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una storia originale di Andrej Koymasky


I TRE BUDDA CAPITOLO 5
L'AMMISSIONE NEL TEMPIO

Un giovane novizio arrivò ad aprire la porta. Kiyoshi gli chiese se poteva essere ricevuto dall'abate.

"Il Jushoku in questo momento è occupato, ma se vuole attenderlo..." rispose il novizio.

"Sì, grazie."

"Mi segua."

Fu portato in una stanza da sei tatami, spoglia, con solo due cuscini sul pavimento. Kiyoshi sedette, poggiò il borsone dietro di sé e attese. Dopo circa mezz'ora, il novizio tornò e gli pose davanti una tazza di tè: "Il Jushoku la prega di attendere."

Kiyoshi si inchinò in segno di ringraziamento. Quando il ragazzo fu uscito, sorbì il buon tè.

Dallo shoji dai pannelli coperti di traslucida carta a mano giungeva un discreto chiarore e a volte i raggi del sole calante vi proiettavano sfreccianti ombre di uccellini in volo, di cui si udivano i forti pigolii, simili a fischi.

Poi i pannelli di carta si oscurarono, man mano che il sole raggiungeva il luogo del suo riposo. Quando nella stanza era quasi buio, tornò il novizio con una lanterna, che pose sul pavimento di tatami.

"Il Jushoku tarderà ancora un poco." gli disse.

"Va bene, grazie." rispose Kiyoshi.

Restato nuovamente solo, Kiyoshi sentì penetrare nella stanza un lontano canto sommesso: i monaci stavano svolgendo il rito serale. La fiammella della candela dentro la lanterna danzava lieve, suscitando misteriosi ideogrammi di ombre e luci sulla carta che la proteggeva.

Finalmente la porta si aprì di nuovo e un uomo imponente, con un ampio kimono viola sotto cui ne spiccava uno bianco, entrò e salutò Kiyoshi in modo formale.

"Benvenuto nel Sanbutsu-ji. Sono Akiyama Yoshitaka, il Jushoku di questo complesso. Mi hanno detto che ha chiesto di me. Che cosa ha guidato i suoi passi qui da noi?"

Kiyoshi si inchinò: "Il mio nome è Kimura Kiyoshi. Chiedo umilmente di essere ammesso nel Sanbutsu-ji come aspirante monaco."

"Chi le ha dato il mio nome?"

"Ho conosciuto suo nipote Ishida Shiroh."

"Siete amici?"

"No. Ho avuto una conversazione con lui sul treno che mi ha condotto fino a Kurayoshi. Quando ha saputo che intendevo chiedere ammissione nel Sanbutsu-ji, mi ha detto di chiedere di lei."

"Capisco. Perché vuole entrare nel nostro tempio, nella scuola Tendai?"

"Per isolarmi dal mondo. Per vedere di ritrovare la pace. Per rimediare ai gravi errori del mio passato."

"Ha problemi con la legge?"

"Non con la legge dei codici degli uomini, ma con la legge interiore."

"Le spiace parlarmene?"

Il volto di Kiyoshi perse la sua imperturbabilità e si colorò di dolore: "Il passato... non esiste più."

"Forse neanche il presente. Tutto è vuoto."

"Vorrei calmare la mia mente e imparare a discernere la realtà."

"Un lodevole intento, e la base del nostro meditare: lo shikan. Shi, la meditazione praticata con il semplice 'stare seduti', lasciando i nostri pensieri sorgere poi cadere come petali di un fiore, senza tentare di afferrarli ma neanche permettere di esserne afferrati. Kan, la meditazione che conduce a sperimentare intuitivamente la 'reale natura' della realtà, senza dare giudizi, senza preconcetti o pensieri di desiderio, senza brama..."

"Sì... questo."

"La nostra vita non è una vita di agi."

"Non cerco agi, Akiyama-jushoku."

"È una vita di rinunce..."

"Ho rinunciato a tutto... a tutto." mormorò Kiyoshi.

"Tutto... che cosa? Vorrebbe dirmelo?"

"Tutto... Mi permetta di non specificare... di dimenticare."

"Perché ha scelto questo complesso del Mitoku-san?"

