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una storia originale di Andrej Koymasky


VITA A NASHVILLE CAPITOLO 3
BRUSCO CAMBIAMENTO NELLA MIA VITA

Mi stavo chiedendo dove andare, che fare... Pensai che forse avrei dovuto cercare un lavoro come insegnante, per "continuare" in qualche modo quello che aveva fatto Mauro: a lui piaceva molto insegnare.

Era febbraio del 1971. A casa mia arrivò una lettera dello studio notarile Bottega di Vicenza, in cui mi si pregava di mettermi in contatto con loro per comunicazioni importanti. Pensai subito che forse si trattava di qualcosa che riguardava Mauro, che forse aveva fatto testamento e che mi aveva lasciato qualcosa... Mi sentivo molto turbato ma mi recai ugualmente allo studio notarile Bottega.

Sì, si tratava di un testamento in mio favore, ma non del mio Mauro. Mi comunicarono che lo studio legale Duzane-Cooperman & Mongelli di Nashville, Tennessee, USA, si era messo in contatto con loro per comunicarmi che mio zio, Marco Villa, era deceduto per un infarto nel giugno del 1970 all'età di cinquantadue anni, e che, non avendo moglie né figli viventi, aveva nominato me come erede universale di tutti i suoi beni.

Da un elenco sommario l'eredità consisteva in quattro ristoranti, sette appartamenti e un conto in banca che ammontava, salvo verifiche, a circa un milione e trecentomila dollari USA. Se avessi accettato l'eredità avrei dovuto compilare alcune carte che lo studio Bottega avrebbe spedito loro quindi, appena mi avessero convocato, sarei dovuto andare di persona in America per fare tutte le necessarie pratiche per entrare in possesso dell'eredità.

A parte il fatto che l'eredità era veramente cospicua e che mi sarei trovato improvvisamente e inaspettatamente ricco, quello che sopra a tutto mi spinse ad accettare immediatamente fu che così potevo allontanarmi da Vicenza, dall'Italia, da tutto ciò che mi ricordava Mauro e la sua tragedia.

Dissi subito che accettavo e firmai tutte le carte e i moduli che erano arrivati dall'America. Il notaio Bottega mi disse che si sarebbe fatto vivo non appena lo studio legale di Nashville si fosse messo di nuovo in contatto con loro.

Tornai a casa un po' frastornato. I miei mi chiesero subito di che si trattasse, e glielo spiegai.

Mio padre commentò: "Avevo saputo che la moglie di Marco si era suicidata tre anni fa, dopo aver ammazzato i loro due figli... ma non pensavo che Marco lasciasse tutto a te. Dopo che io lasciai l'America non ci sono più stati contatti fra di noi. Mio padre non mi ha mai perdonato di essere voluto tornare in Italia, e Marco ha sempre tenuto le parti di nostro padre. Mi chiedo come abbia fatto a sapere che eri nato tu... Io, allora, sapevo solo che doveva nascermi un figlio, non sapevo ancora se sarebbe stato un maschio o una femmina."

"Ma tu hai accettato, no?" mi chiese mia madre.

"Sì, certo."

"E che fai? Vai in America, vendi tutto e torni in Italia a vivere di rendita, no?" disse allora mia madre.

"No, vado giù, vedo la situazione e decido cosa fare. Magari resto laggiù." risposi io.

"E ci lasceresti soli?" mi accusò mia madre, accigliata.

"Tu hai papà e papà ha te." risposi io un po' seccato.

"Ma stiamo diventando vecchi... chi ci curerà quando non potremo più farlo da soli?" insistette mia madre.

"Vi manderò dei soldi, in caso." risposi io.

Mio padre intervenne: "Serenella, se si sposasse se ne andrebbe via da casa comunque, no? È giovane, lascia che si faccia la sua vita. Magari laggiù si trova bene, si trova una buona moglie e ci darà tanti bei nipotini."

"Ma quando lo rivedremo? E quando li vedremo mai i nipotini? L'America non è mica girato l'angolo, no?" si lamentò mia madre.

"Oh, Serenella! Oggi con i jet supersonici si va e si viene in un attimo. Mica sono più i miei tempi." disse conciliante mio padre.

Stavo per dire che veramente i jet supersonici non fanno sevizio viaggiatori, che sono usati solo dall'esercito, ma poi pensai che era meglio non precisare.

In maggio mi arrivò la convocazione. Feci le valigie e andai in America, con un volo da Vicenza a Francoforte, poi da Francoforte a Denver e infine da Denver a Nashville. Il volo durò, comprese le soste nei due scali, circa ventiquattro ore.

