Adduzzu s'era abituato a tutti i suoi doveri, compresi quelli che i tre pastori a turno gli richiedevano ogni notte. Ma come gli aveva predetto Parra-Parra, in realtà aspettava sempre con piacere che toccasse al giovanotto appartarsi con lui. Era l'unico dei tre che, mentre si prendeva il suo piacere con lui, gliene dava anche, e molto.
Ma poi venne il tempo in cui si dovettero portare le greggi giù al paese per la tosa e i tre dissero al ragazzino che non avevano più bisogno di lui. Adduzzu allora pregò Parra-Parra di prenderlo fisso con sé.
"Caruseddu mio, io tengo moglie, non ho bisogno di te quando posso fare con lei, non lo capisci? Alla prossima volta che si portano le pecore in montagna, se non hai trovato di meglio, ne possiamo riparlare, e chissà. Però il fatto è che tu stai crescendo, e fra un po' non mi interessi più. Già ti si vede un po' di pelo sul labbro... Vedremo, ma non ti posso promettere niente."
Adduzzu si sentì offeso, tradito: s'era illuso di essere importante, per Turi Pipitone, almeno un poco. Così, per non vederlo più, tanto ora provava risentimento per essere stato rifiutato dal giovanotto, decise di lasciare il paese e di andare alla ventura. Prese la strada sterrata verso valle, portando con sé soltanto la pelle per stendersi a dormire e un fagottello con un po' di cibo. Indossava solo il giubbino e "li vrachi", le brache di pelle e ai piedi aveva le "scarpe e pilu" che gli aveva donato Parra-Parra, formate da un pezzo di cuoio ripiegato in punta e fermato da piccole corregge al collo del piede, che ne lasciava scoperto il dorso.
Camminò a lungo, ancora irato con Parra-Parra. Era già in vista di Fàvara, quando si fermò e sedette sul bordo della strada, per sbocconcellare qualcosa. Era davvero arrabbiato, profondamente deluso. L'avevano usato tutti e tre, a loro piacere, e Parra-Parra non s'era rivelato meglio degli altri. Solo a fottere era più esperto, aveva più esperienza, ci sapeva fare meglio. Lacrime di rabbia gli rigavano le gote.
Dalla stessa direzione da cui era giunto Adduzzu, arrivò un carretto tirato da un asino. A cassetta sedeva un uomo sui quaranta anni, che indossava abiti da contadino: indossava un paio "causi", le brache di velluto nero senza apertura davanti, strette da fibbie al ginocchio, abbottonate lateralmente sui fianchi e legate alla cintura da una larga fascia di cotone verde. Una grande "panzera", il panciotto dello stesso velluto, con una sfilza di bottoni in ottone, gli copriva il torace e su di esso aveva un "jippuni", una casacca di velluto verdone scuro quasi nero con ampie tasche interne ed esterne. Sul capo aveva un berretto di panno marrone che, ripiegato, gli pendeva sulla spalla. Dal ginocchio in giù le gambe erano coperte da calze di cotone bianco.
L'uomo, quando arrivò all'altezza del ragazzo, lanciò un verso e fece fermare l'asino: "Ehi, pastorello, che ci fai lì sul ciglio della strada? E perché piangi, in una giornata così bella e così fina?"
Adduzzu lo guardò con diffidenza, di sotto in su: "E chi piange? Mica piango, io!" disse in tono scontroso, tirando su col naso.
"Ah, scusa, allora dev'essere sudore; ti sudano gli occhi, anche se è un fenomeno assai raro. Dove te ne stai andando? O aspetti forse qualcuno?" gli chiese l'uomo in un tono lieve.
Adduzzu notò che, sotto le folte sopracciglia, due occhi chiari e buoni lo guardavano con un barlume di sorriso, anche le labbra erano lievemente piegate in su agli angoli dando al volto scarno un'espressione gentile.
"Allora, ragazzo, mica stai andando giù a Girgenti per la raccolta delle mandorle, per caso? Stanno cercando mennulare e mennulari, ché quest'anno il raccolto è molto buono, si dice."
"Mennulari cercano? E danno da mangiare?"
"Da mangiare e pure qualche moneta, secondo quanto raccogli."
"Pure monete, danno?" chiese il ragazzo interessato: lui non aveva mai avuto una moneta in mano, in vita sua. "E che si deve fare, per diventare un mennularo?"
