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una storia originale di Andrej Koymasky


AL TEMPO DEGLI DEI CAPITOLO 7
UNA SISTEMAZIONE, E UN PROBLEMA

Sulla via del ritorno verso Girgenti, Cappiddazzu deviò per Racalmuto e qui giunto, presa la via per Grotte, si fermò alla casa di Catalanu. Quando chiamò ad alta voce l'amico, comparve sulla porta di casa una donna di mezza età che lo squadrò da capo a piedi.

"Vito non è in casa, è giù per gli oliveti. Che volete?" chiese la donna studiandolo con aria diffidente.

"Ci devo parlare."

"Che siete, un debitore o un creditore, voi?"

"Né l'uno né l'altro, sono un vecchio amico e passavo di qua."

"Un vecchio amico, dite? E come vi chiamate? Di dove siete?" insisté la donna scrutandolo con sospetto.

"Errigo Miccichè di Girgenti... ma mi chiamano Cappiddazzu. E voi, chi siete?" rispose l'uomo con un lieve sorriso, chiedendosi da dove spuntasse quella donna.

"Maria Luisa Arnone, la sorella di Cicciu Arnone."

Cappiddazzu ne sapeva quanto prima. "Se mi dite da che parte lo posso trovare... O se mi conviene invece aspettarlo qui..."

"Ih, da che parte! Gli oliveti sono vasti assai, che ne so io dove andò! Se tenete un po' di tempo, aspettatelo qui!" disse la donna e chiuse la porta senza salutare e lasciandolo fuori.

Non era certo ospitale, quella donna. Cappiddazzu andò a mettere il sacco con la biada all'asino, tirò il freno del carretto e sedette a cassetta, chiedendosi quanto tempo avrebbe dovuto aspettare. Dopo un'oretta, vide arrivare dalla strada di terra battuta un giovane uomo, assai avvenente, che, data un'occhiata a Cappiddazzu, si diresse verso la porta della casa e chiamò: "Marilisa! Marilisa!"

La donna comparve sulla porta e i due parlarono sottovoce, guardando di tanto in tanto verso Cappiddazzu. Poi l'uomo, che era sui trentacinque anni, alto e forte, con un gran casco di capelli a grandi riccioli castano scuro quasi neri e con un volto bello e perfetto, da statua greca, s'avvicinò al carretto: "Mi disse mia sorella che cercate a Catalanu... Per cosa lo cercate?"

"Sono un suo vecchio amico, mi chiamo Errigo Miccichè..." disse, poi aggiunse, "... ma tutti mi chiamano Cappiddazzu."

"Ah, sì, Vito mi parlò assai di voi. Io sono Cicciu Arnone, Cicciu lu beddu, mi chiamano. Vito è giù nell'oliveto di Santa Marta... Sapete dov'è?"

"No, potete portarmici voi, o è meglio che lo aspetto qui?"

"Se aspettate solo un momentino, vi ci accompagno io, ché Vito non torna su fino all'ora di pranzo." disse il giovanotto ed entrò in casa.

Ne uscì dopo poco con un sacco di iuta a spalla, pieno.

"Lasciate il carretto qui, che nessuno ve lo tocca. Venite." gli disse avviandosi giù per la strada bianca.

Cappiddazu saltò giù dal carretto e gli si affiancò. Il giovanotto aveva un'andatura elastica, svelta, e tutto il suo corpo trasudava forza e virilità. Camminarono per un po' in silenzio, poi Cicciu disse: "Vito mi disse che vi conoscete da quando eravate carusi..."

"Sì, è così. Lui aveva diciassette anni e io tredici. Allora abitava giù a Fàvara, come me. S'andava giù alla sorgente assieme, lui e io, a divertirci."

"Sì, me lo disse," annuì Cicciu con un sorrisetto, "a divertirvi e a... fare. Però poi voi vi sposaste, non è così?"

"Sì. Ma voi... siete per caso..."

