Gennaro andò dal suo amico federale e gli sottopose il copione del nostro spettacolo. Contrariamente a quanto qualcuno di noi si aspettava, il federale non censurò nulla, ci fece assegnare due corriere, vecchie ma in buono stato, e avere il primo finanziamento con cui trasformammo una delle due corriere in deposito togliendo tutti i sedili; con una parte dei soldi Maria poté terminare di fare gli ultimi costumi di scena, e specialmente quelli sontuosi e variopinti per Rosa e per Viola, con piume di struzzo, paillettes e soffici boa colorati.
Il primo spettacolo lo facemmo a Napoli, e logicamente facemmo comprare i biglietti a tutti i nostri parenti, amici, conoscenti e, se avessimo potuto, pure alle anime sante del Purgatorio! Le ballerine non fecero nessun errore, Viola strappò applausi e richieste di bis con la sua spaccata, Raffaele catturò l'uditorio e Nino lo fece piangere.
"Rose Dupont", la nostra brava sciantosa, ebbe applausi a scena aperta, soprattuto quando fece 'a mossa. Eseguì in modo perfetto il movimento rotatorio coi fianchi, ben ritmato da Rodolfo Guarino con tamburo e grancassa, eseguito sia davanti sia di dietro sia lateralmente da destra a sinistra e viceversa, con il bacino e con il sedere.
Probabilmente, uno dei fattori più importanti che aveva spinto Rosa Ponticiello, una ragazza del popolo, a fare una scelta piena di pericoli e delusioni come quella di tentare la carriera di sciantosa, era stata la necessità di sopravvivere a qualunque costo, in un mondo in cui la miseria e la disoccupazione erano una piaga inguaribile, specialmente per le donne sole. Ma forse proprio per questo aveva dentro di sé anche quell'istinto teatrale che le ha assicurato il successo nel varietà.
Gli spettatori fischiarono e gridarono eccitati per le gambe delle ballerinette e lanciarono pesanti apprezzamenti a cui loro stessi per primi ridevano. Poi si sganasciarono dalle risate per le scenette di Gennaro e Sebastiano, come pure per le macchiette di Rosario Gatto, a cui reagirono di nuovo con battute e lazzi.
La vita del "macchiettista" assomiglia, vista al maschile, a quella della sciantosa; ha gli stessi desideri, una vita di simili sacrifici e lotte. E questo era tanto più vero per il nostro macchiettista giudeo. Il macchiettista in un varietà è sempre stato molto amato dal pubblico perché mette in scena le abitudini e i difetti di ognuno, con quell'autoironia e parodia che trascinano l'uomo a ridere di sé.
Raffaele aveva cantato "Carcere" di Bovio e Albano:
Carcere ca mme tiene carcerato,
privo d' 'a libertá, senza n'ajuto...
tutte ll'amice mm'hanno abbandunato,
pur' 'e pariente mm'hanno scanusciuto...
Aggio fatto rebbène a tutte quante
e chesto n'aggio avuto: tradimente...
Sabato a sera, la mia cara amante,
è ghiuta a Piererotta alleramente...
Anèlle, anèlle...
Zompa chi pò... La mia amorosa abballa,
e io sto 'a vintuno mise 'int' 'e ccancelle!...
Per la mia bella...
Anèlle, anèlle!
Chiagnere t'aggi' 'a fa comme chiagn'io,
e t'aggi' 'a fa pruvá ch'amaro è 'o chianto...
Quanto t'amavo! ... E mo si' ll'odio mio...
Mo te disprezzo... E t'apprezzavo tanto!
Pe' te sto dinto cca... pe' st'uocchie belle...
e sto cuntanno 'e mise, 'e juorne e ll'ore...
Quann'haje 'a nutizia ch'esco da 'e ccancelle,
meglio ca 'spátrie 'ncopp'a nu vapore...
Sciore 'e granato...
Chisto è n'avvertimento e nu saluto
per voi signora, e per il vostro amato...
Bona salute...
Sciore 'e granato!
Mentre suonavo con l'orchestra per accompagnarlo, me lo guardavo e lo trovavo bello! Eppure, onestamente, proprio bello non era. Nino sì ch'era era un bell'uomo, che se non gli piacevano così tanto 'e femmene, quasi quasi ci provavo. Rodolfo, il suonatore delle percussioni, era sensuale e desiderabile... eppure mi sentii stranamente attratto da Raffaele, proprio a cominciare da quella volta, alla nostra prima.
