Per Quentin quel colpo fu terribile. Tornato nella sua stanza in collegio, si gettò sul letto e scoppiò in un pianto accorato, interminabile, che solo il sonno pietosamente interruppe. Dormì tutta la sera, saltando la cena, e tutta la notte di un sonno ininterrotto ma molto agitato, ancora vestito.
La mattina non si presentò in classe. Quando fu mandato un inserviente a vedere perché non si fosse presentato, questi bussò alla porta e finalmente Quentin si svegliò. Barcollando andò ad aprire. L'inserviente, vedendo il suo volto esangue, gli occhi gonfi, immaginò che il ragazzo doveva essere ammalato e si premurò di riaccompagnarlo a letto, lo fece spogliare e mettere sotto le coperte, quindi andò a riferire.
Fu chiamato il medico, che salì a visitare il ragazzo. Lo trovò che piangeva silenziosamente. Gli chiese che cosa si sentisse, ma il ragazzo non rispose, lo sguardo perso nel vuoto.
"Senti un dolore da qualche parte?"
Quentin annuì.
"Dove?"
Quentin, quasi a fatica, appoggiò una mano sul cuore.
Il dottore prese il suo stetoscopio a trombetta, fece scoprire il petto al ragazzo e lo auscultò. Il battito era molto lento, non forte, ma regolare. Il dottore terminò la visita, poi andò a riferire al prefetto del collegio.
"Nulla di grave. L'allievo ha sicuramente uno dei classici disturbi della crescita." sentenziò.
"Ma... ha già diciannove anni... non è più un adolescente." obiettò con buon senso l'uomo.
"È di costituzione minuta... e la crescita, se pure è più rapida nel periodo immediatamente post-puberale, a volte continua oltre il ventesimo anno di età. Si riprenderà... e non mi stupirei se dopo questo lieve malore dovesse crescere di un pollice o forse anche due."
Quentin si riprese a sufficienza per riprendere a frequentare le lezioni. Ma mangiava poco e di mala voglia, non riusciva a concentrarsi negli studi, spesso, quand'era solo nella sua camera e nessuno poteva vederlo, piangeva.
Si sentiva perso, finito... la vita non gli sorrideva più, non aveva più sapore, non aveva più valore. Come poteva il suo Austin averlo rifiutato così? continuava a chiedersi. "Lettera rifiutata"! Amore rifiutato! Quentin rifiutato! Due sole parole, più pesanti di una condanna a morte.
Perché?
Tutti i loro giuramenti d'amore non erano dunque che parole prive di valore? Dette alla leggera? Suoni gradevoli al momento ma destinati a svanire nell'aria senza neppure lasciare un'eco?
Quentin era preda di una marcata tristezza che non l'abbandonava mai, non riusciva più a provare nessun piacere nelle attività che un tempo aveva amato. Un forte dolore di vivere albergava nel suo cuore. Non aveva più appetito, sentiva l'esigenza di dormire sempre più a lungo e si alzava sentendosi stanco, la sua camminata s'era fatta lenta, quasi da vecchio, come se dovesse trascinare un peso insostenibile.
Tutto pareva affaticarlo, non riusciva a concentrarsi, e si sentiva stupido, inutile, vuoto. Gli insegnanti e i responsabili del collegio cercarono di spronarlo, e non si rendevano conto che i loro sforzi non facevano che farlo sentire più in colpa che mai per non essere in grado di reagire al suo stato.
Si seniva spinto a capofitto in un pozzo dal quale giorno dopo giorno gli era sempre più difficile risalire. Qualsiasi decisione dovesse prendere gli sembrava difficile, persino scegliere gli abiti da indossare.
Ogni suo pensiero, ogni sua azione, ogni suo sentimento gli pareva proiettato in una dimensione dolorosa e priva di luce. Parlare con gli altri era diventata per lui un'occasione da evitare a ogni costo. Anche i compagni più sensibili nei suoi confronti li sentiva come nemici odiosi perché cercavano di stargli vicino. Non aveva voglia più di nulla, se non di piangere e di dormire.
Infine i responsabili della scuola, non sapendo più che fare, mandarono a chiamare il padre di Quentin, consigliandolo di riportarsi il ragazzo a casa. All'inzio Quentin sembrò riprendersi leggermente, ma poi divenne sempre più irritabile, e cominciò a fare sempre più lunghe passeggiate nei dintorni, evitando le strade, in modo di non incontrare nessuno. Vagava per i campi, immerso in un umore sempre più nero.
Finché un giorno, contrariamente al solito, non tornò a casa per il pranzo. I suoi pensarono a un ritardo e non si preoccuparono molto, e quando un forte scampanellio risuonò alla porta di casa, Wayne Harvey Morrigan disse alla cameriera che stava servendo a tavola, con un sorriso: "Quentin deve aver dimenticato la chiave. Vai ad aprire."
