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una storia originale di Andrej Koymasky


I DINOSAURI SONO DURI A MORIRE CAPITOLO 1
DUE SEDICENNI UN PO' SOLI

Il padre aveva fatto accompagnare Austin al collegio dal proprio autista. Il ragazzo s'era sistemato nella cameretta che gli era stata assegnata, aveva esplorato l'ampio complesso, una costruzione in gran parte del 1500, con ali aggiunte nei secoli successivi, attendendo che la settimana seguente iniziassero i corsi.

A poco a poco arrivavano gli altri studenti, sia i "vecchi" che i "verdi" come lui, e si sistemavano. I vecchi si ritrovavano subito fra di loro, in gruppetti a volte rumorosi, allegri, e ignoravano, almeno per il momento, i verdi che s'aggiravano un po' spersi, come anime in pena, per gli ambienti dell'antica e prestigiosa scuola.

Austin aveva preso l'abitudine di andare nello "studio" del primo piano, una delle stanze riservate agli allievi per eseguire i loro compiti, dato che le loro stanzette non erano provviste di un tavolo, pur avendo uno scaffale per i libri. Le stanze degli studenti erano cellette quasi monastiche, interamente occupate dal letto, un comodino, lo scaffale aperto per i libri e un armadio con cassetti per i loro abiti. Niente altro. Neanche una sedia, uno sgabello.

Dalla finestra a crociera di pietra dello studio, i cui vetri erano aperti dato che la giornata era mite e l'aria gradevole, entrava il lontano abbaiare di una muta di cani. Austin sollevò il capo dal libro che stava consultando e guardò fuori dalla finestra il cielo azzurro pallido, appena macchiato da nuvolette immacolate, piccole e lievi che facevano pensare a un gregge di pecore, e le cime degli alberi della corte interna, appena mosse da un brezza leggera.

Un rumore alle sue spalle lo fece girare. Nello studio, dalla porta decorata con bassorilievi di archi gotici, stava entrando un ragazzo che non aveva mai visto, con un paio di libri sotto il braccio e il necessario per scrivere in mano.

"Scusa..." disse il nuovo arrivato con un sorriso incerto, "È questa la stanza di studio per la mia classe?"

"Dipende. In che classe sei?"

Il ragazzo arrossì deliziosamente: "Scusa... primo anno, classe del professor Hulme."

"Allora sì, e siamo compagni di classe. Io mi chiamo Austin Oliver Stephenson." gli disse facendogli segno di sedere al suo tavolo.

"Quentin Nathan Morrigan." rispose l'altro porgendogli la mano.

"Sei nuovo... sei arrivato oggi? Da dove?"

"Da Bristol. Sono arrivato ieri sera."

"Dove ti hanno dato la camera?"

"Ala est, terzo piano, camera XV..."

"Esattamente sopra di me. Io sto al secondo piano, camera XV."

"Scusa se ti ho disturbato... stavi studiando."

Austin fece un cenno e un sorriso, poi si chinò a leggere il suo testo. Ma in realtà la sua mente era altrove. Quentin... un nuovo compagno di classe... Aveva un aspetto molto gradevole, sembrava simpatico. Doveva essere poco più basso di lui, aveva capelli lisci come i suoi ma di un castano molto chiaro, quasi biondo. Era rimasto colpito dalle sue labbra morbide, ben disegnate e d'un rosa sfumato, molto dolce. Gli occhi erano d'un verde-grigio chiaro. Aveva una pelle liscia come quella di un bambino e mani dalle dita lunghe come quelle di un pianista.

Il ragazzo sollevò gli occhi e guardò il nuovo arrivato. Stava leggendo con aria assorta, intenta. Notò che aveva lunghe ciglia così chiare che solo quando vi batteva la luce erano visibili. Le sopracciglia, d'un biondo più chiaro dei capelli, erano folte e ben disegnate. Il naso piccolo, leggermente largo alla radice, non era bello, eppure era... giusto per quel volto ovale.

Austin si scosse dalla sua contemplazione e cercò di rimettersi a leggere. Ma rivide il sorriso con cui l'altro gli si era rivolto. Un bel sorriso, timido ma sereno, pulito, gentile. Essendo nel primo anno come lui, anche Quentin doveva avere sedici anni, anche se ne dimostrava un po' di meno, forse proprio per la pelle così liscia e perfetta.

Di nuovo sollevò lo sguardo. Ora Quentin stava scrivendo su un quadernetto. Tracciava le parole con lievi gesti fluidi, velocemente. Si rese conto che era mancino, perciò la mano, via via, copriva le ultime parole scritte. Pensò che era scomodo.

Quentin sollevò il capo e i loro sguardi si incontrarono. Austin gli sorrise, istintivamente, e l'altro ricambiò il sorriso.

