Io mi chiamo Gaetano Minutolo e sono nato in un basso di uno dei più antichi e rumorosi quartieri di Napoli, i Quartieri Spagnoli, che la gente del posto chiama semplicemente 'e quartieri, dove si narra che sia nata la maschera di Pulcinella. Soltanto nei Quartieri Spagnoli trovate ancora l'antica anima di Napoli; anima fatta di piccole cose, di profumi e di colori, di dicerie e di sguardi, a volte curiosi, ma sempre dritti e fieri. Ci siete mai stati? È forse la parte più rumorosa e popolosa della città, perché lì tutti strillano per i motivi più diversi.
Per esempio, la signora che sta al terzo piano strilla con quella che sta al quarto, perché l'acqua che ha dato alle pianticelle dei suoi vasi gocciola sui panni che ha steso ad asciugare; il portinaio invece strilla con le criature, cioè i bambini, perché secondo lui il regolamento dice che in cortile non si deve giocare a pallone; il venditore di cucuzzata strilla per attirare l'attenzione e vendere la propria merce.
Sopra a tutto questo strillare, c'è la radio; ma che dico la radio, mille radio ognuna sintonizzata su una stazione diversa, specialmente ora che ve ne sono molte, che strilla note di canzoni napoletane vecchie e nuove... Ma diciteme vuie se se po' ffà 'sta vita!
E sì che si può fare... anzi, adesso che non vivo più lì, dopo che tante cose sono accadute, che abbiamo fatto e perso la guerra e che la monarchia ha fatto "'a patapunfete", ora, dicevo, ne sento la mancanza, nonostante viva felicemente con il mio Raffaele. Sento la mancanza perfino della domenica mattina, che da ragazzo mi pareva un vero e proprio tormento, un supplizio, ché se avessi avuto un fucile, io la facevo una strage, una di quelle che mettono su tutti i giornali in prima pagina.
Dico io, una volta tanto che un povero cristiano si può permettere la lussuria di dormire un po' più degli altri giorni... pareva che tutto il vicinato facesse a gara per vedere chi riusciva a svegliarmi per primo!
Solitamente la medaglia d'oro l'avrei dovuta assegnare ai "vattienti" della Madonna dell'Arco. Chi sono i vattienti? Davvero non lo sapete? Ebbene, ve lo spiego: i vattienti sono gente d'ogni età che, per un voto che hanno fatto il giorno del Lunedì dell'Angelo, se ne vanno tutti scalzi fino al santuario della Madonna dell'Arco, battendosi per fare penitenza.
Beh, fino a qui, cavoli loro, direte voi. Ma perché far pagare il loro voto all'intero quartiere? Eh, sì, perché quei malnati dedicavano la mattina d'ogni sacrosanta domenica a raccogliere le offerte per il santuario, girando per il quartiere. Era un vero e proprio incubo, credete a me: t'arrivavano fino a sotto la finestra e strillavano, in coro, "O' ne 'a Maronna!". E allora, non ti viene la tentazione d'affacciarti e di gridargli, con le mani a imbuto davanti alla bocca, "Ca nun t'appicce 'o foco!" ? E se non lo facevo era solo perché ero ancora troppo intontito per il sonno che quelli avevano impietosamente interrotto.
Ma la medaglia d'argento se la guadagnava Pascale, 'o femmeniello venditore di tortanielli. Sì, perché la produzione e la vendita dei tortanielli, quand'ero ragazzo, era un commercio esclusivo a cui si dedicavano i femmenielli del quartiere che, con Pascale, condividevano un basso poco oltre il nostro; questo, per lo meno, prima che i fascisti non arrivarono ad arrestarli per mandarli al confino; Pascale arrivava strillando con la sua voce in falsetto, che però parevano le trombe del giudizio: "Bollonooooo."
E allora una o un'altra signora s'affacciava e iniziavano la solita trattativa: "Ma che son caldi ?" (e che cazzo! ma allora oltre che scema sei pure sorda? è un'ora che quello strilla "bollonooooo"!)
