Il problema con la guerra, almeno per la Compagnia Fazio, era che la gente aveva anche più voglia e bisogno di divertirsi di prima, quasi per esorcizzare la paura dei bombardamenti, però aveva sempre meno soldi. Il razionamento, la borsa nera, le tessere annonarie erano pane quotidiano.
Così Gennaro decise che dovevamo abbassare i prezzi dei biglietti per assistere ai nostri spettacoli, anche se così i nostri guadagni erano drasticamente ridotti.
Raffaele, dopo parecchie discussioni con Gennaro, l'aveva convinto che non c'era pericolo a cambiare un poco le parole di "Lacreme napulitane" di Bovio e Buongiovanni, così la cantò nella sua nuova versione, adattata ai tempi che stavamo vivendo:
"Mia cara madre,
sta pe' trasí Natale,
e a stá luntano cchiù mme sape amaro...
Comme vurría allummá duje o tre biangale...
comme vurría sentí nu zampugnaro!...
A 'e ninne mieje facitele 'o presebbio
e a tavula mettite 'o piatto mio...
facite, quann'è 'a sera d' 'a Vigilia,
comme si 'mmiez'a vuje stesse pur'io...
E nce ne costa lacreme 'sta guerra
a nuje Napulitane!...
Pe' nuje ca ce chiagnimmo 'o cielo 'e Napule,
comm'è amaro sta' lluntane!
Mia cara madre,
che so', che so' 'e denare?
Pe' chi se chiagne 'a Patria, nun so' niente!
Mo tengo nu fucile, e mme pare
ca nun só' stato maje tanto pezzente!
Mme sogno tutt' 'e nnotte 'a casa mia
e d' 'e ccriature meje ne sento 'a voce...
ma a vuje ve sogno comm'a na "Maria"...
cu 'e spade 'mpietto, 'nnanz'ô figlio 'ncroce!
E nce ne costa lacreme 'sta guerra
.............................
Mm'avite scritto
ch'Assuntulella chiamma
chi ll'ha lassata e sta luntana ancora...
Che v'aggi' 'a dí? Si 'e figlie vònno 'a mamma,
facítela turná chella "signora".
Io nun 'o so se torno... ssi nun me fanno fore
e resto a fa' la guerra, so' dannato!
I', ch'a defenno 'a patria, casa e onore,
i' só' carne 'e maciello: so' surdato!
E nce ne costa lacreme 'sta guerra
............................."
La platea, composta ora soprattutto di donne e vecchi, applaudì a lungo Raffaele, e parecchi avevano lacrime agli occhi. Chi di loro non aveva un padre, un marito, un fratello o un figlio in guerra?
Napoli fu, fra le città italiane, una delle più provate dalla guerra. Allo scoppio del conflitto era il porto principale verso la "quarta sponda", ed era il capolinea delle rotte marittime verso la Libia. Inoltre, nella nostra bella città, purtroppo c'erano numerosi obbiettivi di interesse militare, come le officine aeronautiche dell'Alfa Romeo di Pomigliano, il silurificio di Baia, i Cantieri Navali di Castellammare di Stabia e quelli della Società Bacini e Scali Napoletani di Napoli, lo spolettificio di Torre Annunziata.
Anche l'esistenza di molte importanti industrie di interesse strategico come l'ILVA di Bagnoli, la resero bersaglio preferenziale delle incursioni aree alleate prima e tedesche poi, sì che per tutta la durata della guerra, ci furono più di cento bombardamenti.
La città rispose in maniera dignitosa e disciplinata e, nonostante tutto, il consenso allo sforzo bellico, almeno ufficialmente, non venne a mancare neppure quando, dopo la sconfitta di El Alamein nel settembre del 1942, le sorti del conflitto cominciarono a declinare per l'asse Ro-Ber-To.
Dopo di allora, i bombardamenti degli Alleati non furono più destinati a singoli obbiettivi d'importanza militare, ma ebbero lo scopo di terrorizzare la popolazione per fiaccarne il morale e provocare la caduta del fascismo, soprattutto a metà del 1943, e agevolare gli sbarchi in preparazione in Sicilia e a Salerno.
Napoli continuò a sopportare stoicamente le più gravi offese e solo in conseguenza dell'imminente arrivo degli Alleati si creò una situazione di caos ingenerata da tutti quelli che avversavano il fascismo e che speravano di trarre vantaggio, legittimo o illegale che fosse, dal disordine derivato dal vuoto di potere tra la partenza dei tedeschi e l'arrivo delle truppe alleate.
