Mancava poco agli esami di maturità di Giovanni. Ogni ragazzo doveva preparare una tesina da portare agli esami. A Giovanni i professori assegnarono una ricerca sulla flora che cresceva nel bosco che sorgeva a sud del lago grande del suo paese, fra il torrente di sotto e quello di mezzo. Giovanni era contento, l'idea gli piaceva.
Per prima cosa cercò una cartina dettagliata del bosco, ed essendo in gran parte un terreno demaniale, riuscì a ottenerla proprio dal demanio di stato. Poi, consultando varie biblioteche, riuscì a preparare una serie iniziale di schede tecniche sulla flora della zona.
Dopo aver raccolto abbastanza materiale, decise di iniziare a esplorare il bosco, per censire le piante che vi trovava, riconoscerle, ed eventualmente poi cercare altra documentazione. Così, messi in uno zainetto fogli e matite, una bussola, un nastro metrico e altri attrezzi che gli potevano essere utili, oltre alle cartine e alle schede che aveva già preparato, iniziò ad andare nel bosco.
Di solito pedalava fino a Tetti Castagno, prendeva la strada che dal suo paese s'inerpicava su per le colline, riprendeva il tratturo che passava per Tetti della Madonna, oltrepassava lo stretto ponte di legno sul torrente di sotto e si inoltrava nel bosco. Prendendo come riferimento alcuni grandi alberi, che via via segnava e numerava con una bomboletta spray, e fra cui tendeva una cordicella abbastanza lunga, ogni volta esplorava a fondo una piccola porzione del bosco.
Prendeva note, faceva schizzi, scattava alcune foto con la macchina fotografica che gli aveva prestato un compagno di classe che ne aveva due. Lui non aveva abbastanza soldi per comprarsene una, né poteva chiederli al padre o ai fratelli.
Tornato a casa rimetteva in ordine gli appunti, poi andava nella biblioteca comunale o in quella della scuola e a volte anche in quelle del capoluogo per cercare i dati che gli mancavano o verificare quelli che aveva. Quando andava al capoluogo, a volte, riusciva anche a fare un salto nello studio di Gabriele, che gli somministrava il solito massaggio erotico e faceva l'amore con lui.
Qualche volta, quando passava nel bosco provenendo da scuola, lasciava la nazionale all'altezza di Tetti Bernardo, traversava il torrente di sotto sul vecchio ponte romano, oltrepassava Tetti Rossi e si inoltrava nel bosco da est invece che da ovest.
Tetti Rossi non era chiamto così per il colore delle tegole, che erano sì rosse come su tutte le altre cascine della zona, né dal nome di chi ci abitava. Aveva letto in un libro che il nome veniva dal latino medievale "russus" e indicava il colore dei capelli della famiglia che aveva eretto quelle cascine, i "Russi", per l'appunto o "rossi".
Ora Tetti Rossi, pur conservando intatta la struttura esterna, erano diventati una bella villa di campagna circondata da un ampio giardino e da un alto muro, e apparteneva al signor Manfredo T* P*, un vedovo, ex deputato del partito social-democratico, che vi abitava con i suoi tre figli, un maschio e due femmine. La villa aveva anche un approdo sulle rive del lago azzurro, a cui era attraccato un piccolo motoscafo biposto.
Giovanni, traversato il bosco lungo il tratturo, si recò all'ultimo punto che aveva contrassegnato. Segnò altri due alberi e stese la cordicella. Quindi iniziò a esplorare con cura, palmo a palmo il pezzo di terreno così delimitato. La giornata era calda ma gradevole. Il sole filtrava sotto gli alberi del bosco creando un affascinante broccato di luci e ombre. Mentre Giovanni si dedicava alla sua ricerca, frattanto si godeva il canto degli uccelli, i richiami degli animali, il profumo dei fiori.
Dopo un po' si tolse la polo e la canottiera, le ripiegò con cura appoggiandole sul suo zainetto e, a torso nudo, continuò la sua ricerca.
Un rumore attrasse la sua attenzione. Dal tratturo proveniva il suono di una voce che cantava. Era una voce maschile, fresca, ma quello che attrasse l'attenzione di Giovanni fu che la canzone aveva una melodia inconsueta, lievemente triste ma bella, e il suono delle parole gli dava l'impressione che non fosse italiano.
