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una storia originale di Andrej Koymasky


IL LUNGO VIAGGIO CAPITOLO 5 - TAPPA A ROMA

Quella notte, nella stanzetta assegnata loro nel comando, Leandro per la prima volta vide Nicolino quasi nudo: per andare a letto era rimasto con i soli slip indosso. Aveva notato che il ragazzo lo guardava mentre si spogliava. Per non fargli notare l'erezione che gli era venuta, Leandro finì di spogliarsi girandogli le spalle. Nicolino aveva un corpo davvero molto ben fatto, snello, in parte ancora da adolescente e in parte già da uomo.

Si infilarono sotto le lenzuola, nei due lettini separati solo da un comodino. Leandro spense la luce. Dalla finestra veniva il riflesso del chiarore dei lampioni della strada.

"Giuro..." disse Nicolino, "Avrei preferito continuare a fare marchette che tornare a casa di mio padre. Comunque, ormai..."

"Solo pochi mesi, e poi... te ne puoi andare via da casa senza problemi, una volta che sei maggiorenne."

"Sì... pazienza."

"E che farai, una volta che hai diciotto anni?"

"Che ne so... magari ricomincio a fare marchette, a Milano."

"Non ti puoi trovare un lavoro più... normale?"

"Se lo trovo, certo. Mica è bello farlo con tutti. Si potesse almeno scegliere... Ma per scegliere dovresti farlo per hobby, non per mestiere. Così, almeno all'inizio, finché non trovo di meglio, tornerò a battere il marciapiede. Certo che mi piacerebbe smettere. E mi piacerebbe pure trovarmi un amico fisso."

"Ma tu sei gay?"

"E certo che lo sono, anche se l'ho capito solo quando Vincenzo c'ha provato con me. Prima... non m'aveva mai fatto nessun effetto nessuna ragazza... ma manco nessun ragazzo. Semplicemente non ci pensavo ancora. No... quando Vincenzo m'ha convinto a dargli il culo... sarà perché m'ero innamorato di lui, ma... beh... m'è piaciuto un sacco."

"Non t'ha fatto male, la prima volta?"

"No... t'ho detto che ci sapeva fare, no? No, m'è piaciuto già la prima volta, come t'ho detto. M'aveva preparato bene. E io che m'ero illuso che tutta la sua gentilezza... che mi volesse bene... e invece mi stava solo fregando, minchia! E m'ha fregato proprio bene."

"Avevi solo quindici anni... Ha approfittato di te."

"Puoi dirlo, socio! Che stronzo, lui... e che babbo, io!"

"Spero che riesci a trovarti un buon lavoro, Nicolino. Cosa ti piacerebbe fare?"

"Qualsiasi cosa. Forse il commesso, dato che non ho un titolo di studio. Sì, magari il commesso in un negozio di abbigliamento, che so... Ma qualsiasi cosa. Non lo sbirro, però!" concluse con una risatina nervosa.

"Ce l'hai proprio con noi, eh?"

"Non con te... Voglio dire... Ma non ti rendi conto che sei solo il servo del sistema?"

"Che, sei un anarchico o un comunista?" gli chiese Leandro, divertito.

"No... a parte che anche i paesi comunisti hanno i loro sbirri, che sono pure peggio dei nostri. Ma voi siete pagati per fregare chi va contro la legge, quando ci riuscite, no?"

"Certo."

"E chi le fa le leggi? Tu? Io? No. Quelli che hanno il potere; e non per me o per te, ma solo per i loro porci interessi. La destra, il centro, la sinistra... tutti uguali! Tu guarda: anche se beccate un pezzo grosso, quello ha tanti soldi da pagarsi i migliori avvocati che gli trovano tutte le scappatoie. Ma i poveracci... avvocato d'ufficio che se ne frega... e pagano tutto fino in fondo e anche di più. Certo, voi sbirri fate solo quello che vi dicono che è il vostro dovere, il resto lo fanno i giudici. E così è fregata solo la povera gente."

