Qualche volta mi capita di chiedermi come sia cominciato tutto questo. Come io sia arrivato a essere quello che sono. Uno si aspetta, nella propria vita, un punto di svolta, un qualche fatto decisivo che ha fatto di lui quello che è...
Io proprio non ci riesco. Cioè, ci sono troppi punti di svolta nella mia vita, troppi perché uno di loro possa essere considerato decisivo. Perciò tanto vale che io cominci dall'inizio.
Per quanto posso ricordare, ho avuto una vita stupida e superficiale fin dall'inizio, come d'altronde molti dei bambini del mio quartiere: botte da orbi fra di noi, come spesso ci capitava di vedere in casa fra i nostri genitori. No, forse sto generalizzando, ma per lo meno fra i miei era così.
Mio padre e mia madre, Carlo e Bianca, erano una coppia di normali trasteverini, "felicemente sposati" come si usa dire, che però parevano fare del proprio meglio per odiarsi. Carlo non poteva fregarsene di me più di quanto facesse, ma in realtà non riesco ancora a capire se c'era una cosa di cui non se ne fregava, a parte se stesso. Per Bianca, invece, ero la luce delle sue pupille, o per lo meno lei sempre diceva così.
"Fatti grande e grosso e fatti rispettare come tuo cugino Manlio" mi diceva, e "vedi di diventare qualcuno, almeno tu; tutti devono ammirare e rispettare il figlio di Bianca".
Quando avevo tredici anni, giusto l'anno prima di iscrivermi alle superiori, feci la mia prima scopata. Se mio padre l'avesse saputo, forse sarebbe pure stato fiero di me. Chissà? Fu una scopata apprezzabile e divertente. Lei, una vicina di casa di qualche anno più grande di me, mi fece vedere come si faceva, e io fui un buon allievo.
Io le detti una buona fottuta e in cambio lei mi attaccò i suoi pidocchi. Io per tutto l'anno seguente mi ingegnai per togliermeli di dosso, oppure per condividerli generosamente con ogni compagna o compagno di scuola o del quartiere che avesse la fortuna di scopare con me. Sì, maschi e femmine: la nostra era una classe mista, dopo tutto. La chiamavano "co-educazione". Io l'avrei chiamata più propriamente "co-pulazione".
Tutto andò bene finché li passai alla ragazza sbagliata: la stronzetta disse ai suoi che ero io l'unico con cui aveva fatto certi giochini... così la cosa venne a galla. Mia madre si fece venire gli attacchi isterici, mio padre mi fece l'occhietto (finalmente fiero di me) e mi andò a comprare la famosa "polvere Mom" per spidocchiarmi.
Penso che se a sputtanarmi fosse stato un ragazzo invece che una ragazza, mio padre invece che l'occhietto m'avrebbe fatto un occhio nero, e mia madre sarebbe caduta giù stecchita. Per fortuna quella volta era una pollastrella...
Perché lo facevo sia con i maschi che con le femmine? Mah, ce l'avevo sempre in tiro e perciò, purché ci fosse un buco disponibile, ce lo ficcavo dentro senza farmi troppi problemi; ero di bocca buona, insomma, non ero troppo schizzinoso.
Anche se, devo dire, coi miei compagni mi piaceva un po' di più, sia perché a me il maschio è sempre sembrato più bello delle femmine (e d'altra pare basta guardare il gallo e la gallina, o il leone e la leonessa e così via), sia perché non facevano gli smorfiosi e i preziosi come le pollastre.
Solo che, tutto sommato, era più facile che te la mollasse una pollastra che un galletto. Però coi ragazzi, se era un sì, era un sì serio e non pareva che ti concedessero chissà quale grazia o privilegio. Si fotteva e basta, e poi amici come prima, senza legami e senza tante smancerie.
Crescendo, mi accorsi che le ragazze facevano sempre più le preziose. Siccome giocavo a calcio nella squadra dei ragazzi della parrocchia, mi era più facile riuscire a mettermi sotto qualcuno dei miei compagni di squadra, abbastanza spesso per levarmi la voglia. Bastava che non lo sapessero gli altri, e più di uno ci stava.
Non ho preso un diploma. Ho ripetuto due volte la prima superiore, due volte la seconda, e poi basta perché dopo la seconda bocciatura non si può ripetere la terza volta e così almeno è finito quel supplizio infame.
