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una storia originale di Andrej Koymasky


AL TEMPO DEGLI DEI CAPITOLO 3
I GEMELLI INNAMORATI

"E poi..." proseguì Cappiddazzu, "la regina partorì due gemelli, uno più bello dell'altro. Polluce, che era stato concepito dal seme di Giove, era però immortale, mentre Castore, che era nato dal seme del re Tindaro, era mortale."

"Ma non erano due gemelli uguali, allora. Di corpo, voglio dire, se avevano due padri diversi."

"No, non erano identici, erano diversi ma erano molto belli tutti e due. Crebbero assieme ed erano anche molto affezionati l'uno all'altro, i due gemelli. Castore, crebbe bello e forte, era un abilissimo guerriero e un bravissimo domatore di cavalli, mentre Polluce, forte e bello lui pure, era un pugile imbattibile. Come tutti i giovani in ogni tempo, amavano l'avventura e così, tutti e due insieme, decisero di unirsi alla spedizione degli Argonauti per andare alla ricerca del vello d'oro."

"Chi sono questi Argonauti?"

"Questa è un'altra storia, te la racconterò un'altra volta, se ti va di sentirla. I nostri gemelli, dicevo, furono di grande aiuto in varie occasioni alla spedizione degli Argonauti: un certo Apollonio di Rodi racconta che i due gemelli salvarono la nave Argo durante una tempesta: per questa ragione essi in seguito divennero i protettori dei marinai, i quali credevano di vederli durante le bufere sugli alberi delle navi sotto forma di bagliori luminosi, quelli che i nostri marinai chiamano invece i fuochi di sant'Elmo... Comunque, com'è come non è, Castore e Polluce, che facevano sempre ogni cosa insieme e che non si lasciavano mai, un giorno scoprirono di essersi innamorati uno dell'altro e così divennero anche amanti."

"Ma come, due maschi, oltre che a fottere, si possono pure innamorare? E poi, non è sempre quello più grande che fotte quello più piccolo? E quello più maschio che fotte quello meno maschio? Se Castore e Polluce erano nati insieme non ce n'era uno più grande e uno più piccolo, perciò significa che uno era maschio e l'altro femminello?"

"Capita, è sempre capitato, e sempre capiterà che due maschi si possono innamorare. E vedi, ci sono diverse cose che devi capire bene, Adduzzu mio. Una è che fottere per sfogarsi e fottere per amore sono due cose diverse assai. Fottere per sfogarsi è come menarselo, solo che invece di farlo con la propria mano, si usa il corpo dell'altro. Ma quello che a ognuno dei due ci interessa, è solo il proprio godimento..."

"Ma quando stavo coi pastori, mentre Merdasicca e Jacarreddu ci interessava solamente di godere a loro quando lo facevano con me, a Parra-Parra ci interessava pure che mi piaceva a me. Però mica che mi voleva bene per davvero! Quando è tornato a valle da sua moglie, a me mi mandò via."

"A qualcuno ci interessa che pure l'altro gode, solo perché sa che così lui pure gode di più, ma questo non c'ha niente a che fare con l'amore. Secondo, non è vero che è solo il più grande che fotte il più piccolo, capita pure il contrario e pure che lo fanno tutti e due a turno. E poi non è che chi lo mette è maschio e chi lo piglia è femminello: è solo questione di gusti. Fra Castore e Polluce non c'era uno che era maschio e uno che era femminello, basta che pensi che Castore era un guerriero e un domatore di cavalli, e che Polluce era un pugile: nessuno dei due era un femminello, no?"

"Già, proprio così dicesti, è vero. Ma tu mi dicesti che quei due erano innamorati, che erano amanti? Non è solo un maschio e una femmina che si possono innamorare?"

"No Adduzzu mio, quando due si incontrano e si accorgono che l'altro ha qualcosa di cui ha bisogno, che gli manca, che lo completa, allora si innamora perché tutti noi nasciamo incompleti, ma teniamo bisogno di sentirci completi, di diventare completi. Da soli non si può, si può solo in due. Per questo si dice, quando due si amano, che di due diventano uno. Per questo a volte l'uomo dice di sua moglie e la moglie del suo uomo che è la sua metà. Per molti uomini, questa unità la trovano con una donna, ma qualche volta capita pure che la trovano invece con un altro uomo."

