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una storia originale di Andrej Koymasky


AL TEMPO DEGLI DEI CAPITOLO 8
LA LUNGA TRAVERSATA

I due ragazzi corsero con quanto fiato avevano in gola, allontanandosi il più possibile da Racalmuto. Ma ad un certo punto si dovettero fermare, perché erano senza fiato e inoltre erano arrivati a un'ansa del fiume, che doveva essere il Gallo d'Oro.

"Dobbiamo passare dall'altra parte..." disse con voce ansante Attareddu.

"Sì... e tu ti devi lavare, ti devi togliere tutto quel sangue di dosso."

"Spero d'averne ammazzato almeno uno!" esclamò l'altro.

"No, amore, non devi neanche pensarlo. Tu non sei un assassino, tu non sei cattivo. E quello che mi volevano fare... per quanto brutto... non può essere pagato con una vita."

"Non lo so... Quando ho visto che quelli... dio... m'è salito il sangue alla testa. D'accordo, forse hai ragione tu." mormorò poi Attareddu, scendendo con l'amico in riva al fiume e immergendosi nell'acqua fredda con tutti gli abiti addosso, poi iniziando a sfregarli con vigore, aiutato dall'altro, in modo di lavare via il sangue. "Forse. No, certo, io non avevo il diritto di ammazzarli, ma... ma loro si meritavano di morire." affermò ancora, in tono deciso.

"Attareddu mio, mi sa che t'hanno fatto più male a te, quei tre, che a me se ci fossero riusciti."

"Ma sono arrivato appena in tempo." mormorò il ragazzo.

"Sì, è vero. Lo sai che ti amo tanto?"

"Anche se sono diventato un assassino?"

"No, diceva Cicciu che quello era ancora vivo... e gli altri due sono scappati con le loro gambe. No, amore mio, tu non sei un assassino."

"Potevo diventarlo. Non ci vedevo più, sai? Volevo davvero ammazzarli, ammazzarli tutti e tre."

"No, tu volevi solo salvare me. Vieni qua, ti voglio abbracciare."

"Ma così ti bagni tutto tu pure..." mormorò il ragazzo, ma si lasciò stringere fra le braccia di Adduzzu, che era sceso in acqua, gli si premette contro e scoppiò in un pianto liberatorio.

"No... no... non piangere, amore..." gli sussurrò Adduzzu, stringendolo a sé e carezzandolo.

"Che facciamo, ora?" chiese con voce fioca e in tono smarrito l'altro.

"Qualcosa faremo. Ora ci si deve solo allontanare il più possibile. Catalanu e Cicciu sono stati buoni con noi, buoni e generosi."

"Sì, è vero."

"Non tutti al mondo sono cattivi e meschini. Cappiddazzu una volta mi disse che in ognuno di noi c'è sia il fango che il soffio di Dio."

"Ma in quei tre a me mi pare che c'era solo fango. E fango puzzolente!" gli disse Attareddu mentre risalivano a riva, dalla parte opposta.

"Magari in quel momento pareva che c'era solo fango. Che ne sappiamo, noi, amore?"

"Non m'hai mai chiamato amore così spesso..." gli disse l'altro con un sorriso stanco e velato di mestizia.

"È che ora più che mai sento che tu tieni bisogno di sapere quanto t'amo. E io t'amo tanto, lo sai?"

"Sì che lo so. Sì... qualcosa faremo, tu e io, insieme. Basta che restiamo uniti, che continuiamo a volerci bene, no?"

"Certo."

"Tu... al posto mio... non l'avresti fatto, vero?"

"E che ne so? Forse invece l'avrei fatto io pure, se toccavano a te. Che ne so?" rispose Adduzzu, pensieroso. "È più facile sopportare qualcosa che ci capita a noi che sopportare quello che capita a chi si ama, credo."

"Sì, è come dici tu. Io... io m'ero innamorato di te già quella volta, quando ci si è parlati nel santuario... ma prima, quando ho visto quello che cercavano di farti... ho capito che ti amo anche più di quello che pensavo. Anche più della mia vita."

Giunsero su una strada bianca e la imboccarono, dirigendosi verso est.

"Hai idea dove porta, questa strada?"

"No, Attareddu mio, ma ci porta lontano e per ora tanto basta. Mi sarebbe piaciuto poter salutare Cappiddazzu, prima di scappare... ma era troppo pericoloso scendere fino a Girgenti per farlo."