La storia di Napoli, dalle cosiddette "quattro giornate" alla fine del conflitto, fu un calvario umiliante di una città utilizzata come retrovia dello sforzo bellico alleato.
Durante questo periodo, la delinquenza, che aveva rialzato la testa dopo la partenza dei tedeschi e nell'attesa delle truppe alleate, spadroneggiò e le conseguenze morali durano purtroppo fino ai nostri giorni.
Era la guerra civile: ci fu dissenso diffuso, carcere e campi di concentramento, scontri fra fascisti e antifascisti, organizzazioni clandestine, fucilazioni da una parte e dall'altra.
Il 4 agosto del 1943 Napoli fu bombardata dall'aviazione americana da altissima quota, quindi alla cieca. La città subì in totale quarantatré interminabili ore di bombardamenti, e ci furono circa 20.000 morti. Furono rasi al suolo ospedali, chiese, orfanotrofi, abitazioni civili.
Il 10 luglio gli Alleati sbarcarono sulle coste sudorientali della Sicilia. Il 1° settembre, l'VIII armata inglese sbarcò in Calabria e iniziò la sua avanzata verso nord, poi il 9 settembre la V armata americana, comandata da Mark Wayne Clark, sbarcò nelle vicinanze di Salerno.
Napoli, duramente provata dai bombardamenti in tutto il precedente periodo, si sollevò nelle quattro giornate (dal 25 al 28 settembre del 1943) di lotta popolare, che la liberarono dall'occupazione tedesca, e per le quali Napoli fu in seguito insignita della Medaglia d'Oro al Valor Militare.
Il 1° ottobre la V Armata entrò a Napoli, già liberata da cittadini insorti, e due giorni dopo l'VIII Armata conquistò Termoli. A nord di Napoli la loro avanzata fu bloccata a causa della dura resistenza opposta dall'esercito tedesco che si era dislocato sul fiume Liri e a Cassino, lungo la linea Gustav, cosicché lo sbarco ad Anzio compiuto dagli alleati il 22 gennaio del 1944, non permise all'esercito anglo-americano di fare molti progressi e Cassino fu liberata solo il 18 maggio del 1944. Solo in tal modo i tedeschi furono infine costretti ad abbandonare la linea Gustav.
In un certo senso, noi della Compagnia di Varietà Fazio, eravamo privilegiati e passammo indenni attraverso tutto questo difficile periodo di fame, di lutti, di smarrimento delle coscienze. E quello che è strano, era che i nostri spettacoli non solo erano apprezzati e richiesti, ma avevano sempre parecchi spettatori anche se spesso pagavano i biglietti dandoci in cambio derrate alimentari.
Venimmo a sapere che il federale era stato ammazzato... e lo piangemmo sinceramente. Questo non solo perché sfumava il sogno di avere un teatro tutto per noi, come ci aveva fatto sperare, ma soprattutto perché ci era sempre stato amico e perché era stato un uomo onesto.
Un pomeriggio, non avevamo lo spettacolo, Raffaele era andato con Freduzzo fino a Napoli per vedere se riusciva a trovare un completo nuovo, perché quello che solitamente usava s'era rovinato il giorno prima: s'era impigliato su un chiodo sporgente da una cantinella delle quinte e s'era lacerato malamente. Allora io decisi di andare a girare un po' per i dintorni.
Il tempo era grigio, il cielo pieno di nuvole che si spostavano lentamente come mandrie sudice. Uscii da Giffoni scendendo lungo il fiume. Non si vedeva nessuno in giro per i campi. La strada sterrata seguiva le curve del corso d'acqua, che scorreva rapido. Da qualche parte stavano bruciando le stoppie, ne vedevo il pennacchio di fumo quasi nero sollevarsi da dietro un poggio, incurvato dai movimenti dell'aria ad alta quota, che a terra non si sentiva, finché il fumo diventava un tutt'uno con le nuvole, quasi fosse lui a formarle e alimentarle.
Lasciai la strada e continuai a camminare lungo la riva, anche se la via era meno agevole. Provavo la tentazione di buttarmi in acqua... di bagnarmi, di guazzare per un po', ma non lo feci, perché la giornata non era bella. Improvvisamente sentii acuta, quasi dolorosa, la mancanza di Raffaele. Se fossi stato superstizioso, come un po' lo era lui, l'avrei preso per un cattivo segno premonitore.