"Salta sul carro, caruso. Io sto andando a Girgenti e magari posso dire una parola per farti prendere dal padrone. Ti sai arrampicare sugli alberi, tu, no?" chiese l'uomo e tese un braccio al ragazzo per issarlo a cassetta accanto a sé.
"Meglio d'un gatto mi so arrampicare sugli alberi, io. Anche voi fate il mennularo?"
"No, io sono a servizio del barone, e ci faccio le commissioni. Che ce l'hai un nome tu, caruso?"
"Me, mi chiamano Adduzzu..."
"Sì, un bell'adduzzu sei, un galletto di razza. Ma c'avrai pure un nome da cristiano, no?"
"Nardu Piazza. Ma nessuno mi chiama così, a parte il prete e i carabinieri."
"Molto piacere Leonardo, io mi chiamo Errigo Micciché, ma tutti mi conoscono come Cappiddazzu, che era il soprannome di mio nonno che pare portasse sempre un cappellaccio come quello che una volta portavano i briganti. Quando morì mio nonno io tenevo dieci anni e l'unica cosa che mi lasciò in eredità il pover'uomo fu il suo soprannome."
"Ma davvero vostro nonno era un brigante?" gli chiese il ragazzo sgranando gli occhi e guardandolo con uno sguardo affascinato e pieno di rispetto.
"Non più brigante di tutti gli altri cristiani, Adduzzu. In fondo, non siamo tutti un po' eroi e un po' briganti? Non siamo tutti fatti di fango e del soffio di Domineddio?"
"Ma qualcuno è fatto solo di fango, ché il soffio di Domineddio s'è smorzato del tutto e da un bel pezzo." disse con un tono sconsolato il ragazzo.
"No, figlio mio, non è mai così. Anche nel peggior brigante c'è il soffio di Domineddio e nel più grande eroe c'è fango, credi a me. È che noi ci si ferma a guardare la prima cosa che ci colpisce la fantasia e di lì non ci si muove tanto facilmente. Io t'ho visto e dentro di me ho detto: toh, guarda un pastorello... e magari invece sei un grande genio come quel famoso Leonardo di cui t'hanno messo il nome."
"E allora voi, Cappiddazzu, che parete un contadino o un carrettiere, magari chissà che siete invece?"
"E chi lo sa, figlio mio. Se gli altri quasi sempre non sono capaci di vedere chi realmente sei, da soli se ne capisce pure meno su chi davvero siamo. La conosci la storia di Narciso, tu?"
"Chi è, uno di Girgenti?" chiese il ragazzetto incuriosito, perché gli era sempre piaciuto sentire raccontare storie interessanti.
Cappiddazzu scosse il capo sorridendo. "No, era un ragazzo forse un po' più grande di te, ma bello come te, da quello che si narra. Uno dei più bei ragazzi che questo mondo abbia mai visto, almeno così si racconta. Era nato poco lontano da Atene, su verso nord, Atene la città più importante di Grecia, tanto tanto tempo fa, prima che i greci venissero a costruire città qui da noi, prima ancora che fosse fondata Girgenti, che loro chiamavano Akragas. Qualcuno dice che questo Narciso era il figlio di Cefiso, il dio di un fiume e di Liriope, una ninfa, ma altri dicono che suo padre era invece Endimione e sua madre era Selene, cioè la luna..."
"E come può uno essere figlio della luna? E poi, voi ci credete che ci sono tanti dei? Il prete diceva che dio è uno solo, e tutti gli altri sono più falsi di un tarì di coccio dipinto."
"Vedi, Adduzzu, gli dei esistevano un tempo, prima che nostro Signore venisse su questa terra. Esistevano e vivevano, perché gli uomini ci credevano e li facevano vivere e gli offrivano preghiere e sacrifici e gli costruivano grandi e bei templi tutti di marmo, per onorarli."
"Ma ora sono morti, gli dei?"
