I due ragazzi non dormirono, quella notte. Come capita quando una forza invisibile e inconscia spinge due vite l'una verso l'altra, entrambi i ragazzi sentivano l'esigenza di conoscere l'altro e farsi conoscere. A turno iniziarono ad aprirsi l'uno all'altro, dapprima narrando episodi del loro passato, parlando dei loro problemi, dei loro sogni, dei loro desideri, poi gradualmente passando a cose più intime, più personali.
Semiabbracciati, baciandosi di tanto in tanto, carezzandosi lievi ma in modo intimo ed esplorando l'uno il corpo dell'altro, al tempo stesso esploravano le loro vite, i loro sentimenti e si aprivano a poco a poco a una crescente intimità non solo fisica. Raccontandosi all'altro, mettevano al tempo stesso a fuoco i propri sentimenti. A volte tacevano, e riprendevano a fare l'amore.
Adduzzu raccontò la sua iniziazione sessuale a opera dei tre pastori su nei pascoli, poi la breve ma intensa storia con Settisoldi, il valletto del barone, che era finita perché questi era stato trasferito a Palermo per servire nel palazzo del figlio del barone quando questi s'era sposato con una contessina di una famiglia della capitale.
Allora anche Attareddu raccontò al suo nuovo amico la scoperta della propria sessualità, che era avvenuta quattro anni prima, nel primo pomeriggio di un giorno di metà maggio.
"Noi fratelli e sorelle si lavorava tutti a padrone, compresi i più piccoli. Papà era fuori col suo carretto che doveva fare un qualche lavoro, non mi ricordo più cosa. Insomma, a quell'ora del giorno in casa non ci doveva essere proprio nessuno. Io durante il lavoro m'ero sentito male, ero diventato pallido come un cero, avevo quasi perso i sensi, e allora il padrone m'aveva rimandato a casa e detto di mettermi subito a letto. M'aveva fatto accompagnare da un altro che lavorava con me, che mi lasciò per tornare al lavoro solo dopo che io aprii la porta di casa.
"Stavo per aprire la porta della stanza dove noi figli maschi avevamo i nostri pagliericci, quando sentii la voce di mio fratello Arturo, quello di quattro anni più grande di me, che diceva qualcosa ridendo. Arturo a casa? E come mai? E chi c'è con lui? mi chiesi. Arturo è un ragazzo in gamba, anche se come fratello qualche volta è uno scassamminchia. La porta era chiusa, ma è vecchia e ci sono fessure fra le assi, così, incuriosito, spiai dentro e diventai una statua di sale, troppo sconvolto per muovermi, per fiatare.
"Arturo stava lì in piedi, col suo migliore amico, Tano il figlio del nostro vicino che teneva allora diciannove anni, e tutti e due erano nudi come mamma li aveva fatti, e si stavano baciando e toccando dappertutto. Pensai che dovevo andare via senza farmi sentire, ma non riuscivo a levare gli occhi dalle loro minchie dure e dritte. Anche la mia nelle brache la sentivo che mi si stava svegliando.
"Allora tenevo solo tredici anni e stavo giusto scoprendo che la mia minchia non serve solo per pisciare, avevo già un cespuglietto di peli neri lì, e mi stava crescendo quasi a vista d'occhio, e avevo pure scoperto che se me la toccavo in un certo modo, mi piaceva assai e ne usciva qualche goccia di un liquido bianco. Però a vedere quelle due minchie dritte e dure, e lunghe e grosse, capii che la mia aveva ancora da crescere un bel po'.
"Poi vidi che Arturo s'inginocchiava davanti a Tano come se doveva pregare e vidi che si pigliava tutta la minchia di Tano in bocca e muoveva la testa avanti e dietro! Non ci credevo ai miei occhi. E pareva che ad Arturo ci piaceva assai sucare quella minchia dura, e a Tano pure, che glielo spingeva dentro e teneva un sorrisetto beato sulla faccia.