"Vito ha promesso che ci va lui a parlargli. Ti dispiace che magari non lo vedrai mai più?"

"Un po' sì, che mi dispiace. Ma so pure che, anche lontani, lui continuerà a volermi bene come a un figlio, e anche lui sa che io continuo a volergli bene."

"Perché la vita è così fetente, specialmente con quelli come noi due?"

"Vito e Cicciu stanno assieme da anni, senza problemi."

"Loro c'hanno soldi, sono rispettati, non sono due spiantati come noi." gli fece notare Attareddu.

"Io non mi sento uno spiantato, visto che sto con te!" gli disse in un sussurro dolce l'amico.

L'altro si girò a guardarlo e gli sorrise: "Beh, sì, tieni ragione. E poi, Vito e Cicciu ci regalarono parecchi soldi, no? Furono generosi assai. Forse è perché anche loro due sono come noi, no?"

"Cappiddazzu non era come noi, ma fu buono e gentile con me, e con te pure, quando ti conobbe."

"Si vede che in certa gente il soffio di Dio è più forte del fango." osservò Attareddu.

"Cerchiamo di essere anche noi due così, allora."

Attraversarono Serradifalco, poi San Cataldo, e a sera giunsero alle porte di Caltanissetta. Per via avevano contato i soldi che avevano ricevuto in dono dai loro ex padroni, così decisero di cercare una locanda per mangiare qualcosa, visto che, dovendo fuggire, avevano saltato il pranzo. Riuscirono a sedere a un tavolo accanto al camino, così i loro panni, ancora umidi, mentre mangiavano si asciugarono.

"Che dici, dobbiamo andare più lontano, o ci possiamo fermare qui a Caltanissetta?" chiese Attareddu.

"Più lontano andiamo e meglio è, penso. Che ne dici di provare ad andare in Continente?"

"Non lo so. Non è troppo lontano? Quanto tempo ci vuole? E come si fa a passare il mare?"

"Mi raccontava Cappiddazzu che c'è una città che si chiama Messina, e di lì si prende una grossa barca che va avanti e dietro fra la Sicilia e il Continente, e si paga il biglietto e ti portano dall'altra parte."

"Ci basteranno i soldi?"

"Spero di sì, e se mai lavoreremo per guadagnarne altri, no? Siamo giovani e forti, tu e io, la fatica non ci spaventa."

"E che lavoro possiamo fare, poi, in Continente?"

"I contadini, o i pastori, o qualcosa altro, vedremo. Abbiamo imparato come si fa l'olio, io avevo imparato come si lavora la pasta di mandorle... possiamo imparare qualcosa d'altro, no?"

"A te, Adduzzu, non ti spaventa mai niente?"

"Una cosa c'è, che m'aveva spaventato..."

"E cosa?"

"Che ti mettevano in galera per quello ch'è successo."

"E se mi mettevano in galera? Tu che facevi?"

"Cercavo di fare qualcosa contro la legge, e così almeno mi mettevano in galera con te!"

"Davvero l'avresti fatto?" gli chiese Attareddu, un po' stupito.

"Tu no?"

Il ragazzo non rispose subito, rifletté, poi guardò l'amico negli occhi ed annuì solennemente.

Terminato di mangiare, chiesero all'oste se poteva indicare loro un posto in cui potessero dormire. Le notti stavano facendosi un po' fredde. L'uomo li studiò a lungo, chiese loro chi fossero, da dove arrivassero e dove andassero. I ragazzi risposero che arrivavano da Girgenti e che volevano andare a Messina e di lì in Continente, a cercare fortuna.

"E scommetto che avete pochi soldi in saccoccia se andate a cercare fortuna, non è così?" chiese l'uomo.

"Beh, non tanti, e preferiamo spenderli per mangiare." rispose Adduzzu.

"Già, non tanti... Beh, se mi date una mano a ripulire tutto quando chiudo, vi posso lasciar dormire qui... Vi chiudo dentro a chiave, però. Capite, in fondo non vi conosco e non lo so fino a che punto mi posso fidare di voi."

"Per noi va benissimo, grazie." disse Adduzzu, con un sorriso.

"Vi potete prendere un po' di sacchi vuoti in magazzino, più tardi, per dormirci sopra." aggiunse l'uomo.

"Ottimo. Possiamo comiciare a fare qualcosa per voi, mentre aspettiamo che viene l'ora di chiudere?" chiese Attareddu.