Per la prima volta, mi chiesi se la nostra relazione sarebbe sopravvissuta alla fine della guerra. Poi mi diedi mentalmente dello stupido: che motivo c'era che dovesse finire? Comunque mi sentivo stranamente inquieto. Forse anche per lo stupore che la nostra relazione non avesse incontrato nessuna difficoltà? Era nata e si era sviluppata, era stata accettata quietamente... Tornai sulla strada.
Mi accorsi che non ero più solo. Alle mie spalle, stava arrivando qualcuno, ne sentii i passi, lievi e veloci. Mi girai: era un ragazzo, più giovane di me. Aveva un'espressione intensa, non corrucciata, ma come se fosse immerso in chissà quali pensieri. I suoi capelli ricci e neri erano un po' arruffati, aveva un corpo magro, snello, ma non privo di muscoli. Notai, fa le labbra socchiuse, che i suoi denti erano bianchissimi, perfetti.
Camminava con una specie di grazia spontanea, la camicia, che aveva solo tre bottoni agganciati al centro, gli fluttuava lieve a ogni passo, fuori dai calzoni sporchi di vernice, che mi fecero pensare che dovesse lavorare in un'officina, tenuti su da uno spago annodato in vita. Era bello, aveva un viso dolce e da bravo ragazzo.
Quando vide che lo guardavo, nei suoi occhi scuri baluginò l'ombra di un sorriso e mi salutò con un cenno del capo. Aveva in una mano un sacchetto di carta marrone, che stringeva quasi con forza. Nell'altra una mezza forma di pane.
Quando mi giunse a fianco, mi disse, in dialetto stretto: "Tu sei forestiero, vero? Non t'ho mai visto da queste parti."
"Sono di Napoli."
"Sfollato?"
"No, sono a Giffoni per lo spettacolo di varietà. Io suono chitarra, mandola e mandolino nell'orchestra."
"Ah... ne ho sentito parlare. Com'è il varietà? Bello?"
"Perché non lo vieni a vedere, stasera dopo cena?"
"E chi li tiene i soldi? Riesco a mala pena a guadagnarmi il pane e qualcosa da metterci assieme. Dove stai andando?"
"In nessun posto, faccio solo due passi."
"Ah, io vado a casa. Abito laggiù, vedi, in quella casa."
"Ma... pare abbandonata, in rovina."
"Lo è, ma una parte ancora sta in piedi, e lì non pago niente."
"Come ti chiami?" gli chiesi cercando istintivamente di essergli simpatico.
"Adeodato Dono."
"Dono? Che nome inusuale..."
"Perché sono figlio di n.n.: le suore m'hanno dato 'sto nome cretino." mi disse arrossendo lievemente.
"No, invece è un bel nome: Dono dato da Dio... un bel nome per un bel ragazzo." gli dissi, quasi corteggiandolo.
Mi guardò con strana intensità, poi chiese "Bello? Cosa ci trovi di bello?"
"In te o nel tuo nome?" gli chiesi io.
Non rispose. Invece mi chiese: "E tu come ti chiami?"
"Gaetano Minutolo."
"Quanti anni hai?"
"Quasi ventotto."
"Cinque più di me.
"Abiti da solo, là?" gli chiesi.
"Adesso sì. Prima ci stava pure un cugino mio, finché è dovuto andare in guerra. Non so manco se è ancora vivo o no. A me non m'hanno mandato a fare la guerra, perché... beh, una lunga storia. Te pure non t'hanno chiamato."
"No. Nessuno di noi che lavoriamo al varietà. Ci hanno esentati."
"Com'è lavorare al varietà?"
"Un lavoro come un altro. A me piace. Tu che lavoro fai?"
"L'imbianchino, anche se a me fanno dipingere i cancelli e le griglie dei balconi, perché ho pazienza. Su a Giffoni. Ma lavoro ce n'è poco. Si fa fatica a pagarsi da mangiare e così uno... si arrangia." concluse con un risolino imbarazzato, distogliendo lo sguardo.
Camminavamo fianco a fianco. Guardavo le sue scarpe scalcagnate, sporche, che parevano stare su per miracolo. Le mie valevano poco, però erano decenti.
"Sono arrivato. Ciao, allora... Gaetano." mi disse, ma non si muoveva.
"Senti... se non ti scoccia... non ho niente da fare e... posso venire con te?" gli chiesi, incerto.