"Io ormai ce l'avevo pure bella dura e m'ero infilato una mano nelle brache e me la menavo mentre continuavo a spiarli. Tano si carezzava il petto e si sfregava i capezzoli, Arturo invece, mentre continuava a sucare come un vitello affamato, se l'era presa in mano e la agitava su e giù con vigore. Allora anche io, invece di carezzarmela, me la presi e agitai la mano come faceva mio fratello e scoprii che in quel modo era più bello di come avevo sempre fatto. Sotto le braghe c'era poco spazio, così le slacciai per farlo con più comodo.
"Dopo poco mi sentii tutto un calore addosso e come una tensione in tutto il corpo e mi cominciò a girare la testa e, mentre venivo, le gambe mi diventavano molli molli come cera scaldata e allora, per non cadere, m'appoggiai alla porta che però si aprì e così mi trovai nella stanza, tutto rosso che sarei voluto sprofondare sotto terra.
"Arturo e Tano si girarono a guardarmi allarmati, ma poi videro che c'avevo la minchia dura in mano e le brache calate, si staccarono e vennero verso di me. Io tremavo e pensavo che m'avrebbero massacrato di botte perché li avevo spiati, e invece Arturo mi prese per un braccio, con un grande sorriso, mi spinse a sedere sul pagliericcio e sedette vicino a me mentre Tano sedeva dall'altra parte.
"E bravo il mio fratellino!" mi disse Arturo e mi levò la mano dalla minchia e me la prese in mano: fu come se il calore che m'ero sentito addosso diventasse più forte di prima. "Stai proprio crescendo bene, qui pure."
"Tano allora cominciò a slacciarmi gli abiti e con Arturo mi levarono tutto di dosso, e io li lasciavo fare che ero come ubriaco tanto mi girava la testa. Ero imbarazzato da morire, e lo fui pure di più quando Tano mi chiese se avevo già fatto con qualche compagno e ci dissi di no.
"Allora ci dobbiamo insegnare tutto, a questo caruseddu, vero Arturo?" disse Tano spingendomi giù sul pagliericcio e carezzandomi per tutto il corpo in un modo che presto c'avevo la minchia di nuovo dura come prima.
"E mentre Tano mi baciava in bocca, mio fratello me la prese tutta in bocca e me la sucò e io mi sentivo sempre più debole, però mi piaceva sempre più. Poi Tano s'inginocchiò vicino alla mia testa e me la tirò fra le sue gambe e mi sfregava la sua minchia dura sulla faccia e sulle labbra, e mi diceva: "Dai, Luigino, sucami la minchia come sta facendo Arturo a te! Apri la bocca, caruso, che te la ficco dentro... Suca, suca, dai!"
"Ero meravigliato che mi piaceva sentirmela in bocca, dura ma morbida e tiepida, che scivolava dentro e fuori, e la sucai, e Tano mi diceva come dovevo farlo per farlo a modo... e mi sentivo la bocca di mio fratello sulla mia, e quattro mani che mi toccavano dappertutto. Era tutto così nuovo per me e era tutto troppo bello.
"Poi Tano si levò e fece girare Arturo in modo che m'era sopra a quattro zampe, al rovescio, e Tano mi disse di sucare quella di mio fratello mentre lui continuava a sucare la mia. Poi Tano si mise in ginocchio dietro a mio fratello, prese un po' di sputo e lo passò fra le chiappe di Arturo, poi ne mise altro sulla sua minchia, poi prese Arturo e lo inforcò ficcandogliela tutta dentro. Io la vedevo che gli scivolava dentro e fuori dal buco, e vedevo le palle di Arturo e quelle di Tano che dondolavano, proprio sopra i miei occhi, e era eccitante.
"Ma quello che mi stupiva di più era vedere quanto ci piaceva a Tano fottere il culo di mio fratello, ma anche a Arturo a farsi fottere in quel modo. All'inizio Tano gli andava dentro e fuori lentamente, a fondo, ma poi piano piano andava più veloce e gli dava colpi più forti, tenendo mio fratello per la vita e tirandolo a sé a ogni spinta che gli dava dentro.
"Poi Arturo venne nella mia bocca, e io all'inizio la tenevo lì e non sapevo che fare, ma lui continuava a schizzare e allora la ingiottii, e sentii che aveva un gusto strano ma che mi piaceva, e gliela succhiai tutta fino all'ultima goccia. Poi fu Arturo a bere la mia, che ancora ne schizzavo poca, poi vidi che era Tano a schizzare il suo latte di maschio nel culo di mio fratello.
