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una storia originale di Andrej Koymasky


AL TEMPO DEGLI DEI CAPITOLO 4
IL RAPIMENTO DEL PRINCIPE-PASTORE

"Posso venire ancora qua giù da te, almeno finché non torna Cappiddazzu?" gli chiese Settisoldi, quando entrambi furono soddisfatti.

"Sì, per me va bene. Ma quando torna Cappiddazzu, come facciamo?" gli chiese il ragazzo.

"Mah, vedremo... in qualche modo faremo, se a te ti interessa di continuare."

"E a te, ti interessa di continuare con me?"

"Mi piaci troppo. Certo che mi interessa. E sei pure molto bello, tu." gli disse il giovane carezzandogli il corpo e sorridendogli. "Ti piacque, mettermelo dentro, non è vero, Adduzzu?"

"Sì che mi piacque. Se tu cominciasti dieci anni fa, tenevi tredici anni."

"Dodici, quasi tredici. Io allora abitavo a Borsellino, non qui a Girgenti, e non lavoravo ancora per il barone. S'andava giù al fiume, con gli amici, si faceva il bagno nudi, poi ce lo menavamo. Ma un giorno uno di noi che la sapeva lunga ci disse che si poteva fare di meglio e ci insegnò a farlo... così come abbiamo fatto noi due."

"A me le prime volte, quando me lo mettevano i pastori, non è che mi piaceva molto, mi faceva male."

"A me no, forse perché eravamo tutti carusi ancora piccoli. Anche qui fra le gambe eravamo ancora piccoli a quel tempo, forse per questo non faceva male e anzi ci piaceva assai."

"Ma tu lo sai perché a certi ci piacciono solo le femmine, a certi solo i maschi e a certi invece ci piace a farlo con tutt'e due?"

"Mah... e tu lo sai perché a certi ci piace solo il pesce, a certi solo la carne e a certi ci piace a magiarli tutt'e due? O perché c'è chi nasce riccio e chi liscio e chi ondulato? E chi biondo, chi moro e chi castagno? È che uno nasce così, secondo me, non è che uno sceglie."

"Forse è come dici tu. Io adesso però tengo un po' sonno, ché m'hai svegliato. Che fai tu, torni a dormire su nel sotto-tetto o vuoi restare a dormire qui con me?"

"Se a te non ti dà fastidio, magari resto qui con te."

"No che non mi dai fastidio. Ma che fai? Perché ti rimetti i calzoni? Mica c'è bisogno, no? Fa caldo, e qui mica ci vede nessuno, e si sta bene pure così, senza niente addosso."

"Tieni ragione. È che noi lassù si dorme in quattro per stanza e allora si resta con le braghe addosso, per modestia. Tu e Cappiddazzu dormite nudi?"

"No, con le braghe addosso. Ma mica facciamo le cose, lui e io."

"Me lo dicesti. Però ti piacerebbe, dicesti pure."

"Sì, perché io ci voglio troppo bene a Cappiddazzu. Se lui tenesse voglia, a lui ci direi sempre di sì."

"Ma se non lo fa con te, e se dormite sempre insieme, con chi lo fa, Cappiddazzu?"

"Con nessuno. Lui è innamorato della moglie."

"Innamorato della moglie? Ma se ho sentito dire che gli morì da un pezzo, sua moglie!"

"Che c'entra. Per lui è come se fosse ancora viva."

"Bah... allora vive come un prete, povero Cappiddazzu! Anche se dicono che i preti lo fanno pure loro, zitti zitti, con la perpetua o con qualche caruso." disse ridacchiando Settisoldi.

"Anche loro sono uomini, no, pure se portano la sottana. Che c'è di male se lo fanno pure loro?"

"C'è che dicono che non si deve fare. Come dice il barone, predicano bene e razzolano male. Uno di quelli con cui lo feci ultimamente mi disse che al suo paese, chi gli insegnò, fu proprio il prete, che si faceva a tutti i chierichetti."

"Anche loro sono uomini..." ripeté Adduzzu, "e ce l'hanno pure loro fra le gambe, proprio come noi."

"Ma non fecero il voto del celibrato? Mica sono come i preti ortodossi, i nostri preti: quelli si possono sposare, i nostri no."

"E infatti mica si sposano, no?" ridacchiò Adduzzu. "D'altronde, quanti uomini sposati lo fanno anche con altre donne... o con qualche caruseddu... come faceva Parra-Parra con me. E ci scommetto che quelli che fanno di più gli scandalizzati se i preti fanno pure loro le cose, sono proprio gli sposati che ci mettono un cornetto alla moglie."