"Morti? E che è la morte? No, semplicemente sono svaniti, come la rugiada scompare dai prati quando spunta il sole. Vedi, è un po' come i nostri vecchi, i nostri antichi: sono vivi finché ce li ricordiamo, ma svaniscono man mano che se ne perde la memoria... Mio nonno, che pure sta in una tomba, è ancora vivo, perché io me lo ricordo. Ma dopo me, che non ho figli, magari nessuno se ne ricorda più e svanirà pure lui... e svanirò pure io. Quanto alla luna che faceva figli, non è il disco d'oro che durante la notte ci sorride da lassù. Quello è come la statua di un santo, che mica è il santo, ma solo il suo monumento perché la gente non se lo scordi e non si scordi quanto di buono fece quando camminava in mezzo a noi. Ma pure la statua di un santo, se nessuno si ricorda più quello che fece, chi era, come si chiamava, come visse, non è che un pezzo di gesso, o di legno o di marmo, magari bello a vedere ma senza significato. Così è la luna, figlio mio. E così sono gli dei antichi."
"Ma se voi adesso mi parlate della luna che fece un figlio, allora non è morta completamente quella dea, o quel dio del fiume che mi dicevate prima... perché ancora voi ve ne ricordate."
"Un po' è così, figlio mio. Un po' è come le stelle: quando spunta il sole, pure se restano lì dove l'avevi ammirate di notte, non si vedono più, è come se non ci fossero. Tu sai che ci sono, però non ti servono più a nulla, nemmeno a trovare il nord o a capire in che stagione sei. Così è per gli antichi dei, da quando è spuntato il sole che è il Figlio Santo di Domineddio..."
"Ma mi dicevate, Cappiddazzu, di questo caruso, di questo Narciso..."
"Sì, era bello come Adone, che Afrodite amava, come Endimione che era amato da Selene, come Ganimede che tanto era bello che fu rapito da Giove, come Giacinto che era la luce degli occhi di Apollo, come l'amante di Ercole, il giovane e bellissimo Ilas, bello più di Ermafrodito, amato da Salmacis, o di Crisippo, che Laio amò nei tempi antichi..."
"Sì, ho capito, era bello assai. E poi?"
"Il bel Narciso abitava nella città di Tespia. Si narra che un valente e giovane uomo di nome Amenias s'innamorò pazzamente di lui; ma il bel Narciso rifiutò il suo amore e tanto si stancò per l'insistenza dell'altro che un giorno gli mandò in dono una spada. Allora Amenias per il dolore d'essere rifiutato, con quella spada si uccise davanti alla porta di casa di Narciso e morendo gli lanciò una maledizione: 'che Narciso muoia quando vedrà chi è!'
"Si narra che, poco dopo quel brutto giorno, Narciso in un pomeriggio di sole vide la sua immagine riflessa nell'acqua di una sorgente... Sai Adduzzu, a quei tempi non ce li avevano ancora gli specchi, perciò Narciso non s'era mai visto prima e non capì che era lui e non un altro che lo guardava da sotto l'acqua. E così Narciso si innamorò dell'immagine che vedeva, che credeva un abitante del mondo sott'acqua, e cercò di raggiungere quel bellissimo ragazzo per unirsi a lui e farci l'amore... e perciò affogò..."
"S'era innamorato di se stesso?" chiese Adduzzu stupito.
"Così dice la gente, così si narra. Però io credo che le cose sono andate diversamente da quello che pare. La maledizione di Amenias, infatti, era che Narciso sarebbe morto quando avesse visto chi era..."
"Appunto, riflesso nell'acqua della sorgente."
"No, figlio mio, lì vide come era, non chi era. L'immagine non è la persona. La forma non è il sapore. Quando tu ti vedi in uno specchio, vedi come sei, non chi sei..."
"E che vide questo Narciso, allora, riflesso lì dentro l'acqua, che ne causò la morte?"
"Vide un ragazzo che non sapeva amare, che aveva rifiutato un amore sincero, che provocando la morte di Amenias, aveva anche ucciso l'amore nel proprio cuore. Non morì affogato come si racconta, ma vide dentro l'acqua che il suo cuore era vuoto, e perciò il suo cuore smise di battere e, morto, cadde nell'acqua della sorgente. Ciò che l'uccise non fu amore per se stesso come raccontano, ma accorgersi che aveva ucciso l'amore dentro di sé, che non era più capace di amare. S'era cioè visto come realmente era, aveva capito chi veramente era. Rifiutò l'amore e per ciò morì. L'uomo che non sa amare, non è che una parvenza d'uomo, è morto anche se parla e cammina. No, secondo me non morì perché si era innamorato di se stesso come dicono, ma al contrario, perché vide chi veramente era: una persona che nessuno poteva amare, perché il suo cuore era freddo, ché non c'era amore dentro di lui."