In quel momento Giovanni era accoccolato per studiare una pianticella di un tipo che fino a quel giorno non aveva ancora visto. Era incredibile la varietà di flora che viveva nel bosco! Sollevò il capo verso la sorgente di quel canto, cercando di capire in che lingua potesse essere.
Il canto cessò, ma quasi subito vide chi l'aveva cantato: era un ragazzo sui venticinque anni, snello e alto e dalle movenze atletiche. Indossava un paio di jeans e un gilet, anche di jeans, su una camicia bianca. In capo aveva un cappello di jeans a falde larghe, meno che un cappello da cow-boy ma più di un cappello normale. Da sotto il cappello spuntavano lievi capelli biondo scuro, avvolti in ampi ricci soffici.
Il nuovo venuto, ignaro di essere osservato, si tolse dalle spalle lo zaino che aveva, lo posò a terra e ne trasse una bottiglia di plastica. L'aprì, vi accostò le labbra e ne bevve alcune lunghe sorsate. Si forbì le labbra con il dorso della mano, ripose la bottiglia e si guardò intorno.
Giovanni, istintivamente, si acquattò di più a terra. Gli piaceva guardare quel ragazzo e non gli andava di essere visto; voleva continuare a guardarlo indisturbato.
Il ragazzo si sfilò la camicia assieme al gilet e restò a torso nudo: i muscoli del petto erano ben definiti, quasi come quelli di una scultura. Lo sconosciuto si passò le mani sul petto in una lunga, sensuale carezza. Giovanni trattenne il fiato, pensando che gli sarebbe piaciuto essere lui a toccare così quel bel petto. Subito sentì, sotto la patta, risvegliarsi la sua erezione.
Il ragazzo si guardò ancora una volta intorno, e di nuovo non vide Giovanni, nascosto da alcuni cespugli. Lentamente si sbottonò i calzoni, frugò nella patta aperta e ne estrasse il membro semi-eretto. Tenedolo in una mano, iniziò a orinare. Giovanni si sentiva sempre più eccitato. Quando l'altro ebbe scrollato anche l'ultima goccia, invece di rimetterselo nei calzoni, iniziò a masturbarsi lentamente. Giovanni inghottì a vuoto. Non vedeva chiarmente il membro dell'altro, ma il movimento della mano era inequivocabile.
Provò la tentazione di uscire allo scoperto, avvicinarsi a quel ragazzo per prenderglielo in mano e masturbarlo, ma subito pensò che non era detto, perché uno si masturba, che gli piaccia farlo con un altro ragazzo. Perciò restò immobile nel suo posto di osservazione.
Mentre con una mano il ragazzo sconosciuto continuava lentamente a masturbarsi, con l'altra si carezzava il ventre e il petto e si stuzzicava i capezzoli. Ora aveva chiuso gli occhi. Giovanni non resisteva più, la voglia gli stava bruciando addosso. Pian piano si rizzò in piedi, si aprì la patta, se lo tirò fuori e iniziò a masturbarsi a sua volta, gli occhi sempre fissi sul bello sconosciuto.
Improvvisamente il nuovo venuto riaprì gli occhi e lo vide. Per un attimo entrambi i ragazzi si immobilizzarono, poi lo sconosciuto sorrise e riprese a masturbarsi come se niente fosse. Giovanni rispose al suo sorriso e riprese a sua volta a darsi piacere. Ora i loro occhi non si lasciavano. L'altro, lentamente e senza smettere di masturbarsi, si avvicinò a Giovanni, scavalcò la cordicella e avanzò ancora verso l'altro finché gli fu di fronte, a meno di un passo.
"Ciao." disse lo sconosciuto. "Mi chiamo Eliezer."
"Ciao. Io sono Giovanni. Sei straniero?"
L'altro lasciò il proprio membro e prese in mano quello di Giovanni, che a quel punto, con un brivido di piacere, prese nella sua mano quello del ragazzo.
"Sì e no. Sono nato qui ma vivo all'estero da quando ero bambino. Torno ogni tanto a vedere i nonni."
"Cosa cantavi, prima?"
"Una canzone della mia terra."
"Era bella." disse Giovanni. Per la prima volta abbassò gli occhi a guardare il membro dell'altro. "Sei circonciso!" disse un po' sorpreso.