"E così ci accadde a Castore e a Polluce?"

"Proprio così accadde e i due divennero anche fedeli amanti. Per questo io non ci credo che è come qualcuno racconta, cioè che Castore e Polluce si scontrarono con un'altra coppia di gemelli, Ida e Linceo, per via di una contesa sorta tra loro a proposito di due belle fanciulle. Si amavano, perciò non ci interessavano le fanciulle, per quanto belle potessero essere. Secondo me, invece, Ida e Linceo..."

"Ma Ida non era una donna?"

"No, Adduzzu, a quei tempi Ida era un nome d'uomo. Dunque, dicevo, secondo me questi due, Ida e Linceo, erano invidiosi e gelosi dell'amore che c'era fra i due bellissimi gemelli, e cercarono di dividerli perché ognuno se ne voleva pendere uno come amante. Ma come spesso capita quando la voglia di uno viene respinta, quando il desiderio viene rifiutato e sdegnato, la fregola dei due si trasformò in odio e perciò assalirono a tradimento i due bellissimi figli di Leda per fargliela pagare cara."

"Che fetenti maledetti! Ma Castore e Polluce erano più forti di loro, no?"

"Erano più forti, sì, ma li assalirono a tradimento, come ti dissi. Così Ida colpì Castore, quello che era nato da Tindaro e che perciò era mortale, e lo ferì a morte, proprio mentre Polluce trafiggeva Linceo con la sua lancia ammazzandolo come si ammazza un cinghiale selvatico. Ida, dopo avere ucciso Castore, assalì a sua volta Polluce ma allora intervenne Giove, che non aveva perso di vista suo figlio, e che, seccato dalla prepotenza e malvagità di Ida, lo incenerì da lassù con la sua folgore."

"Ma non poteva fare qualcosa prima che Ida ammazzasse a Castore? Che faceva, 'sto Giove, dormiva?" protestò Adduzzo addolorato per la morte di Castore.

"Eh, che vuoi, gli dei antichi a volte erano distratti, guardavano altrove, erano assorbiti in altre faccende. Non erano come Domineddio che tutto sa e tutto vede. Comunque, ti dicevo, Giove, dopo avere incenerito Ida, vide che suo figlio Polluce aveva preso fra le braccia il corpo del suo gemello Castore, e che piangeva disperato sul bel corpo senza vita e gridava al cielo: prendetevi la vita mia, oh dei, ma ridatela al mio Castore!"

"E Giove fece risuscitare Castore, non è vero?" chiese il ragazzino con occhi pieni di speranza, completamente assorbito dal racconto.

"No, t'ho detto che gli dei antichi erano potenti, ma non onnipotenti. Pure loro tenevano qualche limite. Allora Giove scese giù sulla terra e ci disse a Polluce: figlio mio, non ti è possibile di dare la tua vita al tuo Castore, perché ormai il tuo amato gemello appariene al mondo d'Oltretomba, appartiene perciò a mio fratello Plutone, e anche perché tu sei immortale, e chi è immortale non può perdere la vita neanche se vuole."

"E già, sennò non sarebbe vero che è immortale." assentì Adduzzu.

"Polluce non si dava pace, e così disse: e che mi vale l'immortalità e l'eternità se non per piangere in eterno la perdita del mio fratello e amante? Questo è dunque il frutto del dono che mi facesti, padre mio? Orribile dono, se il mio Castore deve restare per sempre nel buio e nel freddo dell'Oltretomba. Dunque, così tanto mi odii o padre mio da avermi dato l'immortlità e con essa darmi anche questa pena eterna, che niente e nessuno potrà mai far finire? Che mi giova che tu mi abbia preparato un posto nell'Olimpo, se devo ogni giorno e ogni notte, in eterno, urlare e disperarmi per il dolore di aver perso per sempre il mio fratello e amante?"

"Ma perché Giove non poteva far resuscitare a Castore?"

"Perché, come t'ho detto, Castore ormai apparteneva al regno dell'Oltretomba e il dio Plutone non avrebbe mai rinunciato a lui, né a nessuna delle anime che la morte gli mandava come sudditi."

"Ma Giove non era il re e il padre di tutti gli dei? Non poteva ordinare a Plutone..."