Sarà stata l'atmosfera del palco, il cono di luce che lo seguiva, lo inquadrava e lo faceva risaltare lasciando il resto al buio, e i suoi occhi belli come pietre preziose, ora freddi, ora appassionati, ora tristi... così espressivi! Sarà stato come padroneggiava la scena con la sua aria da guappo verace, come gesticolava... come trasudava virilità, più di Nino che, pure bello, era più imbambolato e sdolcinato.
Fu un vero successo... ma voleva dire poco, perché avevamo la clac assicurata, essendo almeno la metà degli spettatori composta dai nostri conoscenti. Comunque il federale, terminato lo spettacolo, venne dietro le quinte a complimentarsi con noi.
Andammo a festeggiare tutti assieme in una cantina, allegri e soddisfatti. Viola e Rosa si beccavano lanciandosi complimenti più falsi d'una moneta da tredici centesimi, Alfredo e Maria osservavano tutto in silenzio, ma con un sorriso come se avessero vinto un terno al lotto; Ida faceva il filo, sfacciatamente, a Raffaele e Marisa a Nino, i nostri due bravi cantanti.
Io ero seduto fra Gennaro Fazio e Sebastiano Capece e osservavo tutti gli altri, contento perché il maestro De Angelis, poco prima, m'aveva fatto i complimenti per come avevo suonato.
Col suo accento piemontese, così buffo, m'aveva detto: "Che tu eri bravo, l'avevo capito subito, ma oggi hai superato te stesso anche se sei ancora una masnà!"
"Che sono? Una che?" gli avevo chiesto.
"Una masnà... un guallione, come dite voi! Un ragazzino."
"Beh... mica tanto, ho ventidue anni..." gli dissi, godendomi il suo complimento.
"Con quella faccia da birichino e quegli occhi da monello... Ma davvero suoni come un vero professionista! Perché non impari a leggere le note? Se vuoi ti insegno io..."
"Mah... vedremo... Non è che mi attira molto. Preferisco sentire una musica e provare a suonarla..."
"Devi almeno provarci. Dammi retta, potrà sembrarti difficile all'inizio, ma poi sarà un grande vantaggio. Tu hai la musica nel sangue, ragazzo mio."
Dovevo fare uno sforzo per non mettermi a ridere per la sua buffa cantilena piemontese che dopo tanti anni vissuti a Napoli non aveva ancora perso.
Raffaele, che era lì accanto, m'aveva detto: "Se il maestro De Angelis ti consiglia di studiare musica ed è disponibile a insegnartela, devi farlo! Non devi sprecare i tuoi talenti."
Questo era accaduto prima che ci mettessimo a tavola per mangiare. Ora guardavo Raffaele, che era seduto quasi davanti a me, e mi sentii infastidito per come Ida faceva la smorfiosa con lui. Infastidito o... invidioso? Raffaele le sorrideva gentilmente, ma non mi pareva che le desse corda e questo mi procurò un sottile piacere.
Ecco, pensai, se Raffaele avesse le fattezze di Nino, ma il carattere che ha, gli cadrei fra le braccia come una pera cotta... sempre che lui non mi lasci cadere a terra, perché non gli interessano i ricchioni.
Me lo immaginavo, mentre cantava le canzoni de 'o malamente, che io stavo sul palco, seduto un po' di fianco, anzi semisdraiato, le braccia sollevate e aggrappate alle sue gambe, che lo guardavo con occhi pieni di voglia implorandolo di fottermi... Poi la luce di scena che si spegneva e, nel buio, si sentivano solo i nostri gemiti di passione...
Sebastiano mi dette di gomito e chinandosi verso di me, mi sussurrò: "Ehi, Gaetano, ti piace Ida, eh? Sarà mezz'ora che te la divori co ll'uocchie!"
Mi sentii arrossire e dentro di me ringraziai che non avesse capito che io mi stavo guardando Raffaele e non Ida. Per quanto si vociferasse che nell'ambiente del varietà il sesso era una cosa libera assai, e per quanto in quei tempi a Napoli i ricchioni non erano discriminati quanto lo sono oggi, temevo che sarei potuto diventare l'oggetto degli sfottò di tutti i compagni, maschi e femmine, se avessero saputo dei miei gusti.
Gennaro ci stava spiegando che nei vari paesi e città in cui ci saremmo fermati, poiché spesso, se pure avevano un teatro, l'avevano piuttosto piccolo, ogni giorno si sarebbero fatti due spettacoli di circa quarantacinque minuti ciascuno. Ci disse anche che avremmo ancora dato tre spettacoli a Napoli, poi saremmo partiti.
