Raffaele era nella sua stanza e si stava per spogliare per andare a letto, quando suonò il cellulare. Lo prese e riconobbe il numero di Serafino. Si sentì avvampare. Arrabbiato, lo aprì e rispose.
"Che cazzo vuoi, ancora?"
"Sei uno stronzo, una merda, un fottuto figlio di puttana, un bastardo schifoso, un cane rognoso, un disgraziato, un... un... un..." ruggì la voce nell'auricolare.
"Chi cazzo sei?" chiese rendendosi conto che non era la voce di Serafino. "Che cazzo vuoi?"
"Ammazzarti, bastardo, schiacciarti come un verme, piantarti un coltello in pancia, castrarti come un maiale..." riprese la voce in un tono isterico.
"Vuoi dirmi cosa cazzo..."
"Serafino s'è ammazzato! Ammazzato! Per colpa tua, bastardo maledetto. Si è... L'hai ammazzato tu, schifoso pezzo di merda!"
"Quando? Come? Dove?" chiese Raffaele sentendosi raggelare.
"Ma che te ne frega, eh? Non sei contento? Ma va a fa'n culo, stronzo stramaledetto! Doveva ammazzare te, non ammazzarsi..."
"Quando? Dimmi dove l'hanno portato! Cristo, dimmi... Ma chi sei?"
"Emiliano, l'unico amico di Serafino. Contento? Crepa, bastardo! Che te ne frega dov'è? Eh? Vuoi portargli i fiori? Bastardo... maledetto bastardo... bastardo..." disse la voce singhiozzando in tono sempre più basso e la comunicazione fu interrotta.
Raffaele si sentì la testa girare, il sangue defluire dal corpo, il cuore battere pesantemente, come una grancassa. Sedette sul letto guardando il telefonino ora muto, quasi senza vederlo.
Si scosse, e compose rapidamente il numero di Serafino. Una voce registrata avvertì che la chiamata stava per essere trasferita alla segreteria telefonica e capì che dopo averlo chiamato, Emiliano aveva spento il cellulare.
Per un attimo pensò che potesse essere uno scherzo di cattivo gusto, una vendetta di Serafino, ma poi, quella voce, quel tono... non potevano essere una finta, quel ragazzo non stava recitando. Si sentì rizzare i capelli. Che fare? Dove potevano aver portato Serafino? Davvero s'era ammazzato? Come? Quando?
Chiamò il 113, dove era di turno un suo amico.
"Mario? Sono Raffaele... sì Raffaele Ballarini. Scusa, ma ho appena saputo che il... il figlio di un mio amico ha avuto un incidente gravissimo... Puoi mica controllare... Sì, si chiama Serafino Molina, ha ventidue anni... Sì, di Roma... Aspetto, grazie..."
La musichetta d'attesa gli sembrò assurda... e l'attesa interminabile. Sentiva un crampo allo stomaco, faticava a respirare. Finalmente la musichetta cessò.
"Sì? ... Stamattina alle dieci? ... Finito fuori strada, dici? ... È... morto? ... Dove l'hanno portato? ... Senti, mi dai il numero del nostro collega di servizio al pronto soccorso? ... Sì, ho da scrivere, detta... Grazie... Ciao."
Compose il numero. Dopo diversi squilli ottenne risposta.
"Pronto, sono un collega, Raffaele Ballarini... Sì... Ah, sei Donati? Ciao. Senti ho bisogno di un favore... Hanno portato lì un ragazzo di ventidue anni, di nome Serafino Molina... Sì... E... cosa... come... In coma, dici? ... Non è... morto? ... Sai in che reparto, in che camera l'hanno portato? Ah... sì, ho capito. Grazie e scusa il disturbo... No, è il figlio di un mio amico e ho saputo che... Sì, certo... Ciao, Donati, grazie."