All'aereoporto di Nashville mi aspettava un impiegato dello studio legale. Mi portò in auto fino al centro della città. Fui ricevuto dall'avvocato Mongelli, un italo-americano di trentotto anni che parlava un italiano passabile, più o meno allo stesso livello del mio inglese.

Per prima cosa mi chiese se avessi prenotato un albergo. Quando gli dissi di no, si offrì di fissarmi lui una camera all'Union Station Hotel, nella Broadway.

"Costa molto?" chiesi "perché io non ho molti dollari con me..."

"Non si preoccupi, signor Villa. Fra poco lei sarà un uomo molto ricco. Il nostro studio le anticiperà le spese e ci rimborserà quando entrerà in possesso dei suoi beni."

"Ci vorrà molto?"

"Non credo, comunque faremo del nostro meglio per sbrigarci. Qui c'è l'elenco esatto di tutti i beni che eredita da suo zio, con a fianco il loro valore fiscale su cui dovrà pagare le tasse di successione. Abbiamo dichiarato un valore un po' inferiore a quello reale, almeno pagherà meno tasse. Però non potevamo neppure dichiarare un valore troppo basso, altrimenti quelli dell'ufficio tasse non avrebbero accettato."

L'Union Station Hotel era stata la vecchia stazione ferroviaria centrale di Nashville, una bella costruzione di pietra bianca del 1900, molto ben restaurata e con quasi tutte le vetrate originali. Un albergo molto bello e caratteristico. Al bancone della reception c'è ancora il tabellone originale con gli orari dei treni.

In camera, dopo aver sistemato le mie cose e aver telefonato a casa per dire ai miei che ero arrivato bene, riguardai la copia dell'elenco che l'avvocato Mongelli m'aveva consegnato... anche dopo aver pagato le tasse, fra contanti e beni immobiliari mi trovavo ad avere in mano una cifra da capogiro.

Oltre ai quattro ristoranti e ai sette appartamenti, uno dei quali era quello in cui aveva abitato lo zio, possedeva anche due negozi e un pezzo di bosco in cui aveva fatto costruire una casetta dove andava a rilassarsi.

Così, in attesa di espletare tutte le pratiche, decisi di visitare Nashville e di andare a vedere tutte le varie proprietà dello zio Marco. Quindi comprai una mappa dettagliata della città, presi un'auto in affitto e iniziai a girare.

Nashville è una graziosa cittadina che sorge in riva al fiume Cumberland, e quello che mi colpì fu che il centro è molto piccolo e abbastanza compatto ma il grosso della città si estende su un'ampia superficie, perché è costituito da casette o belle ville, ognuna con parecchio verde attorno. Rispetto alle nostre città italiane ed europee in genere, mi ha stupito la quasi assenza di pedoni! Tutti girano in auto e, a parte in centro, non vi sono neppure i passaggi pedonali!

I quattro ristoranti dello zio Marco erano tutti di diverso tipo, uno decisamente di lusso, due medi e uno che sembrava piuttosto economico. Gli appartamenti, logicamente, non potei visitarli all'interno, perché quello dello zio Marco era chiuso e gli altri sei erano affittati e comunque io non ne ero ancora legalmente il proprietario.

Andai quindi a cercare la casetta nel bosco. Faticai un po' a trovarla, perché era veramente immersa nel bosco. Era una casetta a un solo piano, doveva probabilmente avere sei stanze e sorgeva non lontano da un rio che si chiama Oxford Creek. La casetta, vista da fuori, non era nulla di speciale, aveva un aspetto piuttosto banale, insignificante. Era recinta da una serie di paletti di ferro e da una rete metallica a maglie, anche quella piuttosto comune.

Ma il posto era davvero incantevole! Per accedervi bisognava prendere Oackwell Crescent poi girare in Glenn Drive. Le case più vicine sia prima che dopo la casetta dello zio Marco, distavano da questa circa un miglio, alcune sorgevano all'incrocio fra Oackwell e Glenn, e altre all'incrocio fra Glenn e Murefreesboro Road.

Finalmente tutte le pratiche furono espletate e io, pagate le tasse di successione sempre con l'assistenza dell'avvocato Mongelli, entrai in possesso dei miei beni quindi feci domanda per avere un visto permanente.

"Lo riceverà senz'altro in poche settimane, non si preoccupi. Appena l'avrà ottenuto deve prendere la residenza e fare le carte per l'assistenza sanitaria. Non si preoccupi, l'assisteremo noi per tutte le pratiche."