Mi piaceva molto leggere, anche i libri di storia, però odiavo le interrogazioni, i compiti in classe, gli esami... Leggevo un sacco, ma solo quello che mi piaceva. Credo di aver letto almeno la metà dei libri dell'Istituto, finché sono andato a scuola.
A diciassette anni, mi hanno pizzicato in un supermercato che fregavo le musicassette. Erano buoni affari, finché è durata. Mica le tenevo per me, a casa mia lo stereo nemmeno c'era. Le rivendevo ai compagni, ancora sigillate e col prezzo sopra, a metà prezzo. Un ottimo affare per loro e per me.
Comunque... chiamarono la polizia. Scene di isteria di mia madre e mio padre che dice: "Beh, se è tanto idiota (da farsi pizzicare, non lo disse ma ci giuro che lo pensava), sbattetelo dentro, se lo merita." Il signor giudice, una faccia da culo che non vi dico, fu clemente: mi dette la condizionale.
Ammetto che quasi me la facevo addosso per la paura che mi sbattessero dentro, e che in galera diventassi la puttana di tutti. Nel quartiere si diceva che era quello che era successo al fratello minore del benzinaro. "Gli hanno fatto un culo così," dicevano i compagni facendo il gesto con le mani. "Lo fottevano anche in tre o in quattro ogni giorno," diceva un altro. "E se diceva di no, prima lo pestavano e poi glielo mettevano lo stesso"...
Così ebbero completamente fine le mie tendenze criminali. Rischiare di finire in galera e lì dover diventare la puttana di tutti, oltretutto gratis e contro voglia, non era davvero la mia vocazione.
Ho cambiato un sacco di lavori. Ho fatto volantinaggio, poi m'hanno assunto, in nero logicamente, per pulire i cessi d'una fabbrichetta dei sobborghi. Avreste dovuto vederli, quei cessi, con le scritte e i disegni sulle porte o sulle pareti! Avevo sempre in tasca un notes e una matita per copiarci i migliori e i più divertenti.
Poi ho fatto la maschera in un cinema, da dove mi hanno licenziato in tronco perché il gestore m'aveva beccato mentre mi stavo facendo un tizio dietro l'ultima fila di sedili della galleria. Quello ne aveva presi tanti che gli sono entrato dentro liscio come il burro, però sapeva stringere e muoversi in un modo che, se non arrivava il gestore, stavo per farmi una gran bella goduta.
Era belloccio, quel tizio, doveva avere solo un paio di anni più di me. Quando m'era passato davanti e m'aveva mostrato il biglietto, m'aveva anche toccato lì e... beh, il mio funziona bene e va in carica appena lo sfiori e così, poiché due e due fa quattro...
Lui era lì, coi calzoni un po' calati e io, solo la patta aperta, gli stantuffavo dentro allegramente. Il tizio è riuscito a tagliare la corda, io invece licenziato su due piedi, col gestore che mi gridava dietro, "e ringrazia che non ti denuncio, maiale pervertito!" Poi lo stronzo, non contento, è andato a spifferare tutto ai miei.
A questo punto Carlo e Bianca cominciavano ad averne le scatole piene di me, e uno li può anche capire. Carlo seguitava a ripetere, "un frocio in famiglia, un frocio in famiglia..." e era così abbacchiato che non mi ha nemmeno menato. Bianca invece diceva "è stato solo un errore di gioventù", ma penso che non ci credeva nemmeno lei.
Quando, per giustificarmi, gli ho detto che di solito erano le pollastre a chiedermi certi servizi e che li facevo volentieri, beh... non so perché ma Bianca m'ha dato un ceffone, il primo e l'ultimo in vita sua. Certo è che non ero più la luce delle sue pupille: le era venuta la cataratta.
La pace in casa è tornata quando mio zio Felice, che era quello riuscito bene in tutta la nostra famiglia, mi offrì un lavoro. Lui era il proprietario di due bar, uno dove si riunivano i vecchi a giocare a scopa e parlare di calcio; l'altro, più moderno, dove i fighetti del quartiere portavano a passeggio i loro vestiti firmati e qualche volta anche le loro pollastre.
