Di fatto Giovanni, una volta presa la patente, divenne, oltre che il giardiniere di Tetti Rossi, il segretario informale del vecchio ex-deputato. Questi lo mandava spesso in città o in paese per svolgergli pratiche o per altre incombenze, a volte anche delicate. Il ragazzo, comunque, continuava a curare il giardino con amore e competenza.
Un giorno, durante il pranzo, il vecchio disse: "Il giardino è più bello che mai. Sei anche più in gamba del vecchio Guglielmo."
"Il merito è di Guglielmo, che l'ha sempre curato molto bene, io non faccio altro che continuare quanto ha fatto lui."
"La modestia è una grande virtù, ma la troppa modestia diventa un difetto, Giovanni. No, Guglielmo era molto bravo, è vero, ma tu lo sei di più. Anche accettare un complimento meritato è una virtù: si chiama umiltà. E sai che io sono sempre molto parco con i complimenti. Assumere te è stato un ottimo acquisto, devo telefonare a Dario per ringraziarlo. Mi aveva chiesto di fargli un favore, assumendoti, ma l'ha fatto lui a me. Sì, lo devo ringraziare davvero."
"Grazie, onorevole."
"Sì. Dopo pranzo, lasciami un'oretta di tempo per il mio consueto pisolino, poi vieni nel mio studio, ti devo parlare."
"Come comanda."
"Vedo che hai preso l'abitudine di dirmi 'come comanda' anche tu, come Sergio e Mario." notò il vecchio con uno dei suoi rari sorrisi.
Verso le tre, Giovanni bussò discretamente alla porta dello studio del padrone.
"Vieni, Giovanni!" disse la voce del vecchio.
"Mi scusi, onorevole, ma come poteva sapere che ero proprio io?" gli chiese il ragazzo entrando e andando a sedere sulla sedia che gli indicava l'uomo.
"A parte che è passata l'ora del mio riposino, come t'avevo detto, ognuno di voi tre ha un diverso modo di bussare. Sergio bussa sempre con un tac-tatac, Mario con tre colpi secchi e ben scanditi, tac tac tac. Tu invece con quattro colpi lievi tatatatac. Semplice no?"
Giovanni sorrise.
"Volevo dirti che, se tu volessi portare su in camera tua un amico, i tuoi fratelli o un... compagno, puoi farlo. Purché sia una persona che conosci bene, di cui ti fidi, e che sia una persona educata e discreta."
Giovanni spalancò gli occhi: "Posso, onorevole?"
"Stai diventando sordo, ragazzo? Certo che puoi: mi fido di te, so che mi posso fidare. Puoi portarci chi vuoi, senza bisogno di chiedermene ogni volta il permesso, non mi va di essere disturbato per piccole cose."
"A parte i miei fratelli... a loro mi piacerebbe far vedere dove vivo, sì... ma a parte loro, non ho nessuno che..."
"Prima o poi l'avrai, spero. Questa è casa mia, ma la tua camera è casa tua. Almeno vorrei che tu la sentissi come casa tua, perciò..."
Giovanni scosse lievemente la testa.
"Cos'è quel no che fai con la testa? Che cosa significa?" gli chiese l'uomo.
"Non è un no, onorevole. È che mi pare incredibile. Lei sa di me e sa che tipo di... compagno potrei voler portare su in camera mia... e per che cosa..."
"Certo che lo so, mica sono nato ieri. Ebbene?"
"Perché è così buono, così disponibile nei miei confronti?"
"Perché, perché! Mi fido completamente di te, sei affidabile e considerato, ecco perché. E poi... e poi mi ricordo di quando avevo io la tua età... Avrei voluto poter portare a casa chi volevo, ma mio padre era un uomo tutto d'un pezzo."
"Già, una volta, anche più di ora, era difficile potersi appartare con una ragazza." disse Giovanni.
"Una ragazza? Non ti ha detto niente di me, il nostro amico Dario?"
"Di lei, onorevole? Non capisco..."
"Di te mi fido, te lo posso dire, tanto più che credevo che già lo sapessi... io sono come te, sono gay, come si dice oggi. Ai miei tempi si diceva omosessuale."
"Lei? Lei onorevole?"
"Io, sì io. Perché, credi che ai miei tempi non esistessero i gay? Siamo sempre esisititi."