"Ma chi vive onestamente, senza violare le leggi, non ha niente da temere, no?"

"Eh, dipende solo da chi fa le leggi. Va be', mica dico che tutte le leggi sono stronze, d'accordo. Ma lo sai, no? L'ignoranza della legge non è ammessa. E allora, ogni cittadino dovrebbe sapere a memoria tutto il codice? La legge non dovrebbe proteggere i più deboli? E invece protegge solo i più ricchi e i più furbi. E la prima protezione, volenti o nolenti, siete voi sbirri, c'è poco da fare."

"Ma senza le forze di polizia e senza i tribunali, ognuno potrebbe fare quello che gli pare e non è che così i deboli sarebbero più protetti, anzi, al contrario..."

"Ma lo sai tu che se uno rompe una cassetta di legno da un verduriere per fregare un'arancia, è furto con scasso e è condannato a una pena maggiore di uno che frega milioni coi suoi traffici finanziari? La legge è uguale per tutti? Minchiate! Tu guarda, se il medico sbaglia perché è un cretino incapace e manda all'altro mondo un malato, paga. Ma se un giudice stronzo condanna un innocente magari all'ergastolo, mica paga. La legge è uguale per tutti? Ma dai!"

"Insomma, noi sbirri proprio non ti andiamo giù..."

"Non ce l'ho con te... anche se mi stai riportando da quel nazista di mio padre. Tu sei un poveraccio come me. Dobbiamo dare via il culo tutti e due, per campare... anche se io in un modo e tu in un altro."

Tacquero e scivolarono lentamente nel sonno. La mattina seguente, dopo aver fatto la colazione, furono accompagnati alla stazione e presero il treno per Roma. Le carrozze erano semideserte.

"Dobbiamo cambiare treno a Roma, giusto?" gli chiese Nicolino.

"Sì. Abbiamo pochi minuti. Comunque, male che vada, ci sono altri treni più tardi."

"Non possiamo fare anche una tappa a Roma? Quando ci sono stato non ho visto quasi niente. Gerardo aveva detto che ce la possiamo prendere un po' comoda, no?"

Leandro rifletté un attimo, poi disse: "Mah... sì... possiamo. Sei mai stato tu sulla cupola di San Pietro?"

"No, neanche a San Pietro. Non ho visto quasi niente. Si può salire fin sopra la cupola?"

"Mi hanno detto di sì. Possiamo pranzare a Roma, poi prendere il treno per Milano a sera. Che ne dici?"

"Forte! Grazie, Lelo. Sei grande!" gli disse il ragazzo con un sorriso.

Era la prima volta che gli sorrideva apertamente, e questo, unito al fatto che continuava a chiamarlo Lelo, gli fece molto piacere. Man mano che Nicolino si apriva con lui, che perdeva la sua aria chiusa e da duro, si sentiva sempre più fortemente attratto da lui, e non solo fisicamente. Doveva esercitare un crescente autocontrollo per non farglielo capire, per non lasciarsi andare. Era una specie di dolce supplizio.

Arrivati a Roma, andarono prima di tutto a informarsi sulle partenze dei treni per Milano. Ma all'ufficio informazioni videro un cartello che avvertiva che a partire da mezzogiorno vi sarebbe stato uno sciopero dei treni per quarantotto ore.

"Oh, minchia, e come facciamo, allora? Non facciamo a tempo a visitare un po' Roma, dobbiamo ripartire subito." disse Nicolino, visibilmente deluso.

"Mah... se pure troviamo un treno prima, rischiamo di trovarci bloccati in chissà quale stazione. Piuttosto, pensavo... Che ne dici se andiamo a visitare San Pietro, poi mangiamo, poi prendiamo la corriera per Orvieto?"

"Orvieto? Che ci andiamo a fare a Orvieto?"