Mi mise a lavorare nel bar dei fighetti con sua figlia Stefania. Lui invece lavorava in quello dei vecchi. Avreste dovuto vederla, mia cugina Stefania! Portava certe minigonne che invece di coprire facevano vedere meglio. Aveva le curve giuste nei posti giusti, voglio dire né troppo grosse né troppo piccole, e due meloncelli che gli avresti dato un morso. Mica troppo forte, si capisce, giusto quel tanto per gradire.
Quando dietro al bancone lei doveva passare da una parte all'altra, mai una volta che mi passava dietro e siccome lo spazio era poco... certe strofinate del suo culetto proprio lì! Voi magari pensate che non dovevo, lei era mia cugina e tutte quelle cazzate che dice la gente per bene, ma come ho detto, il mio pistolotto, una volta caricato e puntato, deve per forza sparare.
Così alla fine, una volta, nel retro successe il fattaccio. Non so se si agitava più lei o io, in silenzio per non farci sentire dai clienti... Quella volta fu veloce e breve, eravamo tutti e due troppo su di giri. Le volte dopo però andò meglio.
Logicamente lo zio Felice ci beccò in piena danza dei ventri, e non era felice proprio per niente e così ebbe fine anche la mia carriera di barista. Per Bianca era troppo, e neanche Carlo pareva fiero di me, anche se questa volta era stato con una pollastra che avevo fatto il mio dovere.
La cosa che mi dispiaceva di più aver perso, a non fare il cameriere, era l'uniforme. La camicia immacolata col farfallino nero, il gilè corto, aperto davanti, e soprattutto i calzoni attillati che erano un'efficace pubblicità delle mie doti nascoste, con quel rigonfio delle giuste dimensioni e al posto giusto...
Quando mi vedevo riflesso in uno degli specchi del bar, dovevo ammettere che ero un figurino, anche senza vestiti firmati addosso. Anche per la mia faccia simpatica e i miei capelli soffici... ma soprattutto lì, il bozzo fra le gambe. E mica me lo dicevo io da solo, ma pure certi sguardi di ambo i sessi...
Comunque, la vita a Trastevere per me stava diventando una pizza unica, e poi con tutti quei lavori che trovavo e perdevo così in fretta, m'ero fatto la fama di un buono a nulla... e si sbagliavano, perché io ero buono, e non solo a fottere, ma anche a lavorare sodo.
Così presi la decisione di cambiare completamente aria. Compii venti anni lavorando come sguattero all'Hilton, e avevo una stanzetta tutta mia a soli tre isolati dall'albergo, e mi sentivo un uomo felice.
Poi ho incontrato una ragazza, Giselle, una francesina. Dopo un paio di incontri ravvicinati del quarto tipo, cioè quelli che si fanno senza niente addosso, neanche la catenina della prima comunione, lei mi propose di andare a lavorare nel club dove era "hostess", ciè cameriera, e dove cercavano uno "steward", cioè un cameriere di bella presenza.
Poiché, come ho detto, dal lato bella presenza non mi posso proprio lamentare, mi presentai e fui assunto. E così scoprii l'arte di farsi dare le mance. Era forte! Quel lavoro m'ha insegnato come scucire una mancia, anche un cinquemila (che allora si usavano ancora le lire), a un socio mezzo sbronzo e musone, anche se era solito non lasciare niente di mancia a nessuno degli altri.
Imparai l'arte di compiacere e di sedurre... ma conservando sempre un'aria molto professionale. Lì al club non combinai altro di interessante. I calzoni che dovevo indossare erano troppo morbidi e non reclamizzavano proprio un bel niente, e poi i soci, a parte per le mance, non erano tipi interessanti.
Comunque, oltre alla paga, mi portavo a casa anche un paio di centoni al mese. Niente male, no? La domenica andavo a pavoneggiarmi a Trastevere, e a tentare di sganciare un po' di grana a Bianca. Ma lei non la prendeva mai e mi diceva che dovevo metterla in banca per mettere su casa, trovarmi una buona moglie, rispettarla e farmi rispettare da lei ma senza metterle le mani addosso.
Mi stancai abbastanza presto sia di Giselle che del club. Così lasciai tutt'e due appena trovai lavoro come cameriere in un ristorante di lusso, e quando dico di lusso, voglio dire che quanto c'era di meglio in città era sotto i miei occhi.
Tutta roba d'alta classe, le pollastre con pellicce, gioielli, profumi raffinati; i galletti, quando non sembravano i padri o i nonni delle pollastre, erano spesso ragazzi da lasciarci gli occhi... Buona paga, buone mance, ma per il resto ero a secco.