Non era Quentin. Non aveva dimenticato la chiave. Era il poliziotto locale che veniva ad avvertirli che il ragazzo si era suicidato gettandosi sotto al treno. I suoi resti erano stati portati nella sala mortuaria del locale ospedale. Mister Morrigan e sua figlia Janet si prepararono per recarsi all'ospedale, per il riconoscimento ufficiale del ragazzo e per ritirare gli oggetti che aveva su di sé. Il poliziotto sconsigliò a Janet di andare: "Non è un bel vedere, signorina... Neanche per me che non sono parente del povero ragazzo."
"Ma... siete sicuro che sia un suicidio... e non una disgrazia?" chiese il padre di Quentin mentre si avviavano assieme verso l'ospedale.
"In quel punto, signore, si deve scavalcare una recinzione e la linea ferrata è rettilinea, si vede il treno venire da lontano... e il macchinista l'ha visto saltare ma non ha potuto bloccare il convoglio in tempo. Non v'è alcun dubbio, purtroppo, che il povero ragazzo voleva... rinunciare alla vita." disse il poliziotto, comprendendo il dolore dell'uomo.
I giornali locali parlarono del triste evento, pubblicando anche una fotografia del ragazzo e un articolo in quinta pagina. Pochi giorni dopo il funerale, il padre di Quentin decise di trasferirsi altrove, perché quel luogo era troppo pieno ormai di tristi ricordi. Mise in vendita la casa e con la figlia si trasferì a Londra.
Austin non seppe nulla della tragica fine del suo Quentin. Terminò gli studi e, passate le vacanze estive con la famiglia facendo un viaggio abbastanza gradevole in Italia, al ritorno si iscrisse all'università.
Era riuscito a convincere il padre a non iscriverlo a legge, ma al corso di letteratura. Inoltre aveva anche ottenuto di non essere un interno, ma di avere un piccolo appartamento tutto per sé non lontano dalla sede universitaria. Questo gli lasciava una maggiore libertà, anche se aveva qualche cotroindicazione: doveva fare le pulizie di casa da solo, portare i propri abiti a pulire e stirare a una lavandaia, e cose del genere.
A pian terreno della casa in cui il padre gli aveva trovato il minuscolo appartamento, c'era un'osteria gestita da una famiglia di immigrati italiani, i Renzulli, sulla cui insegna era dipinto il Vesuvio ed era scritto "La bella Napule". I genitori parlavano un inglese assai approssimativo, ma il loro figlio maggiore, un bel ragazzo diciassettenne di nome Corrado, pur con un gradevole accento italiano, parlava un inglese piuttosto corretto.
Austin aveva apprezzato la cucina e i vini italiani nel suo viaggio in Italia, così a volte, soprattutto per cena, si fermava dai Renzulli. Gli piaceva vedere come il ragazzo faceva volteggiare in aria la sfoglia di pasta per preparare la pizza, con l'abilità di un giocoliere e con il sorriso di chi si diverte, pur lavorando.
Dopo le vacanze invernali, che passò con i suoi andando a sciare in Svizzera, ripresi gli studi, Austin decise che doveva farsi fare un paio di scarpe nuove, all'ultima moda. Perciò andò a farsi prendere le misure, scelse la pelle e il modello e, una volta pronte, le andò a ritirare. Il calzolaio, dopo avergliele fatte provare, le avvolse in un vecchio giornale e gliele consegnò.
Tornato a casa, il giovane uomo mise le scarpe nell'apposto scaffale nell'ingresso, poi spianò il giornale per leggere incuriosito l'articolo che vi compriva: l'egittologo Howard Carter, che aveva trovato la tomba del faraone Tutankhamon, l'aveva aperta e ne descriveva il favoloso contenuto. L'articolo era corredato da un disegno al tratto della maschera aurea del giovane faraone.
Terminato di leggerlo, girò il foglio dall'altra parte per vedere se l'affascinane articolo continuava e si fermò come folgorato, incredulo. Riconobbe immediatamente la fotografia di Quentin e su di essa il titolo diceva: "Suicidio di un Giovane Concittadino."
Con il cuore che gli batteva furiosamente in petto, sentendo vampate di calore e di gelo alternarsi rapidamente sul volto, sedette pesantemente sul pavimento e lesse il testo dell'articolo, incredulo.
"Il giorno 26 febbraio alle ore 10,47 del mattino, il nostro giovane concittadino Quentin Nathan Morrigan, di anni diciannove, figlio del noto scrittore Mister Wayne Harvey Morrigan, al sopraggiungere del treno diretto per Londra, scavalcava la recinzione che protegge la via ferrata e vi si gettava sotto, ponendo così fine alla propria vita. Sul suo corpo straziato dall'impatto con la motrice non è stato trovato nessuno scritto che potesse giustificare l'estremo gesto del giovane..."
