Nell'anno del Signore 1161, Johane Ulpianus ricevette in capo il serto di lauro nell'Aula Magna dell'Universitas Studiorum di Bononia. Dopo la semplice ma solenne cerimonia, la "brigata de' canterini zoppi" lo festeggiò.
"Ora che torni alla tua terrra, Johane, la nostra brigata morirà..." disse Marentius da Caserta.
"E perché mai? Johane, il nostro fondatore, rimarrà il nostro imperatore e in suo nome e onore, continueremo ad andare per le vie cantando e zoppicando!" disse Waldemarus de' Hauptenstein.
"Certo, sarà così!" dissero in molti.
"Bene, sarà come voi volete. E dato che avete detto che sono il vostro imperatore, io nomino mio luogotenente generale te, Adalbertus de Savoie. E quando anche tu dovrai lasciare Bononia, sceglierai in nome mio e con la mia potestà il nuovo luogotenente della nostra allegra brigata!"
"Tre vivat per il nostro Imperatore!" disse allora Alvisius il Venitiano.
Quando a notte la brigata si sciolse, il giovane Alvisius si accompagnò a Johane.
"Mi concedi quest'ultima notte, prima che ci si separi?" gli chiese il ragazzo con occhi pieni di speranza.
"Mio dolce Alvisius, non chiedo di meglio, come viatico. Su, sali con me nella mia stanzetta."
"Sentirò la tua mancanza, Johane, tu che m'hai fatto scoprire quanto sia bello amarci fra noi ragazzi."
Johane gli scompigliò i capelli: "Ecco, così assomigli di più a me, anche se il tuo volto è più bello del mio. Ti ricordi, Alvisius, quella prima volta quando mi respingesti con sdegno?
"Ero un folle, un ragazzino stolto. Avevo la testa piena di assurdi: non si deve! Ma tu, con la tua pazienza e il tuo fascino..."
"Fascino, poi! Dove lo vedi, il mio fascino?"
"Nei tuoi occhi, nel tuo sorriso... Tu col tuo fascino mi facesti capitolare, e mai resa fu più piacevole. Che farò senza te, o mio imperatore, mio mentore e amico? Sei riuscito in un'impresa che il mio Magister credeva disperata: farmi amare l'idioma greco. Oltre che l'amor greco, si intende!" disse il ragazzo allegramente mentre si denudavano.
"Che farai, mio dolce Alvisius, quando anche tu avrai completato i tuoi studi?"
"Mancano ancora tre anni, c'è tempo. Ma credo che farò il clericus vagans, passando da Universitas in Universitas per fare altri studi presso i più famosi Magistri... e anche per diffondere l'apprezzamento per l'amor greco al tempo stesso, s'intende."
"Tanto entusiasta ne sei diventato? Ma stai accorto. Tu sai quanto la nostra Santa Madre Chiesa diventi crudele e spietata matrigna per quelli come noi."
"Lo so, anche se so pure che non pochi prelati indulgono segretamente nell'amor greco. E so pure che Magister Nicolaus che tuona così spesso contro il peccato di Sodoma, si fa fottere immancabilmente da Cencius de' Pazzi e da Stephanus l'anglo!"
"Anche da Stephanus? Questo non lo sapevo. Sei bene informato, tu. Comunque, come t'ho detto, stai accorto."
"Sì, starò accorto. Sono figlio di un mercante, e noi si è allevati mescolando il latte materno con l'astuzia. Ma ora bando a queste ciance: è la nostra ultima notte assieme!"
I due spesero l'intera notte alternando lunghe sessioni di piacere con brevi pause di sonno. Giunto il mattino, Johane si preparò per affrontare il viaggio di ritorno.
"Rassettati le chiome, Alvisius." gli disse Johane.
"No. In onor tuo, ogni volta che sarò con l'allegra brigata de' canterini zoppi, io mi scompiglierò i capelli." disse il ragazzo affacciandosi alla finestra.
"Ma ora non sei con gli amici della brigata."
"No, dici? Non ti pare di udire qualcosa?"
Da sotto la finestra della stanzetta di Johane, in quella, giunse un coro di voci:
"Cantiam per voi, o bei garzoni ardenti
e per tutti li bei clerici amanti:
nella vita bisogna essere pronti
e, nelle decisioni, ben convinti!