Così finalmente potei prendere possesso dell'appartamento in cui aveva vissuto mio zio. Quando vi entrai mi dette una strana sensazione: tutto era stato lasciato come quando lo zio Marco era stato ricoverato in ospedale: pareva che dovesse tornare da un momento all'altro e molto probabilmente, quando lui ne era uscito, pensava che sarebbe andata davvero così.

L'appartamento era nella parte vecchia della città, sulla Broadway, aveva una superficie di circa seicento metri quadri ed era disposto su tre piani. Era arredato con mobili piuttosto scuri, tutti in stile liberty ma non molto colorato. Nell'insieme mi dava un'impressione di tristezza e di vecchiume. Negli armadi c'erano ancora tutti i vestiti dello zio e nello studio tutte le sue carte.

Per prima cosa mi misi in contatto con un'associazione cattolica di assistenza gestita dalle suore domenicane, perché portassero via tutto il ricco e vasto guardaroba dello zio. Poi chiamai un'impresa di pulizia perché lo ripulisse a fondo. Feci togliere le pesanti tende che toglievano luce alle stanze e le feci sostituire con leggere tende di velo bianco... ma nonstante tutto l'appartamento conservava ancora un aspetto triste. Inoltre era troppo grande.

Mi misi a revisionare le carte dello zio dividendole in tre parti: quelle da tenere (contratti, titoli di proprietà, eccetera), quelle su cui ero incerto e quelle da gettare via. Nello studio, su tutte le pareti, c'erano librerie alte fino al soffitto, piene di libri di ogni genere e tipo: dal fai-da-te alle guide turistiche, alle enciclopedie, romanzi, libri d'arte... tutti piuttosto vecchi.

Presa la residenza, aprii tre conti a nome mio in tre diverse banche, dove trasferii tutto il capitale liquido e mi feci rilasciare sia i libretti degli assegni che le carte di credito. Quindi mi accinsi ad amministrare i ristoranti, i negozi e gli appartamenti.

Andai anche a visitare la casetta nel bosco: era molto più gradevole che non l'appartamento in città, anche se non è che mi piacesse molto l'arredamento falso-rustico tipo country... Ma per lo meno era più chiara, più luminosa e soprattutto meno grande. Aveva tre camere da letto, due bagni, una cucina, un ampio soggiorno, un garage e un specie di laboratorio dove mio zio Marco si era dilettato nel fare ceramiche... secondo me con risultati ben poco validi.

Feci ripulire a fondo anche quella casetta e decisi di trasferirmi là. Vi feci portare elettricità e telefono e quando fu pronta mi ci trasferii e affittai l'appartamento in Broadway, dopo aver venduto a un antiquario tutta la mobilia, esclusi pochi pezzi che mi piacevano e che portai nella casetta in Glenn Drive.

Poiché avevo saputo che il rio, che scorreva lungo un lato del mio pezzo di bosco dentro alla mia proprietà, si chiamava come ho detto Oxford Creek, decisi di chiamare anche la casa Oxford Creek.

Fare il gestore dei ristoranti e l'amministratore dei sette appartamenti e dei due negozi non era però il mio ideale, soprattutto dei ristoranti, in quanto io di cucina non ne sapevo assolutamente nulla. Cercai di fare del mio meglio e non credo di aver fatto male, ma la mole di lavoro che questo richiedeva era enorme e, almeno per me, tutt'altro che gratificante.

Allora mi chiesi che senso avesse essere milionari e non godersi la vita. Così decisi di mettere in vendita sia alloggi che negozi che ristoranti, senza fretta, cercando di ricavarci il più possibile.

Ma nello stesso tempo, una volta che avessi realizzato tutto il capitale, che ne avrei fatto? Vivere di rendita, sì, se il capitale rende... Comunque io non ero certo il tipo di stare a girare i pollici per tutto il giorno. Ci pensai un po' su... A Nashville non avevo ancora amici, conoscenti, nessuno a cui potessi chiedere consiglio.

Un giorno, stavo cenando nel mio migliore ristorante, quando vidi che nella sala stavano servendo l'avvocato Mongelli con la moglie e i figli. Mi alzai e andai a salutarli. Mi chiesero se volessi sedere al tavolo con loro e accettai. Mentre si cenava, l'avvocato mi chiese come mi stessero andando le cose. Quando io gli espressi la mia scontentezza, e anche la mia intenzione di vendere tutto, ma anche il mio problema di che farne del capitale, l'avvocato annuì.

