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una storia originale di Andrej Koymasky


SEGRETI DEL VARIETÀ CAPITOLO 8
PERDONO COME DONO

Lo spettacolo della sera, non lo ricordo neppure. Andavo avanti come per inerzia, come un sonnambulo, come un morto vivente.

La mattina dopo caricammo le due corriere e andammo a Battipaglia. Io m'ero seduto nell'ultimo posto in fondo alla corriera, accanto al finestrino, e il posto vicino al mio come quelli davanti o dall'altra parte, erano vuoti. Guardavo fuori dal finestrino, ma senza vedere niente. Il cielo s'era rischiarato, ma dentro al mio cuore e alla mia anima ancora faceva buio.

Avevo sentito dire che gli Alleati erano riusciti a sfondare le linee tedesche e che erano entrati in Roma ma, sinceramente, non me ne importava niente.

Lella, che aveva sposato Rosario (che continuavamo a chiamare così, anche se ora poteva usare di nuovo il suo vero nome), venne a sedere accanto a me.

"Ti disturbo?" mi chiese.

"No..." le risposi, continuando a guardare fuori.

"Gaetano... vedrai che 'a Maronna 'o Rosario t'assisterà. L'ho pregata tanto, per voi due, sai?"

Mi ricordai del rosario appeso al muro, di fianco al letto, là da Dono, dove avevo tradito l'amore mio e mi sentii stringere le budella.

"L'ho tradito... proprio come la puttana che sono." mormorai.

"Hai sbagliato, sì, ma una sola volta. La Maddalena faceva la puttana per davvero e perciò la volevano accidere a sassate, ma Gesù disse che chi era senza peccato poteva gettarle la prima pietra... e nessuno gliela gettò. Nessuno gliela gettò, capisci? E Gesù le disse: vai e non lo fare più. E Maddalena, da puttana, si fece santa. E nessuno di noi ti vuole lanciare una sassata. E Raffaele ti perdonerà, vedrai."

"Non mi può perdonare."

"Dopo la notte viene il giorno, dopo la tempesta viene il sereno, dopo la guerra viene la pace, dopo l'inverno viene la primavera... I' dico ca chiove, ma nun già che delluvia..."

"Ma non per me."

"E perché no? Se uno scivola e cade, poi si rialza."

"Se non batte la testa e resta secco!"

"Ma no... Dicette 'o mbriac, si è 'o vero ch'o mun aggira, a casarella mia sempe pa accà adda passà! E il mondo gira, Gaetano mio, e tu devi fare come l'ubriaco: aspetta e vedrai che Raffaele qui deve passare!"

Non ci credevo. Lella mi dette una carezza sulla schiena, che ancora le giravo, si alzò e mi lasciò solo.

Arrivammo a Battipaglia e scaricammo tutto dalle corriere. Sulla piazza c'erano alcuni soldati americani in libera uscita, che ci guardavano con curiosità. Freduzzo ci portò nell'albergo dove aveva fissato le nostre camere. Aveva sistemato Raffaele in camera con Alfredo il nostro attrezzista, e me con Salvatore il contrabbassista e Antonello il sassofonista.

Quando incrociai Gennaro, gli chiesi se aveva trovato un altro mandolinista.

"No, non ancora. Devi avere pazienza, Gaetano mio. Mica è facile trovare uno bravo come te. E neanche trovare uno da mettere al posto di Raffaele, mica è facile."

"Raffaele? Perché, mica devi sostituire a lui!"

"E perché no? O uno o l'altro. Io non faccio preferenze. Il problema è cambiare uno di voi due."

"Ma Raffaele è un vero maestro, io solo un suonatore... E non è giusto che Raffaele perde il posto per colpa mia."

"Io, nella mia Compagnia, non voglio solo gente esperta, brava, per quanto siano artisti. Io voglio uomini e donne coi coglioni... Beh, le donne solo in senso metaforico, si capisce." precisò con un sorrisetto che riuscì a strapparne uno persino a me. E continuò: "E fra te e Raffaele... non lo so chi ha più coglioni... forse tu."

"Ma chi ha fatto lo sbaglio sono io, mica lui."