Kiyoshi estrasse dalla tasca della giacchetta una fotografia ritagliata dall'opuscolo pubblicitario e la pose davanti all'abate. L'uomo vi lanciò un'occhiata.

"Il Nageire-do, o Oku-no-in... un monumento nazionale, vecchio di circa 1300 anni."

"Vorrei essere autorizzato a vivere lassù."

"È normalmente chiuso... vi andiamo solo in speciali occasioni. Per raggiungerlo vi è solo un sentiero tagliato sul precipizio, largo non più di due palmi... Perché vorrebbe vivere lassù, in eremitaggio?"

"Per essere completamente isolato dal mondo che mi sono lasciato alle spalle... per meditare senza distrazioni."

"Il Nageire-do è rivolto a nord... non riceve mai la luce diretta del sole."

"Per me si è spento dal giorno in cui ho lasciato tutto."

L'abate sentiva il dolore fluire dal corpo, dalla mente, dall'anima di quel ragazzo che sedeva, il torso eretto, gli occhi socchiusi e rivolti verso il basso, focalizzati nel vuoto.

"La mia risposta è... no." sentenziò l'abate, con voce bassa e calma.

Kiyoshi s'inchinò: "La ringrazio per la sua pazienza nell'avermi ascoltato. Chiedo il permesso di andare."

"Il novizio Momosaki Takeichi la accompagnerà alla porta." disse l'abate e lasciò la stanza.

Dopo poco il novizio che l'aveva introdotto, presa la lanterna, lo accompagnò in silenzio fino alla porta del monastero. Kiyoshi calzò di nuovo le scarpe, s'inchinò verso il ragazzo in un silente saluto e si avviò verso il portale del recinto del complesso dei templi.

Qui giunto, sedette a terra in "seiza", e rimase eretto e immobile, il borsone accanto a sé, le mani raccolte in grembo, lo sguardo perso nel buio della notte appena rischiarata da una falce di luna crescente.


Quando all'alba il monastero riprese vita, Kiyoshi era ancora seduto lì, nella stessa posizione. Tutta la natura si risvegliò e gli uomini si affaccendarono nelle loro quotidiane occupazioni.

Kiyoshi udì provenire dal recinto i canti del rito del mattino. Iniziarono ad arrivare pellegrini, turisti, fornitori che gli passavano accanto, lanciandogli un'occhiata sorpresa o incuriosita e procedendo oltre.

La giornata trascorse, una scolaresca chiassosa e allegra passò poco lontano da Kiyoshi, sedette su un prato, tirò fuori i bento, i vassoietti di plastica con il pranzo disposto nelle varie partizioni, e mangiò. Una ragazza si alzò e gli pose davanti un bento, poi si allontanò in silenzio. Kiyoshi fece un lieve inchino in segno di ringraziamento, ma non toccò il cibo.

La sera scese nuovamente, si udirono i canti del rito serale. La notte avvolse col suo manto il luogo, nuovamente deserto e silenzioso. Kiyoshi era ancora immobile nella stessa posizione. Quasi non sentiva più il proprio corpo, né il sottile indolenzimento dei muscoli.

All'alba del giorno seguente, alcuni monaci uscirono dal portale e salutarono Kiyoshi.

Uno di essi disse: "Il nostro Jushoku la attende."

"Grazie." disse il ragazzo e si alzò in piedi. Barcollò lievemente e subito forti mani lo sorressero: era Momosaki, il giovane novizio, che prese il suo borsone e, sempre sorreggendolo, gli disse: "Venga."

Fu introdotto in una stanza interna da otto tatami, illuminata da un lampadario con cinque lampadine in paralumi di vetro a forma di fiori di loto. Al centro sedeva l'abate, la testa rasata lucente sotto il lampadario, un ampio kimono nero su quello bianco, la traversa con il quadrato di broccato rosso di traverso sulla spalla sinistra.

Kiyoshi fu aiutato a sedere davanti all'uomo, e furono lasciati soli. Per un certo tempo nessuno dei due parlò. Alle spalle dell'abate, sulla parete, pendeva un grande e antico dipinto su seta; alla destra era svolto un rotolo con una lunga scritta in verticale in ideogrammi di varie dimensioni, in tre linee, e con i tipici sigilli rossi; alla sinistra una grande giara di terracotta, da cui s'ergeva una artistica decorazione floreale.

