GLI EMIGRANTI CAPITOLO 9
UNA STORIA NASCOSTA NEL CUORE

Appena furono nella loro stanza, dopo essersi tolti emtrambi le scarpe, Alceo sedette sul letto, a fianco di Arturo.

"Io devo chiederti perdono, Arturo..." esordì il giovane uomo, lo sguardo basso, la voce esitante.

"Per che cosa?" gli chiese il ragazzo guardandolo e vedendo, ora che Alceo non aveva più bisogno di fingere, quanto il suo uomo fosse turbato.

"Io... a casa di Cornelio... ti ho tradito... ho fatto sesso con Fabián."

"Ma quando? Siete stati sempre con noi... No, è vero, per un po' non vi si è visti... E Julio... magari era d'accordo con Fabián, adesso che ci penso... Eh già! Julio per un po' m'ha fatto una corte spietata."

"E tu?" chiese Alceo, quasi vergognandosi di fargli quella domanda.

"Beh... la corte di Julio da un parte mi lusingava, ma dall'altra mi infastidiva anche."

"Io, invece... Io non mi sono opposto quando Fabiàn... quando ha voluto... quando mi ha preso. Anzi, lo desideravo, mi piaceva, capisci? Per questo mi sento così... per questo mi vergogno tanto, ora. Ma avrei dovuto pensarci allora, non dopo... Dio, Arturo, mi dispiace così tanto."

"Tu... tu mi hai detto più volte che desideravi che io ti prendevo, ma io ti ho sempre detto che non mi andava... Perciò forse è anche colpa mia se... se ti sei lasciato prendere da lui. Ma io so che tu mi ami... non è così?"

"Certo che ti amo! Ma forse non abbastanza se è bastato che lui ci provasse per cedergli così. Mi chiedo come è potuto succedere... Non per trovare scuse, ma per capire. Forse... forse oltre al desiderio di essere preso... forse perché Fabián, fisicamente, mi ricorda Leo..."

"Chi è Leo? Non mi hai mai parlato di lui." disse Arturo prendendogli una mano fra le sue, per fargli sentire il proprio calore, il proprio amore, la sua vicinanza non solo fisica.

Alceo allora, per la prima volta, raccontò al suo Arturo la storia di Leo...

"Il 23 maggio del 1915 l'Italia dichiarò guerra all'impero austro-ungarico. Io, che avevo appena compiuto diciotto anni, facevo parte del contingente che era stato mandato a combattere nell'alto Cadore sul Col di Lana, e avremmo dovuto riuscire a tagliare una delle principali vie di rifornimento degli austriaci al settore del Trentino attraverso la Val Pusteria.

"Fra i miei commilitoni c'era un ragazzo di ventitré anni. Si chiamava Leone Pozzo, ma tutti lo chiamavano Leo. S'era sposato pochi mesi prima che lo richiamassero sotto le armi. Leo... era molto bello, e anche simpatico. Era gentile con tutti, era anche molto forte, determinato ed era rispettato sia dai commilitoni che dai superiori.

"Io mi ero subito sentito fortemente attratto da Leo, ma sapendo che era sposato, immaginavo che lui non potesse essere interessato a me, perciò mi limitavo a sognarlo. Però facevo del tutto per stargli vicino, specialmente quando ci si lavava, così potevo vedere il suo corpo affascinante, quando si mangiava, così si poteva chiacchierare, e quando si combatteva, in trincea, perché accanto a lui mi sentivo protetto e sicuro.

"L'attrazione, almeno in me, si trasformò presto in amore: avrei fatto qualsiasi cosa per lui, avrei dato la vita. Lo amavo in silenzio, facendo bene attenzione che nessuno, e men che meno Leo, potesse sospettare il mio amore. Non era molto difficile, perché in quelle condizioni di estremo disagio e di costante pericolo, molti fra noi si stringevano in una speciale amicizia con un commilitone.