"Sì, sto con Vito da tredici anni, ormai. Avevo ventiquattro anni, quando ci conoscemmo. Io cercavo un lavoro e... e oltre a un buon lavoro trovai una casa e un compagno. E dieci anni fa, quando mia sorella restò vedova, Vito prese in casa lei pure. Dovete scusarla, se non vi ha fatto entrare, ma una donna sola, che non vi conosce..."

"Sì, sì, capisco. Anche Vito mi parlò di voi, quando ci vedemmo l'ultima volta, circa cinque anni or sono. Mi disse che sta molto bene con voi, e che da quando vi conobbe, mise la testa a posto."

Cicciu sorrise: "I patti furono chiari: o solo me, o gli altri."

"Ma... vostra sorella... sa?"

"Certo che sa di noi due. Ma ci conviene di stare zitta e non fare storie, visto che noi ci diamo un tetto, da vestire e da mangiare, e che non ci manca niente, con noi. Quando ci ammazzarono il marito, e grazie a dio che non tenevano figli, lei si trovò in mezzo a una strada, ché quel bellimbusto la lasciò piena di debiti che lui s'era fatto al gioco, e li pagammo tutti Vito e io, perché lasciassero in pace a Marilisa. Mi disse Vito che voi lavorate giù a Girgenti a casa del barone, non è così?"

"Sì, è così, stavo appunto tornando da Caltanissetta dove il barone tiene certi interessi e io ci vado di tanto in tanto a fargli commissioni."

"Ma voi, dopo che vi morì vostra moglie, non vi siete fatto un'altra compagnia?"

"No, non m'interessa avere compagnia né avventurette, sto bene da solo."

"Né Vito né io si riuscirebbe mai a stare da soli. Non in quel senso, per lo meno." disse ridacchiando il giovanotto.

"Ma voi... prima di conoscere a Vito..."

"Dovetti andare via di fretta da Porto Empedocle... perché ero un po' troppo vivace... se capite quel che voglio dire." ridacchiò il giovanotto. "Fu un grosso scandalo, quando mi trovarono che facevo coi due figli del medico condotto, con tutti e due assieme... a loro due li mandarono nel collegio militare. Io scappai su all'interno cercando lavoro, cercando di andare abbastanza lontano da là... Per un paio di mesi non trovai niente, ma poi ebbi la fortuna di chiedere a Vito. Lui, all'inizio, mi dette lavoro al frantoio."

"E com'è che vi metteste assieme?"

"Lui mi guardava in un certo modo e mi faceva la ronda, e era un bell'uomo, mi piaceva assai, così un giorno mi decisi e ce lo dissi che lui mi piaceva assai e così... facemmo. E poi, visto che si stava bene assieme, ci si era affezionati assai, Vito mi chiese di andare a vivere con lui. Però io sapevo che lui si faceva anche diversi dei carusi e picciotti che lavoravano per lui, così ci dissi che o solo me o niente, se voleva che ci si metteva insieme. Lui accettò subito, e smise per davvero di correre dietro alle braghe degli altri."

"Sì, mi disse che sta bene assai con voi. Mi disse che aveva trovato finalmente quello che aveva cercato per tutta la vita e che con voi è felice."

"E felice sono io con lui."

Arrivarono nell'oliveto dove Vito stava dirigendo i lavori di sistemazione di un appezzamento che avevano comprato da poco, per piantare nuovi olivi. Quando vide Cappiddazzu, dapprima lo guardò corrugando la fronte e schermandosi il sole con la mano. Poi lo riconobbe e gli andò incontro con un ampio sorriso.

"Munti ccu munti non si iunci mai, ma i cristiani si iunciunu sempri [= Un monte non incontra mai un altro monte, ma gli uomini s'incontrano sempre]!" esclamò allegramente, abbracciandolo. "Questa sì che è una bella sorpresa. Vedo che tu e Cicciu mio vi siete già conosciuti! Che ti portò da queste parti, amico mio?"

"Venni perché t'ho da parlare. Ma come stai, eh? Ti vedo bene!"

"Eh, si vede che dio ti conservò la vista!" scherzò l'uomo. "Ma sì, sto in salute, gli affari vanno bene, e con Cicciu mio che mi sorveglia giorno e notte, non posso proprio lamentarmi. E tu? Sempre a Girgenti, dal barone?"