"Lo sta facendo pure lui. Se non cambia atteggiamento... non so quanto mi farà piacere tenerlo nella Compagnia."

"No, per favore... non deve pagare Raffaele per uno sbaglio mio."

"Se pagherà, sarà per lo sbaglio suo. Ma io spero ancora." mi disse.

Sembrerà strano, ma sentire che tutti erano dalla mia parte, mi faceva sentire anche più in colpa.

I compagni riuscirono a convincermi ad andare a pranzo con loro. Raffaele s'era seduto fra Gaspare e Rosario e io, lontano da lui, fra Salvatore e Antonello. Nella sala di ristorazione dell'albergo, c'erano anche alcuni soldati americani, che continuavano a lanciare occhiate eloquenti alle ballerine della nostra Compagnia.

Gennaro era andato a salutarli e grazie a uno degli americani, che essendo figlio di italiani riusciva a fare un po' da interprete, li invitò ai nostri spettacoli e regalò loro alcuni biglietti omaggio.

Il nostro spettacolo non era cambiato granché, se non che, dopo la caduta del fascismo, c'erano di nuovo le scenette e le gag antifasciste.

Rosario ne aveva scritta, per esempio, una nuova su un ministro del disciolto regime fascista. Come al solito, Gennaro e Sebastiano facevano le parti, il primo del ministro e il secondo del dentista.

Gennaro: "Mi è giunta voce che voi siete il migliore dentista di tutta Roma..."

"Per servirvi. E voi chi siete?"

"Il Ministro della Cultura Popolare..."

Sebastiano, illuminandosi: "Ah, eccellenza. Benvenuto... Voi siete il pezzo più grosso del Min-Cul-Pop, allora!... Eh... M'incul e poi... pop! Quando lo levate dal foro... Il foro romano, si capisce... Quando lo levate, fa pop! Avete un dente cariato, eccellenza?"

"No no, vorrei semplicemente che mi eseguiste una completa ed accurata pulitura dei denti. Sapete, l'aspetto è importante per un uomo pubblico."

"Eccome no! Pure per una donna pubblica, si capisce, l'aspetto è importante. Quello che conta è proprio l'aspetto... per... m'incul-pop chi volete e senza problemi!"

"Ma ditemi, qual è la vostra tariffa per eseguire una pulizia completa ed accurata?"

Sebastiano: "Eh... il partito vuole sempre la pulizia completa... per salvare l'apparenza... Mah, dato che siete voi... vi verrà a costare mille e trecento lire..."

"Oh, poffarbacco! Mille e trecento lire, dite? Per un'operazione così breve? Ma è una grossa somma..."

"Eh, sapete, per fare un lavoro accurato a vostra Eccellenza... chissà quanto sporco ci sarà da levare... Far apparire pulito ciò che è sporco, capite, è una vera arte..."

Gennaro: "E va bene. Purché facciate un buon lavoro, vi pagherò quanto mi richiedete. Anche se mi permetto di farvi presente che sono soldi rubati..."

E Sebastiano gli risponde: "Lo so, lo so bene Eccellenza. Ma non vi preoccupate, non lo dirò a nessuno che i soldi che mi date sono rubati!"

Logicamente, poiché ormai tutti si dichiaravano e giuravano di essere sempre stati antifascisti, la gag ebbe molto successo.

Nello spettacolo del pomeriggio, Raffaele cantò la celebre Guapparia, di Bovio e Falvo. Io riuscii bene o male a suonare senza emozionarmi eccessivamente.

Ma nello spettacolo della sera, invece di ripetere Guapparia, Raffaele aveva chiesto al maestro De Angelis di suonare "'E ppentite" di Bovio e Albano. Non c'era nessun problema, la conoscevamo bene.

Ma quando Raffaele iniziò a cantarla, mi resi conto fin dal primo verso che ne aveva lievemente cambiato le parole.

"I' stó' dint' 'e ccancielle. E tu addó' staje?
E cu chi staje? Chesto vurría sapé...
Tu duorme 'a notte? Ma io nun dormo maje
e 'nnant'a st'uocchie veco sulo a te...