Esser pronti, certo vi conviene;
per questo vi cantiamo, di Johane,
l'Evangelio, che a tutti voi propone
notti e giorni di gioia senza fine!
Evitate i lacciuoli delle belle;
non siate come bestie nelle stalle;
calmate il vostro sangue che ribolle;
sopite il fuoco e le sue faville!
Gli uni sugli altri amatevi, su, adesso
e badate a non far troppo fracasso
Ma della tentazion saltate il fosso:
quest'è il precetto ch'è per tutti affisso!
Vi svelo ora un nobile segreto:
l'uguale con l'uguale sia legato
e scelto ad arte un luogo assai remoto,
nell'anello dell'altro infili il dito!
Ricorda che la vita è troppo breve,
tu rendila perciò con lui soave,
immergi l'asta dura ove non piove:
la vita è bella quando in due si vive!"
Johane, che s'era affacciato a sua volta alla finestra, rise e cantò di rimando:
"Questo Evangelio io certo seguo lieto,
tal quale voi l'avete a me annunciato
e al dio dell'amore ora io faccio un voto:
farò quel che comanda a menadito!
Sfuggirò ogni donna come peste,
e per difesa impugnerò le aste
che i pavidi mi tengono nascoste
e dove non piove verserò provviste!
Sarò fedele a questo bel precetto,
e come voi cantate sarà fatto!
Che il mio compagno stia a me sopra o sotto,
nella tenzon nessun sarà sconfitto.
Soave è andar su e giù con lieta lena,
godere nell'amico è cosa sana,
all'amico dare albergo è cosa buona,
donargli il proprio latte è cosa fina.
Viviamo allegri o dolci amici belli,
rallegriamoci in canti e lieti balli,
non curiamoci di chi ci dice folli:
l'amor non vuole regole e cavilli!
Goditi con l'amico il suo godere.
Ricorda ch'è assai buon prendere e dare.
Quel che conta nel mondo è far l'amore.
Di Grecia il fiore cura e fai fiorire!"
"Scendi Johane? Ti s'accompagna per un tratto!" gli gridò uno degli amici.
"Son pronto, eccomi a voi. Addio, Universitas Stultorum!"
Quando Johane fu lontano dalle mura di Bononia e ormai non udiva più i canti degli amici dell'allegra brigata che l'avevano accompagnato per un buon tratto, si fermò a sedere sul ciglio della strada ed emise un lungo sospiro. Gli dispiaceva lasciare Bononia e i molti amici che vi si era fatto, anche se era felice alla prospettiva di rivedere la sua dolce terra, e soprattutto il suo bellissimo amico, Florentius.
Provò la tentazione di tornare indietro e diventare anche lui un clericus vagans... ma la vita non è mai tornare indietro, si disse. Doveva andare avanti. S'alzò e, risoluto, riprese il suo cammino.
Ripensò all'ultimo dei suoi amanti in Bononia, al dolce Alvisius con il suo buffo accento venitiano, a come il suo iniziale rifiuto di fare l'amore si fosse tramutato in passione.
Ripensò ai compagni che provenivano da terre lontane di cui prima neppure sospettava l'esistenza e il cui volgare era incomprensibile: al dano, al savoiardo, all'allemano... Poi a quelli il cui volgare assomigliava al suo: al romano, al perugino, al panormitano. Con alcuni aveva anche condiviso il letto, con tutti era stato amico. Erano stati anni belli e fecondi... aveva appreso "millanta cose niove" come diceva Alvisius nel suo curioso volgare.
Era stato proprio Alvisius che aveva definito l'ano come "il loco ove non piove"... e subito quella definizione era entrata nel gergo dei clerici, grazie alle canzonette della "brigata de' canterini zoppi". Johane, camminando, rispolverava mille dettagli che aveva accuratamente archiviato in un cantuccio del proprio cuore.
Che avrebbe fatto nella vita lui, Johane Ulpianus, figlio maggiore degli Ulpiani?
"Giuro che non mi sposerò mai!" aveva detto più volte... avrebbe davvero potuto mantenere questo giuramento? L'idea di avere figli, un giorno, non gli sarebbe dispiaciuta, ma l'idea di dividere il letto, e il corpo, con una donna, lo disturbava alquanto. Se lui fosse stato come alcuni suoi compagni, per cui accompagnarsi con una donna o un uomo era parimenti gradevole, come ad esempio per il dano, non avrebbe avuto problemi. Ma non era così.