Si misero a chiacchierare, e quando Vito sentì che il suo ragazzo e il suo amico si davano del voi, dise loro che dovevano darsi del tu. Poi mandò Cicciu ad avvertire la sorella che avrebbero avuto un ospite per pranzo. Quando il giovanotto si fu allontanato, Cappiddazzu disse:

"M'avevi detto che era bello, e tenevi proprio ragione. E mi pare anche un picciotto in gamba."

"Altro che! Non per niente sono tredici anni che stiamo insieme. È fantastico sia come socio d'affari sia come amante, credimi. Fu davvero un terno al lotto averlo conosciuto. E dire che all'inizio per me era solo un altro picciotto da cercare di portarmi a letto."

"È geloso?"

"No, perché sa che da quando mi sono messo con lui non guardo più a nessuno... non in quel modo. E anche lui, non gli interessa a nessun altro, da quando sta con me."

"Non avete problemi, su in paese, a stare assieme? La gente non capisce... non mormora?"

"E chi sa? Pare di no, però mi stupirebbe. Ma noi ci facciamo gli affari nostri e la gente si fa gli affari suoi. Ufficialmente è solo il mio socio d'affari, abita da me, con sua sorella... che ci fa un po' da paravento."

"E la sorella?"

"L'ha digerito. Tutto sommato le conviene, non si sputa nel piatto che ti dà da mangiare, no? Anche se è vedova, tiene un po' l'anima di una vecchia zitella, ma non dice niente né a me né a Cicciu mio. Ma tu, Cappiddazzu, mi dicesti che avevi da parlarmi. Di che si tratta?"

"Tempo fa trovai un caruso e lo presi con me, come un figlio... no, non fare quel sorrisetto, Catalanu, Adduzzu è veramente come un figlio per me. Lo sai che dopo che facemmo, tu e io da carusi, io non fui più interessato a fare con altri, no? Bene, il problema è che Adduzzu s'innamorò d'un altro caruso che si chiama Attareddu, però questo Attareddu vive in famiglia, e Adduzzu con me dal barone... e perciò non solo hanno problemi per vedersi, ma vorrebbero pure vivere assieme, però a Girgenti non è possibile."

"Eh, poveri caruseddi, purtroppo è così. Se uno si vuole solo divertire, non ci sono troppi problemi, ma se invece vogliono fare sul serio..."

"Già, è così. Allora pensavo... se tu potessi dargli un lavoro e magari trovargli un posto dove possono stare tutti e due, senza problemi..."

"Sono carusi a modo? Lavoratori? Seri? Che età hanno?"

"Sì, Catalanu, garantisco io. Il mio Adduzzu tiene diciannove anni e il suo Attareddu ne tiene diciotto. Che mi dici, pensi che è possibile?"

"Ne devo parlare con Cicciu, ma credo di sì. Ci farebbe giusto comodo avere un paio di garzoni in più per la lavorazione dell'olio. E potrei farli stare sopra al frantoio, dove viveva il vecchio guardiano: lì una stanzetta gliela potrei liberare, che non è che ci servono tutte."

Cicciu si disse subito d'accordo, così, dopo pranzo, tutti e tre andarono su al frantoio a vedere il posto. Cicciu suggerì di dare ai due ragazzi quella che era stata la cucina: "Qui gli ci mettiamo un pagliericio e un tavolo, un paio di sgabelli, e c'è pure il fornello a carbonella, se si vogliono fare da mangiare qualcosa da soli, e pure l'acquaio... E per l'inverno ci possiamo dare un bracere di rame, che sotto non fa freddo, ma qui sì... Che ne dici, Cappiddazzu?"

"Mi pare ottimo, e vi ringrazio davvero assai. Certo, gli dovrete insegnare tutto ai due ragazzi, non hanno mai fatto questo mestiere. Ma sono sicuro che non avrete da lamentarvi di loro, che sarà un buon acquisto dargli lavoro... e aiutarli a stare assieme senza troppi problemi."

