Quando suonò la sveglia, saltai giù dal letto con una prontezza per me del tutto inusuale. Andai a fare una doccia, lavandomi anche meglio del solito, ammesso che fosse possibile. Mi pettinai i capelli usando il mio solito trucchetto, sì che una volta asciutti non avresti saputo dire se erano in ordine o no.
Mi feci un sorriso allo specchio e il mio sorriso era piacevole come sempre: da bravo ragazzo ma con una piega maliziosetta. Non è un sorriso studiato, mi viene del tutto spontaneo, specialmente quando so che mi spetta qualcosa di interessante e di piacevole.
Restando nudo, mi preprai un pasto, leggero e nutriente, equilibrato: ci tengo a conservare una forma perfetta. Faccio anche un po' di palestra, ogni tanto, ma non sono un fissato, mi basta quel tanto che mi dà il giusto tono ai muscoli.
Poi venne il problema di come vestirmi. Posai sul letto sia gli indumenti intimi che il vestito e cambiai e ri-cambiai i vari pezzi almeno una dozzina di volte. Ero indeciso se presentarmi all'appuntamento vestito in modo sportivo, casual, elegante o formale... Dopo tutto stavo per andare nel palazzo di un conte.
Alla fine optai per una canotta e mutande a gambaletto nere, attillate, una camicia di seta celeste pallido con colletto bianco, button-down, niente cravatta, pantaloni e giacca di seta grezza blu oltremare, calze e scarpe nere. Niente male, nell'insieme.
Mi chiesi se darmi un velo di profumo, ma optai per il no: il conte, anche se era un ex-autista, avrebbe potuto trovarlo dozzinale. Meglio il mio odore naturale che, a detta di molte mie conquiste, era comunque erotico.
Arrivai davanti al palazzo in anticipo. Non era uno dei più grandi e belli di Roma, ma doveva essere stato costruito nel tardo seicento, primo settecento, se non prendevo lucciole per lanterne. Sulla chiave di volta del portone era inciso "1709", lessi con soddisfazione.
C'era una targa discreta di lucido ottone, con un pulsante e senza nomi. Chiunque probabilmente doveva sapere chi abitava lì. Controllai il mio orologio: mancavano ancora otto minuti. Meglio essere puntuali, mi dissi, la puntualità è sempre apprezzata da tutti.
Mi sentivo incredibilmente nervoso. Guardavo continuamente l'orologio al mio polso ed ero stupito che ogni minuto sembrasse essere composto di almeno centoventi secondi.
Alle tre meno un minuto, suonai. Un cameriere (o era forse il maggiordomo?) vennne ad aprire e mi introdusse in una vasta stanza che pensai fosse un soggiorno; in seguito seppi che era solo un'anticamera, una specie di sala d'attesa, assai elegante, grande almeno quattro volte la mia stanzetta.
Tutta la mobilia era antica ma perfetta nelle dorature e nelle tappezzerie. Alle pareti c'erano quadri, antichi probabilmente poco meno del palazzo. Uno dei quadri attrasse la mia attenzione: rappresentava due giovani che si bagnavano in un ruscello e un terzo un po' più in dietro che si stava per arrampicare su un albero.
Erano tutti e tre nudi e si guardavano sorridendo, come se stessero scherzando fra loro. La scena era piuttosto erotica, anche se i genitali dei due a mollo erano sotto il pelo dell'acqua e si intravedevano a mala pena, e il terzo era quasi di spalle... aveva comunque un gran bel culetto.
"Sei un appassionato di arte, Eugenio?" disse la voce del conte alle mie spalle.
Mi girai e lo guardai: era favoloso! Indossava un due pezzi di lino bianco, la giacca a due bottoni aperta su una camicia color miele, solo i tre bottoni superiori aperti, che metteva in risalto un collo perfetto.
Ricordo ancora quanto mi sentivo nervoso: quell'uomo era anche troppo sensuale, affascinante, attraente.
"Seguimi nel mio studio." mi disse. "Gradisci un drink?"
Chiesi un porto: mi pareva il tonico adatto a darmi un po' di coraggio.
"Non mi sembri un tipo da porto." mi disse lui guardandomi con occhi freddi ma divertiti.
"Per me va bene una cosa qualunque..." balbettai quasi.
"Errore. Solo un uomo qualunque beve una cosa qualunque. Il porto va bene."