"La nostra era una guerra essenzialmente di trincea, in cui si cercava di bloccare il nemico. Da una parte e dall'altra si cercava di battere le trincee nemiche con i cannoni, per obbligare la parte avversa a lasciarle, a ritirarsi. Si era a metà novembre del 1915 quando la nostra parte della trincea fu improvvisamente investita da colpi di obice.

"Mi sembrava di essere come un topo in trappola, che aspetta solo che arrivi la sua fine. Ero terrorizzato, i colpi cadevno attorno a noi e sembrava che i tiri si facessero via via più precisi, che ci cercassero... vidi i nostri commilitoni che stavano acquattati nel camminamento sulla nostra destra saltare in aria come fantocci disarticolati. Poi una granata scoppiò vicino a quelli che erano nella trincea alla nostra sinistra e una pioggia di terra e detriti li investì...

"Io, non mi vergogno a dirlo, fui preso dal panico e volevo uscire dalla trincea e fuggire... stavo per farlo, quando Leo mi tirò giù: "Se esci, ti falciano con la mitragliatrice, non aspettano altro!" mi urlò e mi venne addosso per impediri di muovermi.

"Muoriamo tutti!" urlai io.

"Può darsi..." rispose Leo e... e mi baciò in bocca, con una passione, un fuoco, che mi sconvolsero ancora più della paura delle granate.

"Mi aggrappai a lui e gli restituii il bacio. Sentii che era eccitato... lo ero anche io. Gli aprii la patta dei calzoni... mi abbassai i miei... e mi prese lì, nella trincea, mentre intorno a noi continuava a esplodere l'inferno... ma noi c'eravamo rifugiati in un nostro paradiso privato... e ricordo che pensai che a quel punto non mi sarebbe dispiaciuto morire così, unito all'uomo che amavo.

"Quando entrambi raggiungemmo l'orgasmo, io non avevo più paura.

"Grazie." gli dissi sentendomi felice.

"Non sei... incazzato con me?" mi chiese Leo incerto, mentre ci riabbottonavamo i calzoni e riprendevamo i nostri fucili.

"No, anzi... Io... io ti amo, Leo! Io ti appartengo... se mi vuoi!"

Lui fece un sorriso dolcissimo: "Anche io ti amo, Alceo. Vuoi essere il mio ragazzo?"

"Finché avremo vita, sì! Ma tu... tu sei sposato." gli dissi iniziando di nuovo a ragionare.

"Ho sempre provato attrazione per i bei ragazzi come te... e mi sono innamorato di te dai primi giorni che ci si è visti."

"Non me l'hai mai fatto capire." gli dissi, stupito ma felice per quella dichiarazione.

"Non credevo che anche tu... Finché, standoti sopra, prima... ho sentito che eri eccitato e allora..."

"Diventammo così amanti. Non era facile riuscire ad appartarci per fare l'amore, ma neanche impossibile. Non ho idea se qualcuno dei nostri commilitoni ha mai immaginato quello che c'era fra noi due... nessuno disse mai niente. Come t'ho detto, c'erano amicizie molto forti, in quell'inferno, in quello schifo di guerra. Forse anche altri, in realtà erano amanti, chi lo sa?

"Si era da quasi un anno in guerra. Si può dire che non passasse giorno che qualcuno dei nostri compagni morisse... era un vero e proprio gioco al massacro, da tutte e due le parti. Poi gli austriaci sfondarono sull'Isonzo e iniziò la nostra ritirata. Anche noi fummo spostati, per cercare di rallentare l'avanzata degli austriaci, ma parevano inarrestabili... Si arretrava, ci si ritirava, il morale era a terra.

"Un giorno, a un certo punto, ricevemmo l'ennesimo ordine di ripiegamento. Non eravamo veramente sbandati, ma quasi... Onestamente... si cercava soprattutto di mettere in salvo la pelle. A un certo punto, era sera, poco prima del tramonto, non vidi più Leo, non capivo dove fosse, mi chiedevo se per caso fosse stato ferito... lo volevo trovare, lo dovevo cercare.