"Poi Tano si vestì ci baciò in bocca a Arturo e a me e ci disse che magari lo facevamo ancora e andò via. Io ci chiesi a mio fratello da quant'era che faceva quelle cose, e lui mi disse che era da cinque anni, sempre con Tano ma anche con Carmelo, che è il fratello di Tano, quello che aveva ventuno anni, e mi disse che a lui ci piaceva solo a farselo mettere e che Tano e Carmelo qualche volta glielo mettevano contemporaneamente, uno in bocca e uno in culo, e che era la prima volta che lo faceva a casa nostra, che di solito lo facevano a casa di Tano, giù nella cantina del vino, ché i genitori di Tano commerciano in vino.
"Così io lo feci ancora con Tano, e anche con suo fratello Carmelo che a loro due ci piace solo metterlo e mica lo pigliano. Fu Tano che per la prima volta mi convinse a provare e lasciarmelo mettere nel mio culetto e me lo fece piacere e così qualche volta, nella cantina del vino, uno dei due fratelli si fotteva a Arturo e l'altro mi fotteva a me.
"Poi l'anno scorso io conobbi a Pampinedda, un amico di Carmelo, forse lo conosci, è Ignazio Galante che ha un anno meno di me, che ci piace solo a pigliarlo nel suo culetto come a mio fratello Arturo e così per la prima volta fui io a fottere il culetto a un altro caruso, che pure mi piace assai. Pampinedda fa il pescatore come suo padre e i fratelli, e pure a lui lo vedevo qualche volta nella cantina del vino del padre di Carmelo e Tano e ce lo mettevo, magari mentre Tano o Carmelo me lo mettevano a me." raccontò il ragazzo a bassa voce.
"E allora che dici, non ci si potrebbe vedere, tu e io, in quella cantina?" gli chiese Adduzzu.
"No, ché lì ci posso andare solo se ci sono anche Tano o Carmelo e loro pure vogliono fare... E a me non mi piacerebbe che lo facciamo in tre o in quattro, ma voglio farlo solo tu e io... perché con te è diverso che con gli altri. Non voglio più farlo con nessuno di loro... se tu e io si decide che ci si mette per davvero assieme. Tu sei differente da tutti, tu mi piaci più di tutti. Io, di te... sarei geloso."
Il sole era sorto da un po', e i due ragazzi si riassettarono gli abiti e decisero di tornare su in città per i riti del Venerdì Santo. Alle nove in punto della mattina, al suono di strazianti marce funebri ebbe inizio dalla Cattedrale il lento corteo dei devoti del Crocifisso e delle Consorelle che, con i piedi scalzi e portando i grandi ceri votivi, seguivano le insegne della Confraternita. Poi, dietro l'antico e artistico Crocifisso argenteo venivano i Confrati, e concludevano la processione i preti con la Statua del Cristo Appassionato.
Alle ore 10,30 la processione del Cristo Appassionato, scendendo la scalinata S.Croce, dopo aver attraversato le impervie stradelle e le piccole tozze scalinate, giunse nel cuore del Rabato. Mentre le bande continuavano a suonare le marce funebri, l'Addolorata lasciò il suo Santuario accompagnata dalla sua Arciconfraternita. Anche Adduzzu e Attareddu, tenendosi per mano, seguirono il simulacro della Madonna dei Sette Dolori.
L'abito che indossavano i Confrati e le Consorelle, il Saio, era di colore nero, con un cordone attorno alla vita di colore blu, con i due capi pendenti a sinistra con sette nodi, il cordone di flagellazione posto attorno al collo, e sul petto portavano il "Settespade", un cuore di cuoio trafitto da sette piccole spade, per ricordare i Sette Dolori della Santa Vergine. I Confrati avevano il capo coperto da un cappuccio, con una corona di ramoscelli d'ulivo intrecciati, e le consorelle indossavano una mantella nera sopra al saio.