"Ma lei era sposato, ha avuto tre figli..."
Il vecchio scoppiò a ridere: "Dario non t'ha proprio detto nulla, vedo. Beh, se hai voglia di starmi a sentire... Sì anche io sono gay. L'avevo capito abbastanza presto, credo che avevo sui quattordici anni... sì doveva essere il 1942 o giù di lì. C'era la guerra. Ma averlo capito significava poco, a quei tempi non se ne parlava quanto ora, e se e quando se ne parlava era solo per dire che gli omosessuali sono degenerati da cui stare alla larga o da mettere in galera, o chiudere in una casa di cura. Così tenevo accuratamente segreti e repressi i miei desideri.
"Nel 1946 sono stato richiamato nel regio esercito, che di lì a poco doveva diventare l'esercito della neonata repubblica italiana. E lì, ho conosciuto un commilitone, un ragazzo che era come me. Si chiamava Vittorio. Era bello come il sole, allegro come un meriggio di prima estate, virile come un dio greco e dolce come un favo di miele. Ero totalmente affascinato da lui. Si lavorava assieme in fureria, alla stessa scrivania. Io, a quei tempi, ero molto timido, e spesso ero il bersaglio del nonnismo che era regola nell'esercito. Vittorio no, si sapeva far rispettare. Vittorio mi prese sotto la sua ala protettiva...
"Così diventammo amici, inseparabili... e scoccò la scintilla, perché anche lui era come me. Fu lui il mio primo e unico uomo. Eravamo innamorati come due colombelle. A quei tempi si prestava servizio per due anni e lontani dai nostri paesi d'origine. Furono due anni di sogno, nonostante l'ambiente spartano della caserma. Un giorno mi portò nella cattedrale e lì mi giurò eterno amore, e io lo giurai a lui. Il problema si presentò quando fummo congedati. Non ci volevamo separare, io gli proposi di scappare da qualche parte assieme.
"Vittorio mi disse che si poteva fare, ma che dovevamo progettare tutto nei minimi particolari. Lui aveva la testa sul collo più di me. Si proveniva dalla stessa città, perciò una volta congedati, tornammo ognuno a casa nostra, nelle nostre famiglie. Lui era il figlio del primario dell'Ospedale Maggiore, io figlio di un notaio, perciò le nostre famiglie non trovarono nulla di strano nella nostra amicizia. Io cominciai a frequentare casa sua e lui casa mia.
"A casa sua conobbi sua sorella, Beatrice. Era una ragazza buona, colta e intelligente, anche se bruttina: la bellezza di famiglia se l'era accaparrata tutta il mio Vittorio. Un giorno in cui ero a casa di Vittorio, sentii il padre parlare animatamente con Beatrice... le stava dicendo che era stufo dei suoi rifiuti. Che non capiva perché rifiutasse uno dopo l'altro i migliori partiti che lui le trovava. Con una certa crudeltà, le disse che, poco bella come era, avrebbe dovuto essere più che contenta che qualcuno la volesse in moglie.
"Vittorio, che con me aveva sentito quella discussione, era triste e scuoteva la testa. Poi mi chiese se immaginavo perché la sorella non ne volesse saperne di sposarsi. Logicamente non lo potevo sapere. Allora lui, con una tristezza addosso che mi pare ancora di sentirla, me lo spiegò: Beatrice, da quando aveva dodici anni a quando ne aveva compiuti sedici, era stata l'oggetto di pesanti attenzioni sessuali da parte del padre di nostro padre, che viveva con loro. Quando Beatrice aveva sedici anni, il nonno era morto e l'incubo era cessato. Ma Beatrice aveva paura degli uomini, o per meglio dire, aveva sviluppato una vera fobia per il sesso.
"Io ero stupito che Vittorio fosse a conoscenza di questi fatti, ma lui mi spiegò che come lui aveva svelato alla sorella di essere omosessuale, così lei gli aveva detto delle violenze sessuali che aveva dovuto subire. Chiesi a Vittorio se Beatrice sapesse di lui e di me, e mi disse di sì. Fu allora che io ebbi un'idea pazza, che poi tanto pazza non era. Dissi a Vittorio di parlare con Beatrice e che, se lei fosse stata d'accordo, io avrei finto di farle la corte, che l'avrei sposata, senza mai chiederle, logicamente, di avere rapporti fisici con me. Anzi, precisai, Beatrice e io avremmo dormito in camere separate. Al tempo stesso Vittorio e io avremmo potuto continuare a fare l'amore senza problemi.
