DUE VOLTE STRANIERI | CAPITOLO 1 INCONTRI E SCONTRI |
Il primo giorno di scuola, l'anziano professore entrò in aula e i ragazzi corsero ognuno al banco che s'era scelto, attendendo in un quasi-silenzio e in piedi che l'uomo sedesse in cattedra. Ma questi, dopo aver lanciato loro un'occhiata distratta, andò alla lavagna e con il pennarello cancellabile nero scrisse in elegante corsivo inglese la data, poi, sotto a questa, un nome: "Antonio Mastella". Quindi, invece di sedere, aggirò la cattedra, vi si appoggiò lievemente e fece girare i suoi occhi d'un azzurro slavato sugli allievi, lentamente, sistematicamente, finché il silenzio fu perfetto. "Senza fare chiasso, ragazzi, ora potete sedere." Attese che obbedissero, facendo di nuovo scorrere lo sguardo su ognuno di essi, guardandoli dritti negli occhi. "Bene. Ho scritto alla lavagna il mio nome e cognome. Sono il vostro insegnante di greco, latino, italiano, storia e geografia. Perciò passeremo molte ore assieme. Vediamo di andare d'accordo, perché voi potete rendermi la vita impossibile, so che ne siete capaci, ma il coltello per il manico, purtroppo per voi, l'ho io, e posso rendervi pan per focaccia." Fece una pausa, come per far entrare bene in testa le sue parole e la sua non velata minaccia, ai suoi nuovi allievi. "C'è un tempo per ridere e un tempo per essere seri, un tempo per divagare e uno per fare attenzione. Se andremo d'accordo, conoscerete questi quattro tempi... e altri ancora. E ora, dato che voi conoscete già il mio nome e cognome, è tempo che io conosca i vostri." Si girò, estrasse dal registro di classe un foglio dattiloscritto e lo scorse rapidamente. "Quando dico il vostro nome, alzatevi in piedi e sedete solo quando chiamo il nome successivo. Non serve, questa volta, che diciate presente, o sì, o eccomi, né altro." disse, e iniziò l'appello. "Federica Alemanno." disse e guardò la ragazzina, per imprimersi in mente il suo volto, il suo aspetto. "Valente Audino." La ragazzina sedette e il ragazzo s'alzò in piedi spostando la sedia con rumore. "La prossima volta, Valente, non fare rumore con la sedia." Il ragazzo annuì ed alzò la mano. "Sì?" disse il professore. "Sui documenti io mi chiamo Valente, ma potrebbe, per favore, chiamarmi Valentino?" Il professore prese nota sul foglio. "Sì, certo, ma sui compiti in classe dovrai scrivere Valente. Chiaro?" "Sì, professore." "Tiziana Balestra." La ragazzetta si alzò, masticando un cewing-gum. "Noi esseri umani non siamo ruminanti, Tiziana. Se ti piace masticare la gomma, liberissima di farlo, ma non in classe, per cortesia. Prendi un pezzo di carta, metticela e valla a gettare nel cestino." La ragazzetta arrossì ed eseguì. Il professore notò che altri immediatamente inghiottivano o sputavano su un pezzetto di carta il loro cewing-gum. Annuì e proseguì. "Elias Bargouti... Ho pronunciato correttamente il tuo nome, Elias?" "Sì, signore." "Bene. Ma non mi piace molto il sìssignore, non siamo nell'esercito. Sì, professore è meno sgradevole. Grazie. Di dove è originaria la tua famiglia?" "Sono nato a Betlemme, professore." "Ah. Allora hai un compaesano molto famoso." Il ragazzo annuì, con un sorriso. "Paolo Bottega. Noi già ci conosciamo. Spero che quest'anno ti impegnerai di più, Paolo, mi spiacerebbe ritrovarti di nuovo in quarta ginnasio anche il prossimo anno." L'appello proseguì. Il professore era giunto verso la fine dell'elenco. "Damiana Salinas. È tuo fratello Gaetano Salinas che è ora in seconda liceo?" "Sì, professore, è il mio fratello maggiore." "Lo immaginavo, vi assomigliate. Itzhak Segre. Itzhak... non sei nato in Italia." "No, professore, sono nato a Tel Aviv." "Capisco. Abbiamo perciò un palestinese e un israeliano in classe. Mi auguro che fra voi due, ragazzi, riusciate a convivere in pace." Il ragazzo restò impassibile. "Giuliano Sorgona." chiamò il professore e proseguì fino a terminare l'appello. Quindi girò attorno alla cattedra, sedette, e iniziò la lezione introduttiva, spiegando alla classe