Il mio fratellino si risvegliò lì e subito e nei pantaloni lievemente attillati che avevo scelto, non era una cosa da passare inosservata. Mi avvicinai a lui sentendomi quasi ubriaco, prima ancora di aver toccato un solo goccio d'alcool. Lui non indietreggiò, anzi, fece un passo verso me.
Mi circondò con le braccia: dio se era alto! Lo abbracciai a mia volta e potei sentire il suo stato attraverso i nostri calzoni: non era affatto diverso dal mio. Lui posò una mano sul mio collo e l'altra sulla mia nuca e le nostre labbra si unirono come le due parti di una fibbia a incastro dei boyscout.
Quello sì che era un bacio. Lui era come un animale affamato e spingeva la lingua a esplorare la mia bocca, emettendo un mugolio quasi impercettibile. Credo di poter affermare che risposi a quel bacio almeno con altrettanto ardore.
"Vieni di sopra..." disse lui e aggiunse, "Nessun problema, Floriana non è in casa."
Lo seguii in un piccolo ascensore abilmente dissimulato dietro una porta che pareva identica a tutte le altre ma che scivolò di lato silenziosamente. Appena l'ascensore iniziò a salire, eravamo nuovamente uno contro l'altro.
Lui abbassò la cerniera dei mei calzoni e infilandovi dentro una mano, me lo carezzò, sottolinenandone la forma e saggiandone la consistenza con le lunghe ed eleganti dita. Cavolo, stavo per venire lì, in quel momento.
Manlio sollevò una mano, premette un pulsante e l'ascensore si fermò silenziosamente fra due piani. Si calò in fretta i calzoni (sotto non indossava niente!) poi aprì la mia cinghia e abbassò anche i miei assieme alle mutande nere, in un solo gesto deciso. Il suo respiro s'era fatto lievemente affannoso.
Io, stupidamente, chiesi: "Siamo arrivati?"
"No, ma qui va bene." disse lui carezzando la pelle nuda del mio fratellino pronto e ansioso di divertirsi.
La sua altra mano mi carezzò il ventre, s'infilò sotto la camicia e la canotta e salì a sfregarmi i capezzoli. Io carezzai il suo bell'arnese ritto e duro e mi chiesi chi di noi due avrebbe dato ospitalità all'altro nella segreta e buia stanza del retro.
Devo ammettere che in tutta la mia lunga carriera di stallone, mai nessuno m'aveva fatto eccitare così tanto. Pareva che il conte bruciasse dalla fretta di consumare quell'atto, eppure prendeva tempo facendomi provare il supplizio di Tantalo.
"Eugenio, non mi deludere..." mormorò con voce calda e bassa, "fammi vedere che stallone sei."
Anche lui usò quel termine: dovevo averlo scritto in fronte! Non che mi dispiaccia, anzi, mi lusinga. Cavolo, che esperienza fu quella! Ripensandoci, non è che io dovetti fare granché, perché fu lui a guidare la danza. E come ballammo!
Logicamente fui all'altezza della situazione. Ero nel mio elemento e lo sapevo. Lo lasciai fare a modo suo, non volevo guastare questo nostro primo incontro (e sapevo, sentivo che era solo il primo, non l'unico).
Lui si girò, poggiò le mani ai due lati della porta e chinandosi un poco, spinse il bacino verso il mio palo, dritto e pronto a compiere il suo dovere.
"Dai, bastardo, fottimi come si deve, dacci dentro. Non mi deludere." disse per la seconda volta.
Beh, io non ho mai avuto problemi a fare quello. Lo afferrai con vigore per la vita e tenendolo fermo, glielo sbattei tutto dentro in una sola spinta, e mi misi a dargli tutto quello che avevo e che lui voleva. L'ascensore dondolava a ogni mio colpo come il battacchio di una campana, e il suo ritmico e lieve battere contro le guide sottolineava ogni mia spinta.
Dopo, si rizzò, si ricompose gli abiti e quando si girò verso di me, tutto in lui era impeccabile e perfetto come prima. Il signor conte era calmo e padrone di sé come se non fosse accaduto nulla. Attese che io riuscissi a rimettere in ordine i miei panni, poi premette un bottone e tornammo giù nel suo studio.
Io mi sentivo distrutto, mi pareva di avere tutti gli abiti stazzonati, e mi lasciai andare su una sedia. Dopo tutto la parte più impegnativa del lavoro l'avevo fatta io, no? Gli avevo dato dentro con tanto vigore e tale energia, che mi sentivo svuotato. Ma anche molto soddisfatto.