"Quanti ne volete, Lucia?"
"Uno!"
"Uno solo no, che non tengo il resto."
"E allora due." e avanti così.
A parte il fatto che il tortaniello è un vero attentato criminale al fegato, infatti è una pagnottella unta con lo strutto e imbottita con avanzi di salumi vari di scarsa qualità; la ricetta è simile a quella del tortano. Pascale era peggio di Attila il flagello di Dio perché quando non vendeva tortani, vendeva pannocchie lesse, e quando non vendeva pannocchie lesse, vendeva castagne arrosto, insomma era un vero e proprio scassa cazzo.
La saga degli scassa cazzi continuava poi con il venditore di arachidi che girava col suo carrettino che lanciava un fischio micidiale da forarti i timpani, mentre lui strillava con tutto il fiato che aveva in gola: "Nocelle, nocelle nostrane!" (perché esistono anche le nocelle d'importazione? Adesso forse sì, ma in quegli anni di autarchia...)
Ma mica era finita qui, perché poi passava Lorenzo con la sua pianola. Beh, almeno lui non strillava e la pianola diffondeva nell'aria le sue gradevoli note e comunque ormai tutto il quartiere s'era svegliato. Allora cominciavano le radio a tutto volume, e le conversazioni strillate da balcone a balcone su come sta la criatura, e su che fate da mangiare oggi, e su quel disgraziato di mio figlio che invece di andare a lavorare va sempre appresso alle sottane...
I femmenielli, invece...
Oggi ci stanno i transessuali, i travestiti, ma allora ci stavano i femmenielli, che però erano tutt'altra cosa.
Un femmeniello era un omosessuale passivo "professionale", che la malavita designava col termine di femmeniello, oppure vasetto. Qualcuno lo chiamava pure ricchione, però non era del tutto esatto, perché il ricchione poteva pure essere un omosessuale attivo, e il vasetto, anche se passivo, non s'atteggiava a femmina. Io, per esempio, sono un ricchione, ma non un femminiello. E a me piace pure fare il vasetto, ma mica sempre: mi piace pure trovare un vasetto che mi si dà. Quello invece che era esclusivamente attivo, lo si chiamava l'ommo 'e mmerda... che nonostante l'apparenza, non era un insulto, ma anzi un appellativo affettuoso, anche se aveva una connotazione di "disonesto".
A Napoli, un tempo, ommini 'e merda, ricchioni, vasetti e femmenielli costituivano una folla eterogenea e caratteristica che animava i bassifondi della nostra bella città, e che si procurava da vivere con mezzi onesti, come Pascale, e disonesti, procurandosi ad esempio il pane quotidiano col furto.
Giunto che era il ricchione oltre la soglia della pubertà, si rendeva conto che a lui le femmine gli andavano bene solo come amiche, solo per chiacchierare, ma non per godere. E allora, gradualmente si orientava, esplorando il sottobosco di quelli come lui e, a seconda delle sue tendenze, cercava di trovarsi un vasetto oppure un ommo 'e merda. E spesso l'ommo 'e merda e il vasetto, o il femmeniello, si amavano con una passione vera, ardente, che aveva tutte le caratteristiche, le esigenze e le gelosie d'un amore vero.
Fino all'immediato dopoguerra, spesso un ommo 'e merda si "accasava" con un vasetto o un femmeniello dopo che s'erano frequentati per un po', con una vera e propria cerimonia. Il vasetto o il femmeniello, tutto contento per l'acquisto fatto, colmava di carezze l'amante e poi cercava di raggranellare, spesso rubacchiando, quel tanto che era necessario per approntare la cerimonia in cui spontaneamente offriva il proprio "onore" al suo uomo.