il programma di insegnamento delle sue materie. Il professore aveva notato che il ragazzo palestinese sedeva all'ultimo banco a sinistra e il ragazzo israeliano al primo banco a destra: il più lontano possibile uno dall'altro. Si chiese se avessero scelto di proposito quei posti o se la cosa fosse del tutto casuale. I ragazzi ascoltavano con l'attenzione tipica del primo giorno di scuola le sue spiegazioni. Il professore continuava a guardarli tutti, a uno a uno, cercando di capirne la personalità, il carattere. Anche molti dei ragazzi, oltre o più che ascoltare le spiegazioni del professor Mastella, cercavano di capire che tipo fosse, dato che avrebbero passato con lui ben diciotto delle ventisei ore settimanali di lezione. "Rispetto ad altre scuole medie superiori, voi che avete intrapreso gli studi in un liceo classico, avete meno ore di tutti in classe. Questo non perché abbiate meno da studiare dei vostri compagni che hanno scelto altri indirizzi di studio, ma perché dovete lavorare molte ore in casa, per contro vostro: non dimenticatelo. Per ogni ora che passate qui dentro, dovrete studiare almeno un'ora in casa: rivedere, digerire, maturare quanto i miei colleghi e io vi insegniamo..." stava dicendo il professore. Antonio Mastella, classe del 1938, era abituato a occuparsi di più cose comtemporaneamente: fin dai suoi anni di liceo e d'università era in grado di seguire attentamente una lezione, ascoltare il chiacchiericcio dei vicini di banco, scrivere una lettera o leggere un libro contemporaneamente. Perciò, mentre illustrava ai ragazzi i programmi delle materie che avrebbe insegnato loro, li sudiava attentamente, e inoltre, su un terzo livello, ammirava i più graziosi fra i suoi allievi maschi. Infatti, benché nessuno nel suo ambiente di lavoro lo sospettasse minimamente, il professore era gay. Da diciannove anni viveva con il suo partner. Riguardo al suo "apprezzamento" nei confronti di alcuni suoi allievi maschi, questo era un sentimento puramente estetico e "platonico" (nel senso moderno del termine, infatti il professore sapeva bene che Platone aveva rappporti fisici, tutt'altro che "platonici", con persone del proprio sesso) si compiaceva di ammirarli nel segreto dei suoi pensieri, ma mai aveva dato voce o corpo alla cosa, sia perché a suo parere non vi deve essere un rapporto fisico-affettivo fra un educatore e un educando, sia perché non era mai stato attratto da ragazzini ma da uomini, sia infine perché conviveva felicemente con il suo partner. Quando suonò l'intervallo, il professore uscì dalla classe per lasciare liberi i ragazzini di tirare il respiro, sgranchirsi le gambe, fare eventualmente il sospirato spuntino e iniziare a conoscersi fra loro. In classe si fornarono gruppetti: ragazzi che già si conoscevano, avendo frequentato le medie assieme, ragazzini che cominciavano a esplorare le compagne più carine, altri incuriositi da questo o quel compagno che avevano adocchiato. Alcuni andarono a parlare con i due compagni stranieri, chi con Elias Bargouti, il palestinese, chi con Itzhak Segre, l'israeliano, agli angoli opposti dell'aula. Elias era magro, più alto della media dei compagni, aveva capelli neri, lisci, occhi scuri e vivaci, sopracciglia ben distanziate e folte, che parevano disegnate, ciglia lunghe, labbra colorite e la pelle lievemente più scura degli altri. Rispondeva alle mille domande dei compagni, in parte intimorito, in parte compiaciuto per tanta attenzione. "Ma voi musulmani ci odiate a noi cristiani?" gli chiese uno dei compagni. "Io sono arabo palestinese, ma la mia famiglia è cristiana, non musulmana, siamo tutti cattolici, battezzati e andiamo a messa la domenica." rispose Elias. La cosa stupì non poco i compagni. Una ragazzina chiese: "Vi siete convertiti quando siete venuti in Italia?" "No, anche tutti e quattro i miei nonni sono cattolici e credo che anche i bisnonni lo erano, per quello che ne so... La mia famiglia è sempre stata cristiana." spiegò Elias. "Non lo sapevo