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una storia originale di Andrej Koymasky


VIAGGIO VERSO
SE STESSO
CAPITOLO 3
DIFFICILI, BELLISSIMI INCONTRI

Come conseguenza della sua relazione con Gianni, Giovanni andò anche meglio di prima a scuola. Infatti, da una parte studiava anche di più perché voleva che il suo amato fosse fiero di lui, dall'altra ogni volta che incontrava una piccola difficoltà negli studi, Gianni, che era due anni più avanti di lui, lo aiutava a capire, gli spiegava le cose con pazienza e competenza.

Perciò Giovanni, avendo la media dell'otto abbondante, riuscì anche a ottenere una buona borsa di studio. Ne era fiero, anche perché così il padre avrebbe smesso di rinfacciargli continuamente quanto spendeva per farlo studiare. Suo fratello Daniele ne parlò in segreto con Angelo, Carlo e Francesco e li convinse a sollevare del tutto Giovanni dai suoi lavori, dividendoseli fra di loro. Poi misero il padre di fronte al fatto compiuto.

Giuseppe si arrabbiò molto, ma alla fine dovette cedere: anche la moglie stava dalla parte dei figli. Angelo si sposò con Rosina e la portò in casa, oltre ad acquisire il buon campo che la moglie aveva portato in dote. Le cose stavano lentamente migliorando, a Tetti Malvento, ora che oltre a Giuseppe lavoravano anche i tutti e quattro figli più grandi, così che ogni tanto Teresa diceva che avrebbero dovuto cambiare nome alle cascine, chiamandole Tetti Buonvento. Nel 1990 prima comprarono un televisore a colori, poi fecero anche mettere il telefono.

L'unico problema, per Giovanni e Gianni, era la difficoltà di appartarsi per fare l'amore. Quando riuscivano a farlo, non di rado era in fretta, e con addosso la paura di essere sorpresi da qualcuno. Ma a ognuno dei due ragazzi bastava scambiare uno sguardo con l'amato per sentirsi meglio e per superare tutte le difficoltà. Se poi potevano anche soltanto tenersi la mano, nascosta magari sotto il tavolo su cui stavano studiando, erano felici. Ma certamente anelavano di poter fare l'amore.

Qualche volta, quando il tempo era bello, andavano in bicicletta fino al bosco. Qui, nascondendosi bene, e senza togliersi gli abiti di dosso, riuscivano a concedersi qualche tempo di calda e appassionata intimità. Una volta, quando il loro istituto organizzò una mattinata al capoluogo per andare a vedere alcuni interessanti documentari, quando tutti tonarono a casa, Gianni e Giovanni, invece di prendere il treno con gli altri, restarono in città.

Gianni così portò Giovanni nella sauna di cui gli aveva parlato. Dopo essersi spogliati e aver fatto una breve doccia, pagò una stanzetta "di relax" e, chiusisi dentro, poterono finalmente togliersi di dosso l'asciugamano e, nudi, abbracciarsi e fare l'amore, sdraiati sul pavimento rivestito di una spessa moquette grigia, su cui avevano steso i loro asciugamani. Dopo qualche preliminare, non troppo lungo talmente entrambi ardevano di desiderio, si unirono finalmente in un lungo e bel sessantanove, interrompendosi ogni tanto per non bruciare subito la loro passione.

Quando finalmente si lasciarono andare, dopo raggiunto un bellissimo orgasmo, Giovanni sospirò: "Dio, Gianni, quanto avevo bisogno di stare con te così!"

"A chi lo dici! Mi pareva di morire, senza poter fare l'amore con te. Lo sai che ti amo?"

"No, non lo so."

"Come non lo sai? Perché?" gli chiese Gianni stupito.

Giovanni rise: "Ma sì che lo so, stupidotto mio! Scherzavo. Se no, mica stavo qui con te no?"

"Non mi fare più uno scherzo così!"

"Ma che, ci hai creduto?"

"Beh, ho avuto paura che tu parlavi sul serio, per un momento."

"Non te lo dico mai più, te lo prometto. Mi perdoni?"