A me non è mai piaciuto divertirmi da solo. Prima di tutto, dopo cinque minuti che credi di esserti calmato, ne hai voglia più di prima. E poi, se lo fai a secco, rischi di spellartelo, ma se usi qualcosa, rischi di sporcarti i panni e se lo fai a letto devi stare attento o finisci per dormire nel bagnato... insomma, non mi piace.
Non avendo mai avuto problemi a nutrire con carne o con pesce l'inseparabile compagno della mia vita, spesso affamato, avevo scelta doppia. Però sono sempre stato piuttosto esigente: il cibo deve avere un bell'aspetto. Un bel viso, un bel corpo, pulito ed elegante.
Ma con il passare dei giorni a secco, mi bastava che fosse passabile... e dopo un paio di settimane m'accontentavo che respirasse... e dopo un mese, se fosse stato della misura giusta, mi sarei anche fatto il buco della serratura! Ma se non ero a secco, ero esigente, come ho detto. Doveva farmelo svegliare anche solo a guardarlo, o a guardarla, da lontano.
Dopo un po' mi trasferii in un altro ristorante d'alta classe, più vicino alla stanzetta in cui continuavo ad abitare. E qui, appena conobbi Duilio, il figlio del proprietario, il mio inseparabile compagno si mise immediatamente sull'attenti.
Duilio era qualcosa di speciale. Pareva un fotomodello uscito da una rivista di moda. Era snello, alto, compatto ed elegante. Sì, credo che fu amore a prima vista e non solo per il mio fedele compagno. E quello che mi fece sobbalzare il cuore in petto, e qualcos'altro più in basso, era che lui non mi toglieva gli occhi di dosso.
Già il terzo o il quarto giorno, non ricordo bene ma molto presto, eravamo tutti e due appiccicati come sardine nella cantina dei vini, e io gli suonavo dentro la marcia trionfale dell'Aida. E dopo quella, altre scopate fantastiche.
Basta dire che Duilio veniva anche senza toccarglielo, mentre io glielo servivo agitandoglielo dentro con vigore, e poi voleva che io continuassi fino a servirgli una seconda razione del mio vino bianco d'annata DOCG. Era lui che lo chiamava così.
Qualche volta lo voleva assaggiare nel suo accogliente canale caldo e buio, dopo averlo gustato con le sue labbra esperte. Ci sapeva fare sia da una parte che dall'altra, era un vero sommelier del cazzo... il mio. Duilio cominciò ad attaccarsi sempre più a me e anche io a lui. Non ero mai andato al lavoro con tanto piacere.
Il padre sapeva dei gusti di Duilio e presto capì che se la spassava con me, e questo lo contrariò non poco. Uno, perché diceva che capitava troppo spesso durante l'orario di lavoro, e non aveva torto, anche quando il locale era pieno di clienti, e che non mi pagava per fare quel tipo di servizio.
Due, finché il figlio aveva voglia di divertirsi erano cazzi suoi (disse proprio così, perché forse ignorava che era il mio la fonte di tutto il nostro divertimento) ma non gli andava proprio giù che Duilio pensasse di mettersi seriamente in coppia con un qualsiasi cameriere.
Così il padre minacciò Duilio di tagliargli i fondi se non mi mollava e il figlio troncò con me: preferiva i soldi di papà, evidentemente. Ma per me, trovarmelo sempre lì fra i piedi e non più fra le gambe, proprio non mi stava bene. Non sono mai stato un masochista.
Stavo pensando di andarmene, di cercarmi un altro lavoro, quando comparve all'orizzonte il conte Manlio Ferro Mattei del Pozzo. Credo che tutti sapessero chi era, compariva regolarmente nelle cronache mondane, era un noto membro del jet-set internazionale, da New York a Tokyo, da Londra a Città del Capo.
Era bello, non della belleza da modello di Armani che aveva Duilio, ma piuttosto di una bellezza raffinata, sensuale e da intellettuale. Pareva che avesse un po' la puzza sotto il naso, guardava tutti dall'alto in giù... beh, era anche molto alto di statura, a dire il vero.
La pelle del volto e delle mani era perfetta, vellutata e lievemente scura, in parte dono di natura e in parte curata sapientemente con ogni più moderno ed efficace prodotto di cosmesi, come scoprii in seguito. Vestiva sempre abiti impeccabili, fatti su misura per lui da chissà quale talento della moda a me sconosciuto, che indossava in modo naturalmente elegante.