Poco oltre Faentia, un uomo con un ampio mantello gettato dietro sulle spalle, e una tunica nera su cui spiccava una grande rossa croce gemmata, giunse da una strada laterale e si affiancò a lui.
"Salute a te, ragazzo. Reca ad Ariminum, questa via, non è vero?"
"Così è, signore."
"Ah, fortunatamente tu parli il latino. Sei un clericus?"
"Lo sono stato fino a ieri. Non so ancora quel che sarò domani."
"Zoppichi. Ti sei fatto male per via?"
"No, caddi da un balcone or son nove anni. E tu, sei un cavaliere? Non ho mai visto codesto abbigliamento."
"Sì, sono un cavaliere dell'Ordo Sancti Lucae. Ma il nostro ordine sta morendo, molti si uniscono all'ordine de' Cavalieri di Jerusalem, altri agli Ospitalieri del Carmelo... In questi tempi gli ordini cavallereschi nascono e muoiono più in fretta che le farfalle di maggio."
"E com'è che il vostro ordine sta morendo?"
"Quando fu fondato, or son dieci lustri, il fondatore decise che ogni cavaliere, pur prendendo i voti, restasse nelle proprie terre, nel proprio castello, per difendere i pellegrini da' briganti, soccorrere gli orfani e le vedove, consolare i prigionieri. Pareva una buona idea. Ma un ordine senza proprie terre, senza propri castelli, senza una gerarchia ben stabilita... che vuoi, ha breve durata. Più volte io stesso sollecitai il Gran Consiglio a cambiar regola, ma invano."
"Prendete i voti, hai detto? Quali voti?"
"L'obbedienza alla Chiesa e ai suoi pastori, il celibato, la dedizione ai miseri e ai deboli, e il voto da cui il nostro ordine prende il nome, la lettura ogni mattina e ogni sera di un brano dell'Evangelio di Lucas."
"Il celibato, avete detto?"
"Tutti gli ordini cavallereschi hanno questo voto oltre a quello dell'obbedienza alla Santa Chiesa. Gli altri voti invece possono cambiare"
"Interessante. E come si fonda un ordine?"
"Alcuni cavalieri si radunano, stendono una regola, chiedono l'approvazione del vescovo e in un secondo tempo anche del papa... ed è tutto. E si sceglie una divisa, s'intende."
"Sembra assai semplice. E solo i nobili ne possono far parte?"
"Certamente. I non nobili possono entrarvi come famigli o scudieri, o servi. In questo caso il loro voto è, generalmente, solo quello di castità e di obbedienza all'Ordine. Come mai sei tanto interessato, raazzo?"
"Oh, nulla, pura curiosità."
Proseguirono la via assieme, conversando piacevolmente.
"Sei stanco, ragazzo? Vuoi che ci fermiamo?"
"Un poco... Il mio passo non è agevole come il tuo. Ma posso fermarmi da solo e tu puoi proseguire il tuo cammino senza perdere tempo a causa mia."
"Non ho fretta alcuna, e gradisco la tua compagnia. Se te la senti, procediamo fino alla prima locanda e sarò lieto d'offrirti sia un pasto che un giaciglio. Come tutti i clerici, immagino che tu sia a corto di monete..."
"Sei gentile. Acetto la tua generosa offerta. Spero solo che la locanda non sia troppo lontana."
"Ti fa male, la gamba?"
"No, affatto. Solo che non posso camminare svelto e mi stanco prima degli altri."
"Quanti anni hai, ragazzo?"
"Diciannove."
"Alla tua età io giusto pronunciavo i miei voti nelle mani del Magister Magnus..."
"E tu, cavaliere, quanti anni hai, ora?"
"Trentatré, come gli anni di Nostro Signore. Ecco, guarda, quella laggiù è quasi certamente una locanda, ne ha tutta l'aria. Un ultimo sforzo e ci potremo riposare."
A differenza di quanto Johane avesse pensato, il cavaliere, pur avendogli offerto il pasto e il letto, non tentò con lui nessun approccio.
"O sono troppo brutto per lui, o non ama i ragazzi... O forse solamente è troppo fedele al suo voto di castità, più dei preti stessi..." pensò Johane.
Il dì seguente ripresero la via assieme. Si salutarono alle porte di Ariminum e Johane proseguì per il suo cammino.