Lui suonò un campanello e il servo (o il magiordomo?) comparve con un vassoio con due bicchieri. Aprì uno stipetto e versò un whisky liscio a lui e un porto per me. Mi chiesi come potesse sapere che, prima dell'epica fottuta nell'ascensore, io avevo chiesto un porto. Ci aveva forse ascoltati?
Scoprii solo molti mesi dopo che c'era fra loro una specie di codice segreto. Il maggiordomo (non era un semplice servo), aperto lo stipetto dei liquori, passava la mano sulle bottiglie e quando il conte faceva un segno con gli occhi (solo un lievissimo cenno) lui capiva che cosa dovesse servire all'ospite.
Tracannai quasi il mio porto, pur sforzandomi di berlo lentamente, ma dopo quella fiera cavalcata ne sentivo davvero il bisogno.
Parlò un po' con me in tono quieto e casuale, sì che nessuno avrebbe potuto immaginare che solo pochi minuti prima si stava facendo sbattere da me dentro lo stretto ascensore.
"Ho intenzione di aprire un club," disse in tono salottiero, "ma qualcosa di diverso, di speciale. Un posto in cui rilassarsi e divertirsi. Un club esclusivo, un locale un po' estroso ma di classe, elegante e specialmente molto riservato."
"Sì?" dissi io tutto orecchie e veramente interessato: quella era forse la mia occasione d'oro.
"Tu potresti organizzare e gestire qualcosa del genere, non è vero?"
Continuò dicendo che non esisteva un posto come quello che aveva in mente e che, se lui e io l'avessimo creato, ci sarebbe stato finalmente "il posto giusto" anche a Roma.
"Tutti i club sono ormai pieni di piccole nullità, qui da noi. Non pensi che Roma meriti un posto speciale come quelli che si possono trovare a Londra, Berlino o Parigi? Un posto per gente influente, d'alta classe, con un servizio inappuntabile per persone che sanno quello che vogliono. Un posto in cui soci scelti possano trovarsi. In cui nessuno si annoi, in cui tutti si sentano completamente a proprio agio, capisci?"
Non capivo del tutto: chi era mai stato a Londra, Berlino o Parigi, e tanto meno in uno di quei club molto esclusivi di cui parlava... ma annuii con espressione seria e professionale.
"Un posto gestito da te e che fornisca un servizio impeccabile, prestato da giovani belli come te..." disse.
Sì, fin qui a me stava bene, era forse l'opportunità che cercavo per abbandonare il ristorante che mi stava diventando stretto e in cui mi stavo annoiando sempre più.
"Gente bella e... disponibile come te." aggiunse Manlio.
Credetti di cominciare a capire: "Un club gay?" chiesi.
Lui corrugò la fronte e fece un lieve gesto come di disappunto: "Ma no, Eugenio. Un posto in cui non ha nessuna importanza se i soci sono gays, lesbians, bisexuals o straights." disse usando i termini in inglese e con tutte le S alla fine ben pronunciate. "E dove neanche per il personale faccia alcuna differenza. Dove il personale sia pronto a esaudire ogni possibile desiderio..."
"Un... una specie di..." stavo per dire bordello, ma la parola non mi sembrò appropriata, "una specie di luogo di incontro per tutti i gusti?"
"Sì, senza stupide etichette. Però... il personale non deve essere né troppo effeminato né troppo rude... Niente travestiti né marchette, capisci? I soci pagheranno solo una quota fissa, tutto compreso; e i ragazzi e le ragazze avranno solo una buona paga, che non cambia sia che non abbiano incontri sia che ne abbiano uno o dieci. Se ricevessero un regalo, lo possono accettare, ma se lo sollecitano... licenziati in tronco."
"Ma... il personale deve dire sempre di sì?"
"Chi è schizzinoso è meglio che non lavori per noi. Comunque la regola sarà che i soci possono chiedere a te o a un tuo incaricato, che in casi particolari può anche dire di no inventando qualche buona scusa. Ma avremo tutto il tempo per parlare di queste inezie. Per prima cosa devi trovare il locale adatto e fare un preventivo di spesa. Non che ci siano problemi di soldi, mia moglie sovvenzionerà tutto senza battere ciglio, povera cara."
Io mi sentii lievemente infastidito da quelle due ultime parole che, anche se dette in tono normale, mi parevano spietatamente sarcastiche.