Per preparare il giro, aveva deciso di assumere nella compagnia anche un suo nipote, Alfredo Fazio, un giovanottello di ventitré anni che aveva la motocicletta, perché ci precedesse prendendo i contatti coi teatri e trovandoci il posto migliore e meno caro per dormire e mangiare.
"Ottima idea." sentenziò Rosa.
"E così, siamo due Alfredo!" disse Alfredo Barbarulo, il nostro attrezzista.
"Ah, ma lo chiamiamo tutti Freduzzo, in famiglia, perciò anche voi lo chiamerete così, e si evita ogni confusione." disse Gennaro.
"Nipote?" chiese Viola, "Non c'avevi detto d'essere nonno!"
"Al massimo avrebbe da essere suo figlio..." rise Nino.
"Ma no, è figlio a mio fratello Carlo!" disse Gennaro. "Faceva il fattorino all'albergo Vesuvio di via Partenope. È un ragazzo sveglio, lì era sprecato e gli piace l'idea di girare in motocicletta. E ci faciliterà parecchio le cose."
"Mica ti devi giustificare con noi..." disse Nino.
"E chi si giustifica? Ve ne parlo così, per cominciare a farvelo conoscere. Comunque sarà sempre in giro, lo vedrete appena. Solo che... dovete stare attente, voi ragazze." disse rivolto alle nostre ballerine di fila, "Freduzzo è un galletto ruspante! Quello, quando vede le gambe d'una bella pollastrella... gli si rizza la cresta!"
"Io credevo che gli si rizzasse la coda!" disse Viola,ridendo.
"Quella pure, quella pure." rise in risposta Gennaro.
"E così, in tutti siamo in ventuno!" fece notare Sebastiano.
"Il ventuno, nella tombola dei femmenielli, è 'a femmena annura, la donna nuda." commentò Nino con un sorrisetto.
"Il numero che ai femmenielli gli interessa di meno!" disse Sebastiano, serio serio, e tutti scoppiammo a ridere.
"A loro piace di più il ventinove, 'o pate d' 'e criature, il cazzo, oppure il cinque, 'a mana ca te tocca." aggiunse Viola.
"E il tre, 'o femmeniello, e il sedici, 'o culo... e poi, logicamente il settantuno, ll'omme 'e mmerda." esclamò Rosa, facendo la voce in falsetto per imitare il tono dei femminielli.
"E l'otto, il bacio che non potrò mai avere, e il sessantacinque, il pianto..." disse, serio, Raffaele.
"Ma l'otto è a Maronna!" protestò Rosa.
"Sì, pe' tutti meno che pe' i femminielli." dissi allora io, e Raffaele annuì.
"E il sessantanove, 'o 'mbruoglio int' 'e lenzole..." aggiunse Viola.
"Iiiih, ma quello piace a tutti, pure a noi qui presenti!" disse Nino e ridemmo tutti.
Eravamo allegri, l'inizio era stato buono. Anche gli altri tre spettacoli che demmo in vari teatri di Napoli riscossero un buon successo. E lì, non c'erano i nostri parenti e amici a fare la clac.
Prima dell'ultimo spettacolo, il giorno prima di lasciare Napoli, stavo passando davanti al camerino sulla cui porta era scritto "Raffaele Sorrentino", quando si aprì e lui comparve sulla soglia.
"Oh, Gaetano, che me lo faresti un favore?" mi chiese con aria preoccupata.
"Certo, come no?"
"Io... quando la prima volta sono andato in scena, mi hanno dato come portafortuna una moneta con il buono da una lira di nichel... Ora non la trovo più e... ho paura ad andare in scena senza..."
"Ma va, Raffaele... mica ci crederai, a queste cose?"
"Lo so che non è vero, però... però ci credo. Puoi mica vedere di trovarmene una, per favore?"
Sorrisi e andai a cercargliene una. La chiesi a tutti, senza spiegarne il motivo, ma pareva che nessuno l'avesse. Allora uscii di corsa e andai al caffè che c'era di fronte al teatro e chiesi se per caso avevano quella moneta, che finalmente saltò fuori. Detti due monete da cinquanta centesimi e tornai di corsa al camerino di Raffaele. Bussai. Mi disse di entrare.
Stava seduto davanti allo specchio, gli abiti di scena già indosso, la testa appoggiata sulle mani sostenute sui gomiti.