"Così avvenne. Beatrice accettò la mia corte, le nostre famiglie approvarono la nostra presunta attrazione, ci fidanzammo, ci sposammo. Le nostre famiglie ci misero su casa e andammo a vivere assieme, anche se, come d'accordo, in camere separate. Questo non era strano, a quei tempi, nelle famiglie dell'alta società, non era raro che moglie e marito dormissero in due camere diverse. Anche il regista Vittorio De Sica e la moglie facevano così.
"Più tardi anche Vittorio venne ad abitare con noi. Il nostro ménage era perfetto. Beatrice, nonostante non volesse avere rapporti sessuali, desiderava avere figli, e anche a me sarebbe piaciuto. Così, uno dopo l'altro, adottammo prima Dino, cioè Edoardo, poi Maria-Teresa e infine Adele, uno ogni due anni circa, e li allevammo con amore e attenzione, più che se fossero stati nostri figli naturali.
"Purtroppo Vittorio ci lasciò, quindici anni fa, stroncato da un infarto mentre assisteva a un mio comizio. Beatrice si spense serenamente cinque anni dopo, nel suo letto. La piansi quanto avevo pianto il mio Vittorio; m'ero affezionato moltissimo a lei. Per fortuna i nostri tre figli erano grandi. Dino si era già sposato, Poco dopo si sposararono anche Adele, poi anche Maria-Teresa..."
"Così lei è rimasto solo..."
"Sì, è dopo il matrimonio di Maria-Teresa che decisi di lasciare il mio alloggio in città a lei e di venire a vivere a Tetti Rossi, che fino ad allora era stata solo la nostra casa di campagna. L'unica cosa che mi restava, dopo la morte del mio Vittorio, era l'attività politica. Ma un giorno, a un anno dalla scadenza del mio mandato parlamentare, alcuni pezzi grossi del mio partito vennero a parlarmi. Volevano che usassi la mia influenza e le mie conoscenze per fare andare in porto un affare molto sporco. Rifiutai. Allora mi dissero che avevano fatto ricerche sulla mia vita e che sapevano di me, di Vittorio... sapevano tutto e minacciarono di far scoppiare uno scandalo. Rifiutai di nuovo.
"Alle elezioni seguenti il partito rifiutò di mettermi in lista: capisci, non potevano accettare un omosessuale nelle loro fila. Sarebbe stato immorale. Se fossi stato un ladro, invece, sarei stato un valido membro del partito e potevano benevolmente chiudere un occhio sulla mia sessualità. Io non volevo uno scandalo, sia per i miei figli che per la memoria del mio Vittorio, così accettai la loro decisione... ma strappai la tessera del partito e mi ritirai qui."
"I suoi figli non sapevano di lei e del loro zio..." osservò Giovanni, scosso da quella storia.
"Quando furono abbastanza grandi per capire, Vittorio, Beatrice e io glielo dicemmo..."
"E?"
"Accettarono senza troppi problemi. Non dico che ne fossero felici, ma... accettarono."
"E... posso farle una domanda, onorevole?"
"Certo."
"Dopo il suo Vittorio... non ha avuto più nessuno?"
"No, nessuno. Neanche un'avventuretta. Non potrei, Vittorio è sempre con me."
"Non ho mai visto un ritratto, una foto del suo Vittorio, qui in casa."
"Il suo ritratto, anzi lui, è nel mio cuore, è sempre con me, come ti ho detto. Non ho bisogno di ritratti per casa."
"Ora capisco perché ha avuto compassione per me, onorevole."
"Compassione? Se usi questo termine nel suo senso corrente, no, non ho mai provato compassione per te. Se lo usi in senso etimologico, cioè patire-con, soffrire-con, condividere la pena che hai provato... sì, ho avuto compassione per te."
"Grazie, per avermi accolto in casa sua e per avermi raccontato cose tanto personali, onorevole."
"Sai perché ho il pallino di farmi continuare a chiamare onorevole anche se non sono più un deputato?" gli chiese il vecchio.