Mi disse: "Vede, mister Villa, in questo momento Nashville è in espansione e c'è fame di alloggi. Ma quello che ancora manca soprattutto nella nostra comunità, sono piccoli appartamenti in affitto a un buon prezzo, alloggi per quelli che non possono comprarsi una casa o che non si fermano a lungo qui in città, per giovani coppie e così via... Perché non fa costruire un complesso di appartamentini? Potrebbe guadagnare bene e, una volta avviata la cosa, può occuparsene di persona prendendo il personale adatto... pochi impiegati e qualche operaio possono bastare per farlo funzionare egregiamente... le renderebbe bene senza occupare troppo del suo tempo e delle sue energie."

L'idea mi sembrò buona. Così, mentre da una parte mettevo in vendita gli appartamenti in città, i negozi e i ristoranti, pensai che potevo far costruire il complesso nel vasto appezzamento di bosco in cui c'era la casetta in cui ora abitavo.

Perciò contattai subito diversi architetti e imprese di costruzioni chiedendo loro di farmi progetti di massima e preventivi di spesa. Nel marzo del 1972 avevo scelto uno dei progetti, perciò chiesi allo studio di stendere progetti più dettagliati con un preventivo preciso. L'architetto si chiamava Steven Mallory. Mi presentò un progetto che prevedeva sette costruzioni: una palazzina, identificata con la lettera A, su tre piani, prospiciente Glenn Drive 700, contenente gli uffici, la lavanderia comune, il mio appartamento e nei due piani superiori otto appartamenti doppi a cui si accedeva con due scale.

A novanta gradi rispetto a questa palazzina ma su una direttrice un po' obliqua, si sarebbero costruite sei palazzine di due piani, denominate da B a G, con scala centrale e quattro appartamenti per piano, che avrebbero formato con la palazzina A una lunga L leggermente sbieca. Le costruzioni sarebbero state realizzate in cemento con le facciate in cotto e pietra locale. Di fronte alle sei costruzioni un'ampia strada di accesso con i parcheggi per le auto degli inquilini. All'interno della L vi sarebbe stata la piscina e un giardino, ed il tutto era circondato dal bosco di mia propietà. La palazzina A avrebbe preso il posto della casetta di mio zio Marco.

Decidemmo di chiamare tutto il complesso "Oxford Creek - Apartments and Duplexes" e nell'aprile del 1972 si dette inizio ai lavori. Dovendo demolire la casetta dello zio, tornai ad abitare nell'Union Station Hotel dove fissai una suite per il periodo che ci sarebbe voluto per portare a termine la prima palazzina.

I lavori procedevano bene e piuttosto veloci. Di tanto in tanto andavo a vedere a che punto fossero e spesso incontravo sul posto l'architetto oppure un suo giovane assistente, Alexander Melling, che tutti chimavano Alex oppure Mister Melling a seconda dei casi.

Alex era nato nel luglio del 1950, quindi quando iniziarono i lavori aveva solo ventidue anni. Da quattro lavorava come assistente dell'architetto Mallory, era una specie di capo-cantiere, o di supervisore dei lavori. Era un ragazzo alto, con un corpo forte, i capelli a spazzola di un biondo-castano, estremamente efficiente, e che pareva sapere il fatto suo. Era rispettato da tutti gli operai del cantiere e soprattutto era un ragazzo fiero del proprio lavoro.

"Vedrà, mister Villa, che le faremo un bel complesso! Sa, ho saputo che stanno lottizzando qui a sud della città, perciò presto ci sarà anche una nuova strada che, secondo i progetti, dovrebbe finire proprio qui di fronte al suo complesso."

"Molto bene. Una nuova strada che va dove?"

"Giù, da qui verso sud, curvando verso destra per poi unirsi con Murefreesboro Road. Tutta questa zona è un'area di sviluppo che è già stata o sarà presto lottizzata. Nashville sta crescendo qui verso sud e anche a est verso Belleville."

Mi piaceva quel ragazzone un po' dinoccolato, alto e snello ma dal corpo forte. E anche come sapeva farsi rispettare dai lavoratori, anche dai più anziani.

"Ma tu studi da architetto?" gli chiesi un giorno.

"No." mi rispose con un gran sorriso. "Ho solo fatto tre anni di college nel ramo costruzioni e mi basta. Non sono il tipo da rompermi la schiena e la testa sui libri, io. Preferisco piuttosto giocare a basket-ball con gli amici."

"Ah, giochi a basket-ball?"

"A tempo perso, ma mi piace."

"Hai un po' un fisico da atleta, infatti..." gli dissi facendo scorrere lo sguardo lungo il suo corpo.

"Mi piace lo sport. E mi piace la vita all'aria aperta. Per questo mi piace anche la vita di cantiere."