"Allora è pericoloso vedere chi si è?" chiese il ragazzetto, incuriosito e pensieroso.
"Lo fu per Narciso, che era un bel guscio vuoto. Però un saggio antico diceva che si deve conoscere se stessi, se si vuole migliorare. Si deve vedere di che fango si è fatti e di che soffio di Domineddio si vive."
"E voi, Cappiddazzu, sapete di che siete fatto?"
"Di fango e di soffio come tutti gli uomini, figlio mio. Ma vedi, a differenza della storia di Narciso, non è guardandosi una sola volta che si sa chi si è, bisogna continuare a guardarsi ogni mattina e ogni sera, se si vuole diventare di argilla fina e se si vuole vivere di un soffio odoroso. Però, fra la mattina e la sera, bisogna smettere di guardare a se stessi e bisogna invece guardare agli altri. Infatti, non è scritto forse che si deve amare gli altri come si ama noi stessi?"
"A volte è difficile amare certi altri, che si approfittano di te, e ti rubano la tua ingenuità e la tua meraviglia, che non vedono in te argilla fina ma solo fango in cui sguazzare a loro piacere come porcelli."
"Quanta amarezza, figlio mio, in queste tue parole. Per quello, poco fa là sul ciglio, piangevi?" gli chiese con un sorriso amichevole.
"Non piangevo, io... erano le lacrime che scendevano da sole. Mi chiedevo che vissi a fare per più di sedici anni, per aprire una mano, un giorno, e non trovarci neppure un pugno di mosche."
"Vivi per allietare gli occhi di Cappiddazzu, come minimo: sei bello come il fiore di mandorlo, bianco e rosa come i petali dei suoi fiori, le labbra acese come i boccioli del pesco, gli occhi belli come un cielo di Pasqua."
"Pare che invece tutto quello che gli altri vedono di me è il mio culetto da usare a loro piacere. Che è, sotto a tante belle parole, per caso, pure a voi vi interessa solo il mio culetto? Avete voglia di mettermi sotto?" gli chiese il ragazzetto in tono accigliato.
"Ah, è questo che ti successe, figlio mio? No, il tuo culetto manco lo notai, anche se non dubito che può essere bello e desiderabile. Ma non devi temere, Cappiddazzu non va in cerca di quello. Tu dicesti che ti rubarono la tua ingenuità e la tua meraviglia... Io invece credo che te ne resta ancora assai, e che sta a te non perderle, ma rimpiazzare quello che t'hanno tolto; anzi, farne crescere anche di più, dentro al tuo cuore. Finchè abbiamo dentro ingenuità, meraviglia e amore, il soffio di Domineddio è potente dentro la nostra vita."
"Che nome è, il vostro? Errigo... è la prima volta che sento questo nome." disse il ragazzino cambiando improvvisamente discorso.
"Ah, quello... Quando Garibaldi sbarcò qui in Sicilia, coi suoi Mille con le camice rosse come il sangue e come il fuoco, mia madre, Teresa Miccichè, conobbe un garibaldino che veniva dal nord, giovane, biondo e bello e con un sorriso gentile che si chiamava Enrico. E bella era pure mia madre, che manco aveva vent'anni. E così, come fu, come non fu, il bell'Enrico e la bella Teresa si presero per mano e si stesero fra i fiori e l'erbe profumate e varcarono assieme le porte proibite del paradiso terrestre. Deposto il seme, maturò il frutto, e nacqui io. Mio nonno si chiamava Arrigo, così Teresa Micciché mescolò i due nomi ed ecco che mi chiamo Errigo."
"E vostro padre? E vostra madre?" chiese il ragazzetto.
"Enrico morì in battaglia, almeno così mi si disse. Ma forse invece tornò a nord e si dimenticò di mia madre e del seme che aveva deposto nel suo solco. Mia madre, con me che le crescevo dentro, tornò da suo padre, che aveva una casa qui sotto a Fàvara ma che ora appartiene a un altro ramo della famiglia Miccichè. Mio nonno l'accolse con amore, nonostante aspettasse un figlio senza avere marito, e io nacqui lì. Quando avevo dieci anni, mio nonno Arrigo morì... e quando ne avevo ventitré morì anche mia madre. Io allora lasciai la casa, che mia non era, e andai a vivere a Girgenti, e è da quel tempo che lavoro per il barone."