"Come potrei non perdonarti, amore?"

"Dimmelo di nuovo..."

"Come potrei..."

"No, l'ultima parola..."

"Amore!"

"Ecco, bravo. Se si potesse... mi sposeresti?"

"Non siamo un po' troppo giovani, ancora, per mettere su famiglia?" scherzò Gianni.

"Ma se si potesse e se fossimo più grandi, mi sposeresti?" insisté Giovanni. Poi aggiunse: "È una domanda seria, la mia."

"Non ci ho mai pensato ma... penso di sì."

"Però non sei sicuro." gli disse Giovanni, serio.

"Non ci avevo mai pensato, te l'ho detto. Ma se dovessi sposarmi, lo farei solo con te."

"Lo sai che alla TV hanno detto che in Danimarca due uomini si possono sposare in municipio?"

"Sì, l'ho sentito anche io. Mio padre è sbottato e ha detto: adesso ci manca solo che li fanno sposare in chiesa!" gli disse Gianni ridacchiando.

"E perché no?"

"E chi di noi due dovrebbe mettersi l'abito bianco e il velo?" gli chiese scherzoso l'amico.

"Nessuno dei due. Mica siamo più vergini, no? È già quasi un anno che facciamo l'amore."

"Se soltanto le ragazze vergini potessero mettere l'abito bianco, ho paura che ne vedremmo uno a ogni morte di papa."

Giovanni ridacchiò e disse: "Allora è forse per quello che il papa è vestito di bianco?"

"Chissà, forse sì. Anche se magari anche fra loro non tutti saranno vergini. Lo sai che si dice che Paolo VI era gay?"

"Mah, si dice, si dice. Alla gente gli piace parlare male degli altri. Comunque, se anche lo era, erano cazzi suoi, no?"

"Sì, letteralmente: cazzi suoi!" disse ridendo Gianni.

"Però, chissà perché i preti ce l'hanno tanto con noi gay? Io non ci credo che quello che facciamo tu e io è un peccato."

"Sono d'accordo. È un peccato quando non riusciamo a farlo."

"Dai, sto parlando sul serio. Secondo me, se due si amano come noi due, non possono fare peccato a fare l'amore."

"Ma che te ne frega, Gio? Tu ancora ci credi, a Dio?"

"Beh, anche se non vado più a messa, sì che ci credo. Tu no?"

"Non lo so, ma più no che sì. Il dio dei preti mi sta stretto addosso."

"Anche a me, ma questo non significa che non c'è. E non vuol dire, se c'è, che ce l'ha con i gay anche lui. Secondo me, se tu e io ci vogliamo bene, anche Dio ci vuole bene."

"Sarà. Ma non me ne frega niente. A me basta solo la prima parte: che tu e io ci vogliamo bene."

"Gianni, è tardi... dobbiamo andare a prendere il treno, se no..."

"Ho paura di sì. Verrà mai il giorno in cui non dovremo più guardare l'orologio, in cui non ci dovremo più nascondere?" chiese Gianni cingendo l'asciugamano attorno ai fianchi e aprendo la porta della stanzetta.

Si cambiarono, andarono a prendere il treno e tornarono. Presero le loro biciclette parcheggiate fuori dalla stazione e pedalarono verso casa. Si fermarono al bivio dove le loro vie si separavano. Giovanni guardò le auto che passavano incessantemente lungo la nazionale, poi si girò verso il suo amato.

"Fai finta che io adesso ti ho baciato con un lungo lingua in bocca, amore." gli disse a mezza voce.

"Anche tu, amore. Ciao. Cristo!"

"Che c'è?"

"Non vorrei lasciarti mai!"

"Idem da questa parte, ma purtroppo... Ciao amore."

I due ragazzi risalirono sulle loro biciclette e si misero a pedalare veloci, ognuno verso casa sua.


Un mercoledì, durante la pausa per il pranzo, Gianni si accostò in mensa a Giovanni. Gli sussurrò: "I miei non sono in casa e fino alle otto non torna nessuno. Finite le lezioni vieni da me?"

Giovanni si illuminò: "Cazzo, sì! A che ora finisci, tu?"