Tra mille lacrime di emozione e suggestione della gente i due simulacri furono affiancati per quello che la gente chiamava l'Incontro. "Pari ca si parlanu!" [= sembra che si parlino] era la frase che molte bocche ripetevano, come in un rito spontaneo benché ripetuto da tempi immemorabili. Dopo una breve predica del Rettore del Santuario, le due processioni al completo ripartirono verso il Calvario allestito in cattedrale, con tutti e due i Simulacri portati a spalla dai loro Confrati e dai numerosi Devoti, molti di loro anche per ex-voto. Anche i due ragazzi seguirono la mesta processione, pienamente coinvolti dall'atmosfera altamente emozionale.
In via Atenea la processione prese forma e solennità, come una grande parata, un mistico corteo tra gli storici palazzi della vecchia Girgenti; da qui non c'erano più strade ma scalinate, lunghe e tozze, che univano i due lembi della Città medioevale. Il lungo corteo saliva lentamente, e si faceva tardi: erano quasi le due del pomeriggio quando la fiumana di gente arrivò stremata su in Cattedrale. Nessuno aveva pranzato, poiché per antico costume si doveva fare digiuno il Venerdì Santo.
A un certo punto Attareddu indicò due giovani che seguivano la processione poco più in là di loro e gli sussurrò che quello più alto era suo fratello Arturo e l'altro era Tano.
"Ma loro due, si vogliono bene?" chiese sottovoce Adduzzu, osservandoli.
"No, ci piace assai farlo assieme e sono amici. Amici veri, sono. L'ho sentiti, un giorno, che dicevano che pure dopo che si saranno sposati vogliono continuare a farlo assieme."
Entrarono tutti nella cattedrale. Nell'abside centrale era stato allestito con legni e cartapesta, come in ogni settimana santa da secoli si faceva, il Calvario. Il Cristo Appassionato venne riposto nella sua cappella, la Madonna invece aspettò fuori dalla navata centrale. Frattanto sul Calvario i Confrati più anziani eseguirono la Crocifissione alla presenza dell'Arcivescovo e dei Canonici della Cattedrale, issando la lignea statua snodata del Cristo fin sulla croce e piantando i grossi chiodi di ferro battuto nei fori delle mani e dei piedi per fissarvela.
La scena era impressionante tanto era realistica, e i due ragazzi provarono brividi nel vederla. Si strinsero una mano con forza, grati l'uno per la vicinanza dell'altro e per condividere anche quelle emozioni.
Ebbero inizio le funzioni religiose, e alla fine, verso le dieci di sera, Gesù venne deposto dalla Croce e fu poi portato in giro per le vie della città vecchia, custodito nella splendida Sacra Urna di legni dorati e di vetro, per il funerale. La processione del Cristo Morto rifece tutto il tragitto al contrario, lungo le strade illuminate dalle fiaccole poste fuori dalle finestre delle case. A mezzanotte circa arrivarono sul sacrato della Chiesa di S.Domenico dove l'Arcivescovo fece la predica che concluse con la Benedizione. Al termine le due Arciconfraternite eseguirono i loro inni, accompagnati dalle note delle due Bande. I Simulacri rientrarono secondo il tradizionale percorso, ciascuno verso la propria Chiesa.
Terminate le cerimonie, Attareddu propose all'amico di scendere di nuovo giù fra le rovine dei templi e di passare nuovamente laggù la notte.
"Però domattina io devo andare al laboratorio di Scagghiazza, ché dobbiamo consegnare altri picureddi di pasta reale alle botteghe che ce l'hanno ordinati e che l'hanno già venduti tutti." gli disse Adduzzu.
"Sì, va bene, però poi domenica sei libero, no? Ci si può vedere di nuovo sabato sera, non è vero?"
"Penso e spero di sì. Se a te va bene, ci si vede dopo il tramonto davanti alla chiesa di San Nicola."
"Certo, va bene. Ma adesso torniamo là alle colonne dei gemelli dei tempi antichi che si volevano bene e che lo facevano fra loro, dove abbiamo fatto tu e io la prima volta. Mi piace assai, quel posto."
Scesero giù fino alla vallata, e s'inoltrarono fino al tempio dei Dioscuri.
"Gli dei d'un tempo ci piaceva di farlo anche con i più bei carusi e picciotti della terra, mi contò Cappiddazzu. E mica lo facevano di nascosto come si deve fare noi oggi." gli disse Adduzzu mentre si stendevano sulle antiche pietre, abbracciandosi.