"Giove era re e padre degli dei su questo mondo, ma non aveva nessun potere nell'Oltretomba dove solo suo fratello Plutone aveva potere."

"E allora?"

"E allora, Giove, commosso dal dolore straziante del figlio, si fece annunciare nell'Oltretomba e andò a parlamentare di persona con suo fratello Plutone e discussero, e discussero. Ma Plutone non voleva intendere ragione, non voleva assolutamente rinunciare a nessuno dei suoi sudditi. Ma uno solo! Insisteva Giove, che ti costa? Tanti ne tieni, quaggiù! Uno più uno meno, che vuoi che sia? Eh, sì, ci rispose Plutone, si comincia con uno solo, che vuoi che sia dici tu, poi ancora uno solo... io lo so come andrebbe a finire, gli rispondeva Plutone, no no, non c'è niente da fare."

"Era proprio cattivo, 'sto dio Plutone!"

"No, non è che fosse cattivo, ma era uno che sapeva badare agli affari suoi. Comunque a Giove ci venne un'idea e allora, dopo aver sentito suo figlio Polluce, ci disse a Plutone: ascolta, fratello mio, forse una via per metterci d'accordo ci sarebbe. Che ne diresti se, per sei mesi, ogni notte mio figlio Polluce con il suo Castore se ne stessero qui da te nell'Oltretomba e di giorno su con me, e poi invece, per altri sei mesi, se ne stessero ogni notte con me sul monte Olimpo e di giorno quaggiù con te? Per certe ore tu avresti un suddito in meno, ma per le altre ore ne avresti uno in più e così andresti alla pari. Non ti pare che sia una buona soluzione? Così il povero figlio mio darebbe una parte della sua immortalità al suo amato fratello e prenderebbe una parte della mortalità del suo fraterno amante..."

"E Plutone, che ci rispose? Accettò?" chiese Adduzzo trattenendo il respiro.

"Oh, mercanteggiò a lungo, peggio di quello che farebbero un mercante arabo con uno genovese, sai com'è: non poteva far vedere che cedeva tanto facilmente, ne andava del suo onore, della sua dignità, del suo prestigio. Ma alla fine cedette e accettò la proposta di Giove. E così da allora, per sei mesi di notte vediamo brillare su nel cielo la costellazione dei Gemelli, e per sei mesi non la vediamo, perché di notte tornano nel regno delle ombre, nel regno dei morti."

Adduzzu guardò su verso il cielo, che era già tutto trapunto di stelle e chiese, sottovoce, con timore reverenziale: "E dove sono, adesso, Castore e Polluce? Me li mostri?"

"In questi mesi, a mezzogiorno, se noi potessimo spegnere il sole, al suo posto vedremmo la costellazione dei Gemelli, perciò di notte ora stanno nel regno delle ombre. Ma fra sei mesi sarà esattamente l'opposto: ogni notte, da novembre ad aprile, proprio ogni notte, vedremo lassù la loro costellazione brillare nel cielo, li vedremo in cielo tutti e due abbracciati, e ogni giorno si ritireranno invece nel regno delle ombre. Per questo si dice che in questo tempo dell'anno il sole è in Gemelli, e perciò non li possiamo vedere."

"E questo tempio, o meglio quello che ne resta, era stato costruito per celebrare l'amore fra i due gemelli?"

"Proprio così, Adduzzu."

"Che bella storia, Cappiddazzu. Ne sai altre?"

"Sì, tante."

"E me le racconti?"

"Un po' per volta, una ogni tanto. Adesso è meglio che ci stendiamo a dormire, ché domattina hai un'altra giornata di lavoro e devi essere bene in forze." disse l'uomo e, aperto il fagotto più grosso, ne estrasse un coperta che stese accanto alla pelle del ragazzo e vi si stese sopra.

"Cappiddazzu?"

"Che c'è, mio bel fiore?"

"Io... se tu vuoi... da te me lo farei mettere volentieri, sai?" mormorò il ragazzetto arrossendo.

"Non è per questo che sono venuto a dormire qui con te. Comunque ti ringrazio per la preziosa offerta che mi fai, sono davvero onorato."

"Se sei davvero onorato, perché allora non l'accetti? Io con te lo farei assai volentieri." chiese il ragazzetto, stupito.

"Perché fra te e me sta nascendo amicizia, non amore... non quel tipo di amore, per lo meno."