Si riallacciò l'uniforme e uscì di fretta. Prese la sua Cinquecento e andò di corsa all'ospedale, fremendo ai due semafori rossi, ma non aveva la sirena, perciò... Finalmente giunse all'ospedale, parcheggiò e andò di corsa nel pronto soccorso. Da qui, grazie alle spiegazioni del collega, arrivò al reparto cure intensive, davanti alla stanza in cui avevano messo Serafino.
Su una sedia di ferro smaltata di bianco era seduto un ragazzo coetaneo di Serafino che, appena lo vide, si alzò in piedi e lo guardò con occhi truci.
Quando gli arrivò davanti, il ragazzo gli chiese, sottovoce ma con tono glaciale: "Tu sei Raffaele?"
"Sì... non si può entrare?"
"Che cazzo sei venuto a fare, eh?"
"Sei Emiliano, tu?"
"Sì. Che vuoi, qui? Assicurarti che sia morto?"
"M'hanno detto che è stato un incidente... che è andato fuori strada..." disse Raffaele.
Emiliano non rispose. Ficcò una mano nella tasca dei pantaloni quasi con rabbia, con violenza, e ne tirò fuori alcune carte gualcite. Gli tremavano le mani. Le aprì, scelse una busta e gliela porse, guardandolo con occhi che erano due lame roventi.
Raffaele guardò la busta: era indirizzata a lui e riconobbe la scrittura di Serafino. Ora anche le sue mani tremavano. Continuava a guardare la busta, immobile.
"Non la apri, bastardo maledetto?" gli sibilò il ragazzo.
Raffaele emise quasi un singhiozzo soffocato, girò la busta, aprì l'aletta e ne estrasse il foglio. Lo spiegò, lo lesse. E capì oltre ogni ombra di dubbio che non era stato un incidente. Le mani gli tremavano sempre più violentemente tanto che, tentando di rileggerla, non vi riusciva.
Con un basso gemito, si accasciò sulla sedia accanto a quella dove era stato seduto Emiliano.
"Sei contento, adesso, pezzo di merda?" gli chiese il ragazzo, con voce bassissima, ma sufficientemente chiara.
Raffaele sollevò lo sguardo ad incontrare quello di Emiliano. Con un filo di voce, chiese: "Che hanno detto, i medici?"
"È in coma."
"L'hai... visto?"
"No, non me l'hanno fatto vedere. Sei contento?"
"Contento?"
"Gli avevi dato la vita... ora gliel'hai tolta..."
"Io... io non... non credevo..."
"Haha!" disse Emiliano e sedette anche lui.
"L'hai... letta?"
"Certo."
"Quando te l'ha data?"
"Avevo l'appuntamento con lui alle dieci."
"Stamattina? All'ora dell'incid... della disgrazia?"
"No, stasera. Ho suonato... non sapevo niente... Ho suonato... Doveva essere a casa, m'aveva detto alle dieci di sera... C'era la chiave sotto il vaso... Sono entrato... le lettere... Una per me, una per te, e il suo telefonino... Le ho lette e... e..." disse Emiliano e si mise a piangere, silenziosamente, il corpo scosso da singhiozzi.
"Come hai fatto a... a trovarlo? A sapere che era qui?"
"Ho telefonato al 112, no?" mormorò Emiliano in tono ironico. "Gli ho detto che era mio fratello..."
"Sai se... se hanno avvertito i genitori?"
"Non lo sai? Non te l'ha detto? Il padre l'ha abbandonato quando aveva dieci, dodici anni, la madre l'ha abbandonato quando ne aveva sedici. E tu, bastardo figlio di puttana... tu..."
"No, non me l'aveva mai detto... Io credevo che..."
"E che poteva fare, eh? Hah! Che ne sai tu della nostra vita, eh? Tu, sporco sbirro di merda, il tutore della legge, della moralità! Che ne sai tu della vita? Tu... tu... ci dovevi essere tu adesso lì dentro, non lui... Tu bastardo... E se crepa... io te lo giuro... io... io ti vengo a cercare e... t'ammazzo! Te lo giuro! Prega che si salvi, perché io... io... Me ne frego dell'ergastolo, ma ti faccio fuori come un bastardo! Prega, prega..."