"Bei tempi, quelli, vero?" gli mormorò Attareddu, raggomitolandoglisi contro e carezzandolo in modo via via più intimo e sensuale.
"Erano tempi belli sì, i tempi degli dei!" rispose il ragazzo carezzandolo a sua volta e pensando che l'amico era davvero come un gattino che fa le fusa.
La luna era luminosa, anche se non più completamente piena, e Adduzzu notò che si specchiava in due puntini d'oro negli occhi dell'amico. "Sai che mi piaci assai?" gli disse in un sussurro emozionato.
Attareddu gli sorrise, compiaciuto: "Prima di dormire, più tardi... facciamo di nuovo all'amore, tu e io, eh? Però adesso stiamo ancora un po' così, che mi piace troppo. Io ti guardavo, ogni volta che ti vedevo entrare o uscire dal laboratorio di Scagghiazza, e sognavo di fare con te, un giorno, però non tenevo il coraggio di parlarti. Non ci credevo davvero che potevo farlo con te."
"Lo trovasti, il coraggio, lassù al Santuario, però." gli rispose sorridendo Adduzzu, e gli carezzò teneramente una gota.
"Non so manco io come lo trovai, il coraggio. Quando ti vidi, decisi che dovevo venire vicino a te e parlarti, in qualche modo, pure se manco io capivo che scusa potevo trovare per attaccare bottone con te. Mi batteva il cuore più forte che le tammuriniate di San Calò... Pensa che bello se si potesse stare sempre assieme come in questi giorni!"
"Si deve pure lavorare, però, se si vuole mangiare."
"E magari, allora, sarebbe bello lavorare insieme."
"Ma se si lavora insieme, tu e io, mi sa che si lavorerebbe poco." disse Adduzzo con un sorrisetto malizioso.
"Ti piace stare con me?"
"Non sarei qui, no? Sì che mi piace. Mi piace assai, davvero. Peccato che i prossimi giorni ci si potrà stare poco, assieme così. Specialmente di notte, anche tu mica puoi restare fuori come in questi giorni, no? Che tieni qualcosa da mangiare nella sacca? Mi sta venendo un po' di fame..."
"Tengo una sarda salata, un pezzo di tumazzo e un po' di pane. Sono anche riuscito a fregare un po' di vino."
"Ce n'è abbastanza per tutti e due?"
"Penso di averne preso assai... ma dipende da quanta fame tieni."
Attareddu tirò fuori il cibo, lo spezzò e ne diede la metà all'amico. Mangiarono masticando a lungo, lentamente, sorseggiando un po' di vino ogni tanto. Spesso si guardavano e sorridevano: stavano veramente bene assieme. Adduzzu pensava che il suo nuovo amico gli piaceva davvero molto. Si chiese come fa uno a capire se si sta innamorando o no, e se davvero potevano mettersi assieme seriamente.
"Mi guardi..." gli disse ad un certo punto Attareddu.
"Tu pure. Mi piace guardarti."
"E a che pensi, mentre mi guardi?"
"A te... a noi... e che mi piacerebbe che tu e Cappiddazzu vi incontrate. Lui conosce a tuo padre, ma non si ricorda di te."
"Che gli dicesti di me a Cappiddazzu?"
"Che mi piaci assai."
"E anche quello che si fa tu e io, ci dicesti?"
"No. Però sono sicuro che se l'immagina da solo. Quand'era caruso, lui pure faceva con altri carusi, mi disse. Prima di conoscere a sua moglie."
"Io mica mi voglio maritare. E tu?"
"Io manco. Le femmine proprio non mi dicono niente, proprio non mi fanno nessun effetto, in quel senso."
"E io, invece, che effetto ti faccio?" gli chiese Attareddu con un sorrisetto malizioso e occhi brillanti.
"Se vuoi controllare di persona..." gli disse Adduzzu iniziando a slacciarsi i fianchi delle brache.
"Lascia, faccio io." gli disse l'altro scostandogli le mani e finendo di aprirgli le brache.