"Eccoti la moneta, Raffaele. L'ho trovata!" gli dissi.
La prese, la guardò e mi disse, con un gran sorriso e l'espressione sollevata: "È pure del 1928 come era la mia! Grazie, Gaetanuzzo mio! Adesso andrà tutto meravigliosamente bene."
Si alzò e mi abbracciò stretto. Provai un lungo fremito e per prudenza mi staccai da lui. Infatti sapevo bene che quel fremito non era che l'araldo, la premonizione, l'annunciazione della prossima epifania di una gloriosa erezione... E oltretutto... m'aveva chiamato "Gaetanuzzo mio"! Non l'aveva mai fatto, prima. Mi dissi che forse ero stupidamente romantico, però...
Lo spettacolo iniziò: la sala era piena. S'era sparsa la voce che avevamo un buon programma.
La scenetta scritta da Rosario ebbe molto successo, tanto che ancora circola, dopo anni: l'ho sentita raccontare con pochi cambiamenti.
Dunque, entrano in scena Gennaro vestito da cafone, con una cassetta piena di mele, la posa a terra, ne prende una, la sbuccia, butta via la polpa e mette accuratamente in una scatolina tutti i semi. Poi un'altra...
Poi entra in scena Sebastiano, vestito da elegantone sfaccendato, con tanto di monocolo e canna da passeggio... Lo guarda, lo guarda.
Poi gli chiede: "Ma cosa fai? Getti via le mele?"
Gennaro, con aria sicura di sé gli risponde: "E certo! Ma voi non lo sapete che i semi delle mele sviluppano l'intelligenza!?"
Sebastiano fa la faccia da tonto stupito e dice: "No che non lo sapevo! E che cosa ne fai dei semi? Li vendi?"
E Gennaro: "Certamente!"
"E quanto costano?" gli chiede Sebastiano.
"Cinque lire l'uno!" gli risponde Gennaro.
"Oh, bene! Voglio provarli: dammene tre."
Allora Gennaro prende le quindici lire che Sebastiano gli porge e gli conta tre semi mettendoglieli sul palmo della mano.
Sebastiano se li mangia, masticando in modo buffo, vistoso, e poi pensa, ad alta voce: "E ma che cazzo! Ma con quindici lire io mi ci compravo dieci chili di mele, le sbucciavo e avevo molti più semi!"
Allora Gennaro gli dice: "Ecco, vedete? State già diventando più intelligente di prima!"
E Sebastiano, facendo la faccia di chi ha capito tutto: "Cazzo, tieni raggione! Vendimene altri tre!"
Questa scenetta l'ho ritrovata come barzelletta in cui al posto dell'elegantone sfaccendato hanno messo un carabiniere... Ebbene, l'aveva inventata il nostro macchiettista, conosciuto fino alla caduta del fascismo con il nome di Rosario Gatto.
Ma il vero trionfo, più che quello, scontato, di Viola con le sue ballerine e di Rosa la sciantosa con la sua mossa, fu quello del nostro cantante di giacca, Raffaele.
Le luci sul palco erano state spente, si sentivano solo degli accordi della mia chitarra e del contrabbasso di Salvatore, per pochi minuti, ma il tempo sembrò eterno. In sala s'era fatto gradualmente un silenzio tangibile. Ed ecco che dal buio partì la prima stilettata all'attenzione spasmodica degli spettatori: la voce inconfondibile, drammatica, profonda del nostro Raffaele iniziò "Guapparia":
"Scetáteve, guagliune 'e malavita...
ca è 'ntussecosa assaje 'sta serenata:
Io sóngo 'o 'nnammurato 'e Margarita
Ch'è 'a femmena cchiù bella d' 'a 'Nfrascata!"
Dalla platea si sentì provenire un fremito al sorgere della sua voce, e tutti scoppiarono in uno scrosciante applauso e qualcuno gridò: "Raffaè, si' 'o mejo 'e tutte quante!"
Ed ecco che l'occhio di bue si accese per inquadrare la sua figura, e apparve lui, Raffaele, il nostro cantante di giacca che, con una camicia azzurra senza cravatta, con un fazzoletto rosso annodato al collo, sotto un gessato grigio, coppola in capo e anellone al mignolo destro, smise di cantare e salutò con il braccio destro alzato, la mano accanto alla testa. Poi, con aria soddisfatta e padrone di sé, girò lo sguardo sulla platea.