"Ohilà, cionco!" lo apostrofò una voce alle sue spalle.
"Sono già nel Piceno, se mi si chiama cionco e non zoppo!" esclamò allegramente il ragazzo e si girò a guardare chi l'aveva chiamato: era un uomo su un cavallo.
"Ohilà, cavaliere!" lo salutò in risposta Johane.
L'uomo rise, fermò il cavallo accanto al ragazzo guardandolo con allegria: "Ma che cavaliere. Io sono solo un servo."
"Un servo tu? Ma sei a cavallo e hai vesti più belle delle mie!"
"Sono il servo del signore di Auximum e gli sto riportando il cavallo che m'incaricò di andare ad acquistare da un suo parente. Dove stai andando, tu?"
"Torno a casa mia, al Castrum Ulpiani."
"Ah, sì, so dove è. Salta su, allora, così ti risparmi un buon tratto di strada. Sei leggero e anche io non sono pesante e il cavallo, se non lo sforzo, ci può portare agevolmente in due." gli disse il servo tendendogli il braccio.
Johane lo prese e il servo lo issò sul cavallo, davanti a sé.
"Sei un servo degli Ulpiani?" gli chiese l'altro.
"Sì," mentì Johane. "Mi si mandò fino a Bononia per un'ambasciata."
"E hanno scelto te, povero cionco? Che padroni senza cuore!"
"Ero l'unico servo di cui potevano fare a meno per un poco..." inventò Johane divertito.
"Hai mai visto tu un cavallo montare una puledra?"
"No, mai..."
"Dovresti vedere come gli dà sotto... e che sberla gli vien fuori di fra le zampe!" rise il servo.
"Già, per questo forse si dice di uno che madre natura ha ben fornito fra le gambe che è dotato come un cavallo..."
"O come un asino, che ce l'ha pure più grosso, quand'è bello duro e ritto... Lo senti il mio, che s'è fatto duro e ritto per il calore del tuo culetto?"
"Sì, comincio a sentirlo... ma io non sono né una cavalla né un'asina..."
"No, ma il tuo culetto è caldo e sodo e mi piacerebbe assai assaggiarlo..." una mano del servo scese fra le gambe di Johane a palparlo: "Dai, che tu pure ne hai voglia: l'hai tu pure già bello duro."
"Mica si può metterci a farlo in strada come due cani..." protestò Johane a cui il servo non dispiaceva affatto.
"Non per strada, ma su un cavallo sì."
"Su un cavallo, dici? E come?" chiese Johne incuriosito.
"So ben io come. Se tu mi lasci fare, io te lo dimostro con piacere."
"Ma se passa qualcuno?"
"Non vede nulla."
"E com'è possibile una tal cosa?"
"T'ho già detto che se lasci fare a me, io te lo mostro più che volentieri. Ci stai? Me lo dai il tuo bel culetto?"
Johane era incuriosito, divertito ed eccitato: "Bene. Dimmi che devo fare."
"Mettiti giù e abbraccia il collo del cavallo. Io ti scopro il culetto e te lo spingo tutto dentro. Poi tu ti tiri su come sei adesso, standomi ben contro il petto... e il resto lo fa il cavallo facendoti ballonzolare su e giù sopra al mio palo. E i nostri abiti coprono tutto, sì che se pure passa qualcuno, e se pure cavalca al nostro fianco, non può sospettare che io ti sto fottendo..."
"Funziona davvero?" chiese divertito Johane.
"Eccome! L'ho già fatto con altri servi... E questo è l'unico modo che io conosco che permette di farlo anche sotto gli occhi degli altri... Solo quando lo si mette e poi lo si toglie è meglio essere soli..."
"Proviamo, dunque, son davvero curioso!" disse allegramente il ragazzo. Scese col petto sul collo del cavallo e lo abbracciò: "Così va bene?"
"Perfetto." disse il servo e frugando nelle vesti di Johane, ne svelò il bel culetto.
Gli insalivò bene l'ano, trafficò un poco per liberare il proprio membro, lo puntò e spinse: "Eccotelo... sta entrando..."
"Lo sento... che devo fare?"
"Nulla. Aspetta solo che te lo cacci tutto dentro... Così... Così... Bene! Ora sollevati lentamente spingendoti contro me, fino a che la tua schiena è contro il mio petto, fra le mie braccia. Sì... così... Bene. Ora mando il cavallo al mezzo trotto... e la fottuta inizia... Ecco, ti piace?"