Il luogo scelto per la cerimonia era quasi sempre una locanda, dove in un giorno e in un'ora stabilita l'amante si faceva trovare, assieme a qualche sonatore di organetto, o di chitarra o di mandolino e con tutta una coorte di ricchioni, che facevano corona al "timido" vasetto o femmeniello. Dopo un balletto erotico, il più esperto augurava alla felice coppia la buona notte; ma il vasetto o femmeniello, prima di lasciar partire gli invitati, doveva distribuire a tutti i presenti i tradizionali tarallucci e vino.
Il giorno dopo, 'o ricchione anziano, accompagnato da un caffettiere ambulante, portava agli sposi due "piccole" di latte e caffè e poi faceva un'accurata ispezione del talamo per accertarsi se il sacrifizio fosse stato compiuto secondo tutte le regole.
Dopo la luna di miele, che non durava oltre le ventiquattro ore, e verso sera, il ragazzo iniziava a passeggiare per i quartieri più alti della città per procurarsi, proprio come fanno le prostitute, qualche cliente che conduceva nella locanda o, se la persona era "nu signore", in una casa particolare tenuta da un compare.
Intanto mentre il cliente si godeva le grazie del ragazzo, il suo compare, che già se ne stava nascosto sotto il letto, gli sottraeva dagli abiti il portafogli o qualche altra cosa di valore. Ciò che ricavavano dal loro mestiere lo versavano poi ai loro amanti.
I femmenielli di giorno si occupavano delle faccende domestiche, proprio come avrebbe fatto una moglie, e poi, giunta l'ora prevista si affacciavano alla finestra e aspettavano i loro amanti.
Parecchi vasetti, per rendersi più attraenti, si truccavano gli occhi, altri si facevano tatuare sul viso qualche neo di bellezza e alcuni femmenielli cercavano di rendersi più formose le parti posteriori e più sporgente il petto imbottendosi con l'ovatta. Qualcuno si femminizzava pure nel nome, ma non tutti.
Forse qualcuno di voi conosce la famosa storia del femmeniello Carlo C., il quale quando il suo uomo decise di sposarsi (con una donna) si suicidò ingurgitando una gran quantità di capocchie di fosforo ottenute facendole saltar via dai fiammiferi. Ma prima, dato che era analfabeta, si fece preparare da uno scrivano pubblico, per l'amante Francesco T., la seguente lettera:
"Caro Ciccillo.
Io mi avveleno colle capuzzelle di fiammiferi perché tu ammogliandoti non potrai più abbracciare chi tanto ha sofferto per te arrivando a darti finanche il suo onore.
Del resto io ti perdono dell'offesa fattami perché sei cattivo come tutti gli altri uomini.
In qualche momento della tua vita e delle tue gioie arricordati del tuo aff. amante
Carluccio."
Ma, come vi ho detto, io non ero un femmeniello, e se anche da ragazzo avevo goduto nel fare il vasetto per qualche uomo che mi piaceva troppo, non mi trovavo del tutto a mio agio in questo sistema così codificato e rigido. Detto in termini attuali, io sentivo di essere un gay sia attivo che passivo, e sognavo di trovare un altro gay attivo e passivo come me... Cosa tutt'altro che facile, almeno in quei tempi e in quell'ambiente.
Mio padre faceva il suonatore ambulante di mandola, mandolino e chitarra. Perciò fin da piccolo, iniziai a strimpellare quegli strumenti e, sarà che ho il bernoccolo della musica, presto divenni anche più bravo di mio padre, che perciò iniziò a portarmi con lui a suonare nelle feste, nei matrimoni, nei vari locali.
Fu così che, quando avevo diciassette anni, un uomo che mi sentì suonare a una festa, si accostò a mio padre e si presentò. Era il capocomico don Gennaro Fazio che dirigeva una Compagnia di Varietà. Questi spiegò a mio padre che nell'orchestrina della sua Compagnia era venuto a mancare il mandolinista che era andato a combattere per la Somalia italiana. Gli propose perciò di assumermi.