Settisoldi tornò tutte le notti nella camera di Cappiddazzu, approfittando dell'assenza di questi, per fare all'amore con Adduzzu, e dopo essersi tolta la voglia tutti e due, restava a dormire col ragazzo, alzandosi poco prima dell'alba o poco dopo, per tornare al suo lavoro di valletto nei quartieri del barone e della sua famiglia.

Fu così che Cappiddazzu li sorprese, una mattina presto. L'uomo infatti, finite le sue commissioni per il barone, aveva preso la via del ritorno. Trovandosi a Fàvara che era già notte, pensò che non gli conveniva arrivare troppo tardi alla casa del barone, ché avrebbe rischiato di dover svegliare mezza casa per farsi aprire il portone. Perciò staccò l'asino, lo legò a un albero, e si stese a dormire sul carretto, attendendo l'aurora.

Il primo chiarore del giorno lo svegliò. Riattaccò l'asino e prese la discesa verso Girgenti. Arrivò alla casa del barone proprio mentre un servo riapriva il grande portone. Attraversò la corte bella, passò sotto l'arcone e portò il carretto nella corte di dietro, quella di servizio. Prima di scaricare il carretto, passò nella grande cucina. Sara stava accendendo il fuoco nei fornelli per preparare la colazione.

Allora pensò di andare a svegliare Adduzzu per dirgli che era tornato, e portargli un regalino che gli aveva comprato a Caltanissetta. Quando scostò la vecchia coperta che faceva da porta sull'uscio della sua stanzetta, vide i due ragazzi, completamente nudi sul suo pagliericcio, raggomitolati uno contro l'altro e semiabbracciati, ancora immersi nel sonno. Sorrise, lasciò cadere la tenda e tornò in cucina, sedette e si mise a chiacchierare con Sara e con Venera del più e del meno, aspettando che la colazione fosse pronta.

Poco più tardi Adduzzu arrivò in cucina, stropicciandosi gli occhi, i capelli tutti arruffati. Appena il ragazzo vide Cappiddazzu seduto alla tavola si aprì in un ampio sorriso, lo salutò con un'esclamazione gioiosa, gli corse subito accanto e gli pose un braccio su una spalla con affetto.

"Sei qui,finalmente! Quando arrivasti?"

"Or ora, Adduzzu mio. Devo ancora scaricare il carretto. Che, m'aiuti prima di andare a lavorare da Scagghiazza? Frattanto Sara ci prepara colazione."

"E come no!" esclamò allegramente il ragazzo. Uscirono ed iniziarono a scaricare il carretto.

Poi l'uomo gli porse il regalo che gli aveva portato: era un fischietto di ceramica a forma di galletto, in cui, come gli fece vedere, se ci si metteva l'acqua e si soffiava, cominciava a cantare.

"Quando ho visto questo galletto, che li vendevano alla fiera, pensai: questo è Adduzzo mio! Così te lo comprai. Ti piace?"

"Sì che mi piace. E come canta bene! E è bello, tutto così pittato in bianco, rosso e nero!" e si mise a farlo zufolare, tutto allegro.

A un certo punto Cappiddazzu gli disse, con un gentile sorriso: "Ti piace, quel Settisoldi, non è vero?"

Adduzzu lo guardò sorpreso e arrossì: "Come fai a sapere, tu? Che, per caso... ci vedesti, poco fa? Non eri appena arrivato come dicesti?" chiese incerto.

"Sì, e dormivate come due angioletti, così non vi disturbai. Ti piace, allora, quel Settisoldi?" gli chiese di nuovo l'uomo.

"Non sei arrabbiato che... che lui e io..." gli chiese il ragazzo guarandolo negli occhi con un po' di timore nei suoi.

"Arrabbiato? E perché dovrei essere arrabiato? Se vi volete bene e se state bene assieme..."

"Non è che ci si vuole bene, però; è solo che... è solo che ci piace a tutti e due a fare quelle cose assieme. Lui venne la seconda notte che tu non c'eri... io dormivo e lui mi toccò... e così..."

"Adduzzu mio, che c'è? Mica t'hai a giustificare, né a vergognare! Siete giovani, e se vi piace a tutti e due, fate bene a farlo assieme, secondo me. È una cosa naturale, quello che fate assieme."

"Non ti dispiace che Settisoldi e io... che sul tuo pagliericcio lo facemmo?" gli chiese il ragazzo.