"Che cosa stai scrivendo?" gli chiese.

"Sto tentando di tradurre un brano dell'Ars Poetica di Quinto Orazio Flacco; sul problema dell'unità dell'opera d'arte e del rapporto tra contenuto e forma. Tu cosa stai leggendo?"

"La Storia d'Inghilterra, di Laurence Echard."

"L'ha scritta all'inizio del '700, vero?"

"Sì, fra il 1707 e il 1720. Lo conosci?"

"Mio padre l'ha in biblioteca. A volte l'ho consultata. Ma non ho mai letto tutto il volume."

"Che cosa fa tuo padre?"

"Lo scrittore."

"Ma... ma allora sei il figlio di Wayne Harvey Morrigan! Ho letto il suo romanzo La Notte Del Secondo Giorno. Mi è piaciuto. Deve essere interessante essere il figlio di un romanziere. Mio padre invece è avvocato. Pare che sia famoso... per lo meno nell'ambiente di chi ha a che fare con la legge."

"Mi spiace... non l'ho sentito nominare."

Austin sorrise: "Si vede che la tua famiglia non ha mai avuto problemi con la legge, allora. Meglio così."

"Un mio trisnonno fu impiccato... aveva avvelenato la moglie." rispose con un sorriso il ragazzo.

Austin pensò che il sorriso del compagno era delizioso. "Se fosse stato difeso da mio padre... quasi certamente gli avrebbero dato una medaglia, invece di impiccarlo!" disse.

Quentin sorrise di nuovo. "È così in gamba, tuo padre?"

"Conosce perfettamente la sua professione, cioè sa come turlupinare il prossimo e far vedere bianco ciò che è nero. Ma ti sto disturbando, con le mie chiacchiere. Sarà meglio che ci rimettiamo a studiare."

"Non è veramente necessario. Le lezioni iniziano fra tre giorni... Volevo solo rinfrescare un po' il mio latino."

"A te piace studiare?"

"Sì. I libri sono sempre stati i miei migliori amici. E a te piace?"

"Per me i libri sono solo buoni conoscenti, non amici. E come amico preferisco un ragazzo, non un libro. Io preferisco giocare a cricket, andare a cavallo, nuotare... Oppure giocare a scacchi o a backgammon."

"Anche a me piace giocare a scacchi."

"Allora ci possiamo giocare, qualche volta. Ma ti avverto, io non sono un campione."

"Ti piace la musica?"

"Moderatamente. Morrigan?"

"Sì?"

"Hai voglia di andare a fare una passeggiata?"

"Sì, volentieri. Non ho ancora visto niente, qui intorno."

"Andiamo a mettere via i nostri libri. Ti aspetto giù a pianterreno, in fondo alla scala."

"D'accordo."

Austin era contento, di tutti i compagni che erano già arrivati, Quentin era quello che gli era sembrato più simpatico. Si disse che gli avrebbe proposto di scegliere due posti vicini, in classe. E magari potevano studiare assieme... e forse diventare anche amici.

Fecero una lunga passeggiata, durante la quale parlarono di mille cose, chiaramente "esplorandosi" a vicenda. Austin, con le sue osservazioni argute, spiritose, riusciva a far ridere abbastanza spesso il suo nuovo compagno: gli piaceva vederlo ridere o anche solo sorridere.

"Stephenson?"

"Che c'è?" chiese Austin guardandolo con un sorriso.

"Sono contento che siamo compagni di classe."

"E allora, perché non anche compagni di banco?" propose immediatamente Austin.

"Sì, certamente. E possiamo anche studiare assieme, non credi?"

"Sicuro. Tu torni a casa per i week end e le feste?"

"Per i week end no; per le feste, dipende dagli impegni di mio padre. E tu?"

"Anche io per i week end resto qui, ma le feste le dovrò passare tutte a casa."

"Lo dici come se ti pesasse. A me invece pesa quando non posso vedere mio padre."

"Non mi pesa veramente... né mi diverte, però. A parte i miei fratellini, che vedo sempre volentieri."

"Calvin e Horace, vero?"

"Ti ricordi i loro nomi?"

"Sì. A me sarebbe piaciuto avere fratelli. Invece ho solo una sorella."

"Janet Felicita, di tre anni più grande di te."

"Ah, ma allora anche tu ti ricordi..."

"Non ho perso una sola parola di quello che mi hai detto, Morrigan. Non una sola parola."

"Davvero?"

"Non mi credi? Mettimi alla prova."

"A che età ho potuto mettere i miei primi calzoni lunghi?"

"L'altroieri, quando ti sei preparato per venire qui. Perciò sedici anni."

"E che cosa mi ha regalato mia sorella per il mio quindicesimo compleanno?"