"Niente male davvero. Nella vita se ne impara sempre una nuova! E se tu lo mandassi al galoppo?"
"No, uscirebbe fuori. Il mezzo trotto è l'andatura ideale, per fare questo. Senti come il passo del cavallo dà il giusto ritmo e la giusta spinta al mio paletto dentro di te, senza che né tu né io s'abbia a far nulla?"
"È vero... è gradevole assai... Chi t'ha insegnato questo modo originale di fottere?"
"Il mio padrone, quand'avevo sedici anni."
"Lo fa ancora con te?"
"No, a lui piacciono gli sbarbatelli. E ora son io a metterlo, quando se ne presenta l'occasione."
"Per questo m'hai offerto di salire con te sul cavallo."
"No, te l'ho offerto perché sei cionco. Ma certo, speravo che ci scappasse pure una bella fottuta..."
"E se io ti dicevo di no, mi facevi scendere?"
"Ma no, che c'entra. Speravo solo che mi dicesi di sì, come hai fatto. Quando hai sentito il mio arnese duro premerti contro non hai protestato. Quello era il segnale. Se non ti piaceva, eri tu a chiedermi di scendere, no?"
La "fottuta al mezzo trotto" si stava facendo sempre più piacevole ed entrambi tacquero assaporandola. Finché il servo gli si premette dentro, spingendo di sotto in su e venne con una serie di mugolii di piacere.
"Oh, è stato bello, vero?" gli chiese il servo, senza ancora sfilarsi da lui.
"Tu ti sei preso il tuo piacere, io non ancora..."
"Vorresti che scambiassimo le parti? Sai cavalcare bene, tu?"
"Non troppo..."
"Allora non è possibile. Se vuoi, te lo meno..."
"Quello posso farlo anche da solo... Ma non importa. Va bene così. Ti togli, ora?"
"Sì... rimettiti giù come prima..." disse il servo facendo andare di nuovo il cavallo al passo.
Si risistemarono gli abiti.
Johane pensò che era stato piacevole e divertente. Avevano superato due viandanti a piedi e incrociato un uomo a cavallo mentre lui ballonzolava su e giù sul duro membro dell'uomo, e s'erano scambiati i saluti di rito come se niente fosse, con gran divertimento di Johane.
Giunti al bivio della strada che saliva ad Auximum, Johane scese dal cavallo, salutò e ringraziò il servo per la doppia cavalcata.
"Il piacere è stato mio." disse il servo.
"Puoi ben dirlo!" rispose il ragazzo e allegramente proseguì per la sua strada.
Gli sarebbe piaciuto provarci anche lui con il servo, ma purtroppo davvero non sapeva cavalcare bene, e capiva che non sarebbe riuscito a mantenere al mezzo trotto il cavallo e a restare sufficientemente infisso nel sedere dell'altro... Improvvisò una canzonetta:
"Sul cavallo a mezzo trotto
i due giovani compari,
senza tema di rimbrotto
dai vindanti, tutti ignari,
stan godendo in pieno giorno
sia l'andata che il ritorno.
Su e giù senza cessare,
salutando a dritta e manca,
l'uno l'altro può saziare
sulla strada tutta bianca.
Cavalcare in questo modo
è un piacer ch'io molto godo!"
Finalmente, dopo il lungo cammino, oltre il basso colle dei lauri, Johane vide le mura del Castrum Ulpiani. Un ultimo sforzo e sarebbe giunto a casa. Quando prese la via che da dietro saliva al suo castello e che si sarebbe poi riunita con quella che sul crinale congiungeva il Castrum Mutii con il Castrum Ulpiani, alcuni contadini lo riconobbero.
"Oh, ben tornato messer Johane!"
"Che nuove ci sono?"
"Poche nuove. Le solite baruffe e scaramucce con gli altri castelli, soprattutto con i Mutii ladri e bugiardi. Una scorribanda dei maledetti Maurelli nelle nostre terre a mare per rubarci il bestiame, terminata con un paio di loro case coloniche bruciate, e parecchie ossa malconce da entrambe le parti..."
"Tutto normale, insomma." concluse Johane con ironia.
"Tutto normale, sì." risposero i contadini.
"Son cambiati, i confini?"