"E fate il mennularo, adesso?"
Cappiddazzu sorrise: "Lo feci, i primi tempi, abbacchiavo le drupe con gli altri uomini. Ma poi il figlio del signor barone mi prese a ben volere e convinse il padre a farmi restare in casa con loro per fare le faccende e le commissioni per la famiglia."
"Ma voi, siete sposato?"
"No, figlio mio, sono libero come l'aria."
"Il figlio del barone... fece con voi quello che facevano con me i pastori?" chiese Adduzzu in tono incerto, perché voleva sapere, capire le cose della vita, ma temeva di aver posto una domanda che non andava fatta.
"Io non so che facevano con te i pastori... anche se lo posso immaginare. Il figlio del barone aveva la tua età, quando io avevo ventitré anni. Non era bello come te, nacque con una disgrazia, era sempre immobile su una sedia, il meschinello, come un pupo che ci hanno tagliato i fili. Io gli tenevo compagnia, gli contavo mille cose. A volte me lo caricavo a spalle e scorazzavo per la campagna e lui rideva felice... gli davo le gambe che più non poteva usare. La baronessa diceva che era la provvidenza ad avermi fatto bussare alla loro porta. Quando il povero baroncino morì, io gli tenevo la mano, e se ne andò sorridendo, sereno come un cielo senza nubi, come un campo senza stoppie, come un mare senza onde..."
"Quanti anni aveva, il baroncino, quando lasciò questa terra?"
"Ne aveva diciannove compiuti da otto giorni, il baroncino Alfonso. No, non ci fu nulla di quello che pensavi, fra lui e me, se non un affetto caldo come il sole e profondo come il mare. Avrei dato metà della mia vita per farlo vivere ancora. Avrei dato metà del mio corpo, per permettergli di camminare almeno una volta con le sue gambe."
"Gli avete dato il vostro... cuore." disse Adduzzu pensieroso.
"Sì, figlio mio, e lui ancora sorride di quel bel sorriso, qui dentro." disse l'uomo toccandosi il petto.
"E com'è che non siete maritato?"
"Bello non sono, la scarsella è sempre vuota, Non ho né arte né parte, né una casa. Quale donna vorrebbe per marito un meschino come me?"
"E non vi sentite solo?"
"Oh, solo non sono: Cappiddazzu ha Errigo Miccichè, ed Errigo Miccichè ha Cappiddazzu... e poi ho il sole e la luna, e i mandorli e il mare... e poi tutti mi sono amici, uomini e donne, giovani e vecchi... e pure i bei ricordi mi tengono compagnia. Soltanto chi non ha occhi e chi non ha cuore è solo, su questa terra benedetta."
"Io invece mi sento tanto solo..." mormorò il ragazzetto.
"Apri bene gli occhi e apri bene il cuore e t'accorgerai di quanto ti sbagli, figlio mio. E impara a volerti bene, solo così saprai voler bene agli altri e gli altri vorranno bene a te."
"Sono orfano e..."
"Tutti prima o poi diveniamo orfani, no? Solo chi muore prima dei suoi genitori non diventa orfano." osservò l'uomo con lieve ma saggia ironia.
"E non ho amici, nessuno mi vuole bene..."
"Te l'ho detto, chi tiene gli occhi e il cuore chiusi, ha amici ma non li vede. E non s'accorge di chi gli vuole bene."
"E voi, Cappiddazzu, oltre a farmi avere un lavoro come mennularu come m'avete detto, vorreste essermi amico?"
"Con vero piacere, Adduzzu. Qua la mano. E se amici abbiamo a diventare, comincia a darmi del tu, anche se ti potrei essere padre."
"Oh, per quel poco che vi conosco, mi piacerebbe avervi per padre." disse il ragazzetto, strinse la mano all'uomo, e gli sorrise.
"Ecco, finalmente, è tornato il sole!" gli disse l'uomo facendogli un ampio sorriso, e Adduzzu pensò che non era affatto brutto, il suo nuovo amico, al contrario... e un grato calore gli scaldò il giovane cuore.
Giunsero a Girgenti. Il carretto superò il portone della bella e antica casa del barone traversò la corte bella, passò sotto l'arcone e Cappiddazzu lo fece fermare nella corte posteriore.