"Semplicemente perché lo è stato, penso."
"No. Semplicemente perché mi sento degno di essere 'onorato' più di tanta gente cosiddetta 'per bene'. Semplicemente per ricordarmi che sono e devo continuare a essere degno di rispetto e di onore."
"Capisco. È giusto."
"Ma ora che ti ho aperto il mio cuore, Giovanni, ti voglio chiedere una cortesia."
"Mi dica, tutto quello che posso..."
"Smetti di chiamarmi onorevole. So che tu mi rispetti. Chiamami Manfredo, per favore."
"Con vero piacere, Manfredo. Con vero piacere." rispose il ragazzo e gli occhi gli si inumidirono.
Il vecchio gli pose una mano scarna sulla sua, e sussurrò: "Grazie, Giovanni." Anche lui era visibilmente commosso.
Il rapporto fra il vecchio e il ragazzo, dopo quel giorno, gradualmente ma sensibilmente, cambiò. Un crescente affetto li legava. Manfredo cominciò sempre più spesso a raccontare brani della sua vita al ragazzo, e anche Giovanni gli raccontò di se stesso, delle sue esperienze, di fatti anche minuti della sua vita.
Un giorno, dopo aver esaminato assieme alcuni documenti e aver riordinato vecchie carte, Giovanni si fermò e guardò il vecchio.
"Che c'è Giovanni? Cosa ti sta frullando per il capo? Quando mi guardi in quel modo so che stai per chiedermi o propormi qualcosa." disse il vecchio spostando la pila di libri di storia della politica del dopo-guerra che aveva iniziato a leggere.
"Sì, Manfredo. Ormai sono un libro aperto, per lei. Pensavo: lei dovrebbe scrivere un libro per raccontare la sua vita, commentare quanto ha vissuto; è tutto incredibilmente interessante."
"Pubblicare un libro su di me?" chiese il vecchio guardandolo con un'espressione lievemente divertita.
"Pubblicarlo o no, come si sente di fare. Ma scriverlo. Lei sa raccontare le cose, e anche le sue riflessioni su quanto ha vissuto sono sempre molto belle."
"Mah... perché no? Potrebbe essere una buona idea. Ebbene, Giovanni, sai che ti dico, comincerò oggi stesso, purché anche tu faccia qualcosa che ho a cuore."
"Dica."
"Io comincio a scrivere le mie memorie solo se tu mi prometti che spenderai almeno parte del tuo tempo libero a uscire dal guscio."
"Uscire dal guscio, Manfredo?"
"Non fare il tonto, che tonto non sei. Devi cercare di farti amici, magari qualche avventura, altrimenti non troverai mai la persona giusta per te. Prima che io me ne vada, vorrei vederti felice con un compagno al fianco."
Giovanni lo guardò con espressione un po' stupita. Il vecchio sospirò ma sorrise. "Non farmi quell'espressione, adesso, Giovanni! Hai venticinque anni. Devi darti da fare. Non puoi diventarmi un vecchio zitellone, non puoi farmi questo."
"Ne ho ancora solo ventiquattro..."
"Ne compi venticinque fra poco. Sei un ragazzo buono, bello e intelligente. Non fare quell'espressione, ti ho detto. Sei bello, buono e intelligente, sì. E sei quasi, ormai, come il mio quarto figlio. Se tu mi prometti che fai in modo di incontrare e conoscere qualcuno... io ti prometto di mettermi a scrivere il libro che mi hai chiesto di compilare."
"Va bene, Manfredo. Nel mio tempo libero... riprenderò a frequentare i posti dove si possono fare incontri interessanti."
"Ottimo." disse il vecchio chiudendo quella conversazione.
Così Giovanni, nel suo giorno libero, andò a cercare la birreria in cui aveva incontrato Ottavio. Qundo fu davanti alla porta vide che la serranda era chiusa e vi era incollato sopra un biglietto. Scese dall'auto e andò a leggerlo, pensando che vi fossero scritti gli orari. Ma vide che c'era scritto "Vendesi" e un numero di telefono. Non aveva voglia di andare nella sauna, perciò decise di passare per il parco, l'unico altro luogo in cui sapeva di poter fare qualche incontro.