"Alle quattro. E tu?"

"Anche io. Ci si trova all'uscita e si pedala fino a casa tua, allora!"

"D'accordo."

Si accostarono loro due compagni di classe di Gianni e uno chiese: "E che avete voi due sempre da sussurrare assieme come una coppietta?" chiese con aria maliziosa.

"Gianni mi ha chiesto quando fissiamo le nozze in chiesa. Io gli ho detto che dobbiamo ancora rimandare, perché la sarta non ha ancora finito di cucirmi lo strascico di pizzo!" rispose Giovanni serio.

Gianni lo guardò stupito, poi si girò verso i compagni che erano scoppiati a ridere.

Quello che aveva fatto la domanda disse: "Beh, me la sono meritata questa presa per il culo! Il ragazzino m'ha fatto capire chiaramente che devo farmi i cazzi miei. Comunque, se davvero vi sposate in chiesa, io vi voglio fare da testimone!" concluse continuando allegramente lo scherzo.

Quando i due si furono allontanati, Gianni gli chiese, divertito: "Ma come t'è venuta quell'idea?"

"Se dici qualcosa abbastanza vicina alla verità, e anzi la ingrandisci, nessuno ti crede. Semplice, no?"

"Sei un dritto, tu!"

"Certo: sono il tuo B.F. no?"

"Bieffe?"

"Boyfriend, tonto." gli disse sotto voce Giovanni. Poi, canticchiando a mezza voce la canzone che diceva "I love you, I love you" andò a cercarsi un posto a uno dei tavoli. Erano d'accordo che avrebbero mangiato allo stesso tavolo solo una volta ogni tanto.

"Solo nei giorni il cui numero si può dividere per 3." aveva deciso Giovanni.

"Perché per tre?"

"Perché così non capita sempre nello stesso giorno della settimana, ma almeno due volte si mangia assieme."

Quando sedette al tavolo, uno dei compagni di squadra, gli chiese ad alta voce: "Ehi Gio, ho sentito che stai per sposarti in chiesa con Gianni!"

"Sì, e abbiamo anche scritto al papa se ci manda l'apostolica benedizione per il giorno delle nostre nozze!" rispose Giovanni.

"E il papa che t'ha risposto?"

"Che lui la benedizione la manda solo ai froci, perciò niente da fare."

"Sì, proprio Giovanni Paolo II che ce l'ha su coi froci, proprio lui." commentò un altro dei compagni.

"Ce l'ha su coi froci solo perché nessuno lo farebbe con lui!" commentò un altro ridendo.

"No, ce l'ha su coi froci perché i froci sono dei porci pervertiti." disse un altro con una smorfia di disgusto.

Giovanni stava per rimbeccarlo, ma un altro compagno intervenne: "Pervertito sarai tu e gli stronzi pieni di merda e di pregiudizi come te. Anche Maurizio Costanzo ha detto che vanno rispettati. Ognuno a letto fa quello che cazzo vuole e con chi vuole!"

Quello che aveva parlato contro i gay, rispose: "Quelli se mai fanno quello che culo vogliono, non quello che cazzo vogliono."

Un altro compagno lo rintuzzò: "Ma stai zitto, stronzo. D'altronde lo sanno tutti che quelli che disprezzano i froci è perché sono solo froci repressi."

Tutti scoppiarono a ridere e quel ragazzo tuffò la testa sul piatto, rosso in volto e si mise a mangiare senza più dire una parola.

Giovanni era sorpreso: non credeva che la maggioranza dei compagni la pensasse in quel modo, che non disprezzasse chi è gay. Stava pensando a questo, quando uno dei ragazzi disse: "Prima gli ebrei, poi gli zingari, poi i negri, poi i gay, poi i marocchini... possibile che si deve sempre disprezzare qualcuno? Cazzo, quelli razzisti come te, sono gli unici che si deve disprezzare!"

Giovanni intervenne: "No, non si deve disprezzare nessuno. Il fatto è che non è colpa sua, se la pensa così. Magari gli hanno imbottito la testa fin da piccolo con queste cazzate."