"Sì, venite." disse l'uomo.

Il giorno dopo, quando la mattina l'oste andò ad aprire la porta, lo salutarono ringraziandolo e si rimisero in strada.


A sera giunsero a Enna. Erano un po' stanchi, la strada era tutta un saliscendi. Anche qui riuscirono a combinare con un oste, e, dopo aver pagato la cena e averlo aiutato, questi li fece dormire nella stalla del cavallo. A differenza della sera prima, in cui avevano dormito abbracciati ma senza fare niente, nella stalla fecero l'amore a lungo, stesi sul mucchio di paglia pulita per cambiare la lettiera del cavallo.

Si donarono l'uno all'altro, con calda passione, dimenticando per un po' la loro condizione di fuggiaschi.

Dopo che ebbero raggiunto entrambi il piacere, Attareddu sussurrò, al buio: "Ne tenevo proprio un gran bisogno, sai?"

"E di che?" gli chiese scherzosamente l'amico, carezzandolo teneramente.

"Ma dai, non fare il tonto!"

"Mica è colpa mia se ti sei messo con un tonto." replicò Adduzzu ridacchiando e stringendolo a sé.

"No che non mi sono messo con un tonto, io! E poi... Tu tieni il fuoco in corpo, mi piace un sacco quando fai l'amore."

"Sei tu che l'accendi, questo fuoco, anche solo quando mi guardi. E se poi mi tocchi così, come stai facendo... Sai che tengo voglia di farlo di nuovo?"

Attareddu lo carezzò fra le gambe: "Sì, è vero, lo sento. Beh... pazienza, se proprio ci tieni..."

"No. Se tu non vuoi, io..." protestò prontamente Adduzzu.

Attareddu lo fece tacere baciandolo in bocca, e gli si addossò facendogli sentire la propria erezione. Poi si staccò da lui e mormorò: "Che ne dici, eh? Ti pare davvero che io non tengo voglia di farlo di nuovo? Stavo scherzando, tonto mio!"

"Vedi che sono tonto, allora?" replicò ridacchiando Adduzzu, e si stese sul corpo ancora nudo dell'amico, che prontamente sollevò le gambe e poggiò le caviglie sulle spalle dell'amante, per accoglierlo nuovamente in sé.

Mentre Adduzzu si approntava a penetrarlo una seconda volta, gli sussurrò: "Ma anche tu, amore, dopo mi prendi di nuovo, promesso?"

"Certo, tutto quello che vuoi." mormorò l'amico, ed emise un lungo mugolio di piacere accogliendolo in sé. "Oh, Adduzzu mio, ogni volta pare pure meglio della volta prima. Com'è possibile una cosa così?"

"Non lo so... anche per me... è così..." rispose l'altro iniziando a muoverglisi dentro con lieto vigore e gioiosa donazione.

Quando infine si rilassarono di nuovo, semiabbracciati, appagati e felici, Attareddu disse: "Peccato che qui dentro è così buio... mi piace di più fare l'amore quando ci si può guardare negli occhi."

"Allora non ti è piaciuto?" lo stuzzicò l'amico.

"Ma no, certo che mi è piaciuto, solo che... quando godi con me diventi anche più bello, e mi fai sciogliere tutto dentro. Non credevo che era così bello mettermi con te."

"E allora, perché ti ci sei voluto mettere, con me, se non credevi che fosse così bello?"

"Perché comunque, appena ti vidi là al Santuario, il mio cuore si mise a battere forte forte come quando ci sono i tammurinara a fare la stamburiata per la festa di san Calò!"

"Sì, me l'avevi già detto. Io non sentii niente, però!" scherzò Adduzzu.

"Bugiardone. Tu mi guardavi in un modo che... che parevi il capo tamburo, tu! A te, piuttosto, cos'è che ti fece decidere a non mandarmi al diavolo, quando ti parlai?"

"Non si possono mandare al diavolo gli angeli... e tu mi parevi un angelo, venuto giù proprio per me. Cos'è che mi attirò? Il tuo sorriso e i tuoi occhi belli. E il modo come mi guardavi. E come stavi appoggiato al muro in una posa così bella... che m'ha fatto scaldare il sangue."

"Forse è meglio che adesso ci rimettiamo addosso i panni e che dormiamo un po', eh? Che ne dici?"