Raffaele si mise una mano sugli occhi, la testa china, e pianse.
"Bastardo..." ripeté Emiliano in un sussurro, con voce roca.
Per diversi minuti nessuno dei due parlò. Nel corridoio deserto solo il ticchettio di un grande orologio a muro rompeva il silenzio.
Poi Emiliano lo guardò e gli disse: "A te, che sei in divisa, magari ti fanno pure entrare... Vai a vedere com'è ridotto... Parla coi medici... Muoviti, cazzo, fai qualcosa!"
"Io... non so... non sono in servizio e..."
"Ma loro, mica lo sanno, no? Digli che... che devi fare indagini, che so... Ma cazzo, devo dirti io cosa fare?" chiese in tono esasperato.
"No... No, va bene... Quella porta?"
Emiliano annuì. Raffaele si alzò, barcollò per un attimo, si riprese. S'accostò alla porta, girò la maniglia e si affacciò dentro. Nella stanza, illuminata da due luci riflesse, c'era un solo lettino con sopra un paziente con diverse ingessature, la maschera dell'ossigeno sul volto, circondato di attrezzi, sacche per trasfusioni, tubicini che scendevano da bottiglie capovolte da cui gocciolava un liquido incolore, monitor su cui scorrevano strane forme d'onda, e s'udivano diversi bip-bip sommessi.
"Non si può entra... Oh, agente, dica..." disse un infermiere posando un giornale e alzandosi dalla sedia.
"È... Serafino Molina, vero?"
"Sì, agente."
Raffaele entrò e si chiuse dietro la porta, silenziosamente. Con un groppo alla gola guardò la forma che giaceva sul lettino.
"Mi sa dire qual è la prognosi?"
"Grosso modo... Coma indotto, commozione cerebrale, fratture multiple alle braccia, emorragia... L'ha salvato il casco, hanno detto, sennò... Un brutto incidente, davvero."
"Se la... caverà?"
"Mah, e chi lo sa? Come dio vorrà. Io sono solo di guardia, sono solo un infermiere. 'Sti ragazzi, vanno come matti e... magari s'era anche fatto, aveva bevuto, va a sapere..."
"Non è possibile parlare con un dottore?"
"A quest'ora, agente? Sono quasi le due di notte. Non credevo che lavoravate anche a quest'ora voi della polizia."
"A che ora passano i dottori?"
"Se non c'è un'emergenza, se non li chiamo io cioè, domattina alle otto il primo giro. Fra sei ore circa, cioè."
"Lei sta qui fino alle otto?"
"No, mi danno il cambio alle sette."
"Beh... grazie. Buona notte." disse Raffaele.
Uscì arretrando e sbatté contro Emiliano che cercava di guardare dentro. Chiuse silenziosamente la porta mentre il ragazzo arretrava di due passi e lui si girava.
"L'hai visto?" gli chiese Emiliano.
"Sì..."
"Come... come sta?"
"Era... è... Non è..."
"Insomma, come..."
"Tutto bendato, ingessato... la maschera dell'ossigeno e..."
"E?"
"Tubicini... macchine..."
"Ha ripreso i sensi?"
"Coma... indotto..."
Emiliano emise un basso gemito e sedette di schianto. Raffaele gli sedette a lato.
"Fino a domattina alle otto... se non succede niente... i medici, domattina alle otto... Non possiamo sapere niente di più..."
"Di più... di cosa?"
"Commozione cerebrale... emorragia... parecchie fratture..."
"Tutto per colpa tua, bastardo..." disse Emiliano, ma questa volta in tono sconsolato, non aggressivo come prima.
"Sì..."
"Domattina alle otto..."