"Sì, sono ebreo."
"Ah. Fa male quando ti circoncidono?"
"No. Per lo meno non me lo ricordo. Me l'hanno fatto quando avevo tre anni, quando i miei si sono trasferiti in Israele. Se avesse fatto male probabilmente me lo ricorderei."
"È bello, comunque." notò Giovanni con un sorriso.
"Anche il tuo." disse l'altro, poi si accoccolò davanti a Giovanni e glielo prese fra le labbra.
Giovanni sussultò per il piacere ed emise un gemito. Eliezer guardò in su, si staccò per un attimo e chiese: "Ti dà fastidio?"
"No... oh no! Continua, se ti piace."
"Sì che mi piace. Piace anche a te farlo?"
"Certo."
"E che altro ti piace fare?"
"Tutto."
"Bene. Allora, se ci stai, facciamo tutto."
"Sì, certo."
"Molto bene." disse il ragazzo e riprese a succhiarlo.
Dopo un po' Giovanni lo fece fermare: "Forse è meglio se ci spostiamo in un posto meno in vista, no?"
Eliezer si alzò in piedi e sorrise: "Sì, forse è meglio. Che ci fai tu qui, con queste cordicelle?"
Giovanni glielo spiegò.
"Ah, bello. Avevo visto la tua bicicletta, poi ho visto te, così... ci speravo sai?"
"Allora l'hai fatto apposta!" gli disse sorridendo Giovanni mentre, riassettatisi sommariamente i calzoni, lo guidava in un posto più sicuro.
"Certo. Male che andava, o non succedeva niente o dicevo che credevo di essere solo. Sai che sei bello?"
"Ecco, qui può andare bene." disse Giovanni fermandosi e riaprendosi i calzoni.
"Sì. Hai voglia?"
"Certo. Anche tu sei bello. È quando mi hai visto che hai smesso di cantare?"
"Sì." disse l'altro facendosi calare i calzoni sulle caviglie.
"Che canzone era?"
"Una canzone della mia gente. Una canzone d'amore."
"Pareva triste."
"Sì, è un po' triste. Le parole sono rivolte a un amante lontano." disse Eliezer e, accoccolatosi, riprese a lavorare con la bocca il membro di Giovanni.
"Hai il ragazzo, in Israele?" Giovanni gli chiese dopo un po'.
"Sì." rispose l'altro alzandosi in piedi. "Ci siamo conosciuti quando facevamo il servizio militare assieme. Ma siamo diventati amanti in cella."
"In cella?"
"Sì. Ci eravamo rifiutati tutti e due di assalire un villaggio di palestinesi, in cui pareva che ci fossero solo donne, vecchi e bambini. Così ci hanno sbattuto dentro. Eravamo già amici, anche se fra noi non era ancora successo niente. Ma quella prima notte... soli e al buio... è successo. È stato molto bello e così siamo diventati amanti."
"E ora tu... gli metti un cornetto?"
"Siamo d'accordo così: quando siamo lontani, non ha importanza. Quando siamo assieme, non lo facciamo mai con altri." gli disse Eliezer e, tiratolo a sé, lo baciò in bocca.
"Ma eravate già gay tutti e due?" gli chiese Giovanni quando le loro bocche si staccarono.
"Sì, certo. Però io avevo solo fatto qualcosetta quando avevo diciassette ani, con un compagno di classe. Lui, invece, era attivo da quando aveva quattordici anni. Aveva già un sacco di esperienza. Lui la prima volta l'aveva fatto con un ragazzo palestinese... che poi era morto in un nostro bombardamento."
"E com'è andata poi? Vi hanno messo in cella e poi?"
"Al processo sono stati clementi, per fortuna. Ma ci hanno radiati dall'esercito. Meglio così. Tu ce l'hai, il ragazzo?"
"No. Ma voi due vi amate? Siete innamorati?"
"Sì. Il mio Simcha è un ragazzo splendido, speciale, molto buono e onesto... e anche molto passionale. Simcha nella mia lingua significa felicità."
"E cosa significa, il tuo nome?"
"Eliezer? Signica Dio mi aiuta. Anche il tuo nome è di origine ebraica. Sai che cosa significa?"
"No..."
"Dio è misercordioso."