Ci tornò diverse volte, e qulche volta aveva anche qualche incontro, qualche avventuretta, ma sempre con persone che non gli interessano abbastanza per desiderare di conoscerle meglio. Qualcuno lo invitava a casa sua, con qualcuno si appartava fra i cespugli... gli incontri potevano anche essere fisicamente gratificanti, ma nulla di più.
All'edicola della stazione vide, un giorno, che vendevano la "Guida Gay Italia" e la acquistò. Così scoprì che c'erano altri luoghi di incontro in città. Li girò tutti, e gradualmente fece la sua scelta: il bar "Dieci per Cento" in un vicolo dietro la cattedrale, un altro parco, quello che popolarmente era chiamato "Giardino del Duca" che lui conosceva bene, da quando si era occupato dei parchi e giardini della città, e infine un cinema, il "Chaplin", in cui si batteva, ma con discrezione.
Le sue avventurette si fecero più frequenti ma ancora non aveva mai incontrato nessuno verso cui si fosse sentito attratto più che solo fisicamente. Non era troppo selettivo, almeno fisicamente, ma lo era riguardo alla personalità dei suoi occasionali compagni. Non aveva mai portato nessuno a Tetti Rossi.
Aveva incontrato, qualche volta, Dario, e anche Edoardo e Pietro, nel loro negozio di abbigliamento, in cui aveva preso a comprare i propri abiti. Nessuno lo aveva più invitato a qualche festa: probabilmente, dopo la loro disavventura, non volevano rischiare organizzando nuove feste. Ottavio invece, aveva trasferito il suo studio di pubblicità a Milano, e aveva venduto il suo bell'appartamento, perciò non viveva più in città.
Era sera tardi, e Giovanni, dopo cena, aveva preso la macchina e era andato in città. Il tempo era bello, perciò decise di andare al "Giardino del Duca". Iniziò a percorrerlo in lungo e in largo: lo conosceva bene, come le proprie tasche. Evitò un paio di anime vaganti che non lo attraevano per nulla e continuò a vagare anche lui.
A un tratto sentì un'esplosione di grida e risate e per un attimo pensò a una allegra comitiva che si stava divertendo, ma improvvisamente udì che, mescolata a quei suoni, una voce implorava aiuto. D'impulso, senza pensare al pericolo che poteva correre, si precipitò verso l'origine di quel chiasso. Mentre correva, si rese conto che poteva trovarsi in un brutto impiccio e allora, continuando a correre avanti, iniziò a gridare con quanto fiato aveva in gola: "La polizia, la polizia!"
Vide un grumo di ombre disperdersi in silenzio, correndo a scapicollo nella direzione opposta da cui lui proveniva. Solo un'ombra restava a terra e tentava con evidente fatica di rialzarsi. Gli giunse accanto e vide che era una figura esile, vestita con un paio di calzoni e un ampio gilé di tela mimentica, da cui spuntavano maniche bianche. Si chinò e notò macchie di sangue.
"Sei ferito?" chiese, con il cuore in gola, tentando di aiutare il malcapitato.
Questi si girò e lo guardò con occhi colmi di terrore.
"Vlad! Oh Vlad, che ti hanno fatto?" esclamò Giovanni riconoscendolo e guardandolo con apprensione e pena.
"Sei tu, Gio? Sei Gio?" gli chiese il ragazzo rumeno, guardandolo attraverso il velo di lacrime che offuscava i suoi occhi.
"Mio dio, che ti hanno fatto?" ripeté Giovanni, quasi abbracciandolo e aiutandolo a rialzarsi in piedi. "Devi andare subito in ospedale! Vieni, ti ci porto..."
"No!" gridò quasi Vlad. "No in ospedale. Polizia chiede perché, e chi, e io, polizia dice che è colpa mia. E quelli non gli fa niente. No, ospedale no, polizia no... per favore. No..."
Giovanni ricordò come era stato tratto quella volta della retata, e capì che avrebbe dovuto dare anche le proprie generalità al poliziotto del pronto soccorso, e che questo non avrebbe certo aiutato Vlad.
"Però non posso lasciarti qui. Vieni, ho la macchina qui vicino."
"No ospedale, no polizia..." ripeté il ragazzo.
"No, d'accordo, Ma vieni in macchina con me."