Che vuó', che vuó'? Nemmeno si' cuntento?
mo ca pe' te mme so' 'nzerrato ccá?
Si tutti aspetta 'o juorno ca mme pento,
falle assapé ca só' pentito giá...

Pentito 'e che? Pentito
ca nun t'aggio amato assaje!
Vecheme, nisciuno, maje,
fuje cchiù pentito 'e me...

Jurnate sane aret' 'a gelusia
desideranno 'o sole e 'a libertá...
Passa 'o pianino e saglie, 'a miez' 'a via,
quacche canzone 'e tantu tiempo fa...

E i' canto. Che te cride? I' chiagno e canto
e po' jastemmo e po'... torno a cantá...
Ah, comm'è allèro, 'int'a stu campusanto,
'sto sciantusèllo d' 'o cafè Sciantá!

Pentito 'e che? Pentito
..............

Mme só' sunnato a n'angiulillo junno,
nennillu mio... ca mme diceva: "Oje má'...
Oje má', pecché mm'hê miso 'ncopp' 'o munno
quanno ho tenuto 'o core 'e llo lassá?"

No, Tano mio, siempre prego 'a Maronna
ca nun te castigasse 'ncuollo a me...
Tu staje luntano, ma io te canto 'a "ninna",
comme si t'addurmisse 'mbracci'a me!

Pentito 'e che? Pentito
.............."

Mentre tutti lo applaudivano, io lo guardavo esterrefatto, soprattutto per quel verso che aveva cambiato, cantando "No, Tano mio, siempre prego 'a Maronna..."

Anche Raffaele mi guardava, immobile, e vidi che lacrime gli solcavano il volto. Poi si inchinò alla platea e scomparve dietro le quinte. In quel momento Salvatore, che stava vicino a me, mi strinse forte un braccio e mi chiese sottovoce: "Hai sentito? Stanotte... diremo ad Alfredo di venire a dormire al posto tuo e tu... tu vai da lui."

Il maestro De Angelis mi sorrise e mi porse il suo fazzoletto, per asciugarmi le lacrime. Poi batté la bacchetta sul leggio e attaccammo la musica per il balletto... Non lo so se ho mai suonato meglio... o peggio... o come. Mi sentivo tremare da capo a piedi.

Non ricordo cosa accadde dopo, come finì lo spettacolo, cosa feci, dissi... So solo che ero davanti alla porta in cui avevano dormito, la notte precedente, Alfredo e Raffaele e che il cuore mio batteva così forte che parevano i botti dei fuochi artificiali per la festa di San Gennaro. Bussai.

"Entra!" disse da dentro Raffaele.

Aprii la porta e guardai dentro. Stava in piedi davanti alla finestra e guardava fuori, voltandomi le spalle. Scivolai silenziosamente nella stanza e mi chiusi la porta alle spalle.

"Sono io..." sussurrai, emozionato.

"Lo so. T'aspettavo."

"Raffaele... io..."

"Zitto." disse quasi sottovoce, restando immobile. Poi riprese, sempre a voce molto bassa: "Tocca a me parlare. Mi manchi, Gaetano, mi manchi troppo. Non lo so perché... perché l'hai fatto... Ma da quel giorno... per me... per te pure, lo so... è stato l'inferno. No, pure peggio dell'inferno. 'A gelusia è 'na brutta bestia! Tu m'hai ferito col coltello... e io l'ho rigirato nella ferita, facendola peggiorare. Ma ora... ora ho deciso che devo gettare via il coltello e... e far guarire la ferita... prima che diventa mortale."

"Mi... perdoni, Raffaele?" chiesi in un mormorio, sentendomi tremare le gambe.

"Zitto..." ripeté ed era quasi una preghiera. "Io stavo facendo come quello che... pà accidere 'a zoccola mannaie 'a nave 'nfunno. Per uccidere un ratto stavo per far affondare la nave. Io... ho bisogno di te, almeno quanto tu hai bisogno di me. Se tu hai fatto uno sbaglio, io ne ho fatti due."

"Due?" chiesi senza capire a che si riferisse. Sapevo che non voleva dire che m'aveva tradito con un altro, con altri.