"Sì... Dici che potremo un giorno avere una stanza tutta e solo per noi come c'avevano dato Vito e Cicciu lu beddu a Racalmuto? E che si potrà stare assieme senza pericoli?" disse Adduzzu.

"Eh, chi sa? Ma per me va bene anche un po' di paglia come qui, se posso starci sopra con te."

"Anche se è così buio?" lo celiò l'amico.

"Anche. Mi accontento. Mi basta stare con te, come ti dissi. Tutto il resto è un di più: per quanto bello, non è essenziale."


Il giorno dopo ripresero la strada, continuando ad andare verso est. Si comprarono qualcosa da mangiare per via, e costeggiando il fiume Dittàino verso sera arrivarono a Catenanuova, un paese che sorgeva su un sito pianeggiante. Sulla porta del paese un passante li salutò, allora gli chiesero se ci fosse un'osteria dove andare a mangiare qualcosa.

L'uomo, che aveva sui trent'anni, chiese loro di dove venissero, dove andassero. "Ah, di Girgenti siete. L'unica osteria, andò a fuoco tre giorni fa. Tenete fame, ragazzi?"

"E sì. E poi... si dovrebbe anche trovare un posto dove passare la notte. Mica che ci potreste dare un consiglio, per caso." gli disse Adduzzu.

"E volete andare in continente a cercare fortuna..." insisté il giovane uomo studiandoli.

"Beh, magari. Mica s'è veramente deciso, ancora. Ma adesso, ci basterebbe trovare un posto dove mangiare e un posto dove passare la notte." ripeté Adduzzu in tono gentile.

"E tutta a piedi la strada vi volete fare." commentò ancora l'uomo.

"Chi non ha né cavallo né asino, o non si muove o usa i piedi." rispose Attareddu.

"Già, è proprio così. E lasciaste la vostra famiglia, per cercarvi fortuna."

"Lui è la mia famiglia, e io sono la sua." disse Adduzzu, chiedendosi perché l'uomo continuava a osservarli e non si decideva a dire loro dove potevano mangiare e dormire.

"Soli al mondo, dunque... proprio come me. Stavo proprio tornando a casa mia, per farmi qualcosa da mettere sotto i denti. Venite con me, che si mangia qualcosa assieme e poi, se vi accontentate di dormire in due su un materasso, potete pure passare la notte a casa mia."

"Siete gentile, ma non vi vorremmo dare tanto disturbo." disse esitante Attareddu, un po' infastidio per come l'uomo continuava a guardarli.

"No, nessun disturbo. Io mi chiamo Nunzio Musumeci, e sono il maestro di scuola. Vengo da Aci Reale, arrivai qui solo a settembre e ancora non ho amici, e vivo da solo. Mi fa piacere aiutare due ragazzi e avere un po' di compagnia... Venite, allora? Abito poco lontano da qui."

I due ragazzi si guardarono e, fattosi un lieve cenno degli occhi, decisero di accettare l'invito. Lo seguirono.

L'uomo viveva in due stanzette una sull'altra unite da una scala interna. A pianterreno c'era la cucina, in cui il giovane uomo fece accomodare i due ragazzi.

"Non avete niente con voi, neanche abiti per cambiarvi." notò mentre si metteva a cucinare.

"Abbiamo due buone braccia e voglia di lavorare, e quando guadagneremo qualcosa, ci si comprerà pure di che cambiarci." rispose con un lieve sorriso Adduzzu.

"Tu dicesti che ti chiami Leonardo, non è così? E tu Luigi."

"Ma me mi chiamavano tutti Adduzzu e lui Attareddu." precisò il ragazzo.

"Due simpatici animali, non c'è che dire. Ma voi due, fratelli non siete. E se non mi sbaglio, nemmeno parenti. Amici siete, dunque?"

"Sì..."

"E più che amici, da come vi guardate." disse Nunzio guardandoli con un sorrisetto.

Sulle difensive, Attareddu chiese: "Perché, com'è che ci guardiamo, lui e io?"

"Come, mi chiedi? Come io guardavo... il mio Silvio, prima che me lo portasse via un male misterioso. Per questo chiesi trasferimento qui, non potevo più stare ad Aci, dopo che l'ho dovuto accompagnare al cimitero. Sì, come ci si guardava lui e io, voi due vi guardavate, quando v'ho visto arrivare in paese. Per questo vi salutai e poi v'invitai qui da me."