"Si' bbello, si' bbello Raffaè." gridò qualcuno. "Raffaele, Raffaele!" scandirono alcune voci femminili.
"Illustrissimo pubblico, sono contento assai di cantare stasera in questo bel teatro. Site tanti, site assai, site proprio assai! E non so' bbello io, site bbelli vuje!" disse Raffaele: era veramente in forma quella sera, e stava agendo quasi da attore di sceneggiata.
Un applauso irrefrenabile, grida di entusiasmo, mani protese verso di lui, invocazioni: "Canta, Raffaè, canta, che chi è cchiù bbello 'e te, è solo perché se trucca pe' ttre ore!"
E finalmente Raffaele entra nel vivo. Fa cenno a noi dell'orchestra di fare un accordo e ricomincia a cantare:
"Ll'aggio purtato 'o capo cuncertino,
p' 'o sfizio 'e mme fá sèntere 'e cantá...
Mm'aggio bevuto nu bicchiere 'e vino
pecché, stanotte, 'a voglio 'ntussecá...
Scetáteve guagliune 'e malavita!..."
Poi segue il tormento per le azioni indegne commesse dalla donna, che Raffaele enumera accompagnando ogni frase con gesti da grande attore:
"E' accumparuta 'a luna a ll'intrasatto,
pe' lle dá 'o sfizio 'e mme vedé distrutto...
Pe' chello che 'sta fémmena mm'ha fatto,
vurría ch' 'a luna se vestesse 'e lutto!...
Quanno se ne venette 'a parta mia,
ero 'o cchiù guappo 'e vascio 'a Sanitá...
Mo, ch'aggio perzo tutt' 'a guapparía,
cacciatemmenne 'a dint' 'a suggitá!...
Scetáteve guagliune 'e malavita!..."
Proseguì senza interruzioni, malgrado il fracasso e le grida di alcuni esaltati che in piedi battevano le mani a ritmo. Una donna sollevò il figlioletto quasi fosse un trofeo e gli gridò: "Ne vojo 'nato comm'a chesto da te, bell'ommo!" e qualcuno rise forte.
Ma Raffaele fece un gesto di cortesia verso quella donna e continuò, e tutti erano soggiogati dal fascino della sua voce e tacquero di nuovo, come d'incanto:
"Sunate, giuvinò', vuttàte 'e mmane,
nun v'abbelite, ca stó' buono 'e voce!
I' mme fido 'e cantá fino a dimane...
e metto 'ncroce a chi... mm'ha miso 'ncroce...
Pecché nun va cchiù a tiempo 'o mandulino?
Pecché 'a chitarra nun se fa sentí?
Ma comme? chiagne tutt' 'o cuncertino,
addó' ch'avess' 'a chiagnere sul'i'...
Chiágnono sti guagliune 'e malavita!..."
Tutti erano in piedi, l'atmosfera era quasi surreale, come mai prima di allora, Raffaele quella sera superò veramente se stesso. Anche noi dell'orchestra ne eravamo contagiati... specialmente io che lo guardavo affascinato.
Raffaele, forse parafrasando le parole d'un'altra canzone, disse, con la sua voce calda e profonda: "Felicissima sera a tutte 'sti signori ncruvattati e eleganti, a tutte 'ste signore deliziose, a 'st'uommeni forti e lavoratori, a le signurinelle ca me vurria vasà! Vi ringrazio a tutti e tutte, de core! Grazie, grazie! Ve vojo bene assaje!" e lanciò baci alla platea che era in delirio.
"Pecché nun va cchiù a tiempo 'o mandulino?" aveva cantato: erano proprio quelle le parole del testo, però io le sentii come se fossero state dirette a me! Infatti avevo fatto una vera fatica a suonare senza sbagliare, tanto ero emozionato.
E Raffaele estrasse dalla tasca la moneta del "buono da una lira" che gli avevo procurato subito prima di quello spettacolo, la lanciò in aria facendola roteare e quando tornò giù l'afferrò con un gesto sicuro e i suoi occhi si posarono su di me!
Poi, con voce chiara, sempre guardandomi negli occhi, declamò le parole d'una vecchia e famosa canzone di Ernesto Murolo: "Cu 'ammore, è facile tutt' 'o ddifficile... Si ha da succedere, succedarrá!" e fatto un ultimo saluto alla platea, mentre l'occhio di bue si spegneva, sparì dietro le quinte.