che ci sono anche i musulmani cristiani..." disse uno dei ragazzi. "Siete tanti?" "No, credo che siamo pochi. Ma non siamo musulmani cristiani, ma arabi cristiani. Ci sono chiese orientali in Egitto, in Palestina, in Libano, in Siria, in Iraq... Non convertiti, ma cristiani da duemila anni come voi." spiegò il ragazzetto. "E tu sei nato a Betlemme come Gesù?" gli chiese un'altra ragazzina. "Sì, la famiglia di mio padre era tutta di Betlemme, quella di mia madre invece veniva da Gerusalemme." "Allora tu hai visto dove è nato Gesu." disse la ragazza. "Mio padre faceva il giardiniere per i francescani alla basilica della Natività, e mia madre faceva la cuoca per i frati, quando si sono conosciuti e sposati." "Ma c'è ancora la grotta con l'asino e il bue?" chiese un ragazzetto minuto con spessi occhiali ed il volto coperto di leggere efelidi. Itzhak sorrise: "No, l'asino e il bue credo che sono morti... da quasi duemila anni... e la grotta fa parte della basilica e c'è un altare dove probabilmente è nato Gesù." Gli altri compagni risero e il ragazzetto arrossì. Nell'angolo opposto dell'aula, altri erano attorno a Itzhak e anche a lui facevano mille domande. "Sono forti i soldati di Israele, vero?" chiese uno. "Sì, sono bene armati, lo stato spende molto per avere un esercito moderno e efficiente." rispose Itzhak. "Ma tu non vai nella chiesa cattolica, vero? Vai alla chiesa ebrea, no?" "Sì, con i nonni andiamo alla sinagoga, il sabato." "Non la domenica?" "No, per noi il giorno sacro è il sabato." Un ragazzetto disse allegramente: "Io il venerdì vorrei essere musulmano, il sabato ebreo e la domenica cristiano, così avrei tre giorni di festa alla settimana!" Poi aggiunse: "Chissà se c'è una religione che fa festa il giovedì o il lunedì?" "È vero che voi ebrei avete fatto fiorire il deserto?" chiese una ragazzina. "Se hai abbastanza soldi, ci porti l'acqua, proteggi le pianticelle dalla sabbia, lavori sodo e aspetti anni... si può coltivare qualcosa, anche se costa molto. Ma io sono nato a Tel Aviv, non ho mai visitato i kibbuz." "Ti piace vivere in Italia?" "Sì... qui non c'è la guerra..." rispose quasi sottovoce Itzhak. "Ma è vero che voi ebrei e gli arabi scrivete al contario di noi? Mi scrivi il mio nome nella tua lingua?" "Sì, scriviamo da destra a sinistra. Come ti chiami?" "Gabriella Notari..." Itzhak prese un foglietto e tracciò i caratteri dell'alfabeto ebraico che rendevano foneticamente il nome della compagna. Anche gli altri vollero avere il loro nome scritto con l'alfabeto ebraico. Itzhak li accontentò tutti. "Tu, se non ti chiamavi Itzhak, potevi sembrare un italiano." gli disse uno dei ragazzi. "Mio padre era nato a Mantova, come i miei nonni, poi è andato in Israele, è diventato cittadino israeliano e si è sposato là. Mamma era nata in Israele... i suoi genitori erano nati in Polonia, i nazisti li avevano messi in campo di concentramento e son stati fra i pochi fortunati a non morire. Quando gli alleati li hanno liberati, sono emigrati in Israele, si sono conosciuti e si sono sposati..." spiegò Itzhak. "Allora sei mezzo italiano, tu." gli disse uno dei ragazzi. "Beh, sì, si può dire così..." concesse il ragazzetto, aggiustandosi gli occhiali sul naso, poi rassettandosi con le dita i capelli lisci e castano chiaro. Uno dei ragazzi gli chiese: "È vero che a voi ebrei da piccoli vi tagliano via la punta del coso?" e gli altri fecero risolini. "Ma no! La circoncisione è solo togliere la pelle che lo copre. Anche il vostro Gesù, che era un ebreo, era stato circonciso, no?" "Gesù era un ebreo?" chiese stupito uno dei ragazzi. "Ma va là!" "Ma sì che era un ebreo, della tribù di Davide. Non l'hai studiato al catechismo?" gli disse un altro con aria saccente. "E tu, Itzhak, di che tribù sei?" "Della tribù di Levi... per parte di madre." "Come i leviti, i preti ebrei?" chiese una ragazza. "Il sacerdozio è cessato quando i romani hanno distrutto il tempio di Gerusalemme. Non abbiamo più sacerdoti." spiegò Itzhak. "E i