La prima volta che lo vidi entare nel ristorante, non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso. Quello sì che era un vero signore. Chiesi in seguito a Duilio chi fosse. "Ah, è solo un parvenu. Dieci anni fa ha sposato la contessa Floriana Mattei del Pozzo, una vedova vecchia ma ricca sfondata. Pensa che lui era solo il suo autista!" disse con aria di scorno.
La contessa, già ricca di suo, era rimasta vedova, e unica erede, di un nobile olandese commerciante in diamanti! Duilio aggiunse che, grazie alla moglie, l'ex autista disponeva ora di una villa alle porte di Tivoli, un palazzo a Roma, una casa a Londra, un castello in Svizzera, oltre a un attico a New York, e pied-à-terre a Los Angeles, a Kyoto, a Bahia, a Barcellona, in Tunisia... eccetera, eccetera, eccetera.
Il conte entrò nel ristorante assieme a due donne e tre uomini, ma nessuno era della sua classe. Mi affrettai ad accompagnarli al migliore dei tavoli del ristorante, prima che un altro dei camerieri lo facesse. Sopraggiunse il maître che mi fece cenno che si sarebbe occupato lui di quegli ospiti.
Ma il conte, per mia fortuna, disse: "No grazie, Geraldo, si occuperà il ragazzo di noi."
Il maître si ritirò subito in buon ordine. Li servii in modo inappuntabile, sempre attento e pronto e in perfetto stile, sfoderando il mio sorriso dei giorni di festa, ossequioso ma dignitoso... Insomma, feci di tutto per impressionarli (impressionarLO) favorevolmente, ma tutto sembrava inutile.
Solo una delle due pollastre non mi levava gli occhi di dosso, o per meglio dire dalla patta dei miei pantaloni (ah, dimenticavo di dire che finalmente potevo indossare di nuovo i miei amati calzoni neri attillati e pubblicitari) ma ero così preso da lui che la ricca pollastra, che in altra occasione mi sarebbe anche sembrata appetibile, mi era del tutto indifferente.
Però il fascinoso e incredibilmente sensuale conte non mi degnò di un solo sguardo, se non di sfuggita.
Ero sempre attorno al loro tavolo, in modo molto discreto ma alacre come un'ape operosa. Quasi mi cadde la mascella quando captai alcuni brani delle loro conversazioni.
"I pranzi a casa del cardinale sono così noiosi..." - "La moglie del Presidente si è scusata, perché l'onorevole era stato trattenuto al Quirinale..." - "Hai saputo che hanno aperto una favolosa boutique di Kenzo anche a Johannesburg?" - "Non ti sembra ripetitiva la linea di Versace, quest'anno?" - "Gesù, che vento freddo c'era a Machu Picchu..." e così via.
Sapete, un po' come un romanaccio direbbe: "Dio quanta gente c'era in Via Vittorio Veneto" - "A via del Corso hanno aperto una discoteca fighissima..." - "La figlia del droghiere dice che il marito c'ha la gotta..." - "Le sigarette è aumentate 'n'artra vorta!".
Quelli sì che erano gente di mondo. Altro che noi ragazzi di borgata. E io, ora, se pure di straforo, ero entrato, mica dico a fare parte, ma almeno a godermelo di riflesso, quel bel mondo.
Alla fine, quello che pagò il conto, mica il conte Manlio, uno degli altri, mi lasciò il resto di mancia: mille lire! Sì e no per le sigrette, se avessi fumato!
Tre sere dopo il conte arrivò di nuovo, questa volta al braccio della contessa. Lei era molto più vecchia di lui: a essere generosi, poteva essere sua madre. Con loro c'era un altro uomo anziano. Avendoli visti arrivare dai vetri del ristorante, e siccome non stavo servendo, mi affrettai ad accoglierli. Questa volta il signor conte mi lanciò un breve sorriso che mi lasciò attonito: non me l'ero proprio aspettato.
Generalmene i nostri clienti erano contenti che li servissi io: mi ricordavo sempre dei loro nomi, del tavolo che peferivano. Il mio servizio era impeccabile e controllavo sempre che i loro piatti fossero pronti senza la minima possibilità di critica, e sempre più spesso capitava che mi parlassero in tono amichevole su vari argomenti, anche se brevemente e su cose superficiali.