"Io sporco tutto con mio sangue..."
"Ma che me ne frega! Tu adesso vieni con me. Dove sei ferito?"
"Non so..."
"Fammi vedere. Hai un taglio sul braccio... uno sulla guancia, ma più piccolo... Avevano coltelli, quelli!"
"Sì, e catene e calci e botte..."
Giovanni prese il suo fazzoletto e glielo legò stretto sulla ferita del braccio. "Hai un fazzoletto, tu?"
"Sì..."
"Premilo sulla guancia. Ecco, così. Adesso appoggiati a me e vieni."
"Dove porti Vlad, Gio? No ospedale, no polizia..."
"No, vuoi che ti accompagni a casa tua?"
"No casa sua, Vlad. Dorme con altri ragazzi che fa marchette."
"Allora vieni a casa mia!" decise d'impulso Giovanni.
Il ragazzo annuì. Giovanni, sorreggendolo per la vita, l'aiutò a camminare fino alla sua auto. Gli aprì la portiera e lo fece sedere. Poi si mise al posto di guida e partì. Mentre guidava, si chiese che cosa avrebbe detto Manfredo... forse si sarebbe arrabbiato per avergli portato in casa una marchetta, un ragazzo che lui conosceva appena, ma non poteva fare altro. Era disposto a subire le ire del vecchio.
Quando arrivò a Tetti Rossi, azionò il telecomando del cancello, che era stato istallato solo pochi mesi prima. Portò l'auto nel garage, poi aiutò Vlad a scendere.
"Questa casa tua?" gli chiese il ragazzo rumeno.
"No, è casa del mio padrone, ma ora io abito qui. Vieni, saliamo in camera mia."
"Tuo padrone non manda via te per aver portato puttana frocia in casa sua?"
"Non credo. Io porto nella mia stanza un amico ferito. Un amico che ha bisogno di aiuto. Non ti peoccupare per me, faccio solo quello che è giusto."
"Vlad non vuole dare problemi a Gio."
"Lo so, ma non sei tu a darmi problemi. Sono io che ho deciso di portarti da me."
La casa era completamente buia e silenziosa. Saliti fino alla camera di Giovanni, questi aiutò il ragazzo a spogliarsi e lo portò in bagno. Regolò l'acqua della doccia e, spogliatosi anche lui per non bagnarsi, vi entrò con Vlad. Con un asciugamanino bagnato, gli lavò via il sangue, e frattanto controllava lo stato del suo corpo. Grandi lividi si stavano formando qua e là, ma i tagli erano solo i due che aveva già visto e quello sul braccio non era molto profondo.
Dopo averlo lavato bene, andò a prendere due fazzoletti puliti e con quelli fasciò il braccio del ragazzo. Aveva solo quattro cerotti che gli pose sulla guancia. Purtroppo non aveva un disinfettante, sperò che al ragazzo non venisse un'infezione. Asciugatolo e asciugatisi, fece stendere Vlad sul proprio letto.
"Domattina vado a comprare un disinfettante e qualche pomata. Ora cerca di dormire."
"Dove dorme Gio?"
"Qui con te, il letto è abbastanza grande per tutti e due. E non ti voglio perdere di vista, voglio essere qui se stai male. Ma perché quelli ti hanno assalito?"
"Perché? Perché io frocio e perché io straniero."
"E che ne sapevano, loro?"
"Che io frocio, in quel posto, a quell'ora tutti sanno che c'è froci, no? E che io straniero... Vlad ancora non parla bene italiano, no? E quelli odia froci e odia stranieri così odia due volte Vlad, no?"
"Povero amico mio!"
"Tu continua a dire amico ma tu conosce poco Vlad."
"Tu non aiuteresti un cane ferito?"
"Sì, ma..."
"E Vlad non è un cane, è un essere umano."
"Cane forse morde mano di chi aiuta lui."
"E Vlad morderà la mia mano?"
"No, mai! Gio è buono. Troppo buono."
"Io credevo che tu lavorassi da Ottavio..."
"Quando Ottavio in prigione, suo vice mandato via Vlad, perché sapeva che Vlad fa la puttana e lui voleva scopare con me ma Vlad aveva schifo di quell'uomo e così detto no, e così... così Vlad ricominciato a fare marchette."