"Non ha toccato il cibo che le era stato generosamente offerto." disse l'abate. "Non ha fame?"

"Un poco." rispose sinceramente, sommessamente Kiyoshi.

"Perché non ha mangiato?"

"Non so."

"Non sa?" chiese in tono lievemente stupito l'abate.

"Non so, davvero."

"Vuole lasciarsi morire?"

"No."

"Vuole vivere..."

"No."

"Che vuole, allora?"

"Nulla."

"Non vuole essere ammesso al Nageire-do?"

"Ha detto che non è possibile."

"Fra poco le sarà portato il pasto del mattino. Le ordino di mangiare."

"Va bene."

"Poi... parleremo ancora."

"Grazie."

Momosaki Takeichi entrò con un vassoio di lacca nera, con alcune ciotole di lacca rossa su esso e da una usciva una lieve spira di vapore. Depose il tutto davanti a Kiyoshi. Sedette in attesa.

Kiyoshi prese i bastoncini di bambù verde fra i pollici e gli indici delle mani giunte, fece il gesto di ringraziamento verso l'abate, e iniziò a mangiare lentamente. Quando ebbe vuotato le ciotole, posò i bastoncini su una di esse, fece un gesto di ringraziamento verso il novizio che riprese il vassoio, si alzò e lo portò via.

"Il tuo nome provvisorio sarà Mudoh, 'il senza-via'. Oggi ti sarà fatta la tonsura, ti sarà dato l'abito, nel frattempo il novizio Momosaki Takeichi pulirà il Nageire-do, dove da domani tu vivrai. Ti consegnerò alcuni scritti, e una regola che scrivo appositamente per te, in cui fisserò tutte le pratiche che dovrai seguire durante la giornata. Momosaki sarà l'unico a salire tre volte al giorno per portarti i pasti. Una volta alla settimana passerai un'intera giornata qui, avremo alcune conversazioni e ti guiderò nel tuo cammino."

Kiyoshi si prostrò e mormorò "Grazie, sensei!"

"Fra un anno, o sarai ammesso come monaco, o dovrai andartene da qui."

"Grazie, sensei."

"Sii grato a Momosaki, che si è prestato a salire tre volte al giorno per lo stretto e pericoloso sentiero, per portarti il cibo, l'acqua e quanto altro ti sarà necessario."

"Lo sarò, sensei."

Così Kiyoshi, ora chiamato Mudoh, iniziò al sua vita da eremita, il primo a vivere, dopo più di cento anni, nel Nageire-do: un grandissimo privilegio. Tre volte al giorno, in precario equilibrio nello stretto sentiero che saliva per quasi cinquecento metri, con alcuni punti veramente pericolosi, il giovane novizio, carico con l'acqua e il cibo, saliva a servire l'eremita.

Il ragazzo si era offerto di assumere quel compito per un semplice motivo: quando aveva visto per la prima volta Kiyoshi, era rimasto profondamente colpito dalla sua bellezza velata di tristezza, poi vedendolo immobile fuori dal portale del recinto del complesso dei templi, aveva sentito sorgere in sé un forte senso di ammirazione, che presto si trasformò in amore.

Quando saliva a servire il giovane eremita, scambiavano poche, indispensabili parole. Momosaki sedeva in silenzio, in attesa che Mudoh consumasse il suo pasto, e lo guardava con crescente affetto. Poi scendeva al tempio principale per svolgere i suoi compiti, seguire i riti, prepararsi per diventare monaco.

Momosaki era stato ammesso nel monastero quando aveva sedici anni, e dopo poco era diventato il ragazzo del monaco Terada Toshio, un gentile uomo di trentadue anni di profonda cultura, che l'aveva sedotto e fatto suo. Per quei quasi tre anni il ragazzo aveva volentieri e con gratitudine accettato le attenzioni sessuali di Terada, lo accoglieva in sé con piacere, felice di godere con lui.

Ma ora, per la prima volta, desiderava che fosse un altro a godere delle sue grazie e in silenzio sognava che Mudoh lo accogliesse sul proprio futon. Ma non diceva nulla, non faceva nulla per palesare il suo sogno, si accontentava di guardarlo con occhi pieni di amore.