"Non ti preoccupare Cappiddazzu, li terremo come due figli: bastone quando se lo meritano e attenzioni quando ne sono degni. Ma se tu garantisci per loro, credo che non ci sarà mai bisogno di bastone. E d'altronde, se non ci si aiuta fra noi..." gli disse Vito.


Tornato a Girgenti, l'uomo comunicò subito ad Adduzzu e Attareddu la soluzione che aveva trovato. I due ne furono entusiasti e promisero all'uomo che avrebbero lavorato bene e sodo, anche per non farlo sfigurare coi suoi amici. Così, la domenica seguente, Cappiddazzu prese il carretto e portò i due ragazzi su a Racalmuto e si fermò con loro a pranzo a casa di Vito e Cicciu.

Poi andarono tutti al frantoio, dove Cicciu aveva già sistemato la vecchia cucina su al primo piano per i due ragazzi. Nonostante la stanza fosse povera e spoglia, i due furono felici di avere un posto tutto e solo per loro. Le altre stanze del primo piano erano usate come magazzini per le damigiane, i fiscoli, e tutto quanto poteva servire per la spremitura delle olive e per il deposito dell'olio di prima spremitura, di seconda scelta e dell'olio lampante per le lampade.

I due ragazzi iniziarono così a lavorare per Vito e Cicciu, sia nei campi per la coltivazione degli olivi, per la raccolta delle olive e per qualsiasi altra cosa fosse necessaria. Di solito i due mangiavano nella loro stanza, ma ogni domenica o giorno di festa, la sorella di Cicciu lu beddu preparava anche qualcosa di speciale per i due ragazzi e, l'uno o l'altro, andava a prendere il cestello di buon cibo preparato per loro.

Giunta poi la fine del mese di ottobre, iniziarono ad arrivare al frantoio i vari lavoranti e anche i due ragazzi furono mandati a lavorare al frantoio. Quando arrivavano i carretti con i sacchi delle olive, queste venivano liberate dalle impurità, dalle foglie e dai rametti, poi lavate in grandi vasche piene d'acqua fredda. Le olive venivano poi disposte nei frangitori a molazze, cioè le macchine con due macine di pietra che sfruttavano la rotazione di un asse verticale per muoversi: un asino legato alla stanga, bendato per non fargli venire il capogiro, faceva girare le pesanti mole di granito. Si otteneva così una pasta verdastra, omogenea.

La pasta veniva poi messa in apposite vasche e rimescolata continuamente, in modo da consentire il distacco delle particelle di olio, in essa contenute, dal resto dell'impasto. Completata questa fase, cioè la gramolatura, la pasta era pronta per l'estrazione dell'olio. Si doveva allora pressare la pasta di olive, disponendola su dischetti di fibra vegetale intrecciata chiamati fiscoli che erano posti nell'asse verticale della pressa per subire così la pressione e ottenere l'olio-mosto.

La pasta veniva stratificata per lo spessore di circa un dito su ognuno dei fiscoli, diaframmi filtranti a forma di corona circolare. La sequenza di fiscoli alternati a strati di pasta veniva intervallata da dischi metallici, anch'essi a forma di corona circolare, che servivano da supporto e da rinforzo: cinque fiscoli venivano alternati a quattro strati di pasta, con due dischi metallici, uno sopra e uno sotto, a delimitare la successione. La torre così ottenuta era poi incastellata sulla foratina, cioè sull'asse centrale di supporto della pressa così chiamato perchè era forellato e cavo internamente in modo di permettere il deflusso dell'olio-mosto anche lungo l'asse centrale.

Un pistone spingeva la torre contro l'architrave della pressa. Durante la pressatura il mosto oleoso fuoriusciva dai diaframmi filtranti fluendo o verso l'esterno della torre lungo la cui superficie colava verso il basso o verso il centro colando giù attraverso la foratina. All'inizio il mosto oleoso era composto quasi del tutto da olio (olio fiore), poi aumentava gradualmente la percentuale di acqua.