Mio padre dette l'assenso e così entrai a far parte della "Compagnia Fazio" ed entrai a contatto con l'affascinante e misterioso mondo del teatro, e in particolare del varietà. L'avanspettacolo prese piede più tardi, quando andò di moda il cinematografo.
In quei tempi, la Compagnia Fazio si esibiva in un teatro che stava dove, poco dopo, fu deciso di costruire la Casa del Fascio. Quando fummo sfrattati dai locali del vecchio teatrino che doveva essere demolito per costruire appunto la Casa del Fascio, la Compagnia Fazio si sciolse. In quei tre anni io m'ero amalgamato molto bene con i membri della compagnia, il lavoro mi piaceva, guadagnavo più che a fare il musico ambulante, perciò per me fu un brutto giorno.
Ricordo, quando Gennaro ci comunicò che era finita, che aria da tregenda, da funerale si abbatté su tutti noi. Inutilmente Gennaro giurava che avrebbe fatto risorgere la Compagnia, invano ci chiedeva di restare in contatto... eravamo tutti veramente più a terra di un fico spiaccicato sulla via!
Così, all'età di venti anni, ripresi a fare il musico ambulante, alternando questa attività con quella di venditore, sempre ambulante, di struffoli. Gli struffoli sono, a mio parere, i dolci più napoletani che ci siano, a pari merito con la sfogliatella e la celebre pastiera, e certo più del babà e della la zucca candita: la famosa "cucuzzata". Erano mia madre e le mie due sorelle che preparavano gli struffoli da vendere.
In quel periodo, mi presi una cotta per Leonardo. Fra gli amici miei, ce n'erano parecchi carini e avrei tanto voluto poterli abbracciare e baciare... e farci anche altro. Logicamente loro non lo sapevano e io non glielo dicevo certo.
Fra loro c'era appunto Leonardo 'o caffettiere, o per meglio dire il figlio del padrone del caffè proprio accanto a casa mia. Aveva venticinque anni e mi piaceva da morire ma, purtroppo per me, era fidanzato.
Con Leonardo parlavamo spesso dei più svariati argomenti, o per essere più esatti, ero io che ero un vero mago a trovare sempre un argomento che gli interessava in quel momento e che quindi potevo stare a parlare per ore e ore con lui, e ero contento anche solo a stargli vicino e a sognare.
Mi parve, a un certo punto, di aver colto anche due segnali... Dopo una settimana che non andavo al caffè, Leonardo mi scorse dalla vetrina dietro al bancone dove di solito stava e mi salutò con un bellissimo sorriso. Io ricambiai subito, accostandomi alla vetrina, sollevai una mano e la poggiai sul vetro, un po' in basso, come se volessi toccarlo proprio lì... Leonardo rispose al mio saluto appoggiando la mano sul vetro in esatta corrispondenza della mia... Dio se mi sono sentito emozionato!
Poi un altro giorno, come al solito tornando a casa mi sono fermato al caffè per berne una tazzulella. Leonardo stava appoggiato al bancone e stava parlando con la sua fidanzata, sotto gli occhi vigili del fratello di questa. Bevuto il mio caffè, pagai, mettendo le monete sul bancone. Lui le prese e così facendo la sua mano carezzò lieve la mia mentre mi faceva l'occhietto. Mi sentii morire.
Poi una sera, ci si incontrò per via.
Leonardo mi disse: "Gaetano, lo sai che presto mi sposo... e che vado via da qui?"
"Vai via? E dove?" gli chiesi allarmato.
"A Sorrento, a lavorare da mio suocero. Così non ci si vede più... purtroppo."
"Maronna se mi dispiace! Cioè... sono contento che ti sposi, però... però... mi mancherai."
"Ma tu... ci verresti a suonare al mio pranzo di matrimonio?"
"Fino a Sorrento... è un po' troppo lontano..."
"Se tu vieni, mi faresti tanto contento; e allora ti saprei ricompensare bene, ti farei contento io pure, a te." mi disse con un sorriso allettante.