"Aiutami a scaricare il carro, ora, poi a portare l'asino in stalla. Dopo ti porto dall'intendente perché ti segni nella lista dei mennulari, perché il capo-squadra possa pagarti ogni giorno quanto ti guadagni. Poi andiamo a mangiare qualcosa in cucina, e dopo scendiamo già alla vallata dei templi, dove ci sono i sesti che appartengono al barone, e lì ti affiderò al capo-squadra che ti spiegherà tutto quello che hai a fare."
"Mi dici anche dove posso stendere la mia pelle per dormire, o me lo dirà il capo-squadra?"
"Per ora lasciala qui, la tua pelle di pecora. A sera verrò giù di nuovo e vedremo dove puoi passare la notte. Va bene?"
"Ci vuole molto tempo, Cappiddazzu, perché due diventano veramente amici?" gli chiese il ragazzo mentre lo aiutava a scaricare il carro.
"Ci vuole niente e ci vuole una vita, Adduzzu mio, perché l'amicizia, come l'amore, non è cosa che piove dal cielo, ma cosa che si costruisce giorno per giorno, pietra su pietra, finché si campa. E quando si smette di costruirli, l'amicizia come l'amore, crollano o si sgretolano come un muro vecchio al sole, al vento e alla pioggia."
"Tu sai un sacco di belle cose, Cappiddazzu. Come le imparasti? Chi te lè insegnò?"
"Tutti e nessuno. Io vado a scuola da una maestra dalla faccia severa ma dal cuore d'oro... La vita quotidiana."
L'uomo portò il ragazzo nella grande cucina dove alcuni servi stavano mangiando e fece sedere Adduzzo accanto a sé alla grande tavola. Una delle donne che stavano ai fornelli mise davanti ai due un piatto di cibo e chiese: "E chi è codesto caruseddu bello com un angelo, Cappiddazzu? Dove lo trovasti?"
"Lo colsi sul ciglio della strada come un bel fiore, Angeluzza, su oltre Fàvara."
"Un bel fiore sì: è bianco e rosato proprio come gli angeli di gesso su in cattedrale."
"O pittosto come un fiore di mandorlo, Angeluzza mia. Per questo dopo lo porto giù alle seste per farne un mennularu. Pensavo di affidarlo Nardu lu siccu."
"Nardu Lume? Sì, è un valent'uomo. E come si chiama, codesto fiore di caruso?" chiese la donna.
"Mi chiamo Nardu Piazza, ma tutti mi chiamano Adduzzu." rispose il ragazzo.
"Ih, si sprecano i Nardu qui da noi!" esclamò uno dei servitori, "Nardu Lume il capo-squadra, Nardu Scalia lo stalliere, Nardu Salsedo il giardiniere, e ora pure questo caruseddu. Adduzzu, dicesti? Sarà meglio che ti si chiami così allora. Ma attento a non correre dietro alle gallinelle, che i vecchi galli qui non lo gradirebbero affatto e rischieresti di diventare cappone!" rise l'uomo.
"Megghiu pani e sali ccu la paci ca ccu la verra jaddinedde e pirnici [= Meglio pane e sale con la pace che gallinelle e pernici con la guerra]." disse un vecchio agitando un dito.
"Sarà, ma a me mi piace più una gallinella con la pace che pansecco con la guerra!" rise un altro degli uomini.
Terminato di mangiare, l'uomo scese giù nella vallata assieme ad Adduzzu.
"Cappiddazzu, che sono tutte quelle chiese in rovina?" chiese il ragazzo indicando i resti degli antichi templi greci.
"Non sono chiese, Adduzzu, ma quello che resta dei templi degli dei antichi. Quello era il tempio di Giove, il re e padre di tutti gli dei, quello invece era dedicato ai Dioscuri che erano due gemelli, e quello che sta ancora quasi tutto in piedi era il tempio della Concordia... Laggiù, vedi, c'è il tempio d'Ercole, il grande eroe che fece le sette fatiche, e quel muro basso è tutto quello che resta del tempio di Esculapio, il dio della medicina... Sono costruzioni molto antiche, più vecchie di duemila anni."
"Ma quanti dei tenevano, i greci?" chiese il ragazzetto.