Ogni pressatura durava circa un'ora: nella prima mezz'ora la pressione era aumentata gradualmente dopo di che si fermava a un valore costante. Dopo che dalla pasta era uscito il liquido, detto olio-mosto, ciò che restava sui fiscoli costituiva la sansa di olive, formata dai residui del nòcciolo e della polpa delle olive. L'olio-mosto, man mano che veniva estratto, si faceva riposare per separare l'acqua vegetale dall'olio che, più leggero, saliva a galla.

L'olio ottenuto con questo sistema a freddo, si faceva poi decantare finché tutte le particele contenute in sospensione si fossero depositate sul fondo e l'olio risultasse limpido, appunto decantato. Si faceva decantare l'olio per tre-quattro mesi. L'olio teme la luce e il calore, andava per ciò conservato nelle damigiane, in luogo fresco e buio. Si faceva quindi l'ultimo travaso in damigiane di spesso vetro verde scuro ben lavate, e l'olio era pronto per essere venduto.

Adduzzu e Attareddu impararono bene tutte le fasi della lavorazione, e non si risparmiavano certo la fatica. A sera, mentre gli altri lavoranti stendevano i loro giacigli provvisori giù nel seminterrato in cui era il frantoio, i due ragazzi salivano nella loro stanzetta per riposare, fare l'amore, dormire.

Gli altri lavoranti erano per lo più stagionali che provenivano dai paesi circostanti. Alcuni già da diversi anni tornavano al frantoio di Vito Catalano. I più vecchi avevano sui cinquanta anni, e i meno vecchi erano sui venticinque anni, perciò Attareddu e Adduzzu erano i più giovani.

Questi uomini, che spesso stavano lontani da casa per qualche mese, quando faceva troppo buio per continuare a lavorare, si radunavano davanti al frantoio, se il tempo era buono, o nel frantoio stesso, e passavano la serata chiacchierando, facendo un po' di musica e cantando, scambiandosi battute, spesso pesanti e allusive, o ascoltando i racconti dei più vecchi.


Una delle prime sere, Cicoria, un uomo di trentaquattro anni, chiese ai due ragazzi: "Ma voi due che siete, fratelli?"

"No, siamo amici." rispose Adduzzu.

"E com'è che avete una stanza qua sopra?" chiese un altro uomo.

"Catalanu ce la diede, ché noi si lavora per lui tutto l'anno."

"Amici..." commentò Cicoria guardandoli con un sorrisetto ironico. "Sì, vidi che lassù avete un pagliericcio solo... Siete culo e camicia, o piuttosto culo e minchia, ci scommetto!"

"Eh, carusi, sono. Se anche fosse, chi di noi..." disse uno degli altri, ridacchiando bonariamente.

"Tanto carusi mica sono più, ormai, no? Mi sa che invece..." disse un altro uomo guarando i due ragazzi con occhi maliziosi.

Calogero, uno dei più vecchi, intervenne cercando di cambiare discorso: "La prima volta che venni a lavorare per Catalanu, io tenevo venti anni giusti. Era ancora vivo Ignazio, il padre di Catalanu, ché Vito tiene solo un anno più di me."

"Tu, Calogero, lo conosci bene a Vito Catalanu, allora." chiese un altro.

"Sì, certo. Più o meno come conosco voi. Ci si vede per lavoro, non c'è altro." rispose l'uomo.

"E, dimmi, Calogero... è vero che a Vito... che a lui non ci interessano le femmine?" chiese Cicoria.

"Non ne so e non ne ho da sapere. Quello che gli interessa sono affari suoi. Quello che interessa a me, è che mi paga per il lavoro che faccio." rispose secco l'uomo.

"Ma a me mi sa che è per questo che Catalanu ci dette la stanza qui di sopra a questi due carusi... magari ogni tanto ci va a fare una visitina, no?"

"Non lo vidi mai salire su, io, a Catalanu." osservò un altro degli uomini.

Ai due ragazzi quei discorsi e quei sorrisetti non piacevano affatto, anzi, davano fastidio, perciò a un certo punto salutarono e salirono nella loro stanza.