"Riceverai un sostanzioso stipendio, più il sette per cento di tutti i guadagni. Che ne pensi? Logicamente sarai tu a dover far girare nel modo giusto tutti gli ingranaggi. Ti interessa la proposta?"
Se mi interessava? Ci poteva scommettere il culo che m'interessava. Anche se quello già me l'aveva dato.
Si alzò, lisciandosi la giacca sul petto con un gesto lieve, come per spianare pieghe che non c'erano. "Ora devo andarmi a cambiare. Devo mettermi qualcosa adatto alla serata. Restiamo in contatto e comincia a darti da fare."
Si fermò sulla porta, mi lanciò un'occhiata misurandomi da capo a piedi, poi in tono leggero mi disse: "Ah, Eugenio... In ascensore è stato gradevole, molto gradevole. Dobbiamo farlo di nuovo, e presto." Poi con lo stesso tono aggiunse, "Il maggiordomo ti accompagnerà alla porta."
Era troppo. Era davvero un uomo raffinato e allo stesso tempo un satiro! Comunque sentivo che stavo andando finalmente nella giusta direzione, grazie a lui. Ed era stato anche per me "gradevole, molto gradevole" dargli nello stretto ascensore ogni centimetro di quello che aveva voluto, e che diceva di volere ancora.
Tornai a casa camminando a un palmo da terra. Un uomo piacevole da scopare, un buon lavoro in cui finalmente sarei stato io a dare gli ordini e non a riceverli, e un terreno di caccia per persone di classe e, logicamente, anche per me.
La sera mi presentai al ristorante e mi pesi la soddisfazione di dire al padrone che m'ero rotto di lavorare per lui e che me ne andavo. Il padre di Duilio mi chiese (per favore!) di restare almeno fino alla fine del mese. Gli risposi che non era possibile: mi mettevo in proprio a partire dalla mattina dopo.
Duilio mi guardava con due occhi che non capivo se era contento che me ne andassi o se gli dispiaceva. Mi rincorse, quasi, fino sulla strada e mi disse che se ora non lavoravo più lì, magari potevamo ricominciare la nostra storia.
"Hai preferito i soldi di paparino a me: tieniteli. Io ho trovato di meglio, e non solo come lavoro, ma pure a letto." gli dissi, anche se in realtà era successo in un ascensore appena sufficiente per due persone.
Restò lì davanti alla porta del ristorante, fermo come un allocco, a guardarmi andare via.
Mi misi al lavoro a partire dalla mattina seguente, alzandomi di buon'ora. Cominciai a girare tutte le agenzie immobiliari. Non avevo le idee molto chiare su che cosa dovessi cercare, almeno all'inizio, ma guardando le piantine e andando a visitare i locali, cominciai a farmi un'idea su come orientarmi.
Innanzitutto scartai completamente tutti i locali in seminterrati o comunque sotto il livello della strada e optai per un ultimo piano. Era difficile trovare un locale vasto, facilmente adattabile, centrale, in un edificio possibilmente elegante, e fornito di ascensore o che almeno vi si potesse facilmente istallare.
Stavo già iniziando a temere che non esistesse un locale che avesse tutti i requisiti che pensavo necessari, quando invece lo trovai.
Occupava tutto l'ultimo piano di un palazzotto dell'800, non particolarmente bello ma più che decoroso, e tutto occupato da uffici, studi e agenzie, non da appartamenti. Era perfettamente quadrato, occupava un isolato da solo, non era troppo grande né troppo piccolo. Aveva torno torno ampi finestroni ad arco, aperti a formare una loggia continua, su tutti e quattro i lati.
Al centro vi era un blocco rettangolare a cui giungeva da un lato la scala a tre rampe che saliva dal pian terreno, con una tromba sufficientemente ampia per istallarvi un ascensore privato. Nel blocco centrale, ristrutturandolo e ampliandolo in modo che diventasse quadrato, oltre ai servizi, si potevano ricavare sia spazi riservati al personale che spazi dedicati alle altre attività, per così dire, di relax dei soci. Cioè, per dirla chiara e tonda, per scopare o farsi scopare.
Non avevo la più pallida idea di come fossero i club di Berlino, Parigi e Londra di cui aveva parlato Manlio. Però avevo fatto il compito a casa, e avevo scritto su un foglio tutto quello che avei voluto avere sia come gestore, che come socio, che come membro del personale. Un sacco di cose... ci sarebbero state tutte?
