Kimura Kiyoshi, di prima mattina, un borsone a tracolla contenente le poche cose per lui veramente preziose, era nella stazione ferroviaria, il biglietto per la linea di Tottori in mano, che attendeva il treno.
Chi avesse guardato quel bel ragazzo di venticinque anni, snello, alto, dall'espressione seria, impenetrabile, non avrebbe potuto immaginare la tempesta che gli stava devastando l'anima.
Non riuscendo a decidere con quale dei due uomini dovesse restare, aveva deciso di fuggire, di abbandonare tutto, di scomparire. In questo modo, se ne rendeva conto, avrebbe fatto del male a entrambi, ma gli pareva più giusto così, perché comunque non era riuscito a fare una scelta come avrebbe dovuto.
Probabilmente, anche se non se ne rendeva conto, c'era anche una volontà del subconscio di "auto-punizione" per aver permesso il crearsi di quella situazione.
"E poi," si diceva, "io non sono degno di nessuno dei due... ho continuato a ingannarli per più di un anno... Però li amavo... li amo."
Giunse il treno. Salì con gli altri passeggeri in attesa. Scelse un gruppo di quattro poltrone vuote, sedette accanto al finestrino, appoggiò il borsone sul sedile alla sua sinistra, allungò le gambe e si appoggiò con la spalla e la testa contro la parete. Sperava che il treno non si riempisse troppo e di scoraggiare così altri viaggiatori di sedere dov'era lui.
Il treno partì dopo pochi minuti. Kiyoshi guardava fuori dal finestrino le case sfilare e fuggire veloci, muovendosi su diversi piani quasi come un fondale dei cartoni animati. Udiva il sommesso chiacchiericcio degli altri viaggiatori, il lieve, ritmico sferragliare del treno sui binari. Sembrava quasi il coro dei cantori del Noh che narravano la vicenda, che sottolineavano le emozioni dello shi-te, il primo attore, mentre questi danzava.
Chiuse gli occhi e le immagini dei volti di Goroh e di Shinji apparvero sul nero-rosato delle palpebre, quasi come antiche e preziose noh-men, maschere del noh. Riaprì subito gli occhi, perché quelle maschere lo guardavano con occhi pieni di disapprovazione e di dolore.
Il rumore del treno sembrava chiamarlo, interpellarlo con un tono di rimprovero: "ki-yo-shi do-ve-vai, ki-yo-shi che-fai, ki-yo-shi do-ve-vai ..." si portò le mani alle orecchie. Si rammaricò di non aver preso con sé il lettore mp3, per intontirsi con la musica.
Prima di partire aveva inviato una lettera ai genitori, dicendo loro che partiva per un lungo viaggio all'estero, di non cercarlo. Aveva deciso di diventare, l'aveva scritto chiaramente, in bei caratteri, uno "yuku-e-fu-mei" uno "scomparso". "Ho commesso un grave errore, non ho altro modo per pagarlo" aveva scritto, e aveva concluso chiedendo loro di perdonarlo.
Aveva lasciato quasi tutte le sue cose nella stanza... chissà che fine avrebbero fatto? Ma non gliene importava. Man mano che il treno lo portava lontano da Kyoto, il suo cuore, invece di sentirsi più leggero pareva divenire più pesante.
Il treno si fermò a Fukuchiyama. Ancora due stazioni, Wadayama, Tottori e infine Kurayoshi. Sul marciapiede vide due ragazzi che parlavano sorridendosi, e lesse nella loro espressione uno scambio di tenerezza che probabilmente lui non avrebbe mai più avuto il diritto di sperimentare.
Senza rendersene conto aveva trattenuto il respiro, perciò emise automaticamente un profondo sospiro. Perché mai si era innamorato così, di due diversi uomini? E come avevano potuto, prima Shinji poi Goroh, innamorarsi di uno come lui?
Un'espressione di profondo dolore affiorò sul suo volto gentile, rendendolo una maschera di bellezza tragica. Avrebbe voluto piangere e non gli importava se i viaggiatori che passavano fra le file di sedili l'avrebbero potuto vedere: non gli importava più di nulla.
Chiuse di nuovo gli occhi, sperando di poter dare un po' di requie alla propria mente, al proprio cuore. Il treno lasciò la stazione e riprese la sua corsa. Cercò di rilassarsi, perché s'era reso conto che fin dalla mattina tutti i muscoli del corpo erano talmente tesi da essere indolenziti. Respirò a fondo, contando il tempo di ogni espirazione e di ogni inspirazione.
"Tutto bene?" udì una voce chiedere.
Non vi fece caso.
"Ti senti male?" insisté la voce.
Aprì gli occhi. Sul sedile di fronte al suo borsone s'era seduto un ragazzo, poco più giovane di lui, che lo guardava con un sorriso velato di preoccupazione.