Cicoria li salutò dicendo: "Mettetevi subito a dormire da bravi caruseddi, non stancatevi troppo a fare certe cose proibite, ché domani c'è parecchio lavoro da fare." e diversi uomini scoppiarono a ridere, mentre Attareddu arrossiva lievemente e i due ragazzi salivano al primo piano.

Nei giorni seguenti le battute di Cicoria e di qualcuno degli altri uomini si fecero via via più pesanti ed esplicite, sì che i due ragazzi si sentivano sempre più a disagio. Pensarono di parlarne a Catalanu, ma non si risolvevano a farlo.

Era frattanto giunto il giorno di Santo Stefano, Adduzzu stava nella loro stanza spazzandola e riordinandola, mentre Attareddu era andato a casa di Vito e Cicciu, per prendere del cibo che Maria Luisa, la sorella di Cicciu lu beddu aveva preparato per loro per ordine di quest'ultimo.

Adduzzu sentì la porta della cucina aprirsi e, pensando che fosse Attareddu già di ritorno, si girò a guardare con un ampio sorriso, che subito si raffreddò quando vide che invece era Cicoria accompagnato da altri due lavoranti, Nicolò e Turi.

"Che è, non sorridi più, a noi? Pensavi che era il tuo amichetto, eh?" chiese Turi avanzando verso di lui.

"Che volete?" chiese il ragazzo, inquieto per il sorrisetto che aleggiava beffardo sul volto dei tre uomini.

"Che vogliamo, chiede?" disse Cicoria, "Il tuo culetto, vogliamo, caruso, che è già troppo tempo che non fottiamo, vero, amici?"

"Lasciatemi in pace, non sono un femminiello, io." rispose seccamente Adduzzo.

"Ah, è Attareddu che fa la femmina fra voi due?" chiese Nicolò con un ghignetto divertito, cercando di togliere la ramazza dalle mani del ragazzo. "Ma per noi non fa differenza, quando la minchia reclama... ogni buco è buono."

Il ragazzo, senza ribattere, rosso in volto per l'ira, cercò di allontanare l'uomo, ma i tre gli furono addosso. Lottarono per un poco in silenzio, ma presto i tre uomini ebbero il sopravvento e riuscirono a immobilizzare il ragazzo, portandolo verso il pagliericcio.

"Lasciatemi! Lasciatemi, io non le voglio fare, certe cose!" urlò Adduzzu cercando ancora di divincolarsi e di liberarsi dalla presa dei tre uomini.

"E come no? Proprio ieri sera sono venuto su... e vi ho sentito, da dietro la porta, che stavate fottendo." disse ironico Turi. "Dai, dai, così... dicevi, proprio tu..."

Lottarono ancora, ma ormai Adduzzu era steso sul pagliericcio, i tre uomini su di lui, che stavano cercando di calargli i causi, mentre Cicoria gli premeva una forte mano sulla bocca per non farlo gridare.

Attareddu, di ritorno dalla casa di Catalanuu, stava salendo la scala di pietra ignaro di quanto stava accadendo, portando il cesto con il cibo e allegro per il buon pranzo che presto avrebbe fatto con il suo amante. Sospinse la porta e si bloccò come fulminato.

Appena capì che cosa i tre uomini stavano cercando di fare al suo amato, il sangue gli salì alla testa, una furia cieca lo assalì, posò il cesto, prese un coltello che era sul tavolo e si avventò su quel groviglio di corpi gridando e colpendo alla cieca.

"Lasciatelo! Lasciatelo! Vi ammazzo a tutti!" urlò.

Turi si prese una coltellata alla schiena, non profonda ma dolorosa, Nicolò ne ricevette una su un braccio, e infine Cicoria si prese il terzo colpo di coltello su un fianco. L'uomo si girò spalancando gli occhi, il coltello ancora infisso sul suo fianco, urlò e si accasciò a terra.

Gli altri due scapparono gridando, "All'assassino, all'assassino... chiamate i carabinieri!"

Adduzzu si alzò dal pagliericcio, pallido come cera, risistemandosi le braghe e, con un filo di voce, chiese, indicando il corpo esanime di Cicoria: "L'hai ammazzato?"