"Io devo ancora capire come è possibile che due maschi si possono amare... anche se la storia di Castore e Polluce era molto bella. Ma era solo una storia. I pastori mica mi amavano a me, gli piaceva solo il mio culetto, e solo perché non potevano farlo con una donna."

"L'amore, Adduzzo mio, l'amore vero non bada affatto se l'altro è bello o brutto, giovane o vecchio, moro o cristiano, ricco o povero... e nemmeno se l'altro è maschio o femmina."

"Per questo si dice che l'amore è cieco?"

"No, l'amore è tutto meno che cieco, anzi, ci vede molto meglio di quanto ci vediamo noi, e proprio per questo non fa tutte le distinzioni che ti ho appena detto. E per ciò anche fra due maschi vi può essere vero e profondo amore."

"Ma tu, Cappiddazzu, sei mai stato innamorato?"

"Sì, mio dolce fiore di mennula, lo sono stato e lo sono ancora."

"E dov'è ora?"

"È nel regno delle ombre. Solo che a me non mi è permesso di dare metà della mia vita a lei..."

"Era una donna? E non è più viva?"

"Era mia moglie, ed è morta da tempo."

"Ma, come! Se prima m'avevi detto che nessuna donna ti aveva voluto, che non t'eri sposato..."

"Prima non eravamo ancora amici, e non si mostra mai i propri tesori agli sconosciuti. Ora invece, è diverso."

"Come vi consceste?"

"Lei era una servetta in casa del barone, e io pure ero un servo come ti dissi, così ci si conobbe... Ci sposammo quando io avevo ventisei anni e lei venti. Il barone ci fece pure una bella festa, per il giorno che ci sposammo. Lei era bella come una madonna, io ero felice come un sole di maggio. Volevamo avere tanti bei figli, sai... ma non arrivavano nonostante la mia Nunziatella e io facessimo tutto il necessario. Poi, un giorno, quando io avevo trentadue anni e lei ventisei, Nunziatella mi fece mettere una mano sul suo ventre benedetto e mi disse felice: ci siamo riusciti, Errigo mio, Domineddio ci ha benedetti, sarai padre per il mese di febbraio.

"L'abbracciai, pazzo di gioia. E di tanto in tanto lei mi faceva mettere la mano sulla pancia, che cresceva giorno dopo giorno, e mi diceva: benedici a tuo figlio... senti come cresce... E un giorno lo sentii calciare... e mi pareva di avere raggiunto il paradiso. Ma poi... poi venne dicembre e Nunziatella si prese un febbrone da cavallo e bruciava come brace viva... il bimbo nacque settimino e... non era forte assai e... e dopo solo due giorni se ne andò... e il giorno dopo anche Nunziatella andò in cielo con lui."

"Oh, Cappiddazzu, quanto mi dispiace. Che dolore dev'essere stato per te, perdere figlio e moglie allo stesso tempo!"

"Credevo d'impazzire, Adduzzu mio... Volevo morire... Davo così di matto che gli altri servi non mi lasciarono mai solo un momento, per ordine del barone. Non volevo né mangiare né bere, e non riuscivo a dormire. Poi, dopo diversi giorni, ero così debole e senza forze che m'addormentai e... e allora feci un sogno. Nunziatella mi veniva incontro con nostro figlio in braccio e mi sorridevano tutti e due, e lei mi disse: Errigo mio, se piangi così ci fai male al cuore, a me e alla nostra creatura. Smetti di piangere, per carità di Dio, se ci vuoi bene davvero. Noi ti siamo sempre vicini, e fra tanti anni, dopo che tutti i capelli tuoi saranno bianchi, anche tu verrai quassù con noi, che noi due ti aspettiamo, sai, con tanto, tanto amore.

"Io allora ci dissi: ma che ci faccio quaggiù da solo? E lei: non sarai mai solo, e c'è tanta gente che ha ancora bisogno di te, laggiù, per questo non puoi ancora venire su con noi. Ma chi mai ha bisogno di me? ci chiesi io. Non vedo nessuno. E lei mi disse: se non apri gli occhi e il cuore, certo che non vedi nessuno, amore mio... E così... eccomi qui, Adduzzu. E allora, capisci, io sono ancora sposato a lei, e perciò non posso amare di quell'amore nessun altro."