"Ma mica è più un bambino, no? Non è capace di ragionare con la sua testa? Mi pare che invece ragiona solo col cazzo, ammesso che ce l'abbia!"

"Beh, piantiamola, adesso..." disse Giovanni vedendo che il suo compagno che ce l'aveva con i gay era sul punto di mettersi a piangere. "Capita a tutti, qualche volta, di dire una cazzata. Noi non siamo meglio di lui. Ognuno di noi ha di sicuro qualcosa di cui si dovrebbe vergognare. Il fatto è che ognuno di noi si accorge solo delle stronzate che dicono o fanno gli altri e mai delle proprie. Chissà quante stronzate penso, o ho detto, o ho fatto io!"

Alle sue spalle si levò una voce: era il professore di chimica: "Bravo Giovanni! A parte il linguaggio non proprio elegante, hai detto una cosa molto giusta. Il fatto è che per sentirsi a posto, per sentirsi un vincitore, ci sono solo due modi: uno è impegnarsi a fondo per riuscire nella vita, e questo costa fatica e non sempre dà i risultati che uno si aspetta. L'altro è parlare male degli altri, far sembrare che valgano meno di noi, disprezzarli, così noi ci sentiamo più in alto, più importanti, e questo non costa nessuna fatica. Tu sei un vincitore, Giovanni, perché nelle cose che fai ci metti tutto il tuo impegno. Continua così."

"A me piace studiare, professore, mica ci metto tanto sforzo... È dura quando si deve fare qualcosa che non ci piace. Però ho scoperto che se uno riesce a non pensare troppo che una cosa non gli piace, gli diventa meno difficile farla."

"Proprio così. Vedete, ragazzi..." disse il professore mettendosi a sedere al loro tavolo, "a me, quando avevo la vostra età, la chimica non piaceva proprio per niente."

"Ma no!" esclamò uno dei ragazzi con espressione incredula.

"Proprio così. Avevo più insufficienze che sufficienze. Ho ancora le pagelle... è proprio così. Poi mi sono detto che dovevo farmela piacere, se volevo andare avanti. Mi ci sono messo d'impegno, anche se mi costava fatica. All'inizio pareva proprio che la chimica non mi volesse entrare in testa. Ma poi ho cominciato a capirla, e la chimica, un po' per volta, ha cominciato a sembrarmi interessante, poi a piacermi, poi ad affascinarmi e mi pareva sempre più facile e... e così sono diventato professore di chimica."

"Ma se uno è negato per una cosa?" chiese uno dei ragazzi.

"Nessuno di noi, se è una persona normale... mica dico un genio, dico una persona normale, media... nessuno di noi può essere veramente negato per una cosa. Se si sente negato è solo perché o glielo hanno fatto credere a forza di dirglielo, o perché non ci si è messo d'impegno. Ma se tu per esempio sei in gamba in storia, vuol dire che puoi diventare forte in qualsiasi cosa ti metti a fare con abbastanza impegno."

Giovanni ascoltava interessato. Il professore di chimica non gli era mai stato né simpatico né antipatico, ma ora lo trovava per lo meno interessante, e non perché poco prima gli aveva fatto quelle lodi.

"Professore, posso farle una domanda?" gli chiese Giovanni.

"Purché non sia di chimica: sono in pausa riposo, ora!" rispose sorridendo il professore e tutti risero.

"Ma perché uno diventa gay e un altro no?"

"Nessuno diventa gay, così come nessuno diventa biondo: si nasce così. E come essere biondi non è né una malattia né una cosa anormale, essere gay non è una malattia né una cosa anormale."

"Ma uno si può ossigenare i capelli e diventa biondo." obiettò un ragazzo.

"Non proprio. Uno si ossigena i capelli e per un po' sembra biondo, ma non lo è veramente. Così qualcuno può provarci con uno del proprio sesso, per curiosità o per necessità, ma non per questo diventa gay. E un gay può anche sposarsi e fare figli, e non per questo smette di essere gay."

"Come sarebbe a dire che uno può farlo con uno del suo sesso per necessità?" chiese un altro ragazzo.