"Non lo so, ma spero proprio di sì!" rispose Attareddu tremando violentemente per tutto il corpo, ma in tono fiero.

"Dio santo... spero di no. Io non voglio che ti mettono in galera... Dobbiamo scappare, prima che arrivano i carabinieri"

"Sono loro che hanno ti assalito a te, io ti ho solo difeso." rispose con strana calma il ragazzo, quietandosi quasi di colpo.

"E vagliela a spiegare, tu. Dio santo... dio santo... sei tutto sporco di sangue... Dobbiamo scappare, subito, non lo capisci?"

"E dove?"

"Lontano, che importa dove. Lontano da qui. Prima che è troppo tardi." disse Adduzzu agitatissimo.

In quella si sentirono voci e passi su per le scale.

"Troppo tardi..." mormorò Adduzzu, "Siamo fregati." e si girò, pallido, verso la porta.

Entrò Cicciu con Vito ed altri uomini. Vito ordinò a uno degli uomini di andare a cercare il dottore. Poi ordinò agli altri di uscire, di aspettare da basso. Quindi, mentre Cicciu si chinava su Cicoria, si fece raccontare dai due ragazzi che cosa fosse accaduto.

"Dobbiamo aiutarli..." disse Cicciu alzandosi in piedi.

"Sì, certo, ma se arrivano i carabinieri, poi si può fare ben poco. Devono fuggire, o da vittime rischiano di diventare colpevoli, per la legge." controbatté con amarezza Vito.

"Ma fuggire, come? Qui di sotto è pieno di uomini." obiettò Cicciu.

Vito rifletté un attimo, poi disse: "Dalla finestra, sul retro non c'è nessuno, mi pare. Uno di noi scende dicendo agli uomini di aspettare i carabinieri. Ve la sentite, ragazzi?"

"Sì, certo." rispose Adduzzu dopo che Attareddu gli ebbe fatto un cenno di assenso.

Vito prese dal portafogli tutto il denaro che aveva, chiese a Cicciu di dargli quello che aveva lui con sé, e lo porse ai ragazzi: "Vi può fare comodo. Svelti. Tu Cicciu, scendi. Tra un po' scenderò anche io."

"Ma che vi fanno se capiscono che ci avete lasciato scappare?" chiese allora Attareddu.

"Tra poco scendo e dirò che vi ho legati... e dopo, quando si scoprirà che non ci siete più, dirò che forse non vi avevo legati abbastanza bene e che perciò siete riusciti a liberarvi. Non preoccupatevi per me. Anzi, noi adesso scendiamo tutti e due da basso portando giù Cicoria... Così quando arriva il medico non sale qui."

"Ma è morto?" chiese preoccupato Adduzzu.

"No, respira ancora, non vedi?" gli disse Cicciu, poi aggiunse: "E il coltello non è entrato a fondo, mi pare."

"Catalanu, Arnone, ho un piacere da chiedervi, prima che andiamo..." disse Adduzzu, ancora terribilmente scosso.

"Dimmi, e se possiamo..." rispose Cicciu.

"Avvertite voi a Cappiddazzu... e ditegli che se pure non ci si potrà più vedere, resta per sempre più che un padre per me, e che lo abbraccio."

"Certamente, andrò di persona a Girgenti e gli spiegherò tutto io, non ti preoccupare. E gli dirò quanto gli vuoi bene." gli disse Vito. "Ma ora andate, svelti. Non avete tempo da perdere."

I due ragazzi aperta la finestra e assicuratisi che nessuno li potesse vedere, si calarono giù e scomparvero su verso la montagna, correndo fra i cespugli e gli alberi. Allora Vito e Cicciu sollevarono dal pavimento il corpo esanime di Cicoria, e il coltello si sfilò dalla ferita e cadde a terra. I due uomini, portandolo di peso, scesero le scale.

Appena fuori, gli uomini gli si affollarono attorno.

"È morto?"

"E i ragazzi?"

"Ma che è successo, lassù?"