"A parte che è una bella città... ma i miei abitano in campagna, non lontano da Orvieto. Passiamo un paio di notti dai miei, poi riprendiamo il viaggio per Milano."

"Dai tuoi? Sono contadini? Tu sei nato lì?"

"Sì..."

"Beh... sei tu il capo, no? Ma davvero puoi fermarti senza grane dai tuoi?"

"Avverto il comando che c'è lo sciopero e che perciò ci fermiamo. Tutto qui. Non penso proprio che mi faranno grane. D'altronde, piuttosto che fermarci qui a Roma... a me farebbe piacere rivedere i miei."

"Va bene, allora."

Leandro fece un paio di telefonate. "Tutto a posto. Mio cugino ci viene a prendere alla stazione delle corriere, a Orvieto. E al comando a Milano non hanno fatto storie."

Andarono a San Pietro in autobus. Quando Nicolino vide la piazza, mormorò: "Minchia, altro che alla TV... È bella! Peccato che non abbiamo la macchina fotografica."

"Se vuoi, possiamo comprare qualche cartolina."

"Ma no, volevo avere una foto con te."

"Con me? Che te ne fai della foto di uno sbirro? Ci vuoi giocare a freccette?" gli chiese Leandro cercando di mascherare con quella battuta il piacere che gli aveva fatto la frase di Nicolino.

"No... Tu non sei uno sbirro. Tu sei un bel carabiniere, buono e gentile. Mi piacerebbe avere un ricordo."

"Magari... magari troviamo uno di quelli che fotografano i turisti e che ti danno la foto in quattro e quattr'otto."

"Eh, sarebbe forte! Se lo troviamo, te la fai fare una foto con me?"

"Sì, d'accordo."

Entrarono nella basilica e la girarono. Poi presero l'ascensore e salirono fino alla base del cupolone e da qui salirono per la stretta scaletta ricavata fra la copertura della cupola e la superficie interna. La scala diventava sempre più stretta e le pareti erano sempre più curve, sì che a un certo punto dovevano appoggiarsi con la mano sulla parete interna per poter restare dritti e continuare a salire. Di tanto in tanto vi era un foro tondo sulla parete da cui si poteva vedere l'interno della basilica.

Nicolino era affascinato e continuava a ripetere, piuttosto spesso: "Che forte!" e a volte si girava per lanciare un sorriso a Leandro.

Giunsero infine sulla terrazza circolare alla base della lanterna della cupola: tutta Roma si stendeva ai loro piedi, uno spettacolo da mozzare il fiato.

"Minchia, se è bello!" mormorò Nicolino.

"Almeno qui... non potresti non dire quella parola?" gli sussurrò Leandro con un sorriso.

Nicolino si girò e lo guardò con un sorriso birichino: "Hai paura che Giampaolo Secondo s'incazza?" gli chiese sottovoce.

Quando scesero dalla cupola, Nicolino era esultante. Tornati sulla piazza, finalmente trovarono un fotografo ambulante e si fecero fare una fotografia con la basilica sullo sfondo. Leandro pagò per averne due copie e il fotografo gli disse che sarebbero state pronte due ore più tardi. Allora andarono a mangiare in una trattoria in Borgo Pio, quindi passarono a ritirare le due copie della fotografia.

"Miiin... è venuta bene, vero?" disse Nicolino. "Me la tieni tu per favore, che io non so dove tenerla e non la voglio rovinare."

"Guarda che qui Giampaolo Secondo mica ti sente." gli disse Leandro.

Nicolino rise: "Beh, se non ti piace, voglio smettere di dirla, quella parola." gli disse. "Andiamo a cercare la corriera per casa tua? Per Orvieto?"

"Sì, proviamo a chiedere lì, all'ufficio informazioni."

Furono fortunati, c'era una corriera circa un'ora più tardi. Andarono alla stazione degli autobus e, dal bar, Leandro chiamò il cugino per dirgli l'ora esatta in cui sarebbero arrivati ad Orvieto.