Adduzzu si alzò in ginocchio, per permettere all'amico di abbassargliele, e si dette da fare per togliere gli abiti all'altro. In breve furono entrambi nudi e le loro erezioni svettarono libere e forti. In ginocchio l'uno di fronte all'altro, si abbracciarono, imprigionando i loro membri fra i corpi, e si baciarono intimamente, sfregando l'uno contro l'altro il petto, il ventre e i genitali, carezzandosi a vicenda la schiena e il sedere.
In una calma ambrata, si unirono ancora una volta, intimamente lieti di poter dare piacere all'altro, di vederlo gioire per quella dolce e virile passione che bruciava nei loro lombi. Entrambi sentivano, pur senza saperlo ancora far affiorare al livello di una piena coscienza, che era bello darsi all'altro.
Poi giacquero, momentaneamente appagati, le loro giovani membra ancora strettamente intrecciate, godendo di quella gradevole sensazione che segue alla gioia e allo stupore, sempre nuovo eppure antico, del dopo-orgasmo. Senza rendersene veramente conto, scivolarono in un buon sonno, i loro volti sereni come il cielo di quella Pasqua che presto avrebbero celebrato.
Il primo sole accarezzò i loro corpi e si svegliarono. Aprirono gli occhi quasi contemporaneamente e si scambiarono un dolce sorriso.
"Devo salire su, da Scagghiazza. Ma se vuoi, stasera ci si vede di nuovo." gli disse Adduzzu, carezzandogli lieve il viso.
"Se voglio? Certo, certo che voglio. Che dici, ci si vede qui di nuovo, o dove?" gli rispose Attareddu con un luminoso sorriso.
"Sì, qui va bene. Prima però, quando Scagghiazza chiude, vorrei passare un attimo a casa per vedere Cappiddazzu. È pure troppo che non lo vedo e penserà che sono scappato via."
"Con me?" gli chiese l'amico con un sorriso birichino.
"Eh, sì, ché lo sa bene che in questi giorni ci si vedeva, tu e io."
"Così stasera ci puoi raccontare di noi, no?"
"E certo. A lui dico tutto, come ti spiegai. Lui mi capisce e mi sa consigliare. Ché, ti dispiace?"
"No che non mi dispiace. Se con lui puoi parlare chiaro, meglio così. Magari potessi avere anche io uno da dirgli chiaro e papale tutte le mie cose... Anche queste che ci sono fra te e me."
"Perché, non puoi parlare con tuo fratello Arturo, visto che, come mi dicesti, lui pure è come noi?"
"A Arturo ci interessa solo fare, ma lui mica capisce che c'è pure altro fra due carusi o due uomini, come spero che c'è fra te e me."
Quando Adduzzu andò a lavorare, chiese a Scagghiazza se poteva comprare tre agnellini di pasta reale per fare regali di Pasqua. Scagghiazza gli dette un buffetto e gli disse che, se erano solo tre, poteva prenderli senza pagarli. Adduzzu lo ringraziò, ne prese due piccoli e uno grande e li incartò accuratamente.
Quando tornò a casa, prima di mettersi a tavola con gli altri e mangiare, prese l'agnello grande, lo scartò e lo pose sul pagliericcio per Cappiddazzu. Poi prese i due piccoli, li staccò dalla base verde, tolse le bandiere rosse, e li riposizionò tutti e due su una sola base, uno al contrario dell'altro, in modo che pareva che si baciassero. Poi incartò di nuovo la coppia che aveva così formato e la ripose.
A tavola chiacchierò del più e del meno con Cappiddazzu e con gli altri servi, poi chiese all'uomo se potevano andare un momento in camera sua. Qui, gli disse che l'agnellino pasquale era il suo regalo, poi, sedutisi sul letto, gli raccontò come aveva passato quei giorni, con Attareddu.
"Quel caruso ti piace assai, dunque, vero?" gli chiese l'uomo con un sorriso gentile.
"Sì che mi piace. Però... c'è una cosa che io non capisco, e poi c'è anche un problema."
"Cominciamo dalla cosa che non capisci."
"Io ci sto proprio bene con Attareddu, e lui pure con me e lui vorrebbe che noi due si stesse assieme e perciò non fare più niente con gli altri, ma farlo solo fra noi due."
"Sì, vedo. E cos'è che non capisci?"