Vito, deposto sull'erba il corpo di Cicoria, fece un gesto chiedendo silenzio: "I ragazzi li ho legati e sono su nella cucina. Lui non è morto, la ferita non è profonda, è solo svenuto per la fifa, credo. Chi andò a chiamare il medico?"

"Nunzio ci andò." rispose uno degli uomini.

"Qualcuno andò a chiamare i carabinieri?"

"No, nessuno. Aspettavamo di sentire cosa avete deciso voi, padrone." rispose un altro degli uomini.

"Turi e Nicolò, dove sono?" chiese Cicciu.

"Di sotto, nel frantoio, che si leccano le ferite. Li sta a aiutare Salvatore."

"Posso parlare, Catalanu?" chiese uno dei lavoranti anziani.

"Certo, Calogero parla."

"Secondo me, non si devono chiamare i carabinieri."

"Ah no? E perché?"

"Quei tre... erano saliti su per fottere in culo quei ragazzi... al loro posto anche io mi sarei difeso col coltello."

"E che ne sai tu?" chiese Vito.

"Li ho sentiti che ne parlavano, e è un po' che avevano deciso di farlo. Hanno avuto giusto quello che si sono meritati. Non è cosa che riguarda i carabinieri, questa. Io, al posto vostro, andrei su a sciogliere quei due ragazzi, e gli direi solo di cambiare aria."

Vito guardò gli altri uomini: "E voi, che ne pensate? Che si deve fare, secondo voi?"

"Se è vero quello che Calogero disse ora... i ragazzi si sono solo difesi, perciò non è cosa che riguarda i carabinieri..." disse un altro in tono deciso.

A poco a poco tutti annuirono e assentirono.

Allora Vito disse a Calogero: "Bene, chi di voi pensa che devono andarsene liberi, vada su e li sciolga... e li faccia scappare."

Calogero con altri tre uomini salirono la scala.

Cicciu chiese sottovoce: "Perché li hai mandati su?"

"Così non siamo solo noi due i responsabili della fuga dei ragazzi."

"Ma quelli adesso vedono che non ci sono più."

"Ma gli altri qui fuori non ne sanno niente..."

Gli uomini che erano saliti con Calogero tardavano a scendere. Arrivò il medico, che prima curò Cicoria, e confermò che la ferita non era mortale, poi scese nel frantoio per controllare gli altri due.

Finalmente Calogero e gli altri scesero.

L'anziano uomo disse ad alta voce: "Li abbiamo slegati e li abbiamo fatti andare via dalla finestra, su per il monte. Ora credo che sono al sicuro!"

Cicciu lo guardò stupito, ma Vito fece un sorrisetto e annuì. Mentre gli uomini si disperdevano commentando fra loro l'accaduto, Vito s'accostò a Calogero e gli disse sottovoce: "Grazie, Calogero. Te ne sarò riconoscente."

L'uomo sorrise: "Queste sono cose che si devono sistemare fra noi... e gli altri erano d'accordo con me a dire che li abbiamo slegati noi, per tenervi fuori dalla cosa. Ma se posso permettermi di dare un consiglio..."

"Ditemi." disse Vito sottovoce.

"Appena quei tre sono in grado di camminare... pagateli e mandateli via. Staremo tutti meglio, senza certi elementi fra di noi. Si respirerà aria assai più pulita."

"Sì, farò come dite voi Calogero. Comunque, grazie. Siete un buon uomo, voi. Buono e intelligente."

"Sono solo un lavorante, Vito Catalanu. Ma so come va la vita. Se a quei carusi ci piaceva a farlo, era cosa che non riguardava a nessuno. Ma nessuno ha il diritto di obbligare un altro. Io mi ricordo, quando voi ci provaste con me, quando si era giovani come quei due carusi... ma mica mi obbligaste, no? E al mio no, mi trattaste bene come prima, né più né meno. Per questo io lavoro sempre volentieri per voi che siete un uomo giusto, onesto e buono. E a quei due carusi, spero che la vita gli sorrida come sorride ora a voi... e a Cicciu lu beddu, il vostro compare."


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