Così, dopo quattro mesi, un giorno Mudoh, smettendo per un attimo di mangiare il pranzo che il ragazzo gli aveva portato, gli chiese: "Mi guardi?"

Il ragazzo arrossì lievemente, abbassò gli occhi e annuì.

"Perché mi guardi... così?"

"Sarei lieto se un giorno lei potesse donarmi... un sorriso, e sapere che sono io a farlo fiorire sul suo volto, nel suo cuore. È sempre così triste, lei, Mudoh-sama."

"Non ho motivo per sorridere, Momosaki. E perché mai tu vorresti suscitare il mio sorriso?"

"Perché lei è così... bello, Mudoh-sama. Così bello... e io... io sono... pieno di... di amore per lei."

"No!" gemette quasi il giovane eremita. "Non dire quella... quella parola."

"Amore?"

"Non la dire!"

"Perché?" chiese il ragazzo, profondamente sorpreso.

"Perché... è proprio per fuggire l'amore che sono venuto quassù. Perché... ho scoperto che amore e sofferenza, si scrivono con gli stessi caratteri."

"Non è così, Mudoh-sama."

"Che ne sai tu? Sei ancora soltanto un ragazzo."

"Ho già diciannove anni." disse con una certa fierezza Momosaki.

"Momosaki... il 'pendio dei peschi in fiore'... sei un pendio più pericoloso di quello che reca fino a qui... anche se non è colpa tua."

Il ragazzo sorrise: quelle parole gli fecero comprendere che Mudoh non era insensibile alle sue grazie.

"Non voglio che tu... non devi... io non voglio amore, da nessuno. Neanche da te. Non turbare la quiete che sto inseguendo con tanta fatica."

"In ogni corsa, in ogni lunga corsa faticosa... è necessario concedersi un riposo, di tanto in tanto."

"Non posso, Momosaki. Non voglio." mormorò Kiyoshi e riprese mangiare.

Ma dopo che il ragazzo scese a valle, Kiyoshi non riusciva a togliersi dalla mente il suo sguardo. Seduto sulla veranda del piccolo tempio a strapiombo sulla valle, nella sua mente si sovrapponevano immagini non volute, in dissolvenza, una dopo l'altra: Shinji che lo prendeva con amore e tenerezza, Goroh che lo prendeva con amore e virilità, Momosaki che lo guardava con occhi pieni di amore...

La sua pena, il suo dolore non era causato dall'amore, ma dalla sua incapacità di accettarne uno e uno solo, unita alla coscienza che non poteva non scegliere.

Dopo quella dichiarazione da parte di Momosaki Takeichi, si sentiva ancora più turbato. Si chiese se, accettare l'offerta del novizio, non l'avrebbe aiutato a liberarsi degli altri due amori. Rifiutò questa idea... ma gli tornava in mente sempre più spesso, rinnovata ogni volta che il grazioso novizio gli portava il cibo...

Shinji - Takeichi - Goroh - Takeichi - Shinji - Takeichi - Goroh - Takeichi - Shinji - Takeichi - Goroh - Takeichi...

Si portò le mani alle tempie premendole con forza, per far cessare quella litania...

Shin - Take - Go - Take - Shin - Take - Go- Take - Shin - Take - Go - Take - Shin - Take - Go - Take...

"Bastaaaaa!" gridò al buio della notte, sollevandosi a sedere sul futon steso all'interno del piccolo tempio di meno di sei metri per quattro.

Si stese di nuovo, il cuore gli batteva forte, il sangue gli pulsava alle tempie e gli scorreva impetuoso nelle vene come un primaverile torrente di montagna al tempo del disgelo.

Shi-ta-go - Ta-shi-ta - Go-ta-shi - Ta-go-ta...

"Oh... Takeichi! Takeichi! Takeichi!" mormorò al buio della stanza e del suo cuore.

Un'imperiosa erezione si risvegliò per la prima volta dopo mesi, calda, bella, palpitante, forte.

"Oh... Takeichi! Takeichi! Takeichi!" sussurrò alle esili travi che da eoni sorreggevano quel sacro luogo.

Il suo corpo vibrò come la grande campana del tempio, battuta dalla trave bilanciata.

"Oh... Takeichi! Takeichi! Takeichi!" bisbigliò sentendosi spossato, "Ti voglio!"


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