"Spero che lo sarà... con me." commentò il ragazzo.
Di nuovo si baciarono, smettendo di parlare e lasciando parlare invece i loro corpi. Giovanni si accoccolò davanti al nuovo amico per dargli piacere con la bocca. Poi, scelto un punto erboso, si stesero per unirsi in un piacevole sessantanove.
Dopo un po', gradualmente Eliezer scese fra le gambe del compagno e prese a leccargli il buchetto nascosto.
"Lo vuoi li?" gli chiese dopo un po', quasi sottovoce.
"Sì, ma non ho portato i preservativi..." si lamentò con rammarico Giovanni, ricordandosene solo in quel momento.
"Nessun problema. Io ne ho sempre con me. Aspetta." Frugò in una tasca e tirò fuori una confezione di sei bustine. "Basteranno?" chiese scherzosamente.
"Penso di sì..." rispose ridacchiando Giovanni, staccò una bustina e la aprì.
Aiutandosi con le dita e le labbra, stese il preservativo sul bel membro ritto e circonciso dell'altro.
Poi gli chiese: "Come ti piace che mi metto?"
"Sulla schiena. E mi metti le gambe sulle spalle. Ti va?"
"Sì..."
Quando furono nella giusta posizione, mentre Giovanni con una mano guidava il membro duro sulla meta, Eliezer lo prese per le spalle e lo attirò a sé. Giovanni si rilassò, fremendo nell'attesa. Il membro iniziò a farsi strada in lui. Allora Giovanni tolse la mano e prese a stuzzicare i capezzoli del compagno.
Eliezer non era bravo come Gabriele, Giovanni provava un lieve fastidio, ma cercò di non farlo vedere, sapendo che comunque poi gli avrebbe dato solo piacere. L'altro si infilò dentro di lui con una serie di piccole spinte, finché gli fu completamente dentro. Allora iniziò a ritrarsi lentamente, per poi penetrarlo di nuovo con una vigorosa, ma non violenta, spinta, ogni volta tirandolo a sé per le spalle.
Fu una lunga cavalcata e come Giovanni sapeva, o meglio sperava, il fastidio scomparve e provò solo piacere. Il ragazzo guardava il suo compagno ebreo: questi aveva chiuso gli occhi e un'espressione di forte piacere gli adornava il volto. Lo trovava buffo, con quel suo cappello ancora calzato in testa, ma trovava bella la sua espressione colorata di godimento. Vide le gote del compagno arrossarsi lievemente, sentì che aumentava il ritmo e il vigore delle spinte e capì che era prossimo all'orgasmo. Attese che si scatenasse, spiando sul bel volto il tumulto delle emozioni.
Eliezer venne quasi d'improvviso, gli si spinse dentro scaricandosi con forti contrazioni e mormorando sottovoce: "Simcha... oh Simcha..."
Giovanni sorrise: tutto sommato trovava bello che, nel momento del massimo piacere, il compagno pronunciasse il nome del suo amante. Sì, era evidentemente innamorato del suo ragazzo, anche se ora stava godendo con uno sconosciuto. Eliezer, sorpassato il momento dl massimo piacere, riaprì gli occhi lo guardò con un sorriso.
"Purtroppo io non sono il tuo Simcha..." gli disse Giovanni.
"Oh! Perdonami... non volevo offenderti, Giovanni."
"No, non mi hai offeso, anzi... è bello che il tuo cuore e la tua mente siano pieni di lui, che alle tue labbra sia affiorato il suo nome."
"Sei gentile. Un altro si sarebbe offeso..." gli disse Eliezer ritraendosi lentamente da lui.
Si sfilò il preservativo e lo gettò via, poi fece stendere le gambe al compagno e, chinatosi su di lui, lo baciò di nuovo in bocca.
"Adesso mi prendi tu?" gli chiese in tono allettante.
"Se a te fa piacere, a me piacerebbe."
"Bene. Ti va di prendermi alla pecorina?"
"Come vuoi tu."
Si baciarono di nuovo, poi Eliezer preparò Giovanni, infilandogli un nuovo preservativo, quindi si mise a quattro zampe, offrendosi al nuovo amico. Giovanni lo prese per la vita, gli si addossò e iniziò a leccare l'ano dell'altro, a stuzzicarlo con le dita insalivate, a spingervi la punta della lingua e le dita.