Il cuore mi cominciò a battere come 'na tamorra! Possibile che volesse dire proprio... proprio quello? Lo guardai confuso, incredulo, esitante, sentendomi arrossire.
Leonardo sorrise di nuovo e mi sussurrò: "Se mi dici di sì... io ti dico di sì a te... So essere più caldo d'o Vesuvio, sai? So essere più dolce d'un buon sonno. Non lo sai che... 'u cchiù doce d' 'a vita è fa' l'ammore?"
Mi sentivo più scosso d'una barca sul mare quando è in tempesta. Davvero Leonardo mi stava proponendo... quello che per mesi e mesi avevo sognato, credendo che non potesse capitare mai?
"Davvero, Leonardo... tu... con me..." balbettai.
Mi rispose con una sfilza di proverbi: "I' te conosco piro [Io ti conosco bene]. A buono 'ntennitòre poche parole. Addò c'è gusto nun c'è perdenza. E poi... non lo sai che... uocchie 'e pesce (così a volte noi si chiamava il cazzo...), addo' guarda cresce?"
"Quando? E dove?" gli chiesi semplicemente, sentendomi più felice d'una mattina di Pasqua.
"Ci vieni a suonare al matrimonio mio? A Sorrento?"
"Ma pure in capo al mondo se davvero tu... Quando e dove?" chiesi di nuovo, non credendo alla mia fortuna.
Due sere dopo mi portò con la sua vecchia moto su per le pendici del Vesuvio. Mi tenevo stretto a lui, e mi sentivo felice a tenerlo così abbracciato! Ci infrattammo e... mantenne la sua promessa: fu più caldo del Vesuvio! E anche forte e dolce.
Mi prese fra le sue forti braccia e mi baciò: un bacio da farmi mozzare il fiato. Frattanto mi apriva gli abiti di dosso, e io a lui. Mi fece stendere sull'erba, fra i cespugli selvatici, mi venne sopra. I suoi occhi brillavano nella notte fresca e profumata. Mi sentivo completamente nelle sue mani, avrebbe potuto fare di me qualsiasi cosa avesse voluto.
"Sei pronto?" mi chiese con voce calda e bassa.
"Sì..."
Mi fece divaricare le gambe, sollevandomi un po' il bacino fra le sue forti mani, mi puntò il membro duro come tiepido marmo fra le natiche, lo sfregò un poco, facendomi diventare matto per il desiderio, poi lo puntò sulla mia porta del piacere.
"Sei pronto?" mi chiese di nuovo, con un sorriso lieto, gli occhi illuminati dal desiderio.
"Sì!" esclamai, impaziente.
Allora finalmente spinse, mi riempì con un moto inarrestabile (ma chi voleva arrestarlo? Io? no di sicuro!) e mi prese con un entusiasmo che davvero non mi aspettavo. Me lo godetti enormemente: ogni sua spinta, ogni suo va e vieni, ogni suo sorriso, ogni suo gemito man mano che mi faceva avvicinare all'esplosione e che lui stesso vi si avvicinava... e finalmente eruttammo tutti e due, con un lungo gemito di intenso piacere. Di che coprire di nuovo Pompei ed Ercolano!
Quando, dopo che ci eravamo lietamente sfogati e avevamo goduto uno dell'altro, mentre ci si stava carezzando, assaporando la calma che segue il terremoto, l'eruzione del vulcano, la tempesta dei sensi, gli dissi: "Peccato che non l'abbiamo fatto prima, Leonardo, ma solo ora che te ne devi andare."
"Prima mica potevo."
"E perché?"
"Perché non mi potevo legare a te, Gaetano, non lo capisci? Però lo sapevo bene cosa ti sarebbe piaciuto fare con me... e cosa a me sarebbe piaciuto fare con te."
"Ma a te piacciono i ragazzi?" gli chiesi, ancora stupito per quella imprevista e bellissima cavalcata.