"E nel tuo tempo libero, a parte il basket, che fai?"

"Si perde tempo con gli amici. Si va a sentire un po' di country music in centro, si balla, ci si diverte come si può. Non è che Nashville offra molto, oltre la musica."

"Hai la ragazza?"

"Diciamo di sì..."

"Come, diciamo di sì?" gli chiesi incuriosito.

"Tutti gli amici ce l'hanno, così me la sono dovuta fare anche io... niente di serio, però. Un po' di petting tanto per tenermela... niente di più. Non mi va ancora di legarmi, in fondo ho solo ventidue anni."

"Ti capisco."

"E lei? È sposato? Ha una donna?"

"No, né l'uno né l'altro... In fondo ho solo ventisei anni..." gli dissi scherzoso.

"Lei è italiano, vero?"

"Sì."

"Com'è l'Italia? Bella?"

"Sì, piena di storia e di arte. Ma mio padre era nato qui negli States..."

"Davvero? Così lei è tornato sulle orme di suo padre."

"Più o meno."

Più conoscevo Alex, più il ragazzo mi piaceva. Lo trovavo anche molto sensuale con quella sua aria da ragazzone cresciuto troppo in fretta.

Venne il periodo di Natale. Io per la prima volta passavo il Natale da solo. Ricordando quanto il mio Mauro amasse il presepio, decisi di comprarne uno. Ne trovai uno in "One Dollar Shop" per soli due dollari, fatto in Cina in imitazione biscuit con dieci pezzi, lo comprai e lo portai nella mia suite in albergo.

Due giorni prima di Natale, Alex mi telefonò in albergo: "Mister Villa, che cosa farà per Natale?"

Un po' sorpreso, risposi: "Nulla... È il primo Natale che passo lontano dai miei... non conosco nessuno, qui..."

"I miei tornano in Oregon dai parenti. Anche io non ho niente di speciale in vista... perché non lo passiamo insieme? Due solitudini, qualche volta, possono compensarsi."

Ancora più sorpreso per quell'offerta ma anche molto compiaciuto, accettai subito. Lo invitai a venire a mangiare con me, la vigilia di Natale, nel mio albergo. Venne.

Per la prima volta lo vidi vestito con un completo, camicia bianca e cravatta. Era molto elegante e pareva anche più giovane di quello che fosse. E era molto carino... e desiderabile.

Passammo una bella serata assieme, allegra e gradevole. Mi parlò di sé, della sua famiglia, di tutto e di niente come pure feci io con lui.

Ci salutammo poco oltre la mezzanotte dandoci appuntamento per il giorno dopo. Arrivò nel mio albergo alle dieci di mattina del 25. Lo feci salire da me. Ammirò il mio piccolo presepio. Gli parlai della tradizione italiana del presepio. Poi uscimmo per il pranzo e Alex volle a tutti i costi offrire lui. Così passammo assime tutta la giornata in un'atmosfera assai gradevole. Cenammo anche assieme e parlammo di nuovo di noi... e più lo conoscevo più fortemente mi sentivo attratto da lui.

Prima di lasciarci nuovamente, Alex mi disse che avrebbe avuto piacere di passare assieme a me anche l'ultimo dell'anno, per aspettare assieme il 1973... di nuovo io accettai immediatamente e con vero piacere.

Oltre a essere di gradevolissima compagnia, Alex mi attraeva sempre più. Il suo sorriso, le piegoline che si formavano ai lati dei suoi occhi quando sorrideva, la sua voce calda e sensuale, il suo accento... tutto mi piaceva in lui.

Pensai che avrei dovuto fargli un regalo per il nuovo anno. Non sapevo esattamente che cosa, anche se cominciavo a conoscerlo un po'... Alla fine decisi di regalargli un orologio da polso, un Wenger nero fatto in Svizzera, con le cifre fluorescenti e la data, a pile, e con un cinturino di morbida pelle nera. Mi feci preparare un bel pacchetto nel negozio e prima che me lo confezionassero vi feci mettere dentro un bigliettino che avevo preparato.

"In ricordo delle magnifiche ore passate assieme, con l'augurio che tutte le ore del futuro ti siano propizie. Buon anno 1973. Luca"

Mi venne a prendere alle nove di sera. Aveva prenotato per noi due per un veglione sul battello a vapore "General Jackson" che avrebbe navigato lungo il fiume Cumberland.

Il cenone a bordo era rallegrato da un complesso country, il salone e i ponti erano allegramente decorati, un bel Babbo Natale ci accolse all'imbarcadero dove ci facemmo anche scattare una foto ricordo.


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