"Ma non ti manca... qualcuno con cui condividere la tua coperta?"

"No, Adduzzu, perché, anche se tu non la puoi vedere, qui accanto a me c'è Nunziatella mia, con la nostra creatura. Non c'è posto per nessuno, perciò, sulla mia coperta, per fare quelle cose. Per questo non posso farlo nemmeno con te, anche se tu sei davvero un bellissimo fiore e anche se sento di cominciare a volerti bene."

"Sì, ti capisco, Errigo." mormorò il ragazzetto, chiamandolo col suo vero nome, ché in quell'occasione non gli pareva giusto chiamarlo Cappiddazzu.


Adduzzu lavorò per tutta la stagione della raccolta delle mandorle, diventando presto un esperto mennularo. Nardu lu siccu era soddisfatto di come lavorava il ragazzetto, e quando incontrava Cappiddazzu, gli diceva che era molto contento di avere Adduzzo nella sua squadra.

Una sera, finito il lavoro, quando si trovarono di nuovo per mangiare e poi dormire fra le rovine dei templi, Cappiddazzu portò al ragazzetto alcuni abiti di panno, dai causi di velluto nero, alla fascia di cotone verde come la sua, alla panzera al juppuni e anche le scarpe e il berretto di panno marrone scuro che piegato gli pendeva sulla spalla. Adduzzu era molto fiero di essere ora vestito proprio come Cappiddazzu e non più come un pastorello.

Quando finì la stagione della raccolta delle mandorle, Cappiddazzu portò il ragazzo da un suo conoscente che fabbricava la pasta reale e con questa faceva la frutta martorana, gli agnelli pasquali e i "pasti i mennula" coperti di glassa di zucchero, e gli chiese di prenderlo come lavorante. Al fabbricante di pasta reale, soprannominato Scagghiazza, cioè denti grossi, ma che si chiamava Nicolò Ficalora, gli affari stavano andando bene, si stava allargando, perciò prese volenteri il ragazzetto nel suo laboratorio, anche perché gli era stato presentato da Cappiddazzu, in cui aveva grande fiducia.

Così Adduzzu, che all'inizio doveva solo spaccare i gusci delle mandorle senza romperle, imparò poi anche a pelarle a modo, e poi a farle asciugare ben bene nel forno, quindi anche a macinarle con la mola di pietra riducendole in farina fina fina. Imparò pure a far sciogliere lo zucchero, con un terzo d'acqua, nei paioli di rame evitando che iniziasse a bollire. Ci aggiungeva poi la giusta quantità di succo di limone filtrato, né troppo né troppo poco, e poi, quando lo sciroppo stava per bollire, imparò ad aggiungervi la farina di mandorle spargendovela a neve e girare accuratamente con la cucchiara di legno finché diveniva tutto un impasto omogeneo. Gli insegnarono poi a versare il tutto sulla spianatoia di marmo spolverata di fine farina di grano tenero. E infine imparò anche a lavorare l'impasto, facendolo di nuovo intiepidire e impastandolo a lungo con le mani, finché diveniva morbido e sottile.

Adduzzu era affascinato nel vedere i lavoranti più esperti, nell'altra stanza, prendere l'impasto che lui e gli altri avevano preparato, per plasmarlo con mani abili in modo di dargli la forma dei vari tipi di frutta che poi coloravano in modo perfetto e con le giuste sfumature sì che a prima vista non si potevano distinguere dalla frutta vera; oppure quando mettevano la morbida pasta di mandorle negli stampi per fare gli agnelli pasquali.

A sera il ragazzetto tornava nella casa del barone, faceva cena con gli altri servi nella grande cucina scura, poi andava nell'ala dei servi, dove Cappiddazzu aveva la sua stanzetta, e dormiva con lui sul pagliericcio di crine vegetale. Però a volte, quando il tempo era buono, tornavano a dormire fra le rovine di uno degli antichi templi. Adduzzu consegnava sempre tutte le monete che guadagnava all'uomo, che gliele teneva in un barattolo di latta, e che gli insegnò a contarle.

"Ti sei trovato un figlio, eh, Cappiddazzu!" gli disse una volta la cuoca del barone, mentre i servi mangiavano tutti assieme nella grande cucina sulle cui pareti scure come la notte pendevano le pentole di rame, lucide come tante lune.