"No..." Kiyoshi gemette quasi.
"Vuoi un po' d'acqua?" gli chiese il ragazzo, porgendogli una bottiglia di minerale.
"Grazie..."
"Grazie sì o grazie no?" chiese il ragazzo.
Kiyoshi drizzò la schiena e prese la bottiglia: "Grazie... hai un bicchiere?"
"Sì, aspetta." rispose il ragazzo, frugò nel sacchetto e gli porse un bicchiere di carta.
Kiyoshi lo riempì, rese la bottiglia all'altro con un sommesso "grazie", e sorseggiò l'acqua.
"Va meglio?" gli chiese il ragazzo mettendo via la bottiglia.
"Forse..."
"Dove scendi?"
"A Kurayoshi."
"Anche io. Abiti lì?"
"No."
"Io mi chiamo Ishida Shiroh."
"Io... Kiyoshi." rispose, senza dire il cognome.
"Ti sto... infastidendo?"
"Non importa."
Il ragazzo fece un risolino: "Perciò... sì. Scusa."
"No, davvero, non importa. Non importa niente. Niente di niente."
"È molto grande, vero?" chiese il ragazzo.
Kiyoshi capì che cosa volesse dire. "Sì, molto grande. Ed è colpa mia."
"Il dolore... purifica, diceva sempre mio nonno."
"Spero che sia vero."
"Non bisogna sfuggirlo, bisogna affrontarlo."
"Non ne sono capace."
"All'inizio ho formulato un voto, sperando di rendere tutte le persone uguali a me, senza alcuna distinzione tra noi." recitò il ragazzo.
"Il Sutra del Loto... sei della setta Nichiren?"
"Nam-myoho-renge-kyo. Dedico la mia vita alla mistica Legge del Sutra del Loto" citò ancora Shiroh. "No, sono un seguace della setta Tendai."
"Quella del Sanbutsu-ji, del Tempio dei Tre Buddha?"
"Esatto."
"Sto andando lì... spero che lì potrò guarire."
"Non è escluso. Il Jushoku, cioè l'abate, è mio zio, il fratello maggiore di mia madre. Si chiama Akiyama Yoshitaka. Se credi, puoi dirgli che mi hai conosciuto. Ricordi il mio nome? Sono Ishida Shiroh."
"Da Kurayoshi, è difficile andare fino al Sanbutsu-ji?"
"Devi prendere l'autobus per Misasa, una corsa di circa venti minuti. Poi da lì o fai l'autostop o prendi un taxi... più o meno altri venti minuti."
"Credi che... mi ammetteranno?"
"Vuoi farti monaco?"
"Penso..."
"Akiyama Yoshitaka è un uomo di profonda cultura e un monaco molto austero; dipende se riesci a convincerlo ad accettarti o no. Non sarà facile, temo."
Il treno aveva appena lasciato Wadayama.
Shiroh disse: "Da ragazzino pensavo di farmi monaco, mio zio non mi ha ammesso. Ha avuto ragione, ora lo capisco, ma allora ero davvero incavolato con lui. Che fosse proprio mio zio ad avermi detto di no, mi faceva doppiamente rabbia. Un sentimento molto poco buddista." commentò con un sorriso il ragazzo.
Kiyoshi annuì, serio.
"No davvero, non ero tagliato per la vita da monaco. Rinunciare a tutte le passioni? Bah! Sarei stato solo uno dei tanti cattivi monaci."
"Io invece vorrei proprio imparare a rinunciare a tutte le passioni..." commentò in tono triste, accorato, Kiyoshi.
"Male d'amore?" chiese quasi sottovoce Shiroh.
Kiyoshi annuì, e il dolore, che s'era attenuato parlando con l'altro, deformò di nuovo l'espressione del suo bel volto.
"Sei fortunato, allora."
Kiyoshi lo guardò sorpreso: come poteva dirgli una cosa così, come poteva reputarlo fortunato se stava soffrendo, e soffrendo in modo tanto atroce, per causa dell'amore? Era un ragazzotto stupido e superficiale, evidentemente!
Ma Shiroh continuò: "Se soffri a causa dell'amore, significa che per lo meno l'hai conosciuto. Pensa che vita arida hanno quelli che non conoscono mai l'amore! A me non è ancora capitato di innamorarmi, ma sono giovane, perciò spero di conoscere un giorno l'amore, anche se poi dovesse costarmi le pene peggiori."
"Dici così proprio perché non le conosci, le pene che si possono provare." commentò Kiyoshi con voce strozzata, cercando di evitare di mettersi a piangere.
"La luce non può essere spenta dal buio..." gli disse Shiroh con un sorriso gentile.
"Che vuoi dire?"