"Mah, per esempio chi deve passare molti anni in carcere, o, specialmente un tempo, i marinai che per mesi restavano in mare dove non avevano donne. Eccetera, eccetera."

"Ma chi lo fa, poi non rischia di piacergli e continuare a farlo?"

"Se non era già gay senza saperlo, probabilmente no, non rischia di piacergli tanto da continuare a farlo. Però ci sono anche persone per cui è indifferente farlo con quelli del proprio o dell'altro sesso. Anche se questi, di solito e se possono scegliere, preferiscono farlo con uno piuttosto che con l'altro sesso. Vedete, il mondo non è fatto in bianco e nero, ma di miliardi di colori... o, se parliamo solo in termini di bianco e nero, fra questi due estremi ci sono infinite sfumature di grigio.

"Ora, se su cento soggetti noi immaginamo una persona che sia al cento per cento omosessuale e un'altra che sia al cento per cento eterosessuale, fra loro ci sono circa novantotto persone che sono bisessuali, chi più verso il cento per cento di un tipo, chi più verso il cento per cento dell'altro, così come ci sono grigi quasi bianchi e grigi quasi neri. Ma, ricordatevelo, per cento sfumature, solo una è completamente bianca e solo una completamente nera. Le altre novantotto sono tutte grigie, più o meno chiare, più o meno scure."

I ragazzi, e specialmente Giovanni lo ascoltavano assorti.

Uno dei ragazzi allora chiese: "E come fa uno, professore, a capire di che tonalità di grigio è?"

"Se non ha pregiudizi, pian piano, vivendo, lo capisce. Anche se spesso chi è grigio chiaro cerca di vivere o di sembrare completamente bianco e uno che è grigio scuro cerca di vivere o di sembrare come uno completamente nero."

"E perché?"

"Perché è più semplice; e se vive come un bianco o come un nero è accettato più facilmente da tutti quelli che dicono di essere bianchi o che dicono di essere neri." rispose Giovanni.

"Proprio così." annuì il professore.

"Però resta grigio, anche se nessuno lo sa." disse un altro dei compagni.

"Di nuovo, proprio così. A parte il fatto che ho parlato di bianchi e neri e grigi solo per semplificare. In realtà siamo tutti di tanti bei colori diversi, di tutte le sfumature che ha ogni colore, e per questo il mondo è bello." disse il professore alzandosi e così ponendo fine a quella interessante conversazione

"Cazzo!" mormorò uno dei ragazzi quando il professore si fu allontanato, "allora siamo quasi tutti grigi!"

"Pare di sì, da quello che diceva il professore." commentò un altro.

"No, siamo tutti di tantissimi colori diversi." precisò Giovanni con un sorriso compiaciuto.

I ragazzi restarono per un po' in silenzio a rimuginare quanto aveva appena spiegato loro il professore, poi cominciarono a parlare d'altro, dimenticando, almeno per il momento, quel soggetto.


Durante le lezioni del pomeriggio Giovanni non faceva che guardare l'orologio, spiando con crescente eccitazione l'approssimarsi delle quattro. Quando finalmente suonò la campanella della fine dell'ultima lezione, mise tutto nella cartella in fretta e in furia, e si precipitò nel cortile della scuola. Prese la sua bicicletta e si fermò al cancello di uscita. Quasi contemporaneamente a lui, arrivò anche Gianni.

"Andiamo?" lo saluto l'amico.

"Sì, andiamo!" rispose allegramente Giovanni inforcando la bicicletta.

I due ragazzi pedalarono a tutta forza, ora affiancati, ora uno dietro l'altro, finché giunsero al complesso delle Baite. Il cancello era aperto e pedalarono fin sotto casa di Gianni. Salirono le scale di corsa e si precipitarono in casa. E finalmente poterono abbracciarsi e scambiare un lungo bacio.

"Ciao, amore!" gli disse poi Giovanni guardandolo negli occhi con un sorriso luminoso.

"Ciao, amore!" gli rispose Gianni in tono squillante.

"Portami su, dai, che non abbiamo moltissimo tempo." gli disse Giovanni.