"Cosa prendi?" gli chiese Leandro.

"Non è giusto che paghi sempre tu. Non puoi usare i miei soldi?"

"No che non posso, la cifra è messa a verbale e devo consegnarla esattamente com'è segnata."

"Ma me li ridaranno, i miei soldi?"

"Sì, penso di sì, mica li hai rubati. E mica sanno come li hai guadagnati, se non glielo dici tu."

"E tu... non glielo dici?"

"Certo che no. Quello che m'hai detto... l'hai detto a Lelo, mica allo sbirro."

Presero l'autobus. Era un modello vecchio e i sedili erano piuttosto stretti, sì che inevitabilmente i loro fianchi e le loro gambe si toccavano e questo da una parte dava un senso di piacere a Leandro, ma dall'altra, poiché gli aveva procurato un'erezione, lo metteva anche leggermente a disagio.

"Ai tuoi... gliel'hai detto che sono scappato di casa?"

"No."

"Cosa gli hai detto, allora?"

"Che... che sei un amico che da Palermo doveva andare a Milano e così si viaggia assieme."

"Un amico, gli hai detto?"

"Sì. Era la cosa più semplice da dire. No?"

"Ma se mi chiedono come si siamo conosciuti?"

"Beh... tramite comuni amici... Puoi dire che conoscevi Gerardo, per esempio."

"Sì... Chissà come sta?"

"I medici hanno detto che non è grave la salmonellosi, perché l'hanno presa in tempo. Ma non ti stava sulle palle Gerardo? Com'è che ora t'interessi a lui?"

"Beh... se è un amico tuo, non dovrebbe essere tanto malaccio. Però, sinceramente... io preferisco che è lui che è dovuto restare a Napoli e non tu."

"E perché preferisci me?"

"Perché... non ho mai avuto un amico, io... un amico vero... Lo so che non abbiamo il tempo di diventare veramente amici, io e tu, però... magari un giorno... chi lo sa... magari un giorno potrò incontrare un amico come te: ora so che può esistere. Io... prima mio padre così stronzo, mia madre che non mi voleva, la donna di mio padre che... lasciamo perdere. E poi quello che credevo che ci teneva a me, che mi voleva bene... e che invece mi ha fatto fare la puttana. E poi invece tu che... che per te sono... che mi rispetti... che mi tratti bene. No, forse Gerardo non è male, ma in fondo se ne fregava di me, per lui ero solo una scocciatura. Per te... pare di no."

"Ma no che non sei una scocciatura." gli disse Leandro con un sorriso.

Provò l'impulso di scompigliargli i capelli in un gesto affettuoso, di fargli una carezza, di toccarlo, ma non lo fece, non solo perché si sentiva troppo attratto da lui, ma anche perché temeva che il ragazzo, a causa del suo passato, interpretasse male il suo gesto, quasi che volesse in qualche modo approfittare di lui.

Se Leandro non fosse stato gay, o se non avesse provato desiderio nei confronti di Nicolino, certamente si sarebbe sentito libero di compiere un gesto di innocente tenerezza; così come spesso due ragazzi non gay vanno anche in giro tenendosi sottobraccio o con un braccio sulla spalla dell'altro, ma quasi mai lo fanno due ragazzi gay, se non quelli che hanno fatto il loro "coming out". Ma in questo caso a volte lo fanno quasi per una sfida verso la società che non li accetta.

Leandro non si rendeva conto, preoccupato come era di nascondere e tenere a freno la propria attrazione nei confronti del ragazzo, non si rendeva conto che in realtà Nicolino si sentiva a sua volta sempre più attratto da lui, non solo per il suo aspetto fisico ma anche come personalità. Anche per questo si stava aprendo sempre più nei suoi confronti. Però Nicolino, forse proprio perché non scorgeva il minimo segno nel bel carabiniere, era più che convinto che questi non fosse gay, perciò non tentava nessun approccio.