"Due, sì. Uno, d'aver ascoltato la voce della gelosia, invece della tua. E due, d'aver fatto del mio orgoglio ferito un'arma contro di te. Alfredo m'aveva detto che se veramente t'avessi amato... per quanto potevo soffrire... t'avrei perdonato. M'ha detto: vuo' bbene all'ommo tujo cu' 'i difiette suje! Vuoi ancora essere il mio uomo, Gaetano? Tu mi puoi perdonare?"

Non riuscivo a parlare, tanto ero emozionato.

"Mi puoi perdonare, Tanuzzo mio?" chiese ancora Raffaele e si girò verso di me, e vidi che stava piangendo: le lacrime gli colavano sulle guance, come due ruscelli.

"Se tu puoi perdonare a me... come potrei non farlo io? Credimi, Raffaele, credimi, ti scongiuro... Non ti farò mai più soffrire così. Lo giuro!"

"Né io a te."

Stavamo di fronte uno all'altro, ai due lati della stanza, guardandoci e piangendo silenziosamente.

Poi, lentamente, Raffaele sollevò un braccio e tese la mano verso me, aperta, la palma verso l'alto, quasi mi offrisse, appoggiata sopra di essa, la palma benedetta della pace. Sollevai anche io il braccio e la mano verso di lui, come se volessi prendere l'invisibile rametto d'olivo, e mossi due passi, barcollando. Mi uscì un singhiozzo, barcollai di nuovo. Raffaele fece due passi verso di me, sollevando anche l'altro braccio e mi prese, mi strinse a sé, prima che cadessi.

Mi aggrappai a lui, come il naufrago che trova una tavola in mezzo al mare. Mi strinse più forte e le sue labbra, bagnate di lacrime, si posarono sulle mie... e scoppiai in singhiozzi che mi scuotevano tutto il corpo, chiusi gli occhi stretti stretti, tutte le forze mi abbandonarono e iniziai a scivolare giù.

Raffaele mi sostenne con vigore, mi portò quasi di peso sul letto dove mi fece stendere su un fianco e si stese davanti a me, mi strinse di nuovo a sé, intrecciammo le gambe, e piangemmo tutti e due a lungo, mentre lui quasi mi cullava.

"Mai più... mai più..." singhiozzai.

"No, mai più..." ripeté come in un'eco Raffaele, e le sue labbra di nuovo si posarono sulle mie.

"Ti ho fatto tanto male..."

"Ci siamo fatti troppo male..."

"Mai più..." ripetei io.

"Certo, mai più!" disse lui e finalmente mi baciò a fondo, con un desiderio e una passione che temevo non avrei mai più potuto conoscere.

Mi resi conto proprio quella sera, come mai prima di allora, quanto io fossi assetato di attenzione e di amore, ma al tempo stesso quanto ne avesse bisogno anche Raffaele.

A poco a poco, ci togliemmo l'un l'altro tutti gli abiti di dosso, e finalmente sperimentai nuovamente il piacere della sua pelle nuda sulla mia, del suo corpo nudo che cercava il mio, del suo desiderio che s'accendeva al mio e che mi faceva ardere.

Quasi a ristabilire la mia piena donazione a lui, feci in modo che mi prendesse. Lo accolsi in me come una benedizione e quando, dopo una lunga, dolce, passionale danza, mi riempì della sua essenza, la sentii come un balsamo che guariva il mio cuore.

Ma poi anche lui volle donarsi a me, nello stesso modo, con la stessa totale dedizione, e nuovamente mi chiesi come avessi potuto pensare che il suo volto non fosse granché bello: ora mi pareva meraviglioso! Mi dedicai a lui con tutta la mia tenera passione, finché a mia volta gli donai la mia essenza.

Restammo strettamente abbracciati, in silenzio, quasi timorosi di turbare la calma dorata che finalmente era nuovamente scesa nei nostri cuori, e ci addormentammo così, esausti, non tanto per la soave ginnastica d'amore, quanto per l'intensità delle emozioni che avevamo sperimentato in quelle ultime ore... in quegli ultimi giorni. Non era durato molto il nostro problema, eppure era sembrato eterno e ci aveva prostrati incredibilmente.