rabbini, allora, cosa sono?" "Dottori della legge, esperti della bibbia, dirigono il culto e la comunità ma non sono preti. Rabbi significa maestro." "Allora tu non frequenterai l'ora di religione. Io nemmeno, i miei sono atei, non vogliono che mi fanno il lavaggio del cervello." disse uno dei ragazzi. "No, io invece ci vado: conoscere la religione della maggioranza degli italiani è cultura. L'arte e la letteratura sono pieni di riferimenti cristiani o cattolici, e io li voglio capire." rispose Itzhak. L'intervallo finì e i ragazzi tornarono ai loro banchi, mentre il professore riprendeva il suo posto in cattedra. Finite le lezioni, i ragazzi sciamarono fuori. Qualcuno era atteso dai genitori in auto, altri si avviarono a casa a piedi, altri ancora andarono a prendere l'autobus o il tram. Itzhak ed Elias si trovarono alla stessa fermata. Si misero ai due estremi della pedana, ma entrambi, di sottecchi, si studiavano. Giunse l'autobus e vi salirono tutti e due uno dalla porta anteriore, l'altro da quella posteriore... e senza averne l'aria continuavano a studiarsi. Scesero anche alla stessa fermata. Uno dei due ragazzi traversò la strada e dopo un isolato proseguì dritto, l'altro invece, sul marciapiede del lato opposto, girò in una via laterale.
Il padre gli chiese: "Com'è andato il tuo primo giorno di ginnasio?" "Bene. Abbiamo conosciuto il nostro professore di italiano che ci ha spiegato i programmi anche di latino, greco, storia e geografia. Sai che avremo lui tutti i giorni escluso il giovedì?" "Com'è? Simpatico?" gli chiese la madre mentre sporzionava. "È vecchio. Dice che fra due o tre anni va in pensione. Non sembra male, è severo ma i suoi occhi mi sembrano buoni." "E i tuoi compagni?" gli chiese il padre. "C'è anche un israeliano, nella mia classe." "Vi siete parlati?" "No. Siamo di posto agli angoli opposti dell'aula." "Sei tu che sei andato a sederti lontano da lui, o lui da te?" "No, per caso. Quando sono entrato, sono andato a sedere nell'unico posto libero. E poi, a guardarlo, credevo che era italiano, solo quando il professore ha fatto l'appello ho scoperto che invece è israeliano." Il padre fece il segno della croce e Franciscus, il figlio maggiore, recitò per tutti il benedicite. Quindi si misero allegramente a mangiare. Barnabas, il terzo, durante il pranzo disse: "Papà, il padrone mi ha proposto di mettermi in una squadra esterna. Si guadagna di più, però si deve anche viaggiare per tutta la regione e a volte mangiare e dormire fuori." "E tu, hai accettato?" gli chiese il padre. "Mamma, ce n'è ancora?" chiese Suzannah, la più piccola delle femmine. "Gli ho detto che volevo prima parlarne con te, papà." rispose Barnabas. "Ma quando sei fuori, le spese per mangiare e dormire le paga il padrone?" chiese il padre. "Sì, certo. A me piacerebbe, e la paga è maggiore." "Dovresti stare fuori a lungo?" gli chiese la madre. "Dipende, forse qualche volta anche per qualche giorno." "Se ti piace, accetta." disse il padre, poi, rivolto alla moglie disse: "Martha, è maggiorenne, ormai, è ora che cominci a staccarsi dalle tue sottane, no? Per te sono ancora tutti piccoli, anche Franciscus che prima o poi si sposa." "Ehi, papà, vacci piano..." protestò il figlio maggiore, "Io e Sandra ancora non si parla di martrimonio!" "E fareste bene a parlarne, invece. Sono ormai tre anni che vi vedete e filate. Che aspettate?" gli chiese il padre. "Di conoscerci meglio. Di essere più sicuri." "Lavorate tutti e due, no? Io, quando ho sposato mamma avevo ventuno anni, quattro meno di te!" "Vuoi proprio liberarti di me!" gli disse il ragazzo, ridendo. "Almeno Barnabas e Elias starebbero più comodi nella vostra stanza, no?" gli rispose il padre. "Altruista!" lo rimbeccò allegramente il ragazzo. "E poi qui siamo in Italia, nessuno si sposa presto come si faceva ai tuoi tempi in Palestina. E i miei soldi fanno comodo in casa, se vogliamo far studiare Elias anche all'università." "Altruista tu!" gli rispose con lieve ironia il padre. "Per