Ci sarebbe voluto un bravo architetto per far quadrare il tutto, non uno come me. Decisi comunque che l'importante era che piacesse a Manlio, perciò gli telefonai dicendo che avevo trovato qualcosa che a me non dispiaceva. L'interno era molto mal ridotto, però...
Arrivò volando, con la macchina guidata dal suo chauffeur. Salì fino all'ultimo piano con me e con l'incaricato dell'agenzia. Appena entrato, fece un rapido giro e tornò con gli occhi che gli brillavano.
"Ottimo, Eugenio. È perfetto, splendido, magico."
Così entrammo in affari. Dopo aver firmato l'impegno e aver staccato un assegno per la caparra, volle offrirmi un tè in un elegante locale del centro. Lo stavamo sorbendo, quando d'un tratto mi guardò con quel suo sguardo freddo che cominciavo a conoscere piuttosto bene e subito il mio fedele compagno iniziò a dare chiari segni di vita.
"Floriana è a casa," disse con voce bassa e sensuale, "ma ho un altro posto."
"Bene, andiamo." dissi io chiedendomi chi di noi due fosse più impaziente.
Uscimmo. Manlio disse allo chauffeur di rientrare, che lui voleva fare un po' di shopping e sarebbe tornato in taxi. La sua voce aveva un tono di urgenza che mi fece fremere e risvegliò del tutto il mio caro fratellino.
Chiamò un taxi che ci scaricò davanti a un'anonima casa su a Monte Mario. Salimmo in ascensore, ma non mi toccò. Era un ampio locale con al centro un grande letto rotondo con un materasso ad acqua coperto con una folta pelliccia di pelo bianco e morbido e con sorpra una profusione di cuscini quadrati di seta di tutti i colori dell'arcobaleno. Tutto il pavimento era coperto della stessa pelliccia bianca del letto.
Tutto attorno c'erano enormi specchi che andavano dal pavimento al soffitto, interrotti solo dalle due finestre e dalle due porte, quella d'ingresso e quella del bagno, e c'erano specchi pure sul soffitto. Pareva di stare dentro a un caleidoscopio.
Le finestre non avevano tende ma vetri polarizzabili, una cosa che non sapevo neppure che esistesse e che comunque non sono riuscito a capire come funzionano, sì che potevi renderli sia completamente trasparenti sia del tutto oscuri.
Luci diffuse, regolabili sia in intensità che in colore, comprese luci di wood, quelle che al buio completo fanno diventare gli oggetti bianchi di un azzurro-violetto fluorescente. Fra le due finestre uno scaffale di vetro colmo di libri d'arte (tutti nudi maschili di famosi fotografi, a volte anche ritratti mentre stanno scopando... ma solo roba d'arte...) e ai quattro angoli quattro cavalletti da pittore, con su dipinti erotici che lasciavano poco o nulla all'immaginazione.
"Ecco, questa è la stanza in cui posso puttaneggiare." mi disse appena entrati, facendomi togliere le scarpe e guardandomi con un sorrisetto smaliziato.
Non sapevo che dire, non avevo mai incontrato prima uno come lui... né avrei saputo immaginare una stanza come quella. Lui in un lampo si tolse tutto di dosso e si stese al centro del letto, braccia e gambe larghe, con un sorrisetto decisamente provocante sul bel volto.
Io trafficai, impacciato come mai, e quasi vergognandomi per la mia improvvisa timidezza. Dalle pareti decine di Eugenio mi guardavano e si spogliavano impacciati... Voglio dire, non è da me. Non che io mi sia mai gettato come un assatanato addosso alle pollastre o ai galletti con cui fottevo, ma ero sempre stato pienamente padrone di me, calmo, sicuro, deciso.
Non quel giorno: ero proprio imbarazzato. Comunque riuscii a venir fuori dai miei vestiti ed ebbe inizio un po' di azione. Questa volta lui stava lì, immobile, un sorrisetto sul bel volto, e io mi affaccendavo attorno a lui, sperando di saper fare le cose giuste.
Per la prima volta, voglio dire, invece di pensare a quello che avevo voglia di fare io, mi preoccupavo di cosa potesse piacere a lui. Del tutto atipico. Ma da lui dipendeva il mio futuro, perciò... Che differenza, però, dalla prima volta in ascensore!
Tutto sommato lo trovai piuttosto eccitante, anche se mi aveva preso in contropiede. Cioè, voglio dire, mi ero aspettato che fosse come quella prima volta, solo con più spazio e con più tempo.