"Cambiarono un paio di volte, per alcuni mesi ognuna, ma ora è tutto tornato come prima. I Mutii ladri e bugiardi non l'hanno spuntata con noi. Che si rompan le corna con i maledetti Maurelli e ci lascino in pace: gli conviene!"
"Non ne avete a bastanza di tutte queste guerre?" chiese Johane.
"Noi contadini e servi, sì. Ma pare che voi signori, senza offesa, non pensate ad altro. D'accordo, difendendo voi stessi difendete le vostre terre. Ma che cambia per noi coltivare le terre dell'uno o dell'altro signore? Chini sulla zappa tutto il santo giorno, o a guidar l'aratro. Che si debba la decima a uno degli Ulpiani o de' Mutii... noi sempre chini si resta."
Johane annuì: il contadino non aveva affatto torto. Il ragazzo riprese la salita. Finalmente, giunto sul crinale, la via era in piano e meno faticosa, e svoltando a dritta, giunse al borgo, al Castrum Ulpiani.
Si riposò per il restante del giorno, raccontando al fratello minore e alle sorelle della sua vita a Bononia, abbellendo a tratti il suo racconto non tanto per il gusto di mentire, quanto per renderlo più interessante. Gli incidenti diventavano gravi, i divertimenti diventavano assai belli nel suo raccontare, i successi magnifici e gli insuccessi cocenti.
Gli studi erano, a suo dire, o affascinanti, o terribilmente noiosi, o d'una facilità estrema per il suo ingegno, o talmente difficili da rompercisi il capo; i Magistri eran tutti troppo severi, e i compagni tutti assai gradevoli... e il fratello e le sorelle lo ascoltavano a bocca aperta, bevendo ogni sua parola.
Il fratello minore, a un tratto disse: "Io non voglio studiare, a me piace fare la guerra."
"Sì, finché vinci. Ma quando perdi?" lo rimbeccò la sorella maggiore con aria saggia.
"Basta non aver paura come una di voi femminucce, e si vince!" disse il fratello.
"Non è così, Filippus. Non basta non aver paura per non essere sconfitti. Bisogna essere i più forti." gli disse Johane.
"E io diventerò il più forte."
"Ma prima o poi troverai chi è più forte di te. Non è né con le guerre che si risolvono i problemi, né con la forza. Le guerre fan più danni di quanti pretendono di risolverne." gli disse Johane.
"Oh, tu, Johane, caleresti le brache e mostreresti le chiappe al tuo nemico?" gli chiese il fratello.
"E tu, Filippus, preferiresti calarti le brache e offrir le chiappe a un amico?" gli chiese ironico Johane.
"Non fare questi discorsi sconci, Johane, non sta bene!" lo rimproverò la sorella maggiore.
"Hai solo quindici anni, Filippus. Spero che crescendo capirai che la guerra non è un gioco, ma una cosa del tutto inutile," disse Johane, "e capirai anche la stupidità di chi le vuole fare."
"Avrò solo quindici anni, ma io so che a chi mi dà una spinta, io ne rendo due!"
"E lui te ne dà quattro, e tu otto, e non si finisce mai."
"Dovrei prendermi le spinte e dire grazie?" lo sfidò Filippus.
"Eh, forse sì. Vedi, io una volta, per errore, ero sconfinato nelle terre del vicino signore. Lui mi sorprese ed era furioso con me e intendeva punirmi severamente. Dopo tutto era nel suo diritto farlo. Io perciò gli chiesi scusa, ammisi il mio involontario errore e gli dissi che accettavo serenamente la meritata punizione, qualunque essa fosse. Quel che è giusto, è giusto, gli dissi. Questo lo ammansì e mi lasciò andare senza punirmi."
"Questo non me l'avevi mai raccontato. Davvero andò così? Quando accadde?"
"Tempo fa. E sono certo che se i miei passi mi portassero ancora a incontrare quel signore, lui ora mi saluterebbe con rispetto, non con inimicizia. Se al contrario io avessi reagito con superbo orgoglio, o se mi fossi vendicato della punizione, ora saremmo ancora in guerra. Perciò, credo di sì, è meglio prendersi una spinta e al più chiederne la ragione, senza alzar la voce, senza insultare, che non renderne due."
"Ma se quello ci prova gusto a insultarmi perché io non mi difendo?"
"Difendersi è sempre giusto, ma non raddoppiar la dose. Difendersi e mai offendere, comunque."