"Sì... sì... così..." mormorava Eliezer. Poi, dopo un po', si girò a guardarlo e disse: "Mettimelo adesso, dai!"
Giovanni gli si accostò con il bacino alle natiche divaricate e iniziò a penetrarlo. Gli affondò dentro con un'unica, lieve spinta. Poi cominciò a stantuffargli dentro con piacere. Eliezer dimenava lievemente il bacino, per godere meglio le spinte del compagno e dandogli così un maggiore piacere e spingeva il bacino indietro. Giovanni si chiese se il ragazzo ebreo e il suo amante assumessero quelle posizioni quando facevano l'amore.
Dopo alcuni minuti che lo cavalcava, infine anche Giovanni raggiunse l'orgasmo e si scaricò dentro di lui, emettendo a ogni contrazione un basso gemito di piacere. Quando le contrazioni terminarono, Eliezer si sfilò da lui, si girò restando in ginocchio, lo abbracciò e lo baciò di nuovo.
"Sei stato grande. Mi è piaciuto come mi hai preso." gli disse il ragazzo ebreo.
Per un po' si carezzarono i corpi seminudi. Poi si alzarono, si riassettarono gli abiti e tornarono indietro.
"Dove abiti, quando sei qui in Italia?" gli chiese Giovanni.
"Su in paese, dai miei nonni, dietro la chiesa parrocchiale. E tu dove abiti?"
"A Tetti Malvento. Sai dove è?"
"No... manco da troppo tempo dal paese."
"Oltre il lago piccolo, quasi sotto il castello, giù in piano, oltre la selva."
"Ah,sì, più o meno ho capito."
"Ti fermi a lungo qui in paese?"
"No, vado via domani."
"Oh! Peccato. Mi sarebbe piaciuto incontrarti di nuovo."
"Anche a me. Se mi lasci il tuo indirizzo, io ti do il mio e si può restare in contatto." gli disse Eliezer.
"Perché no?"
I due ragazzi si scambiarono gli indirizzi.
"Me la mandi una foto di te con il tuo Sasha?"
"Si chiama Simcha, non Sasha. Sì, te la mando, se tu mi mandi una foto tua."
"La farai vedere a Simcha?"
"Sì, certo."
"Non viene mai lui in Italia con te?"
"Purtroppo le nostre ferie non coincidono."
"Che lavoro fa? E tu che fai?"
"Simcha ora lavora in una ditta di elettronica, io invece faccio il contabile per una catena di ristoranti. E tu, che lavoro pensi di fare una volta diplomato?"
"Spero che mi prendano alla cooperativa agraria o a quella del latte. Preferirei alla cooperativa agraria, però."
Chiacchierarono per un po'. Giovanni mise via le sue cose, aveva deciso che per quel giorno avrebbe sospeso la sua ricerca. Dopo tutto aveva impiegato bene il suo tempo, anche se non per gli studi. Tornarono assieme verso il paese, continuando a chiacchierare.
Giunti al bivio, Eliezer gli disse: "Hai ancora un po' di tempo?"
"Sì, perché?"
"Vorrei offrirti qualcosa, se vieni con me al Bar Galassia. Ti va?"
"Sì, grazie. Tu ora non hai più la nazionalità italiana, penso."
"No, ho quella israeliana."
"Però parli benissimo l'italiano."
"A casa si parla in italiano, e l'ho anche studiato all'università. Mi piace, l'italiano, è una bella lingua."
"E il tuo Simcha? Dove è nato?"
"In Israele. I genitori invece sono nati tutti e due in Russia. Ne sono scappati via intorno al 1950."
Sorbirono un caffè seduti a un tavolinetto, continuando a parlare di varie cose. Poi si salutarono e Giovanni tornò a casa. Gli era piaciuto Eliezer e non solo fisicamente. Tornato a casa, Giovanni riordinò il poco che aveva fatto. Era quasi ora di cena. Stava riordinando le sue cose, quando arrivò dai campi Daniele.
"Ciao, fratellino, come va la tua ricerca?"
"Bene, Dani. E il lavoro?"
"Al solito. Papà fa sempre di meno, ma bastiamo noi fratelli. Sta invecchiando rapidamente, papà. E sta diventando sempre più scorbutico."