"E dove potevate farlo, se no? Settisoldi mica dorme da solo, sono in quattro lassù. E quelle cose si fanno da soli, anche se solo per divertirsi, mica davanti agli altri. Ma adesso che io sono tornato, si dovrà trovare una soluzione per voi due, se intendete continuare. Ci avete già pensato?"

"No..."

"Eh, beata gioventù, che pensate solo a godervi il momento e non pensate al domani."

"Finché il tempo è bello, Settisoldi e io si potrebbe andare giù fra le rovine dei templi, oppure fra le fratte. Magari ci portiamo la mia vecchia pelle di pecora."

"A sera chiudono il portone, qui, e rischiate di dover restare a dormire fuori. E ormai il tempo cambia senza preavviso, di notte ci sono anche acquazzoni. No, si deve trovare un'altra soluzione. D'altra parte, se io andassi a dormire, che so io, in cucina o nella stalla o altrove, gli altri mi chiederebbero perché non dormo in camera mia, visto che sono uno dei pochi qui dentro ad averne una solo per me... e per te ora."

"Eh no, eppoi mica sarebbe giusto che tu devi dormire altrove. Possiamo andare noi, se mai, nella stalla."

"Vedi Adduzzo mio, quelle cose che fate tu con Settisoldi, tutti sanno che succedono, ma nessuno deve sapere che le fate, specialmente perché il barone è uno di quelli che certe cose non le approva, che pensa che sono peccato mortale. Sarebbe strano che a sera voi due scomparite nella stalla: tutti immaginerebbero perché e prima o poi la cosa arriverebbe nelle orecchie del barone. No, no, si deve trovare un'altra soluzione, figlio mio."

"Ma perché il barone, e pure i preti e altri, pensano che è peccato a fare quelle cose? E tu invece pensi che è naturale e che non c'è niente di male? Perché gli antichi non solo le facevano ma ne parlavano pure, come tu mi contasti, e ci scrissero pure poesie e racconti, e oggi no? E a Castore e Polluce ci costruirono pure un tempio! Perché, eh? Non erano meglio gli dei d'un tempo, invece che Domineddio?"

"Questo non te lo so dire. Le cose cambiano sempre, non sono mai uguali. Un tempo c'erano gli schiavi e era normale che ci fossero, oggi non è più così. Un tempo i poveretti avevano diritto di raccogliere la legna secca sui terreni dei ricchi e pure la frutta caduta, solo non potevano coglierla sugli alberi... oggi non più. Alcune cose vanno meglio, altre vanno peggio."

"Ma perché per i preti e per Domineddio quello che facciamo io e Settisoldi sarebbe peccato mortale? Mica facciamo male a nessuno, no? A parte che è pure bello a fare quelle cose."

"Fare un peccato significa disubbidire a una legge di Domineddio. E i preti dicono che c'è una legge di Domineddio che proibisce a due maschi di fare fra loro come fanno maschio e femmina. Io non lo so se questa legge l'ha fatta davvero Domineddio o se se la sono inventata i preti. Però i nostri vecchi dicevano: Mali non fari, paura non tiniri [= Non fare del male e non aver paura]. E che male fate, voi due, se siete d'accordo a darvi piacere in quel modo? Male sarebbe se uno di voi due obbliga l'altro a fare cose che non vuole."

"Però, intanto, io e Settisoldi le dobbiamo fare di nascosto, le nostre cose. E pure il barone non gli va che qualcuno le fa, a casa sua, come mi dicesti."

"Anche a fare l'elemosina ai meschini, si deve farlo di nascosto degli altri, perché non è bene farsi vedere e vantarsene, e anche perché chi la riceve non s'abbia a vergognare di farsela dare. Non tutto quello che si fa di nascosto è sempre male e non tutto quello che si fa in piazza è sempre bene."

"Ma tu, Cappiddazzu, quand'eri un caruso, le facesti tu pure queste cose con altri carusi?"

"Trovami un caruso che non lo fece mai, e io mi faccio monaca di clausura!" rispose ridendo l'uomo.

"Io mi chiedo se potrò mai trovare qualcuno che ci possiamo volere bene come tu e la tua Nunziatella vi volete bene. Coi pastori, lo facevo solo per mangiare, con Settisoldi lo facciamo solo per divertirci. È così difficile trovare qualcuno che ti vuole bene e che ci vuoi bene in quel modo?"