"Senti, Emiliano io... io domattina posso andare al comando e... posso chiedere un permesso, ma l'ufficio non apre fino alle nove e..."
"Cazzi tuoi, no?"
"No. Vai a dormire, ora. Resto io qui. Torna per le otto, aspettiamo assieme i dottori poi... poi resti tu e io vado a chiedere il permesso..."
"E come vado a casa?"
"Come sei venuto qui?"
"In taxi. La moto non mi partiva. Ma ho speso quasi tutto per la corsa."
"Te li do io i soldi. Hai il telefonino di Serafino, con te, no?"
"Sì, perché?"
"Tienilo acceso. Se... se è necessario, ti chiamo. Tu hai il mio numero."
"Resto qui. Sono poche ore."
"No, dammi retta. Fino alle otto ci sto io... Una volta che ho il permesso, torno qui e ci mettiamo d'accordo. Vai a dormire adesso. Tieni..." gli disse porgendogli una banconota da cinquanta euro.
Emiliano lo guardò incerto, poi la prese e senza dire una parola, fece per andarsene. Si girò, lo guardò di nuovo. "Per le otto sono qui." disse e andò via.
Raffaele tirò fuori nuovamente la lettera di Serafino e la rilesse. E la rilesse... e pianse di nuovo. Tutta la sua rabbia, tutto il suo sdegno per aver scoperto la vita passata di Serafino, si stava lentamente sciogliendo in quelle lacrime silenziose ma cocenti. Le ore passarono incredibilmente lente, dandogli tutto il tempo di rivedere tutto quanto c'era stato fra lui e Serafino, che ora giaceva dietro quella porta, lottando fra la vita e la morte.
"Mi dispiace di non essere quello che volevi, di non esserlo potuto diventare, anche se ce l'ho messa tutta. Volevo regalarti la mia vita, una vita finalmente pulita, ma se non la accetti, tanto vale, non serve più a niente, più a nessuno..." aveva scritto.
Chiuse gli occhi, abbandonandosi contro lo schienale, la lettera fra le mani, in grembo. Rimase così, immobile, a lungo. Il ticchettio dell'orologio a muro, il vago sentore di disinfettante, il classico odore di corsia d'ospedale, l'immagine di Serafino su quel lettino, le parole furenti di Emiliano, lo avvolgevano come in una atmosfera surreale, da incubo.
"Volevo regalarti la mia vita... ma se non l'accetti... non serve più a niente..."
Gli pareva di udirle, quelle parole, gli sembrava quasi che Serafino gliele stesse sussurrando.
"Io ti amo più della mia stessa vita, Raffaele... Ti amo, non me lo puoi impedire... sei stato l'unica cosa veramente bella della mia vita... ho perso nel gioco della vita... è tutto finito... L'ultima cosa che posso fare è seguire il tuo consiglio: sparire dalla faccia della terra..."
"No... No, Serafino, no... Non morire, ti prego... Non sparire dalla faccia della terra... No..." sussurrò.
"Sei uno stronzo, una merda, un fottuto figlio di puttana, un bastardo schifoso, un cane rognoso, un disgraziato..." gli gridava dentro il cervello la voce di Emiliano. "L'hai ammazzato tu..."
Si aprì una porta ed entrò un'infermiera che gli lanciò un'occhiata e gli fece un cenno di saluto, poi entrò nella stanza di Serafino. Dopo pochi minuti uscì l'infermiere che aveva fatto la notte, il giornale sotto il braccio.
"Come sta, il ragazzo?" gli chiese Raffaele.
"Niente di nuovo. Ma è rimasto qui tutta la notte, lei?"
Raffaele annuì. L'infermiere lo guardò lievemente stupito, poi fece un cenno di saluto col capo e andò via. Raffaele chiuse di nuovo gli occhi.