Ma altrettanto, ora, il fatto di esserci ritrovati, ci aveva nuovamente riempiti di energia, di gioia di vivere, di serena e forte determinazione a non permettere che qualcosa ci potesse ancora dividere.

Quando, la mattina seguente, riemergemmo dal nostro lieto stupore di essere nuovamente insieme, ci sentivamo entrambi eccitati e felici come due adolescenti. Erano già le otto e trenta, l'ora in cui solitamente si faceva tutti assieme colazione e si discutevano i piani della giornata. Ci vestimmo in fretta e, senza neanche lavarci, scendemmo, facendo le scale quasi di fretta.

Quando entrammo nella sala da pranzo dell'albergo, Rosa gridò con voce acuta ed eccitata: "Eccoli!"

Tutti si alzarono in piedi e fummo accolti da uno scrosciante applauso, da grida e amichevoli lazzi. Io arrossii, Raffaele invece, si inchinò come faceva sul palcoscenico a ogni suo trionfo.

Le battute fatte ad alta voce dagli amici della Compagnia, erano evidentemente state un po' troppo chiare, esplicite, comprensibili, perché improvvisamente, in un angolo della sala da pranzo si sentì un forte rumore: un prete s'era alzato di colpo dal suo tavolo, facendo cadere la sedia, e ci guardava con espressione sdegnata, il volto arrossato di ira, di disprezzo.

"Questa è una cittadina timorata di Dio, e la vostra presenza qui non è gradita! Questo vostro indecoroso chiasso, questa esibizione dell'immondo vizio, questa svergognata manifestazione di adesione al peccato, fa di tutti voi qualcosa di peggio dei mercanti che infestavano il tempio, finché Nostro Signore Gesù Cristo non li scacciò! Vergogna, vergogna, vergogna! Voi offendete tutte le anime pie di questo luogo, di questa città, della regione, dell'Italia intera! Tornate da dove siete venuti, immondi pagani senza fede, senza religione, senza rispetto!"

"Amen!" rispose ad alta voce Nino e tutta la Compagnia, ridendo, ripeté in coro: "Amen!"

Un brusio di indignazione percorse gli altri ospiti dell'albergo, poi un silenzio sconcertato scese nella sala. Non si capiva se diretto verso di noi o verso il corpulento prete, che ancora tremava con il volto arrossato.

Gennaro allora prese la parola: "Mooolto reverendo signor prete... o siete forse monsignore? O canonico? O magari abate? Mi stupisco che abbiate una mente tanto contorta da vedere il male dove non vi è: non è la vostra chiesa, che tanto indegnamente voi dite di servire, ad insegnare che la pace è il bene supremo? Non ci si dice: la pace sia con te, durante la santa messa? E che c'è di più bello e grande e da festeggiare se due amici, che avevano litigato, hanno fatto la pace? Come vi permettete di giudicare e condannare senza conoscere? Come osate voi notare la pagliuzza nell'occhio dell'altro senza vedere la trave che vi sbarra entrambi gli occhi? E se giudicate noi mercanti nel tempio, non siete voi forse un sepolcro imbiancato?"

"No... io... non ho... non ho niente contro nessuno e non ho voluto offendere nessuno, tanto meno questi due... vostri amici. Ma quel che è troppo è troppo, ci vuole un po' di rispetto per la gente che è in questa sala, e la dignità del mio abito va rispettata."

"Dignità? L'avete persa con il vostro intervento, mio reverendo signor prete. L'avete persa vedendo il male dove male non c'è. L'avete persa con il vostro sermone pieno di odio..."

"No... io non odio nessuno... odio solo il male... l'oscenità... il peccato, specialmente della carne..." balbettò quasi il prete, cercando di riprendere in mano la situazione.

Viola rise: "E quello del pesce, di peccato, no?" chiese facendo un gesto eloquente con le mani.

In quella uno dei camerieri, disse ad alta voce: "Don Tarcisio... andate a confessare le vostre oscenità e i peccati del vostro... pesce alla vostra perpetua, piuttosto! Cos'è, siete venuto a fare colazione qui da noi perché non ve l'ha data, ieri sera?"

"Ma come osi, tu..." insorse il prete e la pappagorgia gli tremava.