Guardò la data del giornale: era di quasi un anno prima. Cioè di poco successivo alla loro forzata separazione.
Non riuscì a leggere oltre, le immagini e gli scritti si offuscarono a causa delle lacrime. Si abbandonò lentamente con la schiena sul pavimento e un urlo strozzato, un lungo lamento come di un animale ferito sgorgò dal suo petto, poi singhiozzando gridò: "Perché! Perché Quentin! Perché..."
Il suo corpo era scosso dai singhiozzi, il foglio di giornale sul suo petto, gli occhi strettamente serrati non riuscivano a trattenere le lacrime. Le sue mani lasciarono il foglio e si posero sul suo volto che scuoteva lievemente quasi in un istintivo diniego, in un inutile rifiuto della realtà, ripetendo: "Oh dio... dio... dio... dio..." in una straziata cantilena.
Quando Austin riuscì a sollevarsi dal pavimento, si trascinò a fatica fino alla camera da letto, posò il foglio di giornale sulla scrivania, sedette, appoggiò la testa sulle braccia sul piano del tavolo e ricominciò a piangere, con la testa in subbuglio. La stanza lentamente fu invasa dal buio della notte. Austin si alzò, si tolse gli abiti e, tentoni, si infilò nel letto. Esausto, piombò in un pesante sonno senza sogni.
Il giorno seguente, invece di andare a lezione, Austin si mise in viaggio per recarsi nella città di Quentin. Voleva, doveva vedere il luogo in cui il suo Quentin aveva deciso di rinunciare a vivere. Era come un pellegrinaggio, un dovere che sentiva di dover compiere nei confronti del ragazzo che aveva amato.
Non sapeva in che punto della ferrovia fosse avvenuto il fatale impatto. La percorse su e giù più volte. Era un tratto rettilineo dei binari, vi era una recinzione che correva a ridosso di essi... Questi due indizi ricavati dal giornale delimitavano un tratto della ferrovia lungo non più di un miglio.
Austin scavalcò la recinzione e si mise a camminare lentamente lungo i binari, guardando attentamente a terra, cercando qualche indizio che gli potesse dire dove era accaduto... Si rendeva conto che dopo un anno le intemperie dovevano aver cancellato qualsiasi indizio, eppure, per quanto irrazionalmente, proseguì nella sua indagine.
Aveva percorso in su e in giù quel tratto di binari due volte quando il fischio di un treno in arrivo lo scosse. Lo vide arrivare allora si addossò alla recinzione, scostandosi dai binari. Il treno fischiò ancora e gli passò accanto sferragliando. Lo spostamento d'aria gli scompigliò i capelli e il rumore lo fece sussultare. Si aggrappò con violenza alla recinzione alle sue spalle.
Quando il treno si fu allontanato, Austin si lasciò scivolare a terra, seduto, le spalle appoggiate alla recinzione: l'emozione era stata troppo forte. Tremava e si sentiva privo di forze. Si rialzò in piedi e, con passi malfermi riprese a camminare lungo i binari. Non aveva la forza di saltare nuovamente la recinzione, ma nella precedente esplorazione aveva visto che in un tratto era mancante: sarebbe uscito di lì.
Aveva fatto una decina di passi, non più, quando il suo piede inciampò su qualcosa e vide un blocchetto di legno rotolare, un lampo rosso e bianco... il cuore gli saltò un battito e si chinò a prendere fra le mani quel blocchetto di legno scuro, lo girò e vide lo scudo rosso con la croce bianca smaltato in cloisonné d'argento. Era velato dalla polvere, dalla pioggia, dalle intemperie di un anno, ma era senza alcun dubbio il fermacarte con la Croce di Malta che lui aveva donato a Quentin.
Quindi era più o meno in quel punto che il suo amato s'era gettato sotto il treno in corsa. Doveva certamente averlo in mano e gli era sfuggito al momento del terribile impatto. L'aveva in mano, quindi il suo ultimo pensiero era stato per lui, per il suo Austin.
Il giovane uomo ricominciò a piangere e le sue lacrime cadevano sullo smalto, lavandone via lo sporco del tempo. Con le dita cercò di ripulirlo, finché lo sfregare dei polpastrelli e le sue lacrime l'ebbero reso di nuovo brillante.
Quentin s'era ucciso pensando a lui, mentre lui... si stava rassegnando ad averlo perso per sempre... e non sapeva quanto, in realtà, lo avesse perso per sempre. E un cocente rimorso gli attanagliò l'anima.