far studiare Elias ce la possiamo cavare anche senza il tuo aiuto. E se prende buoni voti, gli danno pure una borsa di studio." Elias pensò che, se Barnabas dormiva più o meno spesso fuori per lavoro, e se Franciscus si fosse sposato, avrebbe avuto la stanza tutta per sé: l'idea gli piaceva. In tre ci stavano proprio stretti, da solo ci sarebbe stato da re! Poi gli tornò in mente il suo nuovo compagno di classe, l'israeliano. "Loro si credono di valere più di noi, di essere più intelligenti di noi. Ci disprezzano. Ma gli farò vedere io se è così: prenderò sempre voti più alti di lui, anche se dovessi studiare come un matto! Sarò sempre un passo davanti a lui, anche se in classe lui è seduto al primo banco come i secchioni!" si disse con determinazione. D'altronde Elias era sempre andato molto bene a scuola, tanto che i suoi insegnanti avevano insistito con il padre e l'avevano convinto a non fargli fare un professionale come ai fratelli, ma di iscriverlo al liceo classico. Avrebbe studiato come un matto, sia per non sprecare i sacrifici della famiglia, sia per far vedere all'israeliano chi era più intelligente!
"Meglio, caro, sta meglio, ringraziando l'Altissimo. Hai fame?" "Urca!" "Cosa sarebbe questo urca? Non sai dire semplicemente di sì?" gli disse la nonna facendo un'espressione severa, smentita però dagli occhi che ridevano. "Sì, nonna, ho molta fame. Viene a tavola, il nonno?" "Sì, oggi viene a tavola. Vallo a salutare, poi apparecchia per tre, che è quasi pronto." "Sì, nonna." Il ragazzo andò nella camera dei nonni. David Segre era seduto sul bordo del letto e si stava infilando le pantofole. "Oh, ecco il nostro Itzhak. Allora, com'è andato il tuo primo giorno di scuola?" "Bene. I compagni sembrano simpatici. Il professore di greco ci ha fatto il sermone per tutta la mattina. È anziano, sta per andare in pensione, ha detto, ma ci porta fino in quinta. Ah, sai che c'è pure un compagno palestinese, in classe con me?" "Ah. E tu ignoralo, non litigare con lui. Proprio un palestinese dovevano mettere nella tua classe! Vieni qui, fammi appoggiare sulla tua spalla, giovanotto, andiamo a mangiare." Sedettero a tavola. "Il palestinese, mica ti ha infastidito, no?" gli chiese il nonno. "Quale palestinese?" chiese la nonna. "Hanno messo un palestinese nella classe di Itzhak, Lea." spiegò il vecchio. "Mica l'avranno fatto apposta, no? Che vuoi che gliene importa a quelli della segreteria?" disse il ragazzo. "Oh, magari invece l'hanno fatto proprio apposta. In segreteria sanno che tu sei israeliano e quello è palestinese, no?" disse la nonna. "Magari sui nostri documenti hanno solo visto che siamo nati tutti e due in Israele, e hanno pensato che eravamo meno soli ad avere un paesano in classe." disse Itzhak. "A me non me ne importa. E comunque siamo seduti lontano. Se lui si fa i fatti suoi e io i miei, non ci saranno problemi, no? Anche se abita qui vicino: è sceso alla mia stessa fermata di autobus." "Sono tutti attacabrighe, quelli." brontolò la nonna. "Per non dire peggio. Sono solo terroristi, ce l'hanno nel sangue. Proprio tu dovresti saperlo, povero Itzhak, no?" "Lea! Sai che non mi piace ricordare certe cose, no?" disse il vecchio. "E come puoi dimenticare che hanno ammazzato nostro figlio, nostra nuora e i due fratellini del nostro Itzhak? Io non lo dimentico, non è possibile." "Ma chi lo dimentica!? Sono passati solo sette anni. Come posso dimenticare, se non dimentico neppure i tempi in cui ci si è dovuti nascondere per salvare la pelle, per non farci trovare dai fascisti o dai loro amici tedeschi. Ma, anche se non dimentico, non mi va di parlarne, di rinnovare il dolore. Pare che a voi donne piace crogiolarvici nel dolore, invece." "Quando una ferita ancora sanguina... non si può far finta di non averla." disse la nonna. "Ma neanche farla vedere a tutti." insisté il nonno. Itzhak mangiava in silenzio e si chiedeva come far cessare quel battibecco. Sapeva che avevano ragione tutti e due. Non gli piaceva quando si