"Beh... è tutto un bordello e... se non ti spaventi..." mi disse, guardandomi un po' incerto, e vidi passare come una nuvola nei suoi occhi.
"E che importa? Tanto per stare ancora un po' insieme." gli dissi e mi resi conto che lo stavo quasi supplicando.
Non mi rispose. Però fece un lieve sorriso amichevole e con il capo mi fece cenno di seguirlo. Lo seguii nel viottolo che scendeva verso la casa. Pensai di nuovo che si muoveva in modo aggraziato, e mi immaginai intento a toccarlo, abbracciarlo, farci l'amore e mi eccitai. Mi sentii turbato: da quando stavo con Raffaele, era la prima volta che desideravo un altro. Il cielo era sempre più nero.
Attraversammo l'arco di un portale senza porta e ci trovammo in un'aia. A destra c'era una costruzione diroccata, senza tetto, le pareti poco più alte del pianterreno su un angolo, e alte solo un metro sull'altro; il pavimento della stanza superiore spezzato, mezzo sospeso e sbilenco. Dalla parte opposta, una costruzione di due piani, apparentemente ancora intatta, anche se senza porta. Però aveva ancora gli scuri alle finestre, alcuni chiusi, alcuni aperti. Nell'aia pietre, calcinacci, mattoni, rottami, un carro mezzo sfondato. C'era anche un pozzo, con un secchio in discreto stato posato sulla vera.
Entrò e lo seguii. All'interno c'era una porta, che sospinse. Notai che sul collo di Dono pulsava una lieve vena azzurrata e pensai che era sensuale... Ricordo che provai il desiderio di baciargli il collo su quella vena.
"Tutto qui." mi disse mostrandomi la stanza. "Camera e cucina tutto insieme. Il cesso non c'è... la vado a fare dietro i cespugli... per concimarli." disse con lieve umorismo.
Nella stanza c'era un fornello, una vecchia branda con sopra un pagliericcio senza lenzuola e una coperta militare arrotolata in fondo. Una corda era testa fra due pareti e vi pendevano pochi panni. Accanto al letto due sedie scompagnate, una con l'impagliatura semisfondata, l'altra con il ripiano di legno. Poco più in là, una grossa borsa marrone, chiusa, e un paio di scarpe quasi in buono stato, almeno apparentemente.
La finestra aveva gli scuri aperti e vetri nel telaio, opachi per lo sporco e uno fessurato per tutta la lunghezza. Su un tavolo c'erano tre piatti, due bottiglie vuote, una tazzina da caffè con dentro cicche di sigarette spente, quattro bicchieri scompagnati, un barattolo di vetro vuoto, senza coperchio. Sotto il tavolo c'erano una pentola di alluminio e una padella di ferro annerite dal fuoco. Il tutto dava l'impressione di miseria nera. Dono sedette sul letto posando pane e sacchetto accanto a sé, e tirò avanti una sedia, facendomi cenno di sedere.
"Tu fumi?" chiesi e la mia voce suscitò uno strano rimbombo ovattato nella stanza.
"Io? Macché. Costa troppo. No, c'è uno che viene a... trovarmi e fuma. Io c'ho provato ma mi fa tossire." disse, e si lasciò andare indietro, le spalle contro il muro.
Aveva le gambe un po' larghe e in quella posizione si indovinava un rigonfio sotto la patta. Mi sentii turbato. Quando sollevai lo sguardo e incontrai il suo, mi fece un lieve sorriso.
"Hai voglia?" mi chiese con voce bassa.
"Eh? Come?" chiesi sentendomi colto in fallo.
"Ho visto come mi guardi... Per me va bene, tu mi piaci... più di quelli che vengono ogni tanto a fottermi. Non è per questo che m'hai chiesto di venire qui?"
"No, io..." dissi, confuso. "Anche tu mi piaci ma..."
"Da te mica voglio soldi. Al massimo, se ti va... mi regali un biglietto per venirvi a vedere, ma non importa. Non ti va di mettermelo? Non è questo che vuoi da me?" e mi guardava sereno. Poi aggiunse: "Lo so anche succhiare bene, meglio assai d'una femmina... ti faccio divertire. Non ti va?"
La voglia c'era, e tanta... però...
"Non l'hai mai fatto con un ragazzo? Hai detto che ti piaccio, no? E l'ho visto come mi guardi."
Lo guardai: ero combattuto... non sapevo che fare, che dire. Il silenzio si stava facendo pesante. La voglia di abbracciarlo, di carezzarlo, di spogliarlo era forte.