"Tanti quante sono le faccende degli uomini. Non c'era un dio solo che sa e fa tutto come Domineddio, ma tanti dei e dee e ognuno era specializzato in qualcosa. E poi c'erano pure mezzi-dei, e poi eroi... era un mondo affollato, e gli dei a quei tempi passeggiavano quaggiù con gli uomini, anche se lo facevano senza farsi riconoscere, perché potevano cambiare aspetto a piacere. Era come lassù, nella casa del barone, che ognuno ha un compito da svolgere. E come noi uomini, gli dei si facevano dispetti o facevano l'amore, erano pettegoli o gentili, erano gelosi o benigni..."
"Ma non era complicato avere tanti dei?" chiese il ragazzetto.
"Non più che per noi avere tanti santi. Eppoi ognuno onorava il suo dio, o quello della città, o quello della faccenda che lo interessava in un momento della vita. Ognuno si sceglieva gli dei che ci facevano comodo, insomma."
"Proprio come noi coi santi, allora. Santa Lucia che protegge la vista, sant'Antonio che fa trovare le cose perse..."
"Eh, le cose cambiano senza cambiare, ragazzo mio. Solo che i santi non si fanno dispetti. E un santo non è un dio, al massimo è come un eroe de tempi antichi. Eppure c'è gente che onora i santi e si dimentica di Domineddio e del Signore, gente che quando entra in chiesa non fa manco un inchino al Crocifisso o al Santissimo Sacramento e va subito a pregare davanti alla statua di San Bastiano o della Madonna dei Sette Dolori. Onorano i servi e ignorano il padrone di casa."
Cappiddazzu affidò Adduzzu a Nardu lu siccu, e il capo-squadra spiegò succintamente al ragazzo come avveniva la raccolta delle "mennule". Prima passavano gli uomini e i giovanotti con lunghe canne e pertiche di legno a "bacchiare" le drupe facendole cadere dai rami. Disposta a semicerchio sotto a ogni albero c'era una mezza dozzina di donne di tutte le età, chine a raccogliere le mandorle, e a metterle dentro a una coffa di saggina. Poi, mentre gli uomini e le donne andavano sotto a un altro albero, un paio di ragazzette raccoglievano le drupe cadute fuori dalle reti di raccolta ripulendo bene il terreno e uno o due ragazzini s'arrampicavano sull'albero a cogliere dai rami le drupe che non erano cadute, mettendole in un sacchetto di canapa che avevano a tracolla.
Era un lavoro duro, soprattutto per le donne. C'era da spezzarsi la schiena stando chinate a tirar su le reti e vuotarle nelle coffe, a prenderle quando erano piene di mandorle e portarle al capo-squadra, stare chinate e su e giù così per tutto il giorno, dall'alba al tramonto, sotto un sole che spaccava le pietre, con solo un'ora d'intervallo per un misero pasto all'ombra degli alberi. E alla fine della giornata, le si poteva vedere con i pugni premuti con forza sui lombi, a cercare di ritornare dritte, tutte con una smorfia di dolore sulla faccia.
A mattino quelle donne erano spesso loquaci e pettegole, tagliavano e cucivano volentieri i panni addosso agli altri, ma via via che le ore passavano, diventavano taciturne, zittite dalla fatica.
Ma anche per i ragazzi era un lavoro duro. Spesso si sbucciavano le gambe e i polpastrelli sulle cortecce ruvide, e a sera non si sentivano più le braccia e le gambe a forza si arrampicarsi su e giù per gli alberi, e sporgersi sui rami con la paura che uno potesse spezzarsi sotto il loro peso e farli cadere rovinosamente a terra. Un mandorlo arrivava assai raramente a essere alto più di sei, sette metri, ma una caduta di lassù poteva anche essere fatale.
Quando a sera Adduzzu ricevette la sua prima paga, serrò in mano come un tesoro prezioso le due monetine che aveva guadagnato. Vide Cappiddazzu arrivare di lontano, gli corse incontro e giuntogli davanti aprì la mano e gli mostrò trionfante la sua mercede. Poi vide che l'uomo aveva a spalle la sua pelle, e pure un fagotto voluminoso e un altro fagottello.
"Dove vai con quella roba, Cappiddazzu? E con la mia pelle?"
"Andiamo, caruso. Il tempo è bello, così stanotte ti porto a dormire fra gli dei." gli rispose allegramente l'uomo. "In cucina presi anche qualcosa da mangiare e da bere per noi due."