"Non è più difficile che fra marito e moglie, figlio mio. Tu sapessi quante coppie, regolarmente sposate in chiesa e benedette dal prete, non lo fanno per niente per amore, ma solo per sfogarsi, specialmente l'uomo, e per essere protetta la donna. L'amore, purtroppo, è una perla rara, più rara di quelle che tiene la regina sulla sua corona."

"Ma Polluce e Castore, oltre a fare quelle cose fra loro, erano pure innamorati, mi dicesti. Solo nelle storie capitano queste cose?"

"No, Adduzzu caro, come io trovai a Nunziatella mia, magari un giorno tu pure troverai l'anima bella che ti dà amore e che ce lo puoi dare."

"E come faccio a trovarlo? A sapere che con uno posso anche scambiare amore, oltre che andarci insieme per fare quelle cose?"

"Come fai a sapere che sta arrivando la primavera? Guardi l'albero di mennule, ch'è tutto spoglio e pare morto e niente di speciale e poi invece... e poi, quasi d'improvviso vedi che è tutto coperto di fiori e è bello d'una bellezza unica. Così un giorno incontri qualcuno, che a prima vista magari ti pare uno dei tanti, e poi invece ti accorgi che è uno speciale."

"Stanotte mi porti di nuovo a dormire fra le rovine dei templi degli dei, giù nella vallata?"

"Ti ci porto volentieri, Adduzzu. Ma non preferiresti magari andarci con Settisoldi?"

"No, Cappiddazzu, questa volta preferisco andarci con te, che magari mi conti ancora qualcosa di bello e interessante su quello che capitava ai tempi degli antichi dei."


A sera, così, i due scesero giù nella vallata dei Templi, l'uomo si aggirò fra le rovine finché si fermò accanto a un cumolo di grandi pietre squadrate, parti di colonne, capitelli ammonticchiati in un gran disordine.

"Ecco, stanotte dormiremo qui." annunciò.

"Cos'è questo posto?" chiese il ragazzo guardandosi attorno un po' sorpreso per la non particolare bellezza del luogo. "Com'è che questa volta m'hai portato qui che non c'è niente di bello?"

"Questo è un posto molto importante, nonostante l'aspetto: quello che vedi è quanto rimane del grande tempio di Giove Olimpio, quello che i greci antichi chiamavano Zeus."

"Pare il più rovinato di tutti. Come mai? Non dovrebbe essere invece il tempio più bello e grande, se era dedicato al re degli antichi dei?"

"Il tempo e l'uomo fecero questo scempio, sopprattutto la furia dei primi cristiani che distruggevano tutti i templi dedicati agli antichi dei. Il tempio di Giove era il più grande e maestoso di tutti, qui nella vallata, come si conveniva al più grande degli dei, anche se ora è completamente rovinato al suolo. Tempo fa provai a misurare la sua grandezza, che si capisce ancora dalle pietre della base su cui era costruito: contai circa centoquindici doppi passi per cinquantacinque di lato. Questo tempio fu costruito dagli abitanti di Akragas, cioè Girgenti, per festeggiare la vittoria nella guerra contro i Cartaginesi. Ma poi, dopo che crollò o fu distrutto, parecchie delle sue pietre furono usate per costruire le case dei signori su a Girgenti. A giudicare dai pezzi di colonna che vedi, penso che ogni colonna doveva essere alta come dieci uomini, se non di più."

"Perché m'hai portato qui, Cappiddazzu? Che tiene di speciale questo posto?" chiese il ragazzo ancora un po' sorpreso.

"Ecco, vieni, stendiamoci su questa pietra. Bene. E adesso guarda il cielo, là verso sud, vedi? Guarda quelle stelle che formano come una croce un po' storta..." disse l'uomo indicando la volta celeste, "Ecco, vedi, quella è la costellazione dell'Aquila, e quello è il collo e quella stella è il becco. Ora segui la direzione in cui vola... ecco, vedi quella stella, poi più giù l'altra... segui il mio dito, là... poi là... e un po' più a lato quell'altra stella: quella invece è la costellazione dell'acquario."

Adduzzu guardava dove indicava l'uomo e ora, nella volta del cielo su cui brillavano infiniti puntolini in apparente disordine come una manciata di lenticchie gettate su un pavimento, ora distingueva le due figure che l'uomo gli aveva indicato, e la sua fantasia completava quei due gruppi di stelle vedendoci veramente un'aquila e un acquaiolo che da un'anfora versava l'acqua.

Quello che, fino a quella notte, era stato per lui poco più di una bella ma incomprensibile visione, stava ora diventando un campo parzialmente conosciuto, un foglio di misteriosa oscurità su cui un'invisibile mano aveva tracciato fantastiche figure delineate da macchioline di luce.