"Ho l'impressione che, anche se è lui che sta cedendo il timone ad Angelo, non ne sia per niente contento."
"Già, proprio così. Dì, senti, prima di rendere la macchina fotografica al tuo compagno, me la faresti una bella foto?"
"Sì, certo. Come la vuoi?"
"Basta che io sembri bello. La mia ragazza ne vuole una."
"La tua ragazza? Non me ne hai mai parlato."
"Ne sto parlando, no?" rispose ridacchiando il fratello, poi chiese: "Neanche tu mi hai mai parlato della tua ragazza. Ce l'hai?"
"No."
"Nessuna che ti fa gli occhi dolci?"
"No."
"E nessuna che ti interessa?"
"No."
"Strano, tu sei il più bello di noi cinque."
"Sono anche il più giovane, però." si schermì Giovanni, sperando che il fratello cambiasse discorso.
"Alla tua età, io ne avevo già avute due..." gli disse Daniele.
"Ognuno ha i suoi tempi. E le sue occasioni."
"Le occasioni si creano. Tu non vieni neanche mai a ballare."
"Non mi interessa, ballare."
"Ma almeno, al dancing, puoi conoscere qualche bella ragazza... o qualche ragazza che ci sta. Adesso mica è più come ai tempi dei nostri vecchi, anche le ragazze si danno da fare. Tu hai solo da stendere la mano e ne puoi cogliere una che ti piace, come una mela matura."
"Quando avrò fame, cercherò una mela da mangiare." rispose Giovanni scherzosamente.
"Io, cazzo, ho sempre fame. Da quando mi sono accorto che stavo maturando. O piuttosto, da quando mi sono accorto che lui stava maturando." concluse indicando fra le proprie gambe.
"Dicono che chi si dedica agli studi sia sessualmente meno attivo degli altri..." gli disse Giovanni.
Daniele sorrise: "Allora capisco perché a me non è mai piaciuto studiare! Preferisco dedicarmi alle ragazze più che ai libri. Mi piace di più sfogliare una ragazza che spogliare un libro."
Giovanni sorrise per quell'immagine. Poi, guardando il fratello, gli disse: "Dani?"
"Sì?"
"Tu una volta mi hai detto che due uomini non si dicono mai 'ti voglio bene'. Però... io ti voglio bene."
"D'accordo. Non si dice, ma anche io ti voglio bene, lo sai."
"E mi vorrai sempre bene?"
"Certo, almeno finché sarai mio fratello. Perciò sempre."
"Anche se tu un giorno scoprissi che faccio qualcosa che non ti piace? Che forse non sono come pensi tu?"
Daniele lo guardò con aria interrogativa: "Cosa stai cercando di dirmi, Vanni?"
"Niente, è solo una domanda."
"Ne hai combinata qualcuna? Sai che ti ho sempre coperto, no? Che problema c'è, Vanni?"
"Niente, nessun problema. Non ho combianto niente."
"E allora cosa significa che forse non sei come ti penso io? Mica... mica ti fai con la droga, no?"
"No. A parte che non avrei i soldi per comprarla, mica mi voglio rovinare."
"Allora quale è il problema."
"Non c'è nessun problema, Dani."
Il fratello lo guardò, studiandolo, poi disse: "Non me la dai a bere, Vanni. Non sei mai stato in gamba a dire le bugie, tu. Comunque, se non ti va di dirmelo... Mi dispiace, pensavo che ti fidavi di me."
"Sì che mi fido di te. Però qulche volta ci sono cose che uno non si sente pronto di dire." spiegò Giovanni e pensò al discorso analogo che aveva fatto con Francesco.
Daniele non insistette. Scesero per la cena.
A notte, quando furono nella loro camera, Giovanni prima raccontò a Francesco la sua avventura con Eliezer, poi gli parlò della conversazione avuta con Daniele.
"Secondo me, faresti bene a dirlo a Dani. Sono sicuro che ti capisce come t'ho capito io. Dani stravede per te."
"È che... forse ho paura di deluderlo. Mi dispiacerebbe."
"A me, mica mi hai deluso, no?"
"Sì, ma Dani, come hai detto tu, stravede per me. Ho paura che mi veda migliore di quello che sono e che la delusione sia troppo grossa."