Spesso si facevano consigliare da me sul menù del giorno, su piatti speciali e sui vini di cui stavo diventando esperto, anche se il sommelier era Duilio. Ma lui non ci sapeva fare come me con gli ospiti. Era troppo affettato e cerimonioso.
Il cliente vuole avere nel cameriere innanzitutto un complice, e non un leccapiedi. Mi ero guadagnato una buona reputazione e molti clienti erano delusi se non c'ero io a occuparmi di loro. Gli piaceva essere salutati per nome e con i loro titoli... da una parte li faceva sentire in un luogo amico, e dall'altra importanti.
Dopo alcune volte che il conte Manlio fu nostro ospite nel ristorante, venne una memorabile sera in cui i suoi occhi cerulei incontrarono i miei occhi scuri e ci guardammo un po' più a lungo del solito e del normale.
Era uno di quegli sguardi speciali... i suoi occhi quasi freddi, ma solo quasi, i miei penetranti anche se vagamente sorridenti... e fu fatta! Entrambi sapevamo che sarebbe successo.
Dopo un po', lui si alzò e andò ai servizi. Io mi mossi, né troppo in fretta né troppo lentamente, in modo di trovarmi giusto fuori dalla porta. Lui uscì dopo poco e io finsi di voler entrare.
Mi posò una mano su un braccio, facendomi fermare, e la sua voce bassa e calda mi disse: "Eugenio, tu sei sprecato, qui. Perché non vieni domani da me per un incontro? Ho un'idea che può fruttare bene a tutti e due, se mi aiuterai a realizzarla."
Mise una mano in tasca e m'infilò un rettangolino di carta nel taschino del gilè.
"Alle tre, puntuale, andrà bene." aggiunse.
Annuii come un pupazzo a molla mentre lui tornava al suo tavolo. Ero allocchito. Tutto era accaduto così in fretta e meno di ventiquattro ore dopo sarei stato a casa sua!
Entrai nel bagno e rigirai fra le mani il cartoncino. Era un biglietto da visita in ottima carta a mano, stampato con caratteri eleganti, un sottile corsivo inglese in due toni di grigio, sì che pareva scritto a mano. Lo annusai: aveva il lieve profumo che il conte usava e che ormai conoscevo bene, anche se non sapevo che nome avesse.
Per la prima volta in vita mia, il mio fedele compagno si mise sull'attenti solo a sentire un profumo.
Quella notte non riuscii a dormire bene, ero troppo eccitato. Il giorno dopo avrei fottuto il signor conte... Ero quasi sicuro che sarebbe andata così... benché... e se invece avesse voluto fottermi lui?
Beh... avrei anche potuto provarci, per una volta. Dopo tutto era un bell'uomo... era un conte, anche se ex autista... e era pure ricco... Non che io l'abbia mai fatto per denaro, l'ho sempre fatto solo per piacere. Anche se certo, non si rifiuta mai un regalo, quando te lo fanno. Io non me lo aspetto mai, ma se viene, è benvenuto: ogni lasciata è persa, come si suol dire.
E anche farmelo mettere di dietro, non è che lo avessi mai desiderato, ma neanche che l'idea mi dispiacesse... Il fatto è che io sono il tipo "stallone" e chi mi ha cercato è stato sempre chi voleva che agissi da stallone e non viceversa. Solo per questo non ci avevo mai provato. Comunque, l'idea che qualcuno provasse a metterlo a me, non mi disturbava.
Ero uno stallone di razza, tutto sommato, e lo specchio continuava a confermarmelo ogni volta che mi ci guardavo. Me lo confermavano tutte e tutti quelli che ci avevano provato con me, che avevano voluto provare la mia arma segreta. Il mio inseparabile compagno aveva sempre fatto il suo dovere sia verso me (non m'aveva mai tradito), sia verso i miei più o meno occasionali compagni o compagne.
Non per vantarmi, ma se il mio cervello ha sempre funzionato bene, almeno altrettanto bene ha sempre funzionato il mio amicò laggiù.
Mi addormentai guardando il raffinato biglietto da visita che avevo messo in bella mostra sul mio comodino, dritto e appoggiato alla sveglia, quando dalla finestra cominciava già a entrare la prima luce del giorno.