"Ecco, Adduzzu, quell'aquila è Giove, e quell'acquaiolo è Ganimede, e non versa acqua, ma l'ambrosia e il nettare degli dei immortali, una specie di vino che manco il barone qui a Girgenti e manco il re né il Papa su a Roma ce n'hanno di così buono sulla loro tavola o nelle loro cantine."

"E chi era questo Ganimede, e che c'entra con Giove e l'aquila?"

"Ganimede era un ragazzo più o meno della tua età, bello almeno quanto sei bello tu, Adduzzu mio. E come hai fatto tu un tempo, faceva il pastore." iniziò a raccontare Cappiddazzu. "Sul monte Ida, che è dove adesso c'è la Turchia, viveva un uomo ricchissimo di nome Erittonio, il più ricco i tutti i mortali. Tutte le greggi che pascolavano su tutte le terre che dal monte si potevano vedere, erano sue. A questo riccone ci nacque un figlio, che ci misero nome Troo. Quando fu un uomo, Troo fondò una città, sul monte Ida, con belle e forti mura intorno per difendere la sua gente e ne fu il primo re. Quella città si chiamò perciò Troia, quella di cui cantò Omero, il grande poeta cieco dell'antichità. Troo mise al mondo tre figli maschi, uno più bello dell'altro, il primo ci mise nome Ilio, il secondo, che era più più bello del primo, ci mise nome Assaraco, e infine nacque il terzo, il nostro Ganimede, che era il più bello di tutti quelli che vivevano in quel tempo, in tutto il mondo."

"Ma allora Ganimede era un principe e non un pastore come mi dicesti." obiettò il ragazzo.

"Oh, a quei tempi mica è come adesso: anche i re facevano i pastori, gli agricoltori, i pescatori, i cacciatori, in tempo di pace, e così facevano i figli loro. Le regine spazzavano la casa, tessevano al telaio, cucinavano buoni manicaretti per i loro uomini e poi lavavano le pentole e i piatti, e finiti i lavori di casa uscivano a spettegolare con le vicine."

"Ma allora che differenza c'era fra un re e un meschino? Fra una regina e una serva? Fra un principe e un qualsiasi caruso?"

"Proprio nessuna a parte una importante: loro comandavano su tutta la città e su tutta la campagna intorno e vivevano in una una casa grande e bella e indossavano bei vestiti. Ma vedi, potevano comandare proprio perché facevano le stesse cose che facevano gli altri, perciò sapevano bene quali erano i bisogni della loro gente e quali ordini era giusto dare. Mica stavano chiusi nei loro bei palazzi a dare ordini su cose che non conoscevano e di cui avevano solo sentito parlare. Il re, nei tempi antichi, era un po' come il padre di tutti, e faceva in modo che nessuno morisse di fame, e difendeva i deboli, gli orfani e le vedove contro i prepotenti."

"Allora i re, in quei tempi, erano tutti buoni?"

"Questo non si può dire: come tutti i padri di questo mondo, ce n'erano di buoni e di cattivi, di saggi e di stolti, di forti e di deboli. Ma certo tutti sapevano cos'è la vita coi suoi affanni e le sue gioie. Un re aveva potere assoluto, ma questo potere gli veniva dato dalla gente solamente se lo reputava un uomo degno e capace."

"E se invece era cattivo, o debole, o incapace?" chiese Adduzzu.

"O lo cacciavano e mettevano un altro al suo posto, o gli si ribellavano e lo ammazzavano, oppure anche, a volte, un altro re più forte gli toglieva le sue terre e la corona, secondo i casi. Comunque, ti dicevo, Troo era il re di Troia ed era un buon re e un buon padre. Un giorno il suo Ganimede, che più o meno aveva l'età tua, come in tanti altri giorni salì su per le pendici del monte Ida con le greggi del padre e i cani, e altri ragazzi come lui, e i guardiani e i suoi tutori che nelle soste gli insegnavano le cose che un principe deve sapere."

"Ma c'erano pure le guardie con loro?"

"A quei tempi tutti gli uomini liberi giravano con le armi, un arco o una spada, la lancia o un pugnale: non c'erano come adesso le guardie o i soldati, perché erano tutti pastori, agricoltori, guardie o soldati, alla bisogna."

"E poi?" chiese il ragazzo curioso di sentire la storia di questo Ganimede.