"Come ti dissi... uocchie 'e pesce, addo' guarda cresce! Sei un bel ragazzo, e a me, bei ragazzi o belle ragazze... me lo fanno crescere sempre, e gli uni e le altre."
"A me solo i bei ragazzi. Io so' ricchione..."
"Ognuno a modo suo, Gaetano mio. Ci vieni, no, a suonare al mio matrimonio."
"Te l'ho promesso. Però invidierò la tua mogliera..."
Sorrise mi spettinò con un gesto affettuoso: "Accontentati di quello che ti dà la vita, Gaetano mio! Di quello che t'ho potuto dare io, per una volta."
Sì, mi accontentai. E continuai a fare il musico ambulante e a vendere struffoli... e ogni volta che tornavo a casa, guardavo con nostalgia il caffè in cui il bel Leonardo, purtroppo o per fortuna, chi sa, non c'era più.
Quella vita continuò per due anni, e già non pensavo più al bel mondo del varietà, quando una sera arrivò a cercarmi uno scugnizzo.
"Siete voi Gaetano Minutolo, il suonatore di mandola, nevvero?"
"Sì. E tu, chi sei?"
"Mi manda don Gennaro Fazio: dice che dovete assolutamente andare alla riunione della Compagnia che si tiene domenica prossima alle ore tre del pomeriggio, alla cantina d'O Spagnuolo, in Via Nazionale." recitò, poi mi chiese: "Sapete dov'è, nevvero?"
"La Compagnia riparte?" gli chiesi con vera allegria.
"E che ne saccio, io. Voi andate e vedete." mi rispose lo scugnizzo e corse via. Poi si fermò, si girò, e gridò, per essere sicuro che avessi ben compreso il suo messaggio: "Domenica prossima alle ore tre del pomeriggio, alla cantina d'O Spagnuolo, in Via Nazionale. Non mancate, ha detto don Gennaro Fazio!" e correndo scomparve nella prima traversa.
Oggi non esistono più le cantine, a Napoli. Una cantina è quello che in altre città chiamano osteria. Nei vecchi quartieri le cantine non si contavano, erano molto frequentate anche se spesso erano sporche, malandate e polverose.
Quella d'O Spagnuolo, la conoscevo bene: era una delle poche che aveva i tavoli con le gambe di ghisa e col piano in marmo. Molto probabilmente, un tempo, quel marmo doveva essere stato bianco, ma il passare del tempo e l'unto della pezza che il padrone portava appesa alla cintura dei calzoni e che a ogni nuovo avventore passava sul tavolo, l'avevano fatto diventare d'un ricco e bel colore ambrato... testimone di anni di zozzo assorbito dalla pietra.
Nelle cantine si consumava soprattutto vino, però alcune facevano anche un po' di cucina. Ma spesso io con gli amici miei, per non rischiare, il mangiare ce lo portavamo da casa oppure ci si riforniva da un pizzaiolo che spesso aveva la bottega a fianco della cantina e che solitamente faceva ottimi fritti.
Il padrone della cantina che c'era davanti a casa nostra era Raimondo detto o' cafone perché non era nato a Napoli ma era venuto dalla campagna. Cafone non significa, come molti credono, maleducato, ma contadino. Infatti Raimondo era cortese con tutti... con tutti tranne che con noi, perché noi ragazzi non si perdeva occasione per sottolineare che lui era un cafone; dev'essere per questo che non ci ha mai pulito il tavolo, non si voleva sottomettere ai nostri sfottò.
Raimondo ci teneva a passare per un mago del vino, e come tale era reputato. Finché un giorno abbiamo finalmente scoperto come mai aveva un grosso smercio di vino, e botti in legno enormi e si sentiva anche un forte odore di vino, ma nessuno aveva memoria di quando ne era stato consegnato l'ultimo carico.