Salirono la scala interna facendo i gradini a due a due. Si tuffarono letteralmente sul letto, e si abbracciarono di nuovo, poi, con mani febbrili si spogliarono l'un l'altro.

"Non sarà meglio che metti la sveglia, Gianni?"

"Perché, hai paura di addormentarti?" gli chiese scherzoso l'amico.

"No, perché ho paura che ci dimentichiamo del tempo e che tornano i tuoi sul più bello. Arrivano alle otto, hai detto no? Metti la sveglia alle sette, così abbiamo il tempo per non dover smettere in fretta, all'ultimo minuto..."

"Sì, hai ragione. Dio, odio l'orologio."

"Non ci pensare e godiamoci il tempo che abbiamo!" gli disse Giovanni riprendendo a carezzarlo per tutto il corpo.

Si stesero e presero a fare l'amore. Un po' si baciavano, un po' Gianni si chinava sul pube dell'amante per dargli piacere, un po' lo faceva Giovanni, alternando con istintiva sapienza momenti di focosa passione con momenti di dolce abbandono, le membra intrecciate.

Ognuno dei due giovani amanti costruiva nell'altro un monumento di piacere, facendolo così avvicinare, lentamente ma inesorabilmente, al momento in cui l'amorosa costruzione che stavano ergendo sarebbe culminata in un bellissimo orgasmo.

Nei momenti di languorosa pausa, si scambiavano baci e parlottavano. Parlavano di loro stessi, del loro amore, del loro piacere, del loro desiderio, delle loro speranze, di mille e una cosa.

"Gio? te l'ho mai detto che il tuo cazzo è proprio bello?"

"Solo il mio cazzo, Gianni?"

"No, certo, tu sei tutto bello, perciò anche il tuo cazzo è proprio bello! Chissà perché dicono che la parola cazzo è una brutta parola? Per me ha un bellissimo suono, specialmente se parlo del tuo."

"Sì, hai ragione. È proprio così. Ma la gente è buffa. Nessuno si vergogna a dire occhi, naso, mano... ma la gente si vergogna a dire cazzo."

"Io no." protestò Gianni.

"Neanche io, però... prova a dirlo a tua madre, o a uno dei professori, o a un prete... o... E nessuno si vergogna a dire bacio, ma invece dire pompino..."

"Un'altra bellissima parola, specialmente se tu lo fai a me o io a te!" dichiarò Gianni.

"Però, più che dirlo è meglio farlo, no?" gli disse allegramente Giovanni e, alzatosi a sedere, si chinò nuovamente sul pube dell'amico e riprese a succhiargli il membro.

"Sei diventato bravissimo, Gio..." sospirò Gianni.

"Ho avuto un ottimo maestro." gli rispose il ragazzo e riprese a succhiare l'amico, felice per quel complimento.

"Sì, Gio, se fosse possibile lo farei." disse Gianni dopo qualche minuto.

"Cosa?" gli chiese il ragazzo sollevandosi a guardare il suo amato.

"Ti sposerei!"

"Bene!" disse Giovanni, sentendosi incredibilmente felice, e riprese a dare piacere all'altro.

Quando Gianni si sentì pericolosamente vicino all'esplosione dei sensi, fece smettere l'amico, lo baciò a lungo, poi gli disse: "Finiamo con un bel sessantanove, amore?"

"Anche io ti sposeri. Subito!" gli disse Giovanni. Si stesero di nuovo e si dedicarono l'uno all'altro con immutata passione.

Dopo pochi minuti suonò la sveglia e dopo pochi altri minuti ognuno dei due poté finalmente gustare il sapore dell'amante, inebriarsi del piacere dell'amato.

Gianni si girò, si abbracciarono e si baciarono, rilassandosi a poco a poco, carezzandosi con dolcezza.

"Per me tu sei già mio marito." gli sussurrò Giovanni.

"Anche tu per me. Anche tu sei mio marito, amore."

"Peccato che non possiamo avere lo stesso cognome, però."

"Abbiamo lo stesso nome. È già qualcosa, no?" rispose Giovanni. Poi aggiunse: "Però..."