"Il fatto che a te piacciono i ragazzi non ti fa né migliore né peggiore."
"Non so come la pensa Dani sui gay. Non ho mai avuto il coraggio di chiederglielo, e lui non ne ha mai parlato. Magari li odia, o li disprezza, come fanno tanti altri. Io non voglio essere odiato o disprezzato da Dani. Ci starei troppo male. Mi farebbe male anche se mi disprezzassero papà o mamma, o Angelo, o Carlo, ma se fosse Dani mi farebbe molto più male."
"Sì, ti capisco. E allora non gliene parlare. Dopotutto non è che gli nascondi qualcosa di disonesto o di poco pulito, no? Non è che lo pigli in giro. Mica gli racconti che hai la ragazza e che te la scopi come un mandrillo, no?"
"Qualche volta è pesante, però, non poter essere se stessi senza problemi. Specialmente con quelli a cui vuoi bene. Sai, per me è proprio bello che, almeno con te, posso essere me stesso e parlare di queste cose senza paure, senza vergogna."
"Mica è colpa tua se non puoi essere aperto come vorresti. E poi non è né necessario, né utile, né giusto dire tutto a tutti. Secondo me, Vanni, tu pensi troppo. Piglia la vita con più semplicità e goditi quello che ti dà. Non lo conosci il proverbio che dice: chi troppo studia, matto diventa? Secondo me, anche chi pensa troppo, diventa matto."
"Francesco, se tu avessi un figlio gay, come la penderesti?"
"Gli vorrei bene come prima e cercherei di stargli vicino e di aiutarlo, no?"
"E cosa faresti per aiutarlo?"
"Gli direi di andare a parlare con suo zio Vanni, che la sa molto più lunga di me sul soggetto." rispose il fratello ridacchiando.
"Ah, lo scaricheresti a me?" gli chiese Giovanni scherzoso.
"No che non lo scaricherei a te. Gli starei anche più vicino di prima, perché so che avrebbe più problemi di un altro mio figlio."
"Magari tutti i genitori fossero come te."
"Ehi, ehi, non correre troppo. Non sono ancora neanche sposato e mi dici già che sono un buon padre! Dammi tempo!"
"Hai ragione. Prima devi imparare a essere un buon marito..."
"Anche per questo, dammi ancora un po' di tempo, eh, fratellino."
"Comunque, sei già un buon fratello."
"Anche tu, Giovanni, sei un buon fratello."
Era la prima volta che in casa qualcuno lo chiamava con il nome tutto intero, e pensò che questo dava più solennità, più serietà, più peso alle parole di Francesco.
"Grazie, Francesco. Buona notte."
"Notte, Vanni. Dormi bene e sogna un bel ragazzo."
"E tu una bella ragazza, allora."
"È meglio di no, o domattina mi sveglio tutto bagnato e devo nascondere le mutande perché mamma non se ne accorga." ridacchiò il fratello.
"Francesco, ti dispiacerebbe provare a sentire come la pensa Dani sui gay? Senza fargli capire niente, si capisce."
"Posso farlo. Dammi solo qualche giorno. Hai proprio voglia di dirglielo, eh?"
"A lui sì. A Carlo e Angelo... non so, credo che non mi importa più che tanto. A papà, credo che non lo direi mai."
"Beh, io mica gli vado a dire se ho scopato o no, e con chi ho scopato. Certe cose sono private, personali. Sì, se però scoprissi che mio figlio è gay, cercherei di stargli anche più vicino di prima, come ti dicevo. Ma spero anche che, per quando avrò un figlio adolescente, il mondo sia un po' meno cretino, un po' più aperto e rispettoso di adesso. Sai, dopo che tu mi hai detto che sei gay, sono andato alla biblioteca comunale e mi sono leggiucchiato qua e là alcuni libri. E ho visto che essere gay non è né una malattia, né una cosa sbagliata."
"Davvero sei andato in biblioteca a leggerti libri sui gay?"
"Beh, anche se non ho studiato come te, so leggere, no?"
"E perché ci sei andato?"
"Per poterti stare più vicino, e nel modo più giusto."
Giovanni si sentì commosso. Avrebbe voluto scendere dal letto e andare ad abbracciarlo, ma non lo fece. Però gli sussurrò: "Grazie."