"Che il buio non è la fine della luce, ma solo una piccola zona in cui la luce, per un breve periodo, non può arrivare. La luce esiste, il buio no. Durante la notte non riceviamo più la luce del sole, eppure il sole continua a brillare. In una stanza chiusa non entra la luce, ma le vie ne sono piene. Basta attendere che la terra giri, e il giorno torna, basta che tu esca dalla stanza o che apri una finestra e vedi di nuovo la luce. Ora tu sei semplicemente in una stanza buia, o in una notte buia..."
"O in una stanza buia in una notte buia..." commentò Kiyoshi con dolore.
"E sia! Ma il sole continua a splendere." ribatté Shiroh. "Perciò io spero di conoscere l'amore, anche se poi verrà il dolore. Perciò ti ho detto che sei fortunato."
Il treno si fermò per diversi minuti a Tottori. Molti scesero, alcuni salirono. I due ragazzi rimasero in silenzio, Kiyoshi con lo sguardo perso nel vuoto; Shiroh lo guardava, invece, con un senso di empatia. Il treno si rimise in moto.
"Un giorno il sole si spegnerà e sarà il buio eterno..." disse Kiyoshi.
"Per ogni stella che muore, altre nascono... ma è un discorso vano, inutile; che ne sappiamo noi realmente? E quando il nostro sole si spegnerà, questo 'tu' e questo 'io' non ci saranno più e il problema del nostro amore e del nostro dolore non esisterà più. Quello che conta è ora, oggi, il presente. Noi non ne sappiamo nulla dell'eterno, conosciamo solo il finito." gli disse Shiroh.
"Quanti anni hai?" gli chiese Kiyoshi.
"Ventuno."
"E che fai? Studi filosofia?"
Shiroh sorrise divertito: "Faccio il tessitore di kasuri, come mio padre, e mio nonno e il nonno di mio nonno. Sai cos'è? Il tessuto con trame indaco e orditi bianchi, intrecciato in modo di formare disegni di fiori bianchi su fondo azzurro..."
"Un bel lavoro?"
"Noioso, pesante, stancante... ma, oh... quant'è bello il risultato!" rispose il ragazzo con occhi luminosi.
"Vorrei avere la tua saggezza."
"Impossibile! Tu puoi avere solo la tua saggezza, mai la mia."
"Dov'è? Non la trovo..."
"Hai presente un bel broccato? Come quello di Nishijin? Di Kyoto?"
"Sì, certo... Ho vissuto per cinque anni a Kyoto."
"Se lo guardi dal rovescio, è un guazzabuglio di fili e di colori, disordinato, brutto da vedere, lo getteresti via... Ma dal dritto è perfetto, bello da ammirare, prezioso da avere. Smetti di guardare la tua vita dal rovescio, scopri il bel disegno che vi è dal dritto."
"Quando si è al buio... non si riesce a distinguere il dritto dal rovescio..." si lamentò Kiyoshi.
"È vero, hai ragione... o meglio, solo dita sensibili ed esperte ne sarebbero capaci. Quindi, o ritrovi la luce, o acquisisci dita esperte e sensibili come quelle di un cieco, che vede e apprezza con le dita quello che gli occhi non gli permettono di vedere e apprezzare."
"Hai una risposta per tutto, tu?"
"No, assolutamente no. Ma so che la risposta c'è, anche se per il momento non la so trovare. Forse un giorno la troverò o forse altri la troveranno per me."
"E forse non la troverai mai, e nessuno mai la troverà per te."
"Mi accontento di ciò che è possibile. Spesso, quello che si cerca lontano lontano, in realtà è lì a portata di mano... Oggi e qui."
"Come negli haiku..."
Il treno rallentò.
"Ecco, stiamo arrivando a Kurayoshi." annunciò Shiroh. "Se vuoi ti accompagno alla fermata degli autobus per Misasa, così non perdi tempo."
"Sei molto gentile."
"Una cosa da nulla. Spero di non averti annoiato con le mie chiacchiere."
"No."
I due ragazzi lasciarono il treno. Shiroh lo guidò fino al terminal degli autobus e Kiyoshi acquistò il biglietto per Misasa. Si salutarono.
L'autobus era quasi vuoto. Kiyoshi sedette nella fila di posti dietro al conducente, dalla parte opposta, in modo di vedere la strada che stavano percorrendo.
Una volta arrivato a Misasa, andò in un piccolo ristorante a mangiare un piatto di ramen, poi cercò un taxi. Chiese quanto volesse per portarlo fino al Sanbutsu-ji. Non era troppo caro. Salì e vi si fece condurre.
Qui giunto, entrò nel recinto del complesso di templi, chiese dove doveva rivolgersi per chiedere udienza all'abate, e andò a bussare alla porta che gli era stata indicata.