"Eh, così pare proprio, Venera. A lui mancava un padre, a me mancava un figlio, così da due mancanze ne venne fuori una famiglia. È la Nunziatella mia che un giorno mi fece trovare questo bel fiore sul ciglio della strada e mi fece fermare per portalo via con me."

"Se non lo sapessi, penserei che davvero siete padre e figlio, voi due..." disse la donna, il capo un po' piegato di lato, osservando l'uomo e il ragazzo con un sorriso tenero e compiaciuto.

"Eh no, Venera mia: Adduzzu è bello come un fiore di pesco che annuncia la primavera, io invece sono brutto come un mennula secca con la pelle scura e rugosa."

"E proprio come la mennula voi siete, Cappiddazzu. Che se ci si pela via la pelle rugosa e scura, dentro è bianca e dolce. Proprio così è il vostro cuore, lo sanno tutti. Non ho ragione, Adduzzu?"

Il ragazzetto annuì vigorosamente, e con una mano sfiorò in una carezza la mano asciutta e forte dell'uomo che s'era preso cura di lui meglio di quello che un padre potesse fare.


Un giorno il barone mandò Cappiddazzu, con l'asino e il carretto, fino a Caltanissetta per alcune importanti commissioni.

"Quanti giorni starai via, Cappiddazzu?" gli chiese il ragazzetto, che per la prima volta sarebbe rimasto solo.

"E chi lo sa? Poco che sia, almeno quattro giorni, ma forse anche più. Ma vado tranquillo, ché so che qui hai casa e da mangiare, e che starai bene anche se io non ci sono."

"Proprio bene, non credo; mi mancherai, Cappiddazzu. Con chi potrò parlare a notte, mentre aspetto che venga il sonno? Quando cominciava a calare la sera, io ero contento solo a pensare che presto Scagghiazza ci avrebbe mandati tutti a casa, perché nel laboratorio si faceva troppo scuro per lavorare, e così potevo rivedere te."

"Sono solo pochi giorni. Mica avrai paura a dormire da solo nella mia stanza, no? Non sei più un caruseddu, ormai; che tieni mica paura del buio, no?"

"Non è quello, io non tengo paura del buio. Né tengo paura a stare solo. Però la notte sarà più vuota e lunga, senza la tua voce che mi contava tante cose belle. La tua stanza sarà più vuota e fredda, anche se fosse una notte d'agosto."

"Anche tu mancherai a me, Adduzzu mio. Ma vedi, quando tornerò, sarà festa per tutti e due, proprio perché si è stati lontano. L'estate è bella e ce la godiamo perché c'è pure l'inverno. Se fosse sempre estate non ci si accorgerebbe neanche più che è bella, no? Ci verrebbe a noia."

"Forse è come dici tu, Cappiddazzu, che sai e capisci tante cose, ma non credo che tu potrai mai venirmi a noia." gli disse il ragazzo.


Era la seconda notte che Adduzzu dormiva da solo nella stanzetta di Cappiddazzu. Faceva molto caldo, e il ragazzo aveva tenuto indosso solo i causi di vellutino liso e dormiva, le braccia e le gambe larghe, occupando tutto il pagliericcio.

Non sentì, perciò, Galante Casesa detto Settisoldi, un valletto del barone, un giovane di ventitré anni, scivolare silenziosamente nella stanza semibuia, in piena notte. Solo il tenue riverbero della luna quasi piena faceva intravedere vaghe forme nella piccola stanza.

Settisoldi sedette sul bordo del pagliericcio e ammirò per un poco le forme chiare del ragazzo steso sul materasso di scura tela. Poi, trattenendo il respiro, con una mano iniziò a carezzare lievemente il petto di Adduzzu, mentre il desiderio che l'aveva spinto in quella stanza si rafforzava in lui e, sotto la tela delle polpe della livrea da valletto, il suo membro si rizzava con vigore e premeva.

Adduzzu mugolò lieve, e mormorò qualcosa di incomprensibile. Settisoldi si immobilizzò ma poi, vedendo che l'altro ancora dormiva, riprese a carezzargli il petto e il ventre incavato... e le sue dita si insinuarono sotto i calzoni di velluto nero, sempre più giù, in una lenta discesa, finché i polpastrelli sentirono i morbidi peli del pube del ragazzo... poi ancora più giù fino a sfiorare il membro morbido e caldo.