scontravano su quei discorsi, o su altri punti di disaccordo, anche se le discussioni non erano mai sfociate in litigi. "La scuola è abbastanza bella, pulita, tenuta bene." disse il ragazzo per sviare il soggetto. "Alcuni dei miei compagni mi hanno chiesto di scrivere i loro nomi con l'alfabeto ebraico. Il professore di greco credo che ha sui sessanta anni, è alto, ha ancora tutti i capelli, è solo un po' stempiato..." e continuò a parlare a ruota libera, mentre mangiava. Neanche lui aveva dimenticato lo shock che aveva avuto quando erano andati a prenderlo a scuola quelli dell'assistenza sociale e gli avevano detto che una bomba dei terroristi palestinesi aveva distrutto tutta la sua famiglia. Lui s'era salvato solo perché era a scuola. Ma come il nonno, benché la ferita ancora sanguinasse, preferiva non parlarne. Non per dimenticare, come avrebbe potuto? Come avrebbe potuto cancellare dalla memoria mesi di pianto, nell'istituto in cui l'avevano messo con altri orfani come lui, finché erano arrivati i nonni dall'Italia a prenderlo e portarlo via? Aveva, sul comodino della sua camera da letto, la foto di tutta la sua famiglia, tutti e cinque, con Elanah, che aveva quattro anni, seduta sulle gambe del padre, Reis, che era nato da poco, fra le braccia della madre e lui fra i genitori che sorrideva felice... E ora solo lui era ancora vivo. No che non poteva dimenticare. Non glieli avevano voluti far vedere, perché lui era troppo piccolo, e aveva sentito dire che i loro corpi erano straziati, quasi irriconoscibili. Lui avrebbe voluto vederli lo stesso, invece. Ma si sa, sono i grandi a decidere. Neanche i nonni avevano potuto vederli, perché quando erano riusciti ad andare in Israele a prenderlo, i suoi erano già stati sepolti. L'ultima immagine della sua famiglia, perciò, era una tomba bianca nel cimitero di Tel Aviv, con una stella di Davide dorata incisa sul marmo e i quattro nomi con le date di nascita e l'unica data di morte. Avevano messo i loro sassi sulla tomba, e erano andati in taxi fino all'aereoporto. Si era chiesto spesso, Itzhak, perché Dio non aveva voluto che morisse anche lui con la sua famiglia. Il nonno gli aveva detto che, evidentemente, l'Altissimo aveva altri progetti su di lui. Itzhak si chiedeva, nel segreto del suo cuore, se davvero Dio si curava del Suo popolo, o se l'aveva dimenticato, perché magari era in tutt'altre faccende affaccendato. Itzhak mormorò lo Shemà: "Shema Yisrael Adonai eloheinu Adonai ehad" - Ascolta Israele, il Signore nostro Dio, il Signore è Uno. "Sì, d'accordo, il Signore è Uno. D'accordo, io ascolto il Signore nostro Dio... se solo volesse parlarmi a voce un po' più alta, perché io ci sto, in ascolto, ma non riesco a sentirlo parlare." pensava Itzhak mentre aiutava la nonna a sparecchiare e a rigovernare. Poi andò nella sua cameretta, guardò i libri ancora nuovi e intonsi che avrebbe dovuto studiare quell'anno e li sfogliò e pensò che ora gli sembravano difficili e pieni di cose incomprensibili ma che fra un anno il loro contenuto gli sarebbe diventato noto, comprensibile, forse anche familiare. Allora pensò che anche la sua vita era come uno di quei libri che aveva in mano: alla fine avrebbe capito che significato aveva. Ora doveva solo impegnarsi a viverla, un capitolo alla volta, così come si sarebbe impegnato a studiare quei libri, una pagina alla volta. Guardò la foto di suoi, nella bella cornice sul comodino, e pensò che Reis avrebbe ora avuto otto anni, se fosse stato vivo. Voleva bene alla sorellina, ma era così felice che gli fosse nato un fratellino! E invece era morto pochi giorni prima di compiere un anno di vita. Reis, che significa gigante, era morto prima di poter fare fede al proprio nome. Non gli avevano dato il tempo di mettersi alla prova, di far vedere quanto valeva. Ora era rimasto solo lui. E quanto sarebbero durati, ancora, i nonni? Anche loro, prima o poi l'avrebbero lasciato solo, era inevitabile.
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