"Però, cosa?"

"Perché non me lo vuoi mettere nel culetto? Io ci vorrei provare, con te."

"Te l'ho già spiegato amore. Perché tu sei mio marito, non mia moglie."

"Ma i gay lo fanno. E io vorrei sentirti dentro di me!"

"Mi senti già dentro di me, quando me lo succhi, no?"

"Non lo so se è proprio la stessa cosa."

"L'importante è che noi due ci vogliamo bene, non quello che facciamo." gli disse Gianni.

"Sì... è vero... però..." insistette a mezza voce il ragazzo.

"Dobbiamo alzarci, adesso, vestirci e rimettere tutto in ordine. E poi, purtroppo tu devi andare via." disse Gianni scendendo dal letto.

Si rivestirono. Poi rifecero ben bene il letto di Gianni in modo che non restasse nessuna traccia della loro unione. Erano già le sette e mezzo.

"È meglio che vai, ora, amore. Oltretutto rischi di far tardi per cena, non vorrei che i tuoi si incazzano con te."

"Nell'intervallo ho telefonato a casa avvertendo che avrei fatto un po' tardi. Ho detto che dovevo fermarmi con un compagno per ripassare la lezione di anatomia."

"Davvero gli hai detto che dovevi studiare anatomia?" gli chiese Gianni ridacchiando.

"Sì, così ho detto la verità, anche se magari a casa hanno pensato che era anatomia degli animali domestici."

"Beh... io in fondo sono un animale domestico: tutti gli uomini fanno parte del regno animale e... e vivo in una casa no?"

I due ragazzi risero. Poi Gianni accompagnò Giovanni fino al cancello. Dato che nei dintorni non c'era nessuno e dalle case o dalla strada non si vedeva il cancello, Gianni gli scoccò un bacio.

"A domani a scuola, amore." gli disse.

"A domani, marito mio." gli rispose Giovanni e, inforcata la sua bicicletta, pedalò giù per la discesa, sentendosi lieve e felice.

Arrivò a casa giusto nel momento in cui tutti si mettevano a tavola.

"Sera a tutti!" disse con voce squillante entrando in cucina.

"Dove sei stato fino a ora?" gli chiese la madre con faccia scura.

"A studiare con un compagno, no? Ho telefonato per avvertire, no?"

"Ha telefonato un tuo compagno di classe e ha detto che sei uscito dall'istituto alle quattro. Dove sei stato, allora?"

"A studiare a casa di un compagno, a studiare anatomia, come ti ho detto." insisté Giovanni.

"Avevi detto che ti fermavi a scuola." obiettò la madre.

"Ma no; o mi sono spiegato male io o hai capito male tu. Non potevo fermarmi a scuola fino a quest'ora. Chiudono tutto alle cinque! Come potevo dirti che mi fermavo a scuola."

La madre sembrò lievemente ammansita, per lo meno meno sicura di sé: "Vanni, stai attento, lo sai che non mi piace essere presa in giro, eh?"

"Mamma, io non ho mai avuto nessuna intenzione di prenderti in giro..." disse il ragazzo sedendosi a tavola.

Carlo intervenne: "Mamma, non ha mai detto bugie, Vanni."

"Per lo meno non le ho mai scoperte. E comunque potrebbe cominciare a dirle adesso." ribatté la madre.

"Ma no, mamma, dai." disse Daniele.

"Dio se è buono questo minestrone!" esclamò Rosina, la moglie di Angelo sperando di dissipare la tensione cambiando discorso. "Devi insegnarmi a farlo così buono..."

Teresa le lanciò un'occhiata in tralice: "La prossima volta che lo preparo ti chiamo così vedi come lo faccio." disse, in un tono ancora un po' brusco.

"Sì, grazie. È proprio buono." disse Rosina in tono allegro.

Giuseppe tese il piatto vuoto chiedendo, senza parole, il bis di minestrone. Poi disse: "Sì, il minestrone è buono. Ma tu stai attento, Vanni, che ti teniamo d'occhio, veh?"