Dopo parecchi minuti, sentì una porta aprirsi e si rizzò, riaprendo gli occhi. Era Emiliano, stava tornando. Lanciò un'occhiata all'orologio sulla parete: erano già le sette e quarantacinque. Guardò il ragazzo che avanzava verso lui, con espressione aggrondata, gli occhi cerchiati e rossi.
"Niente di nuovo?" gli chiese il ragazzo fermandoglisi di fronte.
"No, niente."
Emiliano gli porse una tazzina di plastica con il coperchio: "T'ho portato un caffè..." disse.
"Grazie..."
Sedette accanto a lui. "Anche se c'avrei messo dentro volentieri il veleno per topi!" aggiunse mentre Raffaele iniziava a sorbirlo.
"Sì..." mormorò il poliziotto.
"Dici che... che Serafino... se la cava?" Era più un'implorazione che una domanda.
"Deve... deve!" rispose in un bisbiglio, la voce rotta.
"Perché l'hai trattato così?"
"Perché... Perché sono uno stronzo, una merda, un bastardo..."
"Già. Asciugati gli occhi... Uno sbirro... un poliziotto... mica sta bene, se piange..."
Raffaele fece spallucce. Gettò la tazzina vuota nel cestino che c'era lì accanto. Ripiegò la lettera di Serafino e la rimise in tasca, con la busta. Si tolse il cappello della divisa, se lo appoggiò in grembo e si passò le dita fra i capelli, due, tre volte.
Si sentirono rumori. S'aprì la grande porta a vetri in fondo al corridoio ed entrarono tre medici seguiti da due infermiere. Due dei medici parlavano fra loro sottovoce. Raffaele ed Emiliano si alzarono in piedi. I due gruppi si guardarono senza dire nulla, poi i nuovi arrivati entrarono nella stanza di Serafino.
Passarono parecchi minuti. Poi il gruppo uscì. Emiliano sospinse Raffaele verso loro.
"Sono l'agente Ballarini. Quali sono le condizioni del ragazzo?" chiese, cercando di assumere un tono professionale.
Parlò uno dei medici: "La prognosi è ancora riservata... Ha subito diversi danni, lo teniamo sotto sedativi..."
"Ma... se la caverà?" chiese Raffaele.
"La prognosi è riservata, ma... nessun organo vitale è leso. Non ha emorragie interne. Probabilmente... probabilmente il casco l'ha salvato. Di più per ora non le posso dire."
"Capisco."
"Ma... è sotto sorveglianza, il ragazzo? Non ci hanno detto nulla..."
"No... no... Sono qui a titolo personale..."
"Ah." disse il medico, "Un parente."
Raffaele restò in silenzio, non lo smentì.
"Stiamo facendo tutto il possibile..." disse un altro medico.
Quelle parole suonarono sinistre. "Grazie." disse Raffaele.
I medici se ne andarono.
"Resti tu qui, no? Io... vado al comando. Appena ottengo il permesso torno e ci mettiamo d'accordo per i turni. Non so quanto ci metto, ma torno appena posso." disse ad Emiliano.
Il ragazzo annuì.
"Se... se ci sono..." disse esitante il poliziotto.
"Ti chiamo, ho il tuo numero."
"Grazie."
Raffaele andò via.
Emiliano lo guardò allontanarsi, uscire. Sedette di nuovo. Pensò che forse quello sbirro non era bastardo quanto aveva pensato. Era solo stronzo. Non s'era aspettato che corresse lì... non s'era aspettato che piangesse... e adesso andava a chiedere permesso per poter stare vicino a Serafino...
"Sì, sei solo un grande, grandissimo, monumentale stronzo..." disse a mezza voce.
Era quasi l'ora di pranzo quando Raffaele tornò. Era vestito in borghese. Emiliano pensò che stava meglio in divisa. Gli fece un cenno di saluto con una mano.
"Niente di nuovo..." gli disse quando gli arrivò accanto.
"Mi hanno dato una settimana, me la tolgono dalle ferie." gli disse Raffaele.