Attareddu guardò un po' preoccupato Adduzzu, temendo che l'uomo avesse offerto loro ospitalità in cambio di... altro, che loro non erano disposti a dargli. Nunzio intuì immediatamente il senso di quello sguardo e sorrise.

"No, ragazzi, io vi offro un po' cibo e un materasso, e non il mio. E non vi chiedo altro, non vi chiedo nulla in cambio." disse scuotendo il capo, continuando a cucinare.

"Proprio perché volevano da noi... altro, ce ne dovemmo andare dal nostro paese, e lasciare un buon lavoro." spiegò Attareddu arrossendo.

Nunzio annuì: "Non vi va di raccontarmi la vostra storia?"

"Ci sembrate una persona a modo, ma ancora non vi conosciamo. Certe cose non si raccontano facilmente." disse a bassa voce Adduzzu.

"Già, ti capisco. Anche il mio Silvio e io si doveva avere mille cautele, so come va il mondo."

"Era anche lui un maestro?" gli chiese Adduzzu.

"No, lui era l'aiuto del sacrestano della cattedrale. Ci s'era conosciuti quattordici anni fa, che lui aveva tredici anni e io quindici, io studiavo alla scuola normale statale e lui era il figlio del custode della mia scuola ma già lavorava in cattedrale. All'inizio ci si vedeva, non s'era mai scambiata neppure una parola. Poi, dopo un paio d'anni, ci si trovò in un pomeriggio d'estate giù sotto la Timpa, a fare i bagni in mare. Se prima avevo già pensato, vedendolo crescere, che era un bel ragazzetto e che aveva un'aria simpatica, quel giorno, vederlo seminudo, mi sembrò bellissimo, specialmente quando mi guardò, mi sorrise e mi fece un cenno di saluto.

"Venne a stendersi al sole accanto a me e mi disse: tu ti chiami Nunzio, vero? Sì, gli dico io, e tu? E com'è che sai il mio nome? Io mi chiamo Silvio, mi fa lui, e sono due anni che io ti conosco, anche se tu non ti sei mai accorto di me. Sì che mi sono accorto di te, gli dico io, e ho visto che più cresci più ti fai bello. Mi trovi bello? Davvero? Mi chiede lui. Sì, bello e simpatico assai. E ora che ti vedo mezzo nudo, mi pari più bello pure, gli dico io. Sei bello come Ganimede, gli dico.

"E tu... tu sei bello come il dio Giove, mi dice lui guardandomi con un sorriso mezzo timido ma mezzo sfacciato. Allora io gli chiedo: e ti faresti rapire da me? E lui, mi dice di sì, che ormai non pensa ad altro, e che era venuto apposta alla Timpa, quando m'aveva visto scendere giù... Ma lo sai cosa mi stai chiedendo? Gli dico io, e lui mi dice di sì, che lo sa bene... e così io lo portai con me e lui mi donò... la sua verginità."

"Dio, che bello!" esclamò Adduzzu, commosso dall'emozione che sentiva ancora vibrare nella voce del giovane maestro. "E siete rimasti assieme, dopo di allora?"

"Sì, finché sei mesi fa la morte, invidiosa di me, me lo portò via." soggiunse con voce bassa e rotta il giovane uomo.

"Fu il vostro unico ragazzo?" gli chiese Attareddu, quasi sottovoce.

"No, prima di lui... altri. Ma dopo quel giorno là sotto la Timpa, solo lui. E io fui il suo primo e unico."

"E vi manca tanto, ora, non è vero?" gli chiese Adduzzu.

"Eh, che volete, più che se m'avessero tagliato via le gambe e le braccia."

"Voi siete stato più sfortunato di noi." disse allora Attareddu e, finalmente, raccontò al giovane maestro la loro storia, senza più esitazioni.

Mangiarono. Dopo aver parlato ancora un po', Nunzio li portò su nella sua camera da letto, le pareti coperte da scaffali con libri e che gli fungeva anche da studio, per prendere uno dei due materassi che aveva sul letto e portarlo giù per i due ragazzi.

"Così avete la vostra intimità e se volete..." disse Nunzio lasciando la frase a metà.

"Siete gentile, non sappiamo come ringraziarvi..." disse Adduzzu.

"Non preoccupatevi per questo. E datemi del tu, dopo tutto non sono così vecchio, no?"

"Ma voi siete un maestro." gli disse Attareddu.