"Niente, se ne è dimenticata."

"Dove mi ha portato mio padre l'estate di due anni fa?"

"A vedere Stonehenge."

"E come si chiamava il mio gattino preferito?"

"Kip, ed era bianco e nero, tigrato."

Quentin emise un lieve fischio: "Ma ti ricordi davvero tutto!"

"No... mi sono dimenticato come ti chiami di cognome, Morrigan!" rispose ridendo Austin.

"Non potremmo chiamarci per nome, invece che per cognome?" propose Quentin, un po' timidamente.

"Il regolamento della scuola dice esplicitamente che ci si deve chiamare per cognome. Ma quando siamo soli... al diavolo il regolamento, Quentin!"

"Giusto, Austin. Hai notato che le ultime tre lettere del nostro nome sono uguali?"

"Sì... tin, in chimica Sn, dal latino stagnum. Si estrae per lo più dalla cassiterite, SnO2." disse Austin con aria buffonescamente professorale.

"Sai, Austin che... sono molto contento di essere stato messo nella stessa classe con te?"

Il ragazzo guardò con espressione seria il suo biondo compagno, da capo a piedi, quasi studiandolo, poi si aprì lentamente in un sorriso gentile e disse: "Volevo risponderti con un'osservazione spiritosa, ma... seriamente... anche io sono lieto di averti conosciuto, Quentin, e spero che fra noi due possa nascere una sana e forte amicizia."

"Mi pare che si sia iniziato nel modo più appropriato, non è così? Ma mi chiedo, chissà perché, pur avendoci messi nella stessa classe, non ci hanno assegnato due camere vicine?"

"Siamo uno sopra l'altro. Si può comunicare bussando tu sul pavimento e io sul soffitto... potremmo concordare un codice. Che ne dici?"

Gli occhi di Quentin brillarono: "Sì... un nostro codice segreto. Come facevano i prigionieri del castello d'If nel Conte di Montecristo!"

"Anche tu l'hai letto? In francese o in traduzione?"

"In francese. In casa abbiamo l'edizione principe del 1846."

"No, io l'ho letto in traduzione. Non conosco il francese a sufficienza per godermi un libro, dovrei consultare continuamente il dizionario."

"Dopo che morì mia madre, quando io avevo tre anni, mio padre prese in casa una governante francese, e così..."

"Perciò... non la ricordi, tua madre, Quentin."

"No. Mia sorella pretende di ricordarla, ma lei aveva sei anni, non credo che possa conservarne se non una vaga immagine, rafforzata e confusa con il ritratto che c'è nel salottino cinese. Geneviève ci ha fatto praticamente da madre, fino a tre anni fa, quando tornò in Francia. Lei ci parlava sempre in francese, per ordine di papà. Veniva ogni sera a rimboccarmi le coperte, spegneva la lampada, mi raccontava qualcosa, mi dava un bacetto sugli occhi, uno per occhio, e andava via nel fruscio lieve delle sue gonne."

"Le eri affezionato..."

"T'ho detto... ci ha fatto da madre. Sapeva essere dura come un generale ma anche dolce come un angelo."

"Era bella?"

"Quand'era il generale, no, quand'era l'angelo sì... si trasformava, anche nel viso. Chiamava mio padre monsieur Morigàn e me monsieur Kentèn..."

"Ti chiamava monsieur anche quand'eri piccolo?"

"Sì, sempre. E mia sorella mademoiselle Janètte... Mi piaceva come storpiava i nostri nomi... lo faceva con tale grazia!"

"Ti manca?"

"Non so... sono talmente tante le cose che mi mancano, e non dico sul piano materiale, che non vi faccio più caso. Mi manca mia madre, mia manca mio padre che ha troppo poco tempo per noi, mi manca mademoiselle Geneviève, mi manca un vero amico..."

"Ma almeno questo... posso diventarlo io." gli disse Austin con dolcezza.

Gli occhi di Quentin si colorarono di tenerezza: "Lo spero, Austin. Sì, lo spero di tutto cuore. E se diventiamo veramente amici, spero che tu non abbia mai a... ad abbandonarmi."

Austin, per tutta risposta, gli afferrò una mano, la strinse in un moto di virile affettuosità e gli sorrise nuovamente.

Il nuovo compagno gli piaceva e si rendeva anche conto di piacergli. Certamente sarebbe nata fra loro una bella e forte amicizia, nei quattro anni in cui avrebbero studiato assieme. Un'amicizia che si sarebbe prolungata anche oltre, per tutta la loro vita, ne era sicuro. Questo pensiero era assai gradevole.

I due ragazzi si avviarono verso la loro scuola, in silenzio, ciascuno immerso nei propri pensieri e godendosi semplicemente la vicinanza dell'altro.


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