"Da vero incosciente, devo ammetterlo, mi inoltrai nel bosco per cui eravamo passati, tornando indietro. Improvvisamente mi trovai di fronte un soldato austriaco, il fucile puntato verso di me. Cercai di scappare, inciampai, caddi e sentii il suo colpo di fucile sfiorarmi, senza cogliermi: la caduta m'aveva salvato. Cadendo persi la presa sul mio fucile che cadde lontano. L'austriaco mi fu sopra, la baionetta del suo fucile puntata contro il mio petto. Alzai le mani in segno di resa, sperando che non mi ammazzasse.

"Quello mi guardò, immobile. Poi disse qualcosa e fece un cenno con la canna del fucile e, tenendomi sempre sotto tiro, arretrò leggermente. Lentamente, sempre tenendo le mani alzate, mi alzai a sedere. Quello mi legò i polsi, poi le caviglie, poi sedette accanto a me e mi disse qualcosa. Non capii, non conoscevo il tedesco. Scosi la testa. Lui, in una specie di stentato italiano, mi disse: "Tu prigioniero di Kurt. Domani tu e Kurt tornare da mia armata. Tu no fuggire io no ammazzare. Capito?"

"Annuii. Era un ragazzone sui venticinque, trenta anni. Mi dava l'idea che fosse un montanaro. Era abbastanza ben fatto. Tirò fuori un pezzo di pane e si mise a sbocconcellarlo, senza offrirmene e mi guardava con un sorrisetto ironico. Poi fece il gesto di porgermi il pane e io annuii: stavo cominciando ad accorgermi di avere fame. Lui scosse la testa, ritirò la mano con il pane, poi con l'altra mano si palpò la patta e disse: "Se tu prende kvesto, io dopo dare kvesto a tu."

"Capii che cosa voleva e annuii. Lui si alzò, si tirò fuori il membro già duro e lo presentò alle mie labbra con un sorrisetto divertito. Lo abboccai, lo leccai, lo succhiai. Lui emetteva brevi mugolii di apprezzamento. Poi si staccò da me, mi girò come un fuscello, mi calò i calzoni e mi venne sopra, infilandomelo tutto dentro, e mi fotté con vigore. E dopo mi dette il pane... Poi dormimmo.

"Durante la notte mi svegliai. Kurt era poco lontano da me, dormiva ronfando lievemente, il suo fucile e il mio accanto a lui. Cercai di liberarmi dalle cinghie con cui m'aveva legato polsi e caviglie. Riuscii a portare alla bocca i polsi e con i denti tentai di rompere il cinghietto di pelle, ma mi feci male senza riuscire. Poi riuscii a far girare il cinghietto finché la fibbia di chiusura fu verso me. Afferrai il capo con i denti e tirai... dopo diversi tentativi riuscii a sfilare il puntalino dal foro e ad allentare il cinghietto.

"In breve lo potei allentare e liberarmi. Guardavo spesso Kurt, con il cuore che mi batteva furiosamente in gola: dormiva ancora, tranquillo. Mi liberai anche le caviglie, poi scivolai silenziosamente accanto al soldato austriaco e gli sottrassi i due fucili. Quindi, prima che si svegliasse, riuscii a legargli assieme le caviglie. Lo svegliai, puntandogli la baionetta alla gola.

"Mi guardò stupito, poi impaurito, ma rimase immobile. Allora gli legai i polsi ma, per prudenza, non davanti come avventatamente aveva fatto lui con me, ma dietro la schiena. Poi gli calai i calzoni e lo fottei a mia volta, con gusto, più per vendicarmi che per godere... anche se logicamente godetti.

"La mattina seguente lo feci alzare e lo sospinsi, con la baionetta puntata contro la sua schiena, in direzione di dove avrebbero dovuto esserci gli italiani. Fui fortunato, dopo un paio di ore fummo avvistati dai nostri, che ci vennero incontro e presero in consegna Kurt e il suo fucile... E finalmente vidi Leo, che era stato terribilmente in pensiero per me. Fui trattato da eroe... Ma a me interessava solo aver ritrovato Leo vivo e sano.