Il ragazzo, che dormiva ancora, mugolò di nuovo e fra le sue gambe la sua giovane virilità si risvegliò lentamente. Poi Adduzzu si mosse, Settisoldi fece per ritirare precipitosamente la mano, ma questa restò imprigionata nei calzoni del ragazzo che si svegliò di colpo e si alzò a sedere sul pagliericcio.

"Chi sei? Che vuoi?" chiese allarmato.

"Sstt, zitto, zitto... sono io, sono Settisoldi... ho voglia di fare con te quelle cose."

"Che cose?" chiese Adduzzu che, sentendo la mano dell'altro ancora lì, aveva capito bene, ma, ancora un po' intontito per il sonno appena interrotto, voleva prendere tempo.

"Quelle che fai ogni notte con Cappiddazzu, no? Ho voglia di farle io pure con te, Adduzzu, adesso che lui non c'è. Sono bravo io pure a farle, sai?"

"Io non ho mai fatto quelle cose con Cappiddazzu, mai. Per me è come mio padre. Leva quella mano di lì"

"Ma dai che ti piace, ti si è rizzato appena te l'ho tocccato. E senti il mio, quant'è duro!" gli disse Settisoldi, circondando a mano piena il membro del ragazzetto e muovendola lievemente su e giù.

Adduzzu era incerto. Quella mano che lo toccava lì era molto piacevole, e ormai da più di un anno aveva dovuto accontentarsi solo della propria mano. E Settisoldi era un bel ragazzo, dopo tutto. Timidamente allungò una mano e sfiorò l'altro fra le gambe e sentì che l'aveva sodo e ritto, che premeva con forza sotto la tela fina della bella livrea.

Settisoldi con la mano libera si sbottonò le polpe ai fianchi, ne ribaltò il davanti e guidò la mano del ragazzo sul proprio membro nudo. Adduzzu lo carezzò per tutta la lunghezza, poi lo circondò con le dita... e pensò che era piacevole... e non troppo grosso, anche se di buone dimensioni.

"Che vuoi fare, Settisoldi, vuoi mettermelo tutto nel mio culetto, vero?" mormorò arrendendosi a quelle inattese ma piacevoli manovre.

"Io a te e tu a me, mi piace fare tutte e due le cose. Ci stai?" mormorò il giovane sorridendogli contento.

"Io a te? Ti piace prenderlo, a te, Settisoldi?" chiese un po' stupito.

"Ce l'hai già ben sviluppato, Adduzzu. Sì che mi piacerebbe, con te. Ci stai?" chiese di nuovo, e tirò i legacci ai lati dei causi dell'altro, aprendoglieli.

"Mah... magari... Non ci provai mai, io, a metterlo..." sussurrò il ragazzo eccitato all'idea di poter finalmente provare a farlo.

"Leviamoci i calzoni, allora." disse l'altro e, presi i calzoni del ragazzo per le gambe, iniziò a tirare per sfilarglieli.

Adduzzu sollevò il bacino per lasciarlo fare. Allora Settisoldi si sfilò le polpe e, nudo, salì sul pagliericcio in ginocchio, poi fece stendere Adduzzu sotto di sé e gli andò sopra con tutto il corpo. "Ti peso?" gli chiese.

"No, mi piace." rispose il ragazzo carezzandogli la schiena.

"Davvero non fate mai niente tu e Cappiddazzu?"

"Davvero, io ci avrei fatto, ma lui non volle mai."

"E con chi lo fai, allora?"

"Qui? Con nessuno, solo con la mia mano. Quand'ero su in montagna coi pastori, lo facevo con loro. E tu, con chi lo fai?"

"Qualche volta con questo o quello, e qualche volta solo con la mia mano io pure. Ma tu mi piaci assai, è tanto che ti penso e che tenevo voglia di farlo con te. Ti va se prima te lo metto io e dopo me lo metti tu?"

"Come vuoi tu. Com'è che mi devo mettere?"

"A quattro zampe, no? Fra maschi si fa così."

"No, ci sono pure altri modi di farlo, ma va bene anche alla pecorina, per me. Mettici lo sputo, però, che è un bel pezzo che nessuno mi fa più visita là dietro." disse Adduzzo scivolando via di sotto all'altro e mettendosi lesto in posizione.

