al posto tuo. Grazie Dani."

"Non ha importanza. Cerca solo di diventare un bravo perito agrario, che poi mi rendi tutto aiutandomi a far fruttare di più i nostri campi. E gratis, si capisce." gli disse il fratello dandogli uno scappellotto.

"Ti voglio bene, Dani!" gli disse il ragazo in tono allegro.

"Queste cose non si dicono, fra due uomini!" gli rispose il fratello fingendo un tono corrucciato.

"Va bene, non te lo dico. Ma ti voglio bene lo stesso!"

Daniele sorrise e scosse la testa. "Risparmia queste smancerie per quando avrai la ragazza, tonto!" gli disse e se ne andò.

Ma Giovanni sapeva che Daniele, nonostante la sua reazione, era contento che lui gli avesse detto che gli voleva bene.


Pagina precedente
back
Copertina
INDICE
10oScaffale

shelf

Pagina seguente
next


navigation map
recommend
corner
corner
If you can't use the map, use these links.
HALL Lounge Livingroom Memorial
Our Bedroom Guestroom Library Workshop
Links Awards Map
corner
corner


© Matt & Andrej Koymasky, 2015