Non mi ci volle molto, comunque, per arrivare alla meta. Quando mi sembrò di aver fatto abbastanza per lui, gli misi le lunghe e snelle gambe sulle mie spalle e mi tuffai. Et voilà: la bella, forte e lunga scopata ebbe inizio.
Arrivato al capolinea, mi stesi accanto a lui e guardai negli specchi del soffitto, studiando i nostri due bei corpi nudi e rilassati. Prima non ne avevo avuto il tempo: ero troppo indaffarato a farmi onore.
"Eugenio," disse lui con voce blanda guardandomi attraverso lo specchio del soffitto, "ti piacerebbe se ti insegnassi a diventare un bravo amante?"
Mi sollevai su un gomito e lo guardai: stava scherzando? Voglio dire, ero sempre stato considerato da tutti uno stallone di razza, un campione... non mi mancava proprio nulla in quella specialità.
Beh, ripensandoci ora, devo ammettere che mi insegnò un sacco di cose, piccoli trucchi che aveva imparato a Bahia, a Tunisi, a Kyoto e chissà in quanti altri posti. Provate a dirmi uno di quei truccchetti che servono per rendere più piacevole una fottuta e sicuramente Manlio me lo insegnò.
Era un maestro eccezionale, molto chiaro e preciso nelle sue lezioni teorico-pratiche. Cominciai ad aspettare con impazienza la prossima "sessione" e divenni un allievo modello, avido di imparare.
Lgicamente, fra una lezione e un'altra, mi mettevo sotto anche qualche gallinella o qualche galletto, tanto per fare i compiti a casa e ripassare le lezioni e fare pratica. Altrettanto logicamente, facendo bene attenzione che lui non sospettasse nulla, perché immaginavo che non l'avrebbe apprezzato granché.
La mia reputazone di stallone di razza aumentò notevolmente. Una sera rimorchiai una pollastrella. Si chiamava Eleonora e faceva la cubista in un night dove qualche volta andavo. Era un po' tonta, corta di cervello, però diventava uno schianto quando ripassavo con lei le mie lezioni. Mi insegnò anche un paio di trucchetti che comunque Manlio non mi avrebbe potuto insegnare.
La vita mi sorrideva e mi piaceva passare il mio tempo a organizzare il club. Seguire i lavori dell'architetto, degli arredatori, cominciare a cercare camerieri e cameriere e selezionarli, compilare un elenco di gente famosa, ricca e importante da invitare per l'inaugurazione, ordinare le attrezzature e le provviste... c'era un'infinità di cose da fare.
Manlio scelse il nome per il club: "After-taste". Floriana, che finanziava tutto senza battere ciglio, aveva proposto "Da Manlio", ma lui disse che pareva un nome da barbiere dei sobborghi. Aveva ragione, logicamente. Lui aveva (quasi) sempre ragione.
Così finalmente inaugurammo il club: un gran party, efficacemente pubblicizzato, e tutta gente "giusta". Vennero tutti gli invitati. Di solito accettano tutti di partecipare a un evento speciale, soprattutto se è gratis, per quanti miliardi abbiano in banca.
Manlio aveva supervisionato attentamente l'elenco degli invitati, i "suoi" ospiti. Era un'insalata russa incredibile: calciatori, finanzieri (internazionali, è logico), attori, onorevoli, rocchettari di richiamo, nobili, stelle della TV, stilisti, modelli e modelle famosi, banchieri, artisti... Bella gente, comunque, che compariva regolarmente sia sui più famosi rotocalchi del mondo sia sui più seri giornali.
Fu grande! Accadde di tutto, in quel pary. E in poche settimane l'After-taste (o AT, come fu presto chiamato) divenne "il" club, e io come direttore divenni "la" persona da conoscere.
Era veramente incredibile, e per un bel pezzo temetti che la bella bolla di sapone scoppiasse, svanisse nell'aria. Ma eccomi lì, io, Eugene Porter, ex-nulla, ex-cameriere, ma ora grande direttore, grande amatore, amico di ricchi, potenti e stelle.
Ah, devo precisare: io in reltà mi chiamo Eugenio Portelli, però Manlio decise che Eugenio non era male, ma Portelli era del tutto inaccettabile. Perciò coniò il nome con cui sono conosciuto nel bel mondo, e che ebbe successo come tutto quello che Manlio toccava. Eugene Porter, il perfetto "padrone di casa" del club AT.