Raimondo passava le sue giornate nel seminterrato a curare il vino lasciando a gestire la cantina alla moglie che vendeva anche più di lui grazie alle zizze che la gentile signora mostrava generosamente agli avventori. Quando infatti c'era Raimondo a servire, la cantina pareva un vero e proprio mortorio, mentre si animava miracolosamente quando c'era la moglie.
Ma un brutto giorno, almeno brutto per Raimondo, il fato volle che la moglie dovesse allontanarsi per un attimo, solo per un attimino, lasciando la figlioletta in nostra custodia. Quando la povera anima innocente fu nelle nostre mani, la sottoponemmo immediatamente all'inquisizione.
La prima fatidica domanda fu: "Nenella a zio dimmi dov'è papà tuo?"
La risposta giunse pronta: "Sta facenno o'vino."
Andammo immediatamente a controllare: ebbene, era proprio 'o vero, Raimondo stava facendo il vino. Lo sorprendemmo con un secchio d'acqua e con le cartine che mescolava, usando un bastone, il miglior vino del quartiere. Per questo si dice "vino fatto col bastone".
Raimondo ci pregò, ci scongiurò di non rovinarlo... Non eravamo mascalzoni, chi fra noi non s'arrangiava in un modo o nell'altro? Perciò che diritto avremmo avuto noi di fargli la morale? Chi è senza peccato scagli la prima pietra... e noi non la scagliammo: peccati ne avevamo noi pure, e non pochi. Però cambiammo osteria. Se vino di bastone s'aveva da bere, che almeno non lo sapessimo!
Ma ora, scusate questa mia lunga digressione. A voi interessa altro, lo so. Il fatto è che io sono innamorato della mia Napoli d'un tempo, quella Napoli purtroppo scomparsa. Non che fosse migliore di quella di oggi... era solo diversa... ma, almeno per me, incantevole.
Dunque, stavo dicendo, ricevetti il messaggio di don Gennaro Fazio, e di colpo mi sentii ringiovanito... Lo so, vi può far ridere che dico che, a ventidue anni di età, io potessi sentirmi ringiovanito. Il fatto è che, dopo essermi affacciato nel mondo particolare ma affascinante del varietà, ed esserci potuto stare solamente per tre anni, in quei due anni di interruzione, senza una prospettiva per il futuro, mi ero sentito improvvisamente invecchiato.
L'unica cosa bella in quei due anni era stata quella gita notturna sul Vesuvio con il bel Leonardo. Qualche avventuretta l'avevo avuta, lo devo ammettere, ma erano cose fatte in fretta, con la paura di essere scoperti dall'amante dell'altro, a volte un vasetto, a volte un ommo 'e merda...
Quando comunicai a mio padre che Gennaro Fazio aveva l'intenzione di rimettere insieme la sua Compagnia, mi disse: "E quanto dura, 'sta vota? Altri tre anni e poi, devi tornare in strada? Non ti fare illusioni, figlio mio."
"Oh 'pà, e io ci provo, e se va, va, e quando non andrà più, qualcosa troverò. La vita di strada, tu la fai, no? E sono anni che tiri innanzi, no?"
"Sì, ma come? Co' le pezze sul culo! Un padre, pe' le criature sue, vorrebbe sempre che la vita jesse meglio che pe' llui. Ricordete che 'a cicala canta, canta e po' schiatta."
"E tu mica si schiattato, no? E Gennaro Fazio è un buon amico... Se m'ha chiamato..."
"Buono è l'amico, caro è 'o parente, ma povera 'a sacca toia si nun c'è stace niente. Statte accuorto, Gaetanuccio mio! Statte accuorto."
Finalmente arrivò la domenica, e pareva che il pomeriggio non arrivasse mai. Comunque, alle tre ero già lì da 'O Spagnuolo, in via Nazionale, allegro e pieno di speranze ma anche di titubanza, un po' come uno che va a nozze... sperando che la moglie non gli metta le corna già un minuto dopo la cerimonia nuziale.