"Tu non hai dormito..."
"Poco male..."
"Dicono che appena sta meglio, lo trasferiscono al reparto traumatologia."
"Ah."
"Tu, almeno, l'hai visto."
"C'era poco da vedere... Bende, gessi, tubicini, macchine..." mormorò Raffaele scuotendo lentamente il capo.
"Tutti regali tuoi..." disse mestamente Emiliano, ma non in modo aggressivo.
"Vorrei esserci io là... al posto suo..."
Emiliano scosse il capo: "Non dovrebbe esserci nessuno di voi due, là. Se solo... se solo tu... Ma a che serve, a questo punto?"
"È... è troppo facile giudicare... giudicare prima di conoscere... Prima di cercare di capire... Sì, lui... lui m'aveva detto diverse bugie, ma..."
"Se non era innamorato di te, veramente innamorato... ora non era là dentro... ora si starebbe divertendo e ridendo di te."
"Già."
"T'ha detto bugie... o non t'ha detto certe verità... perché voleva che tu lo vedevi come lui voleva essere, come lui voleva diventare, per te. Non per prenderti per il culo. Capisci?"
"Sì."
"Perché Serafino... Noi marchette non ci dovremmo mai innamorare. Va sempre a finire male. Siamo marchiati a fuoco, siamo i rifiuti della società. Siamo soltanto ragazzi usa e getta. E se uno di noi viene pestato a sangue, ammazzato da chi ci odia... da chi ci sfrutta... da un matto o da un fanatico... solo perché siamo marchette, da vittime diventiamo colpevoli, per quelli come te. Le puttane, le condannano tutti, anche chi ci va... I froci, sono condannati da tutti... perciò un frocio che fa la puttana... condanna doppia, logicamente. Non siamo più esseri umani... non abbiamo più diritti... Siamo soltanto ragazzi usa e getta. Usa e getta."
Raffaele lo ascoltava in silenzio, ma quelle parole scendevano dentro di lui come altrettante pesanti, meritate, brucianti accuse.
"Cristo, t'avrei ammazzato... Dico davvero, sai? T'avrei voluto prima castrare poi ammazzare come un maiale. E non sarei stato migliore di te. Perché è troppo facile giudicare... giudicare prima di conoscere, prima di cercare di capire. Avrei giurato che te ne saresti fregato... e invece sei qui, con un macigno sul cuore, proprio come me..."
"Se almeno servisse..." mormorò Raffaele.
"Se senti rimorso, serve per lo meno a te stesso. Se cerchi di capire, serve a tutti noi. Se... se non hai spento completamente quello che... l'amore per Serafino, allora serve anche a lui."
"Non lo so, onestamente... sono ancora troppo confuso."
"Ho paura che avrai tutto il tempo per vederci chiaro, dentro te stesso. Cristo santo, quanto sei stato stronzo!"
"Sì..."
"Ma in fondo... in fondo siamo tutti stronzi, chi prima chi dopo... chi più, chi meno... E qualcuno se ne accorge e lo ammette, altri no. Anche Serafino è stato stronzo, dopo tutto, a volerti prendere per il culo, all'inizio, a non capire che giocava con il fuoco, e poi a innamorarsi di te... come un cretino."
"Ma lui la sta pagando cara..."
"Troppo cara. Sì. Cristo, stare qui... così... senza poter fare niente... niente per lui... mi sta uccidendo."
Raffaele annuì.
"Stavi meglio in divisa..."
Raffaele lo guardò un po' stupito per quell'osservazione.
"Comunque... sei un bell'uomo... Ma non è per questo che Serafino ha perso la testa per te. Dopo tutto, devi avere qualcosa di giusto dentro per avergli fatto perdere la testa così... Dopo tutto... Se sapesse che sei qui... per lui... forse reagirebbe meglio... forse ritroverebbe la voglia di vivere..."