"Venne il 15 giugno del 1918. Sessantasei divisioni dell'esercito austro-ungarico attaccarono con violenza le nostre postazioni sul Piave. Ci furono attacchi forsennati per circa otto giorni, ma gli austriaci non riuscirono a sfondare le nostre difese. Giungemmo al mese di ottobre e le posizioni parevano in stallo, le trincee da una parte e dall'altra erano sempre sugli stessi terreni. Ci si ammazzava a colpi di granata o al "tiro al piccione", cioè tirando su qualsiasi cosa si vedesse muovere nelle trincee nemiche.

"Si era a metà ottobre. Leo e io eravamo in trincea, e in un momento di calma, si stava parlottando sottovoce. Io mi sentivo sempre più innamorato di lui, anche perché Leo mi faceva sentire il proprio amore, quando ci si poteva unire, e non solo fisicamente.

"Come faremo, quando finirà questa maledetta guerra?" gli chiesi a un certo punto.

Lui capì cosa volessi dire: "Se ne usciremo vivi... andremo da qualche parte, tu e io."

"Vuoi dire... che lasceresti tua moglie? Per me?" gli chiesi stupito ma anche compiaciuto.

"Ci siamo sposati solo perché l'avevano deciso le nostre famiglie. Non c'è amore fra lei e me. Invece, te, io ti amo... e è così bello potertelo dire... Non voglio rinunciare a te, Alceo."

"Né io a te!" gli risposi, radioso, commosso e grato.

"Ma proprio pochi giorni dopo questo dialogo... un obice scoppiò proprio accanto a noi... il suo corpo mi fece scudo, io ne ebbi solo qualche insignificante graffio... ma lui era stato copito in pieno da uno spezzone... Mi tolsi l'elmetto, glielo tolsi, lo presi fra le mie braccia... lo baciai... lo implorai di non lasciarmi... Lui mi sorrise, poi un fiotto di sangue gli uscì dalle labbra e... se ne andò.

"Io... io a quel punto volevo morire, non mi importava più nulla della vita, senza di lui... Urlando con tutto il fiato che avevo in gola, mi alzai e uscii correndo dalla trincea... Urlavo e correvo come un matto verso le trincee austriache, aspettando la raffica che mi avrebbe permesso di unirmi di nuovo al mio Leo... Finché caddi rovinosamente: dovevo aver inciampato in qualche cosa, non so... battei la testa e persi i sensi.

"Quando tornai in me, ero steso su una lettiga... I miei commilitoni, vedendomi uscire allo scoperto e correre come un folle urlando e sparando, erano usciti tutti dalla trincea e avevavono assaltato quella degli austriaci, che per fortuna in quel punto non avevano mitragliatori, riversandovisi sopra come un'orda e conquistandola.

"Mi fu data la medaglia al valore militare, per "aver guidato un'eroica carica, a sprezzo della propria vita"... ed aver permesso quella piccola vittoria sugli austriaci che comunque erano abbattuti e demoralizzati perché le cose stavano volgendo al peggio per loro.

"Il 24 ottobre il nostro esercito, con un limitato supporto degli americani, iniziò l'offensiva di Vittorio Veneto contro l'impero austro-ungarico, che durò fino al 4 novembre, e così vincemmo la guerra.

"Io allora andai al paese di Leo, cercai sua moglie, le consegnai le poche cose di Leo e la mia medaglia. Non ero stato io a portarle via il marito, erano stati gli austriaci... che almeno la sua famiglia ne conservasse un buon ricordo. Non potevo fare niente altro per lui." disse Alceo concludendo il suo racconto.

Dopo un breve silenzio, riprese: "Fabián, fisicamente, mi ricordava il mio Leo... Questo non giustifica il fatto che ho ceduto alle sue avance, al suo desiderio... Non era Leo e comunque io avevo dato la mia parola a te. Non avrei dovuto cedergli così... così facilmente. Non sto cercando scuse, Arturo... non ho scuse."