Perché non aveva seguito l'istinto? Perché non era scappato per cercarlo? Perché s'era perso in tanti pensieri razionali invece di agire, di fare qualcosa di concreto per proteggere il loro amore e con questo la vita del suo amato? Perché aveva fatto finta di cedere per salvare se stesso dalle pressioni crescenti invece di lottare fino all'ultimo respiro per il loro amore?
Si era persino chiesto, a un certo punto, se Quentin si fosse trovato un altro ragazzo, dimenticando le sue parole che il gesto estremo aveva rivelato essere così vere: "Per sempre e solo tuo!"...
"Finché morte non ci separi", aveva scritto lui dietro alla fotografia che aveva donato a Quentin, nel piccolo, prezioso portaritratti d'argento a scatoletta. Dio, che terribile profezia aveva vergato dietro al proprio ritratto, senza immaginare quanto presto si sarebbe avverata.
Lui aveva tradito Quentin, quando aveva subito come ineluttabile la separazione dal suo ragazzo, nel momento in cui aveva accettato di smettere di lottare. Ma Quentin non aveva tradito lui, non aveva tradito il loro amore.
Tornò in paese e si informò dove fosse la casa della famiglia Morrigan. Seppe che si era trasferita a Londra da circa nove mesi. Allora andò nel cimitero accanto alla chiesa e vagò fra le tombe, finché individuò la stele di grigia pietra con su inciso:
Austin s'inginocchiò davanti alla stele, la carezzò lieve, vi poggiò la fronte e in cuor suo chiese perdono a Quentin per non aver lottato a sufficienza per proteggere il loro amore.
Infine, portando con sé la Croce di Malta, lasciò la città in cui riposavano per sempre i resti del suo Quentin e riprese mestamente la via del ritorno.
Tornato nel suo appartamentino, pose il fermacarte accanto al foglio di giornale e guardò la fotografia di Quentin pubblicata su questo. Era tutto ciò che gli restava del suo ragazzo, del suo amato. Il rimorso lo divorava, si sentiva colpevole per la morte di Quentin.
Cercò un pittore e gli chiese se, dalla fotografia pubblicata dal giornale, poteva dipingere il ritratto di Quentin. Lui gli avrebbe spiegato l'esatto colore della sua pelle, dei suoi capelli, dei suoi occhi. Il pittore accettò la commessa. Austin andava spesso a verificare il progresso del lavoro, dando le necessarie indicazioni per renderlo più somigliante. Il risultato gli piacque: sì, quello era veramente il ritratto del suo Quentin.
Allora andò da un corniciaio per fargli eseguire una bella cornice scolpita, e gli portò anche il fermacarte, perché ne staccasse lo scudo smaltato con la Croce di Malta e lo inserisse sulla cornice stessa. Quando il corniciaio montò la tela nella bella cornice, dietro di questa Austin fece inserire il ritaglio del giornale in cui era riportata la notizia del suicidio del suo ragazzo.
Ma il rimorso continuava a non dargli pace. Per tentare di attenuarlo, Austin iniziò a fermarsi ogni sera nell'osteria dei Renzulli, e a bere fino a stordirsi. Solo così poteva dormire senza avere incubi.
Ma questo iniziò a influire negativamente sui suoi studi, le sue composizioni e relazioni scritte erano sempre più ingarbugliate e inesatte, a volte faceva ad alta voce osservazioni inopportune e irriverenti, interrompendo le lezioni, e gli insegnanti si resero conto che, pur non essendo questi mai veramente ubriaco, uno spiacevole odore di vino proveniva dall'alito del ragazzo.
Il decano lo convocò e cercò di capire il motivo di quella inspiegabile trasformazione nel comportamento di Austin, che era sembrato all'inizio uno dei più promettenti allievi di quella università. La risposta del giovane studente lo lasciò perplesso.
Puntandogli contro un dito, Austin disse, con voce bassa e con un sorriso sciocco: "Non è buffa la vita, Decano? Chi meritava di vivere è morto. E chi non lo merita, spreca la vita perdendo tempo in cose vane! Vanitas vanitatum, giusto? E poi... vi infastidisce che io beva vino e il mio alito mi tradisca? Ma in vino veritas, Decano... questo che sentite nel mio alito è il puzzo della verità, il puzzo della vita."
Il Decano, visto inutile ogni tentativo di ragionare con il giovane uomo, scrisse una lettera al padre, avvertendolo di quanto stava accadendo ad Austin e del suo decrescente rendimento negli studi.
Austin ricevette una lettera dal padre. La osservò senza aprirla, la rigirò nelle mani, poi prese una scatola, ve la ripose, ancora chiusa, e sul coperchio scrisse nel suo elegante corsivo: "Sentina d'ogni rettitudine" e la ripose al centro dello scaffale con i suoi libri. Altre lettere arrivarono dal padre, e tutte, ancora chiuse, s'accumularono nella scatola.