"E allora... Ganimede stava giocando con gli altri carusi per i prati del monte Ida, a rimpiattino, a acchiaparella, a tana, a mosca cieca, e si divertivano e ridevano e gridavano felici come tutti i ragazzi spensierati di questo mondo. Frattanto, sul monte Olimpo dove vivevano gli dei, Giove stava nel suo palazzo, sdraiato sul sofà, che s'annoiava un poco, mentre Ebe, figlia sua e di sua moglie Giunone, gli riempiva la coppa di ambrosia. Giove ne sorseggiò un poco, si leccò le labbra, guardò a Giunone che ricamava una tovaglia per le feste, quando d'un tratto sentì tutto il chiasso di quei ragazzi che veniva dal monte Ida, ché gli dei ci sentono anche a mille leghe lontano, e allora si affacciò dall'Olimpo e gettò un'occhiata sulla terra. Così vide Ganimede, e tutto d'un colpo fu sopraffatto da un forte desiderio per quello splendido ragazzo e assieme al desiderio, sentì che stava pure bruciando d'amore per lui."

"Ma Giove, non mi dicesti che era uno sciupafemmine? Non è lui, come mi dicesti, che prese la forma del cigno per fare alla chetichella quelle cose con Leda, la madre dei gemelli?"

"In quei tempi, che fossero dei o uomini, non tenevano mica tanti problemi come noi oggi, e capitava così che s'innamoravano di una donna o di un uomo, se quella o questo ci colpiva il cuore. Quello splendore di ragazzo, più bello di un mandorlo in fiore, lo voglio tutto per me, si disse Giove alzandosi a sedere per guardare meglio, e più lo guardava e più se n'innamorava. Così, pensato e fatto, prese la forma dell'aquila, lasciò il suo palazzo sul monte Olimpo e volò verso il monte Ida, tenendo fra gli artigli le sue frecce magiche, quelle che noi chiamiamo fulmini e lampi di tempesta.

"Volò, volò e volò, e sul monte Ida le sue grandi ali suscitarono forti venti, e il cielo s'oscurò tutto, e Giove lanciò le sue frecce così tuoni e fulmini scossero la terra e fecero tremare il monte, e una gran tempesta avvolse le pendici del monte Ida come un mantello di paura. Tutti corsero qua e là cercando un riparo, e allora la grande aquila scese in picchiata giù, afferrò Ganimede e volò via. Invano i suoi compagni e i tutori e tutti, proprio tutti sollevarono le braccia al cielo, saltando e gridando, cercando di afferrare il giovane e bel principe, di trattenerlo, di salvarlo dall'aquila, e pure tutti i cani abbaiavano alla scura ombra che si portava via il bellissimo Ganimede."

"Ma non gli faceva male, l'aquila, quando lo prese con gli artigli? Non lo feriva?" chiese il ragazzo attonito.

"Hai mai visto che denti aguzzi tiene il gatto? Lo sai, no, come stritola il topo quando l'acchiappa. Eppure, quando piglia uno dei suoi micetti appena nati per la collottola e lo solleva per portarlo da un'altra parte, non gli fa manco un graffio. Così l'aquila non fece neanche un graffio al caruso, mentre lo sollevava da terra e se lo portava via."

"Chissà che fifa c'aveva preso al povero Ganimede, eh? Lui mica lo sapeva che quella grossa aquila in realtà era il dio Giove!"

"Proprio così, anche se, bisogna dirlo, era un caruso molto coraggioso. Comunque, Giove arrivò sulle pendici dell'Olimpo, depose a terra con delicatezza il ragazzo e, atterrato lui pure, riprese la sua forma normale. Ganimede guardò stupito quella trasformazione e smise di tremare. E Giove ci disse: Ora baciami, mio amabile Ganimede, che finalmente siamo arrivati dove staremo per sempre, tu e io. Ganimede ci rispose: Ma com'è che l'aquila che spaventò tutti i miei compagni e me pure, e che mi rapì alle mie greggi, ora mi parla? Sarà che la paura mi fece diventare matto?

"No, matto non sei. Non sono un comune mortale, io, mio bel caruso, come tu ora mi vedi, ma non sono neppure un'aquila. Non mi temere, io sono un dio, gli disse Giove. Che dici? Tu un dio? Sei forse il dio Pan a cui noi pastori sempre sacrifichiamo? Ma tu non hai né corna sulla fronte né hai con te la siringa per suonare, né le tue cosce sono pelose, e neppure i tuoi piedi sono caprini... gli disse il ragazzo, un po' confuso.