"Ma Ottavio ti avrebbe ripreso, quando è uscito dal carcere."
"Suo vice detto a Vlad che era ordine di Ottavio mandare via me..."
"Mentiva, ne sono sicuro. Ottavio non ne sapeva niente, ci metterei la mano sul fuoco. Ma purtroppo non è più in città, ora. Cerca di dormire, adesso."
"Fa tutto male, ma cerco di dormire. Anche tu stanco, penso."
"Se ti senti peggio, devi svegliarmi. Promesso?"
"Sì, va bene. Grazie, Gio. Tu buono. Vlad non morde mano di Gio. Giuro su mia madre."
"Non si deve giurare... e non c'è bisogno." gli disse con dolcezza Giovanni.
Il mattino dopo si svegliò presto: guardò l'orologio: erano le sette, perciò Manfredo doveva già essere sveglio. Vlad dormiva, un'espressione sofferente sul bel volto martoriato. Facendo piano per non svegliarlo, Giovanni scese dal letto, si tolse il pigiama e andò a lavarsi. Si vestì. Vlad ancora dormiva. In punta di piedi uscì dalla camera e scese a pian terreno. Come s'aspettava, Manfredo era già nel soggiorno piccolo che leggeva un libro e attendeva l'ora di colazione.
"Scusi, Manfredo... se ha un po' di tempo... dovrei parlarle."
"Oh, Giovanni! Siedi lì." disse il vecchio con la sua solita abitudine di ordinare agli altri dove dovessero sedere. "Hai un'espressione preoccupata. Che succede?"
"So di aver violato i suoi ordini, Manfredo, ma non potevo svegliarla ieri notte per chiederle il permesso..."
"Hai violato i miei ordini?" chiese il vecchio corrugando la fronte e le sue folte sopacciglia d'argento. "Che cosa hai combinato?"
Giovanni gli raccontò tutto, compreso chi fosse Vlad, come l'avesse conosciuto, che cosa facesse per sopravvivere. Quindi concluse: "Io non posso veramente garantire al cento per cento per Vlad, come m'aveva chiesto lei, perciò ho violato i suoi ordini, portandolo su in camera mia. Mi dispiace."
"Giovanni, Giovanni... non avevi forse detto proprio tu, una volta, che la legge è fatta per gli uomini e non gli uomini per la legge? In casi d'emergenza, si deve fare quello che è giusto, non quello che dicono le leggi. Hai fatto bene a portarlo su da te. Non si abbandona neanche un animale ferito."
"L'avrei portato in ospedale, ma..."
"No, certo, ha ragione quel ragazzo, nelle sua condizione, che sarebbe stato meglio per lui non andarci. Non hai violato proprio niente, ragazzo mio."
"Non è arrabbiato con me?"
"No, no... Ma piuttosto, bisogna chiamare un medico."
"Pensavo di andare in farmacia a comprare un disinfettante e qualche pomata. Un medico deve denunciare alla polizia qualcuno che ha ricevuto ferite da taglio..."
"Telefono al mio medico personale. Per me non denuncerà nessuno e niente. Ma voglio che il ragazzo riceva le giuste cure. Una ferita da taglio potrebbe procurargli il tetano. E tu sei un bravo giardiniere, ma non un medico e neppure un infermiere."
Manfredo prese il telefono e chiamò il suo medico.
"Spero di non averti svegliato. Ah sì? Beh, mi dispiace, ma è un'emergenza. No, io sto bene. Ho qui in casa un ragazzo che è stato accoltellato... no non ferite profonde, una su un braccio e una superficiale su una guancia. Accoltellato e pestato. Devi venire a vederlo e curarlo. Ma no, via, non gli ho fatto niente, io! Come ti vengono certe idee? No, non cercava di infilarsi a casa mia per derubarmi. Non l'ho neanche visto, io. Senti vieni prima che puoi, porta qualche antibiotico e pomate, pare che abbia ecchimosi per tutto il corpo. Senti, l'ho trovato per la strada mentre andavo a cercarmi un'avventura sessuale! Contento adesso? E mi raccomando, non voglio che si sappia che tu l'hai visto, mi sono spiegato? Bene, ti aspetto. Sì, sì, accetto le tue scuse, ma vieni."
Manfredo chiuse la comunicazione e rimise in tasca il telefonino.