"Io lo faccio per campare, in cambio di soldi o di roba da mangiare, o altro ma... da te non voglio niente. È che tu mi piaci davvero. Non solo perché sei bello, ma anche perché tu non mi sei zompato addosso come gli altri."
"Ma a te piace farlo?"
"Sì, certo... in orfanotrofio... ci stavo con tutti quelli che... che ci provavano. Poi... anche là in paese... e pure coi tedeschi... e pure un paio di americani, adesso. A me non mi piacciono le femmine. E tu mi piaci. Vieni qui sul letto, dai." disse a voce bassa, sorridendomi lieve, allettante.
La tentazione era molto forte, ma non mi mossi. Dono iniziò a sbottonarsi lentamente la camicia... continuando a guardarmi con un sorriso lieve e provocante.
"Fammi 'sto regalo, dai!" mi disse. "Ti faccio godere, promesso."
"No... io..."
"Non l'hai mai fatto con un ragazzo?" chiese di nuovo.
"Sì... anche a me non mi piace farlo con le femmine..."
Il suo sorriso si accentuò: "E vieni, dai, allora!"
"È che io... sto con uno e... lui è geloso e..."
"Ma mica lo sa, no? Dai... fammi contento e... ti faccio contento pure io. Ti faccio godere. A te ti piace a metterlo, no?"
Mi sentivo terribilmente nervoso, tentato, eccitato. La camicia era aperta sul petto scarno ma bello. Sciolse il nodo della cordicella che gli teneva su i calzoni e iniziò a sbottonarseli.
"No... aspetta..." mormorai, ma non riuscivo a distogliere lo sguardo da lui, dalla sua mano che lentamente apriva la patta.
Aveva aperto i calzoni: sotto non aveva le mutande e il suo membro saltò su, eretto, dal cespuglio di ricci peli neri. Anche lì, pensai, era bello. Non mi muovevo, mi sentivo come paralizzato, combattuto. Ero teso. Dono si alzò su a sedere, poi in piedi, e i calzoni gli scivolarono giù, fino alle caviglie. Mi prese per le braccia e mi fece alzare dalla sedia. Il suo viso era a poche dita dal mio e sentivo il suo respiro: il suo alito era dolce.
"Che hai?" mi chiese. La sua mano si posò fra le mie gambe e sentì la mia erezione: "Hai voglia anche tu. Dai..."
Il suo sguardo era intenso e vi potevo leggere il desiderio che vi bruciava... per me. Continuava a palparmi l'erezione attraverso i panni. Poi sentii le sue dita forzarmi i bottoni della patta, aprirla. Fremetti con forza. Mi sorrise. La sua mano si infilò nella patta aperta, sotto le mutande, e circondò il mio membro duro.
"Mmhhh... non vedo l'ora che me lo metti. Ma prima te lo succhio un po'." disse, sorridendomi contento.
Si accoccolò davanti a me, finì di aprirmi i calzoni e me li calò sulle ginocchia con le mutande. Sentivo il suo respiro sul mio membro duro. Vidi che a un chiodo alla parete, a fianco del suo letto, era appesa una corona del rosario nera, quelle fatte di semi, che si vendono alla Madonna dell'Arco.
"Bello..." mormorò, mentre me lo carezzava e con l'altra mano mi manipolava lieve i testicoli.
Iniziò a leccarlo su e giù per tutta la lunghezza. Chiusi gli occhi. Ci sapeva fare, mi stava facendo andar su di giri, lentamente ma inesorabilmente. Con la mano mi fece scendere la pelle del prepuzio e iniziò a leccami la punta. Fremetti con forza. Poi le sue labbra vi si chiusero sopra, stringendo appena, e sospinse la testa in avanti, facendoselo scivolare dentro, nella cavità calda e umida. Ci sapeva veramente fare.
Riaprii gli occhi e lo guardai. Lui aveva gli occhi sollevati, puntati sui miei, e gli ridevano e brillavano mentre il volto continuava il suo ritmico va e vieni.
"Ti piace?" gli chiesi e gli carezzai i capelli.
"Mmhh mmhh..." mugolò continuando a darmi piacere.
"Sei bravo..."
"Mmmmh." disse e premette il volto contro il mio pube, facendosi scivolare completamente dentro il mio membro, e agitò lievemente la testa, mosse la lingua contro la mia colonna di carne dura e fremente e contrasse la gola attorno alla punta.