Settisoldi lo preparò per un po' con le dita ben insalivate poi gli chiese: "Sei pronto? Te lo posso mettere dentro?"

"Sì, dai!"

Il giovane servo lo afferrò per la vita e con una spinta calibrata gli si infilò dentro lentamente ma saldamente. Quindi iniziò a muovere il bacino avanti e dietro in un buon ritmo sostenuto.

"Ti piace?" gli chiese il giovane servo continuando a prenderlo con gusto.

Adduzzo non rispose: non poteva dire che gli piacesse veramente, però non gli dava dolore né fastidio. Pensò che Settisoldi lo sapeva fare meglio di Merdasicca e di Jacarreddu, ma era meno bravo di Parra-Parra. Si accorse che l'altro stava per raggiungere il punto finale, infatti i suoi va e vieni si stavano facendo più disordinati e il suo respiro più forte, quasi affannato, e questo lo fece eccitare, come se l'eccitazione dell'altro trovasse risonanza dentro di sé.

Dopo poco lo sentì irrigidirsi, spingerglisi dentro con vigore e scaricasi in una serie di getti sottolineati da bassi mugolii. Poi, lentamente, Settisoldi si sfilò dal ragazzo e sedette sul pagliericcio, ansando lieve.

"T'è piaciuto." gli disse Adduzzu sedendo a sua volta davanti all'altro e guardandolo negli occhi con un sorrisetto.

"Anche più di quello che speravo. Lasciami riprendere il fiato, poi tocca a te metermelo dentro."

"M'hai detto prima che lo fai con... questo e quello... Con chi? Li conosco io pure? Gente di qui, della casa del barone, o gente di fuori?"

"Non sta bene fare nomi. Io mica lo dico agli altri che lo faccio con te."

"E allora, perché m'hai chiesto se lo facevo con Cappiddazzu?"

"Mah, perché dormi con lui, nel suo pagliericcio... e così pensavo che magari... Si vede che a lui non ci piacciono i carusi... Lui magari è uomo da femmine."

"Tu, è tanto che le fai, queste cose?"

"Almeno dieci anni."

"E mai con una femmina?"

"Ci provai una volta... ma non mi piacque mica tanto... faticai a farlo fino in fondo. No, a me mi piace solo coi maschi."

"E ti piace sia a metterlo che a prenderlo."

"Così è, sono due piaceri diversi. Con gli altri carusi si faceva sempre una volta a me e una volta a te. Ma mica per tutti è così, c'è pure chi gli piace solo a metterlo e chi gli piace solo a prenderlo. Ognuno a suo modo, no?"

"C'è pure chi lo fa sia con i maschi che con le femmine."

"Sì, lo so. Tu ci hai mai provato, con le femmine?"

"No mai, e non mi interessa proprio per niente. Credo che io sono come te. Anche se però non l'ho ancora mai messo a un maschio."

"Eh, adesso ci provi e vedrai che magari ti piace."

"Sei pronto o vuoi aspettare ancora un poco?"

"No, va bene, possiamo farlo, ora."

"Ci devo mettere lo sputo?"

"Non è necessario, mi sono abituato da un bel pezzo, ormai."

"Ma ti piace di più a metterlo o a prenderlo, a te?"

"Tutt'e due lo stesso, come ti dissi. È un piacere diverso, ma bello in tutti e due i modi. Dai, Adduzzu, che tocca a te, adesso." disse Settisoldi mettendosi a quattro zampe.

Adduzzu gli di inginocchiò dietro, fra le gambe, e iniziò a darsi da fare. Gli scivolò dentro liscio liscio e sentì un forte, gradevole calore. Quando gli fu tutto dentro, cominciò a battere a ritmo... e pensò che era davvero molto, molto piacevole metterlo.

Il ragazzetto si accorse che, a differenza di lui che aveva lasciato fare l'altro senza veramente partecipare, Settisoldi partecipava, si muoveva spingendosi contro di lui a ogni sua spinta, agitava leggermente il bacino, faceva palpitare il foro ad arte.

Il piacere stava aumentando rapidamente. E infine anche Adduzzu sperimentò un forte e gradevolissimo orgasmo e si scaricò nelle profonde, misteriose e calde intimità dell'inatteso compagno.


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