Sia il bel carabiniere sia il ragazzo avevano, se pure per motivi diversi, bisogno di affetto: di darne e di riceverne. Nicolino per far guarire le ferite che la vita gli aveva inferto, Leandro per lenire la solitudine in cui la sua condizione di gay nascosto lo costringeva. Erano due anime che inconsciamente anelavano una verso l'altra, ma che non erano capaci di superare il fossato che ancora le divideva. Così si accontentavano, per così dire, di comunicare restando ciascuno sulla sua riva di quel fossato, senza avere il coraggio di guadarlo.

L'autobus finalmente arrivò alla stazione delle corriere di Orvieto. Scesero, presero i bagagli di Leandro e questi vide il cugino che li attendeva. Si abbracciarono, Leandro fece le presentazioni e salirono in auto, Nicolino dietro e Leandro davanti, così si mise a chiacchierare con il cugino che lo mise al corrente delle ultime notizie sulla loro famiglia.

Nicolino sentiva nelle loro parole l'affetto che legava i due cugini e da come ne parlavano, anche l'affetto e l'armonia che dovevano regnare nella loro famiglia e pensò che doveva essere bello farne parte. Previde con una vaga sensazione di calore, che sarebbe stato bene con loro.

Arrivarono a un gruppo di tre case di campagna a due piani, fatte di mattoni di varie sfumature color paglierino e con coppi rosso chiaro, che formavano una C attorno all'aia. Quando l'auto si fermò, uscirono dalle case diverse persone che si affollarono rumorosamente e gioiosamente attorno a loro dando il bentornato a Leandro e il benvenuto a Nicolino, che si sentì quasi frastornato da tanto calore. Attorno a loro oche, galline, tacchini e cani che, sentendo l'allegria dell'occasione, scodinzolavano festanti.

"Venite, venite, la cena è quasi pronta. Ceniamo tutti assieme, stasera." disse la madre prendendo sottobraccio il figlio.

"Ma', lasciaci prima posare le valigie e darci una lavata." disse Leandro.

"Sì, certo; vi abbiamo preparato la cameretta tua, c'abbiamo aggiunto un lettino per il tuo amico. Fai tu strada, che io devo tornare ai fornelli. Ah, sai, papà ha fatto fare la stanza da bagno, adesso che l'acquedotto arriva anche fino a qui."

"E nonna?" chiese Leandro.

"Sta bene, sta bene. La vedrai a tavola. Sai, visto che fa fatica a fare le scale, tuo zio le ha ricavato un paio di stanze sotto a casa sua, che tanto la stalla era troppo grande."

"E come fa per venire su a mangiare con noi?" chiese Leandro mentre salivano la scala esterna.

"Beh, ogni tanto ce la fa a fare le scale, con uno di noi che l'accompagna. Ma se stava su, non usciva quasi mai, invece così può uscire quando vuole. Mica poteva stare sempre in casa, no?"

Leandro portò Nicolino nella stanzetta, che pareva anche più piccola dato che v'era stato aggiunto un letto. Poi andarono a turno a darsi una rinfrescata nel bagno, scintillante di piastrelle gialline e mobiletti di formica bianca, moderno, che contrastava con il resto della casa, pulitissima ma ancora tradizionale.

Mentre Nicolino, seduto sul bordo del letto, aspettava che Leandro tornasse dal bagno, aspirava l'odore inconsueto ma gradevole di quella stanza, che sapeva di cera per mobili, di fieno, di biancheria appena lavata, della scialbatura delle pareti lievemente decorate con motivi applicati con il rullo di gomma. Odori per lui completamente nuovi, ma che gli davano la sensazione di genuino, come gli pareva genuina la famiglia di Leandro.

Si disse che gli sarebbe piaciuto vivere lì... anzi, che quella fosse la sua famiglia. C'era persino una nonna, e poi zii, cugini... Lì, pensò, nessuno avrebbe mai potuto sentirsi solo.


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