"Papà! Vanni va bene a scuola, ha vinto la borsa di studio e ha sempre ottimi voti. Non ha mai combinato nessuna cazzata, a parte forse qualche marachella quando era un bambino. Che motivo ci sarebbe di tenerlo d'occhio?" intervenne Daniele.

"Zitto tu! Vanni è figlio mio e so io come devo tirarlo su. Tu lo difendi sempre. Se dipendeva da te veniva su viziato e capriccioso!" lo rimbeccò aspramente il padre.

"Sì, è tanto figlio tuo quanto fratello mio. E io lo difendo solo quando è giusto difenderlo." ribatté Daniele in tono secco.

"Non rispondere con quel tono a tuo padre!" lo rimproverò Teresa.

"Piantimola tutti, per favore." disse allora Angelo. "Possibile che in questa casa non si può stare in pace nemmeno quando tutto va per il verso giusto? Che cavolo papà, mai una volta che ti si sento dire una parola gentile a uno di noi. Adesso basta. Per davvero."

Il padre si alzo rosso in viso e andò verso Angelo con un'espressione minacciosa in viso. Angelo si alzò lentamente in piedi e fronteggiò il padre: era almeno una spanna più alto di Giuseppe, e decisamente più grosso. Tutti tacquero trattenendo il fiato e guardandoli. Padre e figlio si guardarono fisso negli occhi, in tono di sfida, ma nessuno dei due mosse un dito, nessuno dei due parlò.

Giovanni era scosso: non credeva che, per causa sua, stesse per scoppiare una lite in famiglia. Confusamente, si ricordò di un documentario che aveva visto a scuola, in cui un giovane lupo sfidava il capobranco, lo sconfiggeva e ne prendeva il posto. E si ricordò anche come il vecchio lupo, dopo quel giorno, menasse una vita grama.

Allora si alzò facendo cadere la sedia, si interpose fra padre e frtello e, fronteggiando il padre, gli disse, con voce forte e chiara: "Papà, mi dispiace se ti ho fatto arrabbiare. Se me lo merito, picchiami, tu sei mio padre, se credi che devi farlo, devi farlo."

Angelo, alle sue spalle, disse: "Vanni..."

Giovanni si girò e lo fissò negli occhi, con durezza: "Vatti a sedere Angelo. Questo è un problema mio, non tuo. Non ti intromettere. Nostro padre è ancora il capo di casa, non te lo dimenticare!"

Angelo fece spallucce e tornò a sedere.

Giovanni guardò ancora suo padre, negli occhi, ma senza il minimo senso di sfida. Ripeté, a voce più bassa: "Se io mi merito di essere punito, papà, puniscimi."

Giuseppe distolse lo sguardo per un attimo, poi guardò di nuovo il figlio: "Per questa volta no, non c'è nessun motivo. Ma se me lo darai..."

"È giusto, papà. Grazie, papà." disse Giovanni e tornò al suo posto, tirò su la sedia dal pavimento e si rimise a sedere, mentre anche il padre sedeva.

Più tardi, mentre erano sull'aia, Francesco si avvicinò a Giovanni: "Hai avuto fegato, Vanni... hai rischiato di buscarle sia da papà che da Angelo... E per cosa poi?"

"Tutto è cominciato per colpa mia."

"Ma che colpa tua! Hai telefonato, bastava no? Se t'eri spiegato male o se mamma ha capito male, tutto s'era chiarito, no? E poi Angelo dopo tutto stava prendendo le tue difese."

"No, Angelo non stava prendendo le mie difese, stava sfidando papà. E se in una casa si comincia a litigare, la casa crolla! Papà avrà tutti i difetti di questo mondo..."

"E qualcuno in più!" disse Francesco con una smorfia.

"Ma è nostro padre. Ci ha dato la vita, ci ha allevati, non ci ha fatto mancare niente, per quello che poteva. E a me, forse, ha dato anche più che a voi..."

"Perché tu sei una testa fina. Ma se papà ti menava?"

"Me le prendevo e me le tenevo. Le botte fanno meno male delle parole, perché il dolore delle botte passa, il dolore che danno le parole invece resta."


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