Poi, lentamente si sfilò. Si alzò in piedi, mi guardò con occhi brillanti e mi disse: "Come ti piace mettermelo? Adesso me lo metti, no?"
Mi liberai rapidamente degli abiti, mentre anche lui finiva di toglierseli. Lo sospinsi sul letto, sulla schiena, vi salii in ginocchio, fra le sue gambe e gli feci poggiare le caviglie sulle mie spalle. Mi sorrise.
Mi addossai a lui. Dono con una mano me lo guidò sulla meta. Cominciai a spingere e, appena iniziai a penetrare, tolse la mano. Entrai tutto dentro di lui con un'unica spinta continua. Mentre mi accoglieva in sé, il suo sorriso si faceva più luminoso: i suoi denti parevano perle preziose, i suoi occhi scaglie di purissima e brillante ossidiana.
Mi ritrassi e affondai di nuovo in lui, due, tre volte, poi iniziai a battere con un ritmo forte e deciso. Dono mi sorrise nuovamente, e sollevò le mani a sfregarmi i capezzoli.
"Lo sapevo che con te era bello." mormorò.
Anche a me piaceva molto prenderlo: era diverso da Raffaele, ma almeno altrettanto piacevole. Con un vago senso di rimorso, scacciai il pensiero di Raffaele dalla mia mente e mi dedicai completamente a Dono. Sì, un nome che era un programma: mi si stava veramente donando. E io... non avrei dovuto ma... accettavo con gratitudine il dono di Dono.
Aveva lo sguardo gentile, felice, e sentivo che stava provando ebbrezza, almeno quanto me. Mi si muoveva sotto, lievemente, accentuando sia il proprio che il mio piacere. Non avrei dovuto, ma... ma non mi fermai.
Sentii che fuori era iniziato uno scroscio di pioggia, che tamburellava lieve ma insistente sui vetri. La stanza era in penombra. I suoi occhi però continuavano a brillare. Si levò il vento e ora la pioggia batteva con maggiore forza contro i vetri. Sentii che un barattolo, nell'aia, rotolava con un lieve rumore. L'unico altro suono erano i nostri respiri, via via più forti, che stavano quasi diventando gemiti.
E infine, quasi contemporaneamente al lampo di un fulmine che dipinse di azzurro l'interno della stanza, mi irrigidii... e mentre il tuono rotolava fra le nuvole, mi scaricai in lui con vigore. Sentii che anche Dono stava venendo, i suoi schizzi mi irrorarono il ventre e il petto.
Restammo immobili, ansanti, tutti e due, continuando a guardarci negli occhi, mentre lentamente i nostri corpi ritrovavano la calma. Mi sentii afferrato da una dolce spossatezza, da un piacevole languore. Senza sfilarmi, mi stesi su di lui, mentre mi cingeva con le gambe la vita. Mi carezzò lieve la schiena. Poi, quando il mio membro, ritirandosi, uscì da lui, gli scivolai a fianco e lui stese le gambe.
"Non ero mai venuto così... solo a farmelo mettere. È stato grande, grande davvero." mormorò, guardando il soffitto.
"Sì. È stato bello, ma... io non avrei dovuto. Non dovevo fare questo a Raffaele."
"Il tuo ragazzo?"
"Il mio uomo."
"Ma lui mica lo sa... Mi fai entrare gratis, stasera, allo spettacolo? Se puoi; se no, non importa."
"Sì, posso... Cominciamo alle dieci. Alla cassa, digli che mi chiamino e ti faccio entrare."
"Ma che dici, al tuo uomo?"
"Niente."
"Sei pentito di averlo fatto con me?"
"No e sì. È stato bello ma non dovevo."
"È stato bello sì. Io sono molto contento. Peccato che... che hai già un uomo, sennò... magari..."
"Io sono innamorato di Raffele. Non dovevo fargli questo."
Scendemmo dal letto e ci rivestimmo.
"È colpa mia. Quando ho capito che ti piacevo..." mi disse Dono, quasi per consolarmi.
"Almeno quanto colpa mia. Sei bello, e dolce... senza essere effeminato... e ci sai fare. Ma questo, prima, non lo sapevo."
"È colpa mia. Volevo a tutti i costi... farmelo mettere da te. Perché sei molto bello e perché ho visto nei tuoi occhi che tu sei diverso da tutti gli altri. Tu non m'hai trattato come una puttana."