"E che? Tu credi forse, mio bellissimo e dolce Ganimede, che la divinità è cosa ch'appartiene solo al dio rurale Pan, il dio dei pastori? Io sono Giove, di tutti gli dei io sono il re, di tutti, compreso il tuo Pan.

"Ma se tu sei di tutti gli dei il re, quello a cui mio padre sacrificò il migliore dei nostri capri or son due giorni, se tu sei il grande dio che tutto regge e protegge, così ripaghi mio padre che t'è devoto, rubandogli un figlio? Sei come il lupo che, quando il cane è lontano, ruba dal gregge l'agnello per farne pasto al suo branco?"

"Non per dividerti con altri quassù ti portai, ma per averti tutto per me, per farti mio amante... e renderti così immortale. Come gli dei mai invecchiano, così tu per sempre resterai lo splendido ragazzo che sei e la tua bellezza non sarà mai guastata dalle mani impietose del tempo, se accetterai di essere il mio amato e il mio amante."

"Suvvia, siamo seri, mio signor Giove. Che te ne faresti tu d'un comune mortale, tu che sei un dio, anzi il più grande di tutti? Ora, su, comportati da persona onesta, e riportami indietro là sul monte Ida, dove certamente già mi piangono per morto. Se sei un dio buono, o anche solamente un dio giusto, ridammi indietro ai miei, e io ti prometto che sacrificherò alla tua divinità il più bell'agnello del nostro gregge, non più vecchio di tre anni, e d'ora in poi onorerò te prima di tutti gli altri dei, anche prima del dio Pan."

"Giove ci rispose: Per nulla dunque presi forma d'aquila e ti rapii? Per nulla scatenai la grande tempesta che fece eco al mio sentire per te? A nulla vale che io ti dissi che ti farò immortale, simile a un dio? E a nulla, soprattutto che t'offrii il mio amore? Non ho forse forme belle assai per te? Tu, caruso mio, non sei nato per vagare con le greggi e fare fanciulleschi giochi, ma per servire a me e agli altri dei l'ambrosia e il nettare e tu stesso cibartene con noi."

"Non dicesti or ora che non mi volevi dividere con gli altri dei?"

"No, la tua innocenza sarà solo per me, solo per me voglio il tuo cuore e il tuo corpo pieno di grazia che tanto infiammò il mio cuore e i miei lombi. Tu sarai sempre al mio fianco, sarai il coppiere degli dei e a loro servirai ambrosia e nettare, ma solo con me dividerai il giaciglio e la passione. La tua bellezza rifulgerà ai miei occhi per sempre, non più mortale, ma come un dio, grazie al mio amore."

"Ma Ganimede ci disse: "Ma per favore, dimmi, dio Giove, perché mi togli ai miei giochi e ai miei compagni, e soprattutto alla mia famiglia? Che farò io quassù, oltre a fare da coppiere ai tuoi compagni, e da compagno di letto a te? Mi annoierò e rimpiangerò la vita semplice ma bella che ho menato fino a ora!"

"Ti troverò compagni di gioco, come ad esempio Cupido, che è il dio d'amore, e pure altri, come l'astuto Mercurio, e altri ancora. E ricompenserò i tuoi compagni là sul monte Ida dando loro la mia benevolenza, e ricompenserò tuo padre donandogli due bei cavalli bianchi, forti e veloci come quelli di Apollo, cavalli divini più veloci del vento. E tuo padre Troo, che ora piange perché ti perse per sempre, e ha il cuore colmo di angoscia, sarà consolato, sapendo che con me sei e che per sempre vivi. Gli manderò tramite il mio messaggero Mercurio i due cavalli e la notizia che vivi e, per consolare l'animo di tua madre, metterò in cielo due costellazioni, quella dell'aquila e quella dell'acquario, e guardandole sapranno che a te è data l'immortalità e l'amore del re degli dei, e che sei ora immortale. I loro cuori saranno ricolmi di gioia."

"Ganimede ci rispose: "E dovrò dormire con te? E se di notte io scalcio, o russo, o parlerò nel sonno disturbando il tuo, non mi manderai tu via, lontano da te, e non sarò io deluso per aver perso tutto quanto m'hai appena promesso?"

"Se mi sveglierai nel sonno, non ti preoccupare, sarà per me una gioia, sì che potrò darti ancora e ancora il mio virile amore."

"Ma io, se pure accettassi quanto mi dici, non provo per te amore come tu vorresti, ma solo reverente timore. E poi, che ne so io come ci si deve comportare al servizio degli dei?"