"Lui dice che crede proprio che è innamorato di me, ma io non sono sicuro che sento così per lui. Come fa uno a capire se è innamorato o no?"
"Uno, è che quando ci stai assieme vorresti non dover mai andare via, e quando stai lontano non fai che pensare a lui e vorresti andarlo a cercare subito, se ti fosse possibile."
"Sì, è così... però è così pure con te, che mi manchi, quando non ci sei."
"Beh, anche se in un altro modo, pure io e tu ci si vuole bene. Ma se sei lontano da me e da lui e devi scegliere chi vedere per primo, non scegli lui?"
"Sì... Ma non è perché con lui ci posso anche fare?"
"Questo è possibile. Poi c'è un'altro punto, riguardo proprio a fare quelle cose: chi è innamorato ci interessa di più di fare contento l'altro che di levarsi la voglia lui."
"Un po' è così, però se faccio contento lui, anche io ci godo... voglio dire che è così perché so che a lui ci interessa pure di fare contento a me... e così siamo pari. Io do a lui e lui dà a me."
"Era così anche con gli altri?"
"Coi pastori, lassù in montagna, no, proprio per niente. Però con Settisoldi era un po' così..."
"Eh, magari anche a Settisoldi ci volevi un po' bene, no? Ti è dispiaciuto quando è dovuto andare a Palermo per servire il figlio del barone e la sua sposa, non è così?"
"Sì, appunto. E mica solo perché non potevo più fare con lui."
"Ma se tu avessi a scegliere fra Settisoldi e Attareddu chi sceglieresti?"
"Attareddu! Attareddu, questo è certo." rispose senza esitare il ragazzo.
"E perché?"
"Con Attareddu non è solo bello fare, ma pure starci vicino, parlare, o anche solo senza dire niente, solo a guardarlo. Ma questo è vero anche con te, Cappiddazzu."
"Molto bene; però con Attareddu ci stai bene sia come con Settisoldi sia come con me: quel caruso ti dà qualcosa che ti dava Settisoldi e qualcosa altro che ti do io, lui da solo vale quanto noi due messi insieme, perciò."
"Beh... beh, sì, forse è vero."
"Secondo me, perciò, tu sei innamorato di lui. Però essere innamorati è solo l'inizio, l'importante è che l'innamoramento diventa amore. Se c'è un profondo e disinteressato affetto, accompagnato da desiderio sessuale, allora c'è amore. Disinteressato vuol dire che ti preoccupi solo di quello che gli puoi dare e non di quello che puoi ricevere."
"Sì, ho capito... e allora vuole dire che io mi sto innamorando di Attareddu."
"Eh, penso proprio di sì. E, di questo, tu... ne sei contento o ti preoccupa?"
"Certo che ne sono contento, Cappiddazzu. Ma se io amo lui, questo vuole dire che amo un po' meno te?"
"No, al contrario; l'amore non si divide a fette come un tumazzo, ma si moltiplica: più ami e più amore puoi dare agli altri, anche se l'amore per la persona con cui vuoi vivere è più forte e viene prima degli altri. Vedi, è un po' come quando hai un nuovo figlio: non per questo ami di meno quelli che hai avuto prima, anzi, se mai li ami di più, proprio perché l'amore si moltiplica e non si divide, come ti dissi."
"Sì, ora mi è chiaro. È bello assai, così, non è vero, Cappiddazzu? Però... ora tengo anche un problema."
"Sì, me lo dicesti: di che si tratta?"
"In questi giorni un po' speciali abbiamo potuto vederci a nostro piacere giù nella vallata dei templi in rovina, ma ora diventerà più difficile. Se Attareddu e io siamo innamorati, ci si vorrebbe vedere sempre, non solo ogni tanto. Però io non posso andare a casa sua, e lui non può venire qui nella casa del barone, e poi mica si può passare tutte le notti fuori: lo so che per te andrebbe anche bene, ma suo padre lo troverebbe strano assai."
"Certo, e poi mica sempre avrete bel tempo: ci saranno pure giorni di pioggia e mesi freddi."