Poi s'accesero tutte le luci di scena e Raffaele tornò fuori a rispondere agli applausi incessanti della platea che lo chiamava a gran voce: "Raffaele! Raffaele! Raffaele!" Dovette tornare in scena tre volte, prima che gli spettatori si calmassero.
Quanto a me... stavo letteralmente morendo: "Si ha da succedere, succedarrá!" aveva detto, e stava guardando proprio me.
Possibile che volesse dire proprio quello? Che Raffaele fosse veramente interessato a me? Che avesse capito che cosa stavo iniziando a sentire per lui e che con quelle parole mi stesse lanciando un messaggio, mi stesse dicendo che poteva essere possibile?
Lo spettacolo proseguì. Come sempre, le cosce delle nostre procaci ballerinette di fila suscitarono apprezzamenti salaci, e Viola fece la sua fantastica spaccata verticale, facendo intravedere per un istante i mutandoni di pizzo nel volteggiare delle sue lunghe e ampie sottane.
Dopo lo spettacolo, Gennaro era letteralmente radioso: aveva avuto buon fiuto a prendere nella Compagnia Fazio quel cantante di giacca. Nino era invidioso, non aveva mai avuto un tale trionfo. Ma per orgoglio cercava di non darlo a vedere e anzi lui pure fece i complimenti a Raffaele.
Notai che Marisa Di Benedetto faceva gli occhi dolci a Nino e la sentii che gli diceva, sottovoce, facendogli gli occhi da pesce lesso: "Ma a me mi piacciono assai di più le tue canzoni sentimentali, Ninetto, così dolci, così belle, che mi fanno fremere tutta!"
Frattanto anche Raffaele si era cambiato, non lo perdevo di vista, però quasi non mi guardava e già mi sentivo deluso: allora m'ero sbagliato? Avevo interpretato le sue parole secondo il mio desiderio? Mi sentivo agitato quanto mai ero stato prima.
Andammo tutti assieme a bere in cantina. Raffaele stava seduto fra Rosa la sciantosa e Maria la costumista e chiacchierava amabilmente con tutte e due... e non mi guardava. Ida s'era seduta accanto a me e non la finiva più di parlare, cercando inutilmente di attirare la mia attenzione. Quasi quasi mi si strusciava contro come una gatta in calore...
Viola era seduta accanto al nostro trombone, Francesco, che la ascoltava e la spogliava con gli occhi. Lo sentii, o per meglio dire lessi sulle sue labbra, che le diceva: "Tu quella fantastica spaccata avresti da farla una volta per me solamente..."
Viola ridacchiò e gli rispose, in tono civettuolo:" Mah... chissà... vedremo..."
Gennaro ci comunicò che suo nipote Freduzzo gli aveva detto che il giorno dopo ci saremmo esibiti ad Afragola, per due giorni, cioè per quattro spettacoli, e che lì avremmo dormito.
Quando, dopo esserci dati l'appuntamento per il giorno seguente, ci salutammo per andare a dormire, per l'ultima notte, ciascuno a casa sua, Raffaele, che per tutta la serata m'aveva praticamente ignorato, mi mostrò da lontano la moneta e mi sorrise, strizzandomi l'occhio. Mi sentii di nuovo il cuore battere come a tammora maggiore!
Quella notte quasi non chiusi occhio, e continuavo a ripetermi in cuore la frase che dal palco Raffaele m'aveva indirizzato: "Cu 'ammore, è facile tutt' 'o ddifficile... Si ha da succedere, succedarrá!" e dopo parecchi giorni che non lo facevo, per calmarmi almeno un poco, me lo menai pensando a lui...
La mattina seguente ci ritrovammo tutti per caricare strumenti musicali, attrezzi di scena e costumi sulla corriera che era stata svuotata, salimmo sull'altra e finalmente partimmo per Afragola. Arrivammo giusto prima di pranzo. Là ci attendeva Freduzzo, che così conoscemmo.
Era un ragazzo snello e alto, ben fatto, con occhi svegli e un eterno sorrisetto sulle labbra fini e perfette. Durante il pranzo spiegò allo zio, e a tutti noi, tutti gli accordi che aveva preso.
L'unico problema era che nel locale albergo non c'erano abbastanza stanze, perciò avremmo dovuto dormire in due, tre e anche quattro per camera, ma aveva fatto aggiungere letti nelle stanze in modo da ottenere i ventuno posti necessari.
Gennaro decise che ci si sarebbe suddivisi nel pomeriggio, dopo aver scaricato il materiale nel teatro e prima del primo spettacolo, quello del pomeriggio.