"Mercurio t'insegnerà a servire ambrosia e nettare e t'insegnerà pure l'etichetta, sì che tutti gli dei ammireranno la tua bellezza, la tua grazia, e la tua perizia nel servire. Ma Cupido, che è il dio dell'amore, ti insegnerà ad amare, ad amare me, e io stesso t'insegnerò, ti comunicherò l'amore, se ora mi lascerai baciare la tua bocca bella!"

"Giove finalmente prese fra le braccia il bellissimo principe-pastore e lo baciò e finalmente anche il cuore di Ganimede s'infiammò d'amore per Giove. E quando allora il re degli dei, con gran passione e tenerezza, si stese con Ganimde sull'erba profumata e s'unì sul prato in fiore a quel bellissimo caruso innamorato e lo fece suo, lo rese immortale e lo consacrò così al suo amore. E Ganimede era veramente felice."

"Poi lo condusse con sé nel suo palazzo, tenendolo teneramente per mano, su in cima al monte Olimpo e comunicò a tutti che aveva trovato un nuovo coppiere. Ma sua moglie Giunone, la madre di Ebe, guardò con sospetto e antipatia il bellissimo Ganimede e capì il vero motivo perché il divino marito s'era portato in casa quel caruso: altro che coppiere, quella era solo una scusa. Ma sapeva pure che doveva giocare d'astuzia, così non disse niente che aveva capito, e invece pretese che i due, sua figlia Ebe e il caruso, fossero messi alla prova per vedere chi veramente doveva essere il coppiere degli dei e anche pretese, se avesse vinto la sua Ebe, che era anche la dea della gioventù, e che lei era sicura che l'avrebbe facilmente spuntata, che Ganimede venisse cacciato via dall'Olimpo.

"Ma Ebe era troppo sicura di sé e di vincere la gara, grazie alla protezione della madre e perché conosceva da tempo il mestiere, così non si impegnò davvero e non svolse con la necessaria cura il suo compito e perciò capitò che s'inciampò e una volta rovesciò una coppa sugli abiti di una delle dee, e un'altra si fece cadere di mano la coppa di uno degli dei che erano ospiti a palazzo e la ruppe in mille pezzi.

"Ganimede, invece, assolse il suo compito con grazia e gentilezza, e anche con molta cura e attenzione. Perciò gli dei, anche perché erano rimasti affascinati dalla bellezza e dalla grazia di Ganimede, decretarono tutti, Giunone esclusa, si capisce, che il ragazzo era senza dubbio il miglior coppiere che mai avesse servito sull'Olimpo. E così da quel giorno il ragazzo sostituì Ebe e di giorno servì gli dei e di notte condivise il giaciglio di Giove e lo amò con tutto se stesso, anima, cuore e corpo.

"Giunone, infuriata e scornata, non potendosi vendicare su Ganimede, prese in odio la stirpe di Troo e tutti i troiani e in particolare il bel Paride suo discendente, e covò in cuore la sua vendetta. Fu per colpa sua infatti se, molti anni più tardi, fece scoppiare la guerra di Troia, e la città fu distrutta dalle armate dei greci e la stirpe di Troo fu cancellata dalla faccia della terra... anche se ancora vive in cielo in Ganimede, l'amante e amato di Giove."

"Che bella storia, Cappiddazzu! Chissà se un giorno troverò anche io il mio Giove che s'innamora di me e che mi porta via per servirlo di giorno e amarlo di notte?"

"Non mi stupirei se capitasse, anzi, sarei molto meravigliato se non avverrà: stai diventando ogni giorno più bello e più amabile, ragazzo mio. Non avrei mai potuto sperare, sognare di avere un giorno un figlio migliore di te."

"Settisoldi non è male, però non c'è amore fra me e lui, c'è solo piacere. Come farò a capire quando incontrerò il mio... Giove? O magari il mio Ganimede? Come si fa a capire quando uno è innamorato? Ganimede all'inizio non era innamorato di Giove, e voleva che lo riportava sul suo monte, fra la sua gente. Quand'è che l'ha capito? Quando Giove l'ha baciato, o quando sul prato hanno fatto per la prima volta l'amore?"

"La leggenda dice così, ma non è detto che capita sempre così. Tu l'hai già fatto, prima coi tre pastori di cui mi dicesti, e in questi giorni con Settisoldi, eppure dici che non c'è l'amore. E a volte capita che si sente l'amore bruciare in petto e toglierci il fiato prima ancora di baciare o di fare l'amore con una certa persona."


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