"No, sono solo uno come voi, un po' sperso in questo mondo, in cui l'amore che sentiamo deve restare nascosto."

"Io spero, Nunzio, che un giorno tu possa trovare un altro che scaldi il tuo cuore come hai bisogno e come ti meriti." gli disse Adduzzu.

"Poco prima di morire, il mio Silvio mi disse che un giorno lui m'avrebbe mandato qualcuno per starmi vicino come lui non poteva più fare."

"Forse avevi sperato che uno di noi..." iniziò a dire Attareddu.

Nunzio sorrise e scosse il capo: "No, era troppo evidente che per ognuno di voi due non c'era posto per altri. Ma l'amore che lessi nei vostri sguardi... beh, mi commosse e così... Buona notte, ragazzi. Ci si rivede domattina, prima che riprendiate la vostra strada."

Quella notte i due ragazzi, soli nel buio della cucina, fecero l'amore con una speciale dolcezza, tenerezza, chiedendosi in cuor loro che cosa riservasse loro la vita, ancora sotto l'impressione della bella ma triste storia che Nunzio aveva raccontato loro.

Quando, appagati per il momento i loro desideri, si stesero abbracciati, Attareddo sussurò: "Tu mi devi promettere una cosa, Attareddu mio."

"Sì, te la prometto se anche tu la prometti a me."

"Mi dici di sì, prima ancora che io ti dico cosa?" gli chiese con tenerezza lievemente ironica.

"Certo, Adduzzu. Tu mi vuoi fare promettere che, se tu muori prima di me, io mi cerco qualcun altro che mi vuole amare e che posso amare, non è così? E io te lo prometto, ma solo se pure tu lo prometti a me."

"È vero... E te lo prometto anche io, amore."

"Anche se... speriamo che non capita troppo presto." commentò Attareddu.

"Ma se capita... troppo tardi, come dici tu, te l'immagini che magari tu, o magari io, che siamo arrivati a ottanta anni quando l'altro muore, ci si cerca uno nuovo?" ridacchiò Adduzzu carezzando con dolcezza l'amante.

"Beh, e perché no?" ridacchiò in risposta Attareddu. Poi aggiunse, "Diciamo allora che, più che cercarlo, non dobbiamo rifiutarlo se per caso lo incontriamo, va bene così?"

"Io spero che Nunzio si trovi presto un nuovo compagno. Mi pare un uomo molto buono... e molto solo."

La mattina seguente, dopo aver fatto colazione tutti e tre assieme e aver risistemato il materasso sul letto di Nunzio, l'uomo disse ai due ragazzi, prima che riprendessero il loro cammino, "Sentite, ho saputo che un brutto terremoto ha distrutto Messina, che oltre al terremoto poi è arrivata un'ondata terribile che ha sommerso la città. E allora, perché non andate a Aci Reale? Io lì conosco parecchia gente, e potrei darvi una lettera per un paio di miei amici che quasi di sicuro vi potrebbero trovare e un lavoro e un posto per vivere."

"Questi tuoi amici... sono una coppia... come noi due?" chiese allora Adduzzu.

"Sì, e per questo se possono aiutarvi lo faranno volentieri. Sono due brave persone e conoscono un sacco di gente."

"Sono giovani come te? Vivono assieme? Che lavoro fanno?" chiese Attareddu.

"Turi Calò ha la mia stessa età, era mio compagno di scuola normale, e fa il maestro pure lui. Il suo Alfio Gallo ha undici anni più di lui e fa il farmacista. Abitano insieme da quattordici anni ma sono una coppia da dieci, cioè da quando morì la moglie di Alfio, che era la sorella di Turi... Sono una bella coppia. E potete stare tranquilli, non ci proveranno con voi."

"E com'è che si misero insieme?" chiese Adduzzu, incuriosito.

"Si conobbero quando Alfio si sposò. Allora Turi aveva sedici anni. Però non è che capirono subito l'uno dell'altro, perché, sapete com'è, tutti e due dovevano stare molto attenti a non farlo capire, anche se in realtà si sentivano attratti uno dall'altro. Turi e Venerina erano orfani di padre e di madre, e così quando Alfio sposò Venerina, anche Turi andò ad abitare con loro."

"Ma l'avevano già capito tutti e due che erano... come noi?" chiese Attareddu.