"Se uno di noi due fosse una femmina, ci si sposa e tutto sarebbe risolto. Ma siamo due maschi e mica ci possiamo sposare. E anche vivere assieme, mettere su casa assieme, mica sarebbe così facile. La gente capirebbe quello che c'è fra noi e suo padre non accetterebbe mai una cosa così, mi disse Attareddu."
"Sì, è proprio come dici. La gente accetta male che due maschi fanno le cose, al massimo pensa che finché sono carusi, si divertono, si sfogano. Però accetta anche di meno che sono innamorati. Purtroppo non siamo più al tempo degli dei, quando queste cose erano accettate da tutti."
"E allora, Cappiddazzu, come possiamo fare, Attareddu e io? Secondo me ci sono due problemi: uno è come vederci nei prossimi giorni, e un altro è come fare a vivere insieme senza problemi."
"Beh... per vivere assieme, tenete ancora tempo: prima dovete essere sicuri che vi amate davvero. Quanto a vedervi senza che nessuno sospetti... questo è un grosso problema. Se questa fosse casa mia, potreste vedervi qui, ma non posso, non qui; gli altri servi troverebbero strano se Attareddu venisse qui e vi lasciassi soli in questa stanza... e il barone potrebbe venirlo a sapere e ci caccerebbe via a tutti e due, te e me."
"Sì, lo so. Eppure si deve trovare una soluzione. Non è giusto che due come noi, che ci stiamo cominciando a volerci bene e che perciò vogliamo stare assieme, non possiamo. Fatti venire una buona idea, Cappiddazzu, per favore."
L'uomo sorrise e scompigliò i capelli al ragazzo: "Ci penserò su, e chissà... Se mi viene una buona idea, te ne parlerò. Sono contento, comunque, che hai trovato a quel caruso e che vi piacete."
"Grazie, Cappiddazzu. Adesso però devo andare, Attareddu mi sta già aspettando di sicuro." disse il ragazzo. "E domani abbiamo deciso che staremo assieme tutto il giorno."
"E come fate per mangiare? Il pranzo di Pasqua è il migliore di tutto l'anno. Sai che Venera sta preparando i panaredda cu l'ova e u taganu? E forse, se non se lo mangiano tutto il barone e la famiglia, potremo anche assaggiare un pezzetto di agnello al forno?"
"Preferisco solo pane e tumazzo, ma a mangiarlo con Attareddu."
"E che ne dici se ci chiedo a Venera di mettermi in un cestello tre porzioni e una fiaschetta di vino e vengo giù nella vallata, per pranzo, e mangiamo tutti e tre assieme?" propose l'uomo.
"Sì! Sarebbe bello assai. Anche perché io ci dissi a Attareddu che volevo che voi due vi conoscete. Sì, facciamo così. Ci trovi, verso l'ora di pranzo, al tempio dei gemelli, di Castore e Polluce, che ne dici?"
"Ottimo. Vai, adesso, o Attareddu penserà che ti sei scordato di lui."
Adduzzu gli sorrise e corse via lesto e lieve come una gazzella, mentre Cappiddazzu scuoteva la testa pensando, con buon umore e piacere, che il suo Adduzzu era davvero innamorato, ed era contento per lui. Certamente, doveva trovare un modo perché i due ragazzi potessero incontrarsi senza problemi e, possibilmente, anche vivere assieme.
Gli venne in mente, allora, Vito Catalanu, il suo vecchio amico che abitava a Racalmuto. Trent'anni erano passati da quando, da ragazzi, avevano avuto quella breve storia, ma sapeva che, mentre lui s'era poi sentito attratto dalle ragazze, Vito era rimasto fedele alla sua attrazione verso i ragazzi. L'ultima volta che l'aveva visto, circa cinque anni prima, Vito gli aveva confidato che da otto anni viveva felicemente con un giovanotto e che insieme producevano olio che vendevano anche in continente.
Forse Vito avrebbe potuto dargli un'idea, e magari offrire un lavoro ai due ragazzi e farli vivere da lui, assieme, nella stessa stanza. Doveva giusto andare a Catalafimi per fare commissioni per il barone, avrebbe dovuto fare solo una breve deviazione per andare a Racalmuto. Sperava proprio che l'antico amico gli avrebbe dato una mano per aiutare i due ragazzi.