"Che testa, il mio medico! Ma è in gamba, vedrai che rimetterà in sesto il tuo amico... il tuo conoscente, per meglio dire."
"Scusa Manfredo, può restare qui qualche giorno, finché non si sia rimesso un po' in sesto?"
"Sì, certo. Gli faccio preparare la camera davanti alla tua."
"Preferirei aggiungere un lettino in camera mia, c'è abbastanza spazio. Non voglio perderlo d'occhio..."
"Dovrai per forza perderlo d'occhio, mentre lavori. Non serve che tu lo tenga in camera con te. E se anche vorrai un po' di intimità con lui, non cambia niente che dorma nella tua stanza o in quella di fronte alla tua. Lassù ci siete solo voi due."
Giovanni arrossì lievemente. "Non credo che sia in grado di fare qualcosa con me, ridotto come è..." disse a mezza voce il ragazzo.
"Ma guarirà, starà meglio prima o poi. E da come me ne hai parlato, quel ragazzo ti piace, o per lo meno ti attrae, no? Non ci sarebbe niete di male se..."
"Però... pagherò io le spese del medico, e il cibo che consumerà finché starà qui."
"Sì, e anche la stanza che usa, e il ricambio di biancheria..." disse il vecchio, serio.
"Sì, certo. Li detrarrà dalla mia paga."
"Sono lieto che tu l'abbia detto, Giovanni. Ma perché vuoi impedirmi di dare una mano a chi è nel bisogno? Vuoi essere l'unico generoso qui dentro? Vuoi prenderti tutto il merito tu?"
"No, ma..."
"Allora non ci pensare nemmeno. Col mio medico ho il conto aperto, non aumenterà solo per curare quel ragazzo. E un piatto di minestra in più, che vuoi che sia. Il ragazzo è mio ospite, finché non si è rimesso." disse in tono deciso il vecchio.
"Come comanda, onorevole!" gli disse il ragazzo con un sorriso.
Il vecchio rise e gli disse: "E non mi prendere in giro, soprattutto, Giovanni. Vai su dal ragazzo... ma prima avverti Stelvio di preparare una buona colazione per il mio nuovo ospite. Gliela porterai su tu, prima di metterti al lavoro."
Giovanni avvertì il cuoco e salì nuovamente in camera sua. Vlad ancora dormiva. Poco prima dell'ora di colazione arrivò il medico, che visitò accuratamente il ragazzo e, dopo avergli fatto due inezioni, e avergli curato le ferite e i lividi, lasciò a Giovanni pomate e bende, con i consigli del caso.
Giovanni scese con il medico e mentre questi andava a parlare con l'onorevole, passò in cucina a prendrere la colazione per Vlad. Tornato su, gli disse che il padrone di casa aveva deciso di ospitarlo e farlo curare finché non si fosse completamente rimesso.
"Non ti ha sgridato?"
"No, affatto."
"Ma tu gli hai detto di me? Chi sono, che faccio marchette?"
"Certo."
"E lui accetta in casa una puttana?" chiese Vlad stupito.
"Tu non sei una puttana... sei Vlad."
"Vlad, sì, ma Vlad vende suo corpo, perciò Vlad uguale puttana."
"Ti piace?"
"Che altro può fare, Vlad?"
"Ma ti piace?"
"Se Vlad aveva lavoro, preferiva fare lavoro e no fare puttana."
"Appunto. Una cosa, Vlad, devi promettermi."
"Sì tutto."
"Mentre io non ci sono, per favore, non girare per casa. D'accordo?"
"Certo, Vlad non si muove di qui."
"Prima di sera ti preparo la stanza di fronte alla mia."
"Non posso restare qui?"
"Il padrone ha deciso così, e io non discuto i suoi ordini."
"Capisco. Lui ha paura che noi scopiamo."
"No, non gli interessa. Ma ha deciso così, perciò faremo così."
"Va bene."
Il medico tornò alcune volte, per assicurarsi che il ragazzo stesse guarendo e non sopravvenissero complicazioni.
"Ci metterà molto a rimettersi?" gli chiese Giovanni mentre scendevano le scale.
"No, ha una fibra forte, il ragazzo. Si rimetterà presto."
"Bene." commentò Giovanni.