"Amore... io so che tu mi ami, anche se hai sbagliato. E io ti amo, ti amo come prima, anzi, di più, perché avresti potuto non dirmi niente, e invece sei stato sincero con me, anche se so che ti è costato molto."

"Non potevo non dirti niente: ti avrei tradito due volte."

"E comunque, è un po' anche colpa mia, Alceo, perché tu più d'una volta m'hai chiesto di prenderti, m'hai detto che lo desideravi, ma io non ho mai voluto."

"Ma se a te non piace..."

"In realtà non ci ho mai provato... non ne ho mai sentita l'esigenza... e magari, chi sa, forse mi può piacere. Ma quello che è più importante è che se piace a te, io devo pensare a te, più che a me."

"Io... penso di poterne fare a meno. Devo solo stare più attento."

"Ma non è giusto. Io devo almeno provare a farti contento, no?"

"Ma io sono contento, con te... E poi, dopo che era morto Leo, per quasi un anno ho vissuto con un uomo che si faceva solo prendere da me e che non mi prendeva..."

"Il conte?"

"No, prima di lui..."

"Chi era? Raccontami..."

"Quando lasciai Medolla, il paese di Leo, tornando a casa mia a piedi, incrociai per via un ombrellaio, impagliatore, affilatore girovago che si chiamava Bartolo. Era un uomo di trentatré anni, dall'aria simpatica. Mi chiese, visto come ero vestito, dove avessi fatto la guerra. Lui non l'aveva fatta perché era stato giudicato fisicamente non idoneo, per un problema al cuore.

"Attaccamo bottone. L'aiutai a spingere il suo carretto. Era un carretto ingegnoso, che s'era costruito da solo, che la notte poteva trasformare in una specie di tenda-casetta in cui dormiva. A sera mi fece vedere come lo trasformava. Prima mi propose di mangiare con lui e accettai. Poi, più tardi, mi propose anche di fermarmi a dormire nel suo carretto... e accettai di nuovo.

"Prima di metterci a dormire m'ero reso conto che mi stava sondando e immaginai che avesse voglia di fare sesso con me. Infatti, quando ci fummo stesi sul suo giaciglio dentro al carretto, lui mi toccò. Sentì che ero eccitato e mi si offrì... lo presi. Fu piacevole per tutti e due. La mattina seguente mi propose di restare con lui e accettai. Giravo con lui, imparai a impagliare le sedie, a affilare le lame, ma per riparare gli ombrelli proprio non parevo dotato...

"Ma dopo poco che eravamo assieme notai che, quando ci si fermava in un paese e lui girava per cercare lavoro, mentre io stavo al carretto e affilavo i coltelli e le forbici, o impagliavo le sedie, lui a volte riusciva ad appartarsi con qualche massaia e scopava con lei... E io mi sentii geloso e trascurato.

"Lui mi disse che dopo tutto non potevo proprio lamentarmi, che ero per lui un amico e che io potevo dargli quello che nessuna donna poteva: un bell'uccello nel culo. Ma che lui preferiva metterlo a una donna e non a un uomo. Così... dopo un po' che si era assieme, io decisi di lasciarlo e di fare la mia strada, di trovarmi un lavoro da qualche parte e di fermarmi.

"Dopo tutto quella vita era scomoda, e non è che in due si guadagnasse molto. Fu un paio di mesi dopo che ebbi lasciato lui che incontrai il conte e che mi assunse come suo stalliere e come suo ragazzo da letto. Anche al conte piaceva di più essere montato che montare, però qualche volta lo faceva."

Arturo non solo perdonò Alceo, ma, come aveva detto, volle provare a penetrare il suo uomo... e si accorse che, contrariamente a quanto aveva pensato, gli piaceva farlo. Forse soprattutto perché vedeva quanto Alceo era felice nell'accoglierlo in sé. Così la loro relazione si equilibrò e si rafforzò ulteriormente e il loro amore crebbe con essa.


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