"Sì, Turi aveva avuto le sue prime storie quando aveva quattordici anni. Anche con me aveva avuto una breve storia, prima di conoscere Alfio. Alfio invece lo capì più tardi, quando ne aveva diciotto."

"E com'è che Alfio si sposò, se a lui ci piacevano i ragazzi?" chiese Adduzzu.

"Eh, tanti lo devono fare. La famiglia di Alfio, che aveva ormai più di venticinque anni, voleva che lui si sposasse a Venerina, tanto più che Venerina e Turi erano ricchi, di famiglia, avevano parecchi terreni."

"E non hanno avuto figli, Alfio e sua moglie?" chiese Attareddu.

"Sì, hanno avuto tre figli, due femmine gemelle e un maschio, le figlie hanno tredici anni, il piccolo ne ha undici."

"Che ora vivono perciò con Alfio e Turi? Ma i piccoli... sanno tutto di loro padre e del loro zio, che fanno l'amore, cioè?" chiese Attareddu.

"Sì che lo sanno, ne hanno parlato tutti e cinque assieme, circa un anno prima che io andassi via da Aci... Vi fa meraviglia? I miei amici decisero di parlarne coi piccoli prima che questi lo potessero capire da soli."

"E i piccoli?" chiese Adduzzu.

"Capirono, accettarono, e in un certo senso, proteggono ora Alfio e Turi nei confronti del mondo."

"Ma Turi e Alfio... non fecero niente prima che morisse la moglie?"

"No, perché non avevano ancora capito uno dell'altro, anche se vivevano assieme da quattro anni, anche se erano già innamorati uno dell'altro. Fu solo dopo che si capirono e che finalmente..."

"E come fecero a capirsi?" chiese Attareddu, incuriosito.

"Fu, in un certo senso, per colpa o merito mio e del mio Silvio. Io infatti sapevo di Turi, come v'ho già detto, e invece Silvio sapeva di Alfio, perché Alfio era stato per un po' con un amico di Silvio e ne avevano parlato. Io sapevo che Turi era innamorato di Alfio, che me l'aveva detto, ma non avevo detto niente a Alfio, finché la moglie era viva. Dopo, però... un giorno li invitammo tutti e due a fare una gita sulla Montagna e lassù... gli facemmo scoprire le carte a tutti e due, per così dire. Anche per questo ci erano molto affezionati. Magari, dopo che era morta Venerina, ci arrivavano anche da soli, ma... così ci misero di meno, in un certo senso."

"Ma sono tanti, quelli come noi?" gli chiese allora Attareddu.

"Beh, e chi lo sa? Dovendo stare nascosti... ce n'è di più di quelli che uno sa o che può immaginare, credo. Anche perché parecchi, come Alfio, si devono sposare."

Così Nunzio scrisse una lettera e i due ragazzi presero la strada per Catania, dove arrivarono a sera. Qui, dopo aver cenato, non trovarono un posto in cui dormire senza dover pagare, e poiché faceva un po' freddo, si concessero il lusso di pagarsi una stanza nella locanda.


Il mattino seguente, presero la strada costiera e la risalirono fono ad Aci Reale, dove giunsero a metà pomeriggio. Trovarono facilmente la farmacia di Alfio. Entrati, chiesero del padrone al giovane commesso, che li guardò con sospetto, dati i loro abiti poveri e impolverati.

"Che volete dal padrone? Avete bisogno di una medicina?" chiese.

"No, cosa personale è." rispose asciutto Attareddu. "Ci dobbiamo consegnare una lettera."

"Potete lasciarla a me allora, che gliela do più tardi."

"No, ce la dobbiamo consegnare personalmente." lo rimbeccò Attareddu.

"E allora lo dovete aspettare, magari viene, prima che è l'ora di chiudere." disse il commesso, poi aggiunse, "Fuori di qui, però."

"E come lo riconosciamo?" chiese Attareddu, seccato per l'atteggiamento dell'altro.

Adduzzu disse all'amico, prendendolo per un braccio, "Vieni, Attareddu, ci sediamo qui fuori, sulla via. Quando il padrone viene, tu ci dici che lo stiamo aspettando qui fuori." disse poi al commesso e uscirono.

Sedettero a terra, appoggiandosi al muro della casa.

"Quanto mi sta antipatico, quello!" esclamò Attareddu.

"Eh, che vuoi, vestiti così, chissà che pensava di noi!" gli disse Adduzzu con un sorriso, "Non te la prendere, dai."


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