Si avviarono di buon passo, finché arrivarono fra le antiche rovine. Cappiddazzu lo condusse fino a un gruppo di colonne che formavano un angolo, tre in fila e una a novanta gradi da quelle, su una specie di pedana di grandi massi squadrati. Il sole basso all'orizzonte le faceva sembrare d'oro antico. Salirono sulla pedana di pietra e l'uomo stese la pelle del ragazzo, vi sedettero sopra e aprì il fagotto piccolo.
"Hai fame, Adduzzu?"
"Mi mangerei un bove!" esclamò il ragazzetto allegramente.
L'uomo prese il coltello, lo estrasse dalla guaina e fece le parti. "Qui nella borraccia grande c'è acqua e in quella piccola un po' di vino. Ma ricordati il detto antico, mancia di sanu e vivi di malatu" [= mangia come un uomo sano, a volontà, e bevi come un malato, cioè poco].
"Tu li conosci tutti, i proverbi, Cappiddazzu?"
"Qualcuno ne conosco, ma non tutti. Ce n'è tanti che non basterebbe una vita per impararli tutti. Sei stanco?"
"Quanto basta. Ma non mi lamento." rispose il ragazzetto iniziando a mangiare di buon appetito. "Dormiamo qui? Tu e io?"
"Sì, sotto le stelle."
Terminato di mangiare, Adduzzu chiese: "Che dio abitava qui?"
"Non di un dio era questo tempio, ma era dedicato a due fratelli gemelli, i Dioscuri, cioè Castore e Polluce."
"E che avevano fatto questi due gemelli che gli hanno fatto un tempio? E perché si chiamano dio scuri se non sono dei?"
"Dioscuri è una parola sola, un nome, e significa figli di Giove, non sono due parole. La tradizione vuole, però, che solo Polluce era stato concepito dal re degli dei, mentre Castore era mortale, perché era figlio di Tindaro re di Sparta: entrambi, comunque, erano figli di Leda, moglie di Tindaro e amata da Giove."
"Alora non erano gemelli, erano solo mezzi fratelli..."
"Sì che erano gemelli. Perché, vedi Adduzzu mio, Giove, che era uno sciupafemmine e metteva spesso e volentieri un cornetto a sua moglie Giunone, aveva visto un giorno la bella Leda, la sposa di Tindaro. Lei però era una donna per bene, e mica avrebbe fatto mai e poi mai l'amore con uno che non era suo marito. Allora Giove si trasformò in un bellissimo cigno tutto bianco, e si mise a nuotare sull'acqua proprio dove la regina Leda stava facendo il bagno, tutta nuda. Leda vide quel magnifico cigno e mica sapeva che era il grande dio Giove che aveva cambiato aspetto, e il cigno le si accostò e lei era tutta stupita come il cigno non aveva paura di lei, e quanto era bello, più bello di ogni cigno che la regina avesse visto fino a quel giorno, e così lo carezzò, lo abbracciò..."
"E lui ne approfittò per farci quelle cose con la regina?" chiese il ragazzino con gli occhi pieni di meraviglia. "Ma come può un cigno fare certe cose con una femmina? E lei non s'accorgeva che lui gliela metteva in pancia?"
"Ti dimentichi che Giove era un dio? Lei non si accorse proprio di nulla, non sospettò niente, e così lui la prese zitto zitto e se la godette, e le depose dentro il suo seme divino..."
"E quella Leda non ne sapeva niente? Non si accorse di niente?"
"Leda si sentiva tutto un fuoco dentro, e dopo, quando quel cigno che in realtà era Giove, contento e soddisfatto nuotò via, lei tornò a casa dal suo Tindaro e lui sentì che sua moglie era tutta calda e piena di voglie, e così si misero sul letto e anche lui ci depose il suo seme dentro..."
"Questa volta Leda se n'è accorta, scommetto." disse il ragazzino, ma senza ironia.
"Sì, e lei fu incinta, non di un figlio però, ma di due..."
"Uno di Giove e uno di Tindaro, suo marito?"
"Proprio così, Adduzzo."
"E poi?" chiese il ragazzetto, stendendosi sul ventre, puntando i gomiti sulla pelle di pecora e sostenendo il volto fra le mani, guardando assorto l'uomo e attendendo la continuazione di quell'affascinante storia.
"E poi..." riprese a dire Cappiddazzu...