"Osare, io? Avete solo da tirare bene le tende, la sera, quando fate le genuflessioni su quella devota femmina della vostra perpetua, e quando le mettete in bocca... la comunione!" rise il giovanotto e tutti i presenti scoppiarono a ridere, mentre il prete lasciava come una furia il locale.

Il cameriere, con aria seria, ripeté, rivolto a tutti gli ospiti della sala: "Chiudesse almeno bene le tende, prima di fare quello che rinfaccia agli altri, il nostro don Tarcisio..."

Andammo a sedere, mentre Rosa diceva a Gennaro: "Tu faresti bene la parte del prete: che bella predica gli hai fatto!"

"Dio ci salvi e scampi! Piuttosto che farmi prete, preferirei tagliarmelo! No no, io sono solo un uomo..." le rispose ridendo Gennaro.

Rosario disse: "Ci sono quattro categorie di uomini. I mandrilli: quelli che lo mettono a tutte, ma proprio a tutte, purché respirino. I preti, quelli che non lo dovrebbero mettere a nessuna, ma proprio a nessuna, a parte la perpetua. I rompipalle: quelli che te lo mettono a te, ma soltanto a te, e che te lo ricordano ogni volta. Gli ommini e merda: quelli che lo mettono a tutti e a tutte, ma proprio tutti, meno che a chi lo vorrebbe!"

"E tu, che uomo sei?" gli chiese Lalla, la moglie.

"Eh, tesoro mio, se non lo sai tu... chiedilo alle altre!" gli rispose ridendo Rosario.

"E dimmi, Rosario, tua moglie com'è?" gli chiese Nino.

"Mah... è brava lava, stira, cucina..."

"Si, ma... a letto com'è?" insistette Nino.

"Ti dirò... c'è chi ne dice bene, c'è chi ne dice male..."

Scoppiammo tutti a ridere mentre Lella, ridendo, lo picchiava con la borsetta e lui si riparava la testa ridendo a sua volta.

"A proposito di donne, la sapete quella delle tre commari gravide?" chiese Raffaele, seduto vicino a me, che mi teneva con un braccio attorno alla vita.

"No... com'è?" chiese prontamente Rosario.

"La prima dice: Io sono sicura che avrò un maschio, perché io stavo sopra. Allora la seconda dice: E io invece avrò una femmina, perché io stavo sotto. Allora la terza, disperata, dice: Oh, Gesùmmaria, io allora che avrò? Una pecora?"

Così, ridendo e scherzando, finimmo di fare colazione e riprendemmo la nostra vita regolare, tutti sereni e tranquilli.

Più tardi, Gennaro mi si avvicinò e mi chiese con un sorrisetto: "Allora, Gaetano... devo ancora cercare un mandolinista... o hai cambiato idea?"

"Mi sa che ti devi accontentare di me. Dove lo trovi un altro mandolinista che viene a suonare nella tua Compagnia di Varietà, per la miseria che ci paghi?"

Gennaro mi strinse con una mano attorno alle spalle e mi disse: "Siamo tutti molto contenti che le cose vadano di nuovo bene fra voi due."

Più tardi, poco prima che fosse l'ora di pranzo, ero andato a comprare qualche dolcetto speciale da mangiare assieme a Raffaele, nel negozio di "alimentari, vini e piatti pronti" che c'era poco lontano dal teatro. Stavo aspettando il mio turno e il padrone serviva due persone che c'erano prima di me.

"A voi, cavaliere: due bottiglie fanno sessantaquattro lire."

Entrò una donna elegante: "Scusate, sapete dove posso trovare il maestro Sorrentino?"

"Sorrentino? 'O maestro... Sorrentino... no, nun me ne ricordo. Chi è?" le chiese il padrone.

Io guardai incuriosito quella signora, vestita con eleganza appariscente, chiedendomi chi fosse.

"È il cantante di giacca della Compagnia di Varietà Fazio." spiegò lei.

"Ah, sì, ho capito. Chiedete a quel giovane, che se non vado errato fa parte della sua compagnia." rispose il proprietario indicandomi. Poi si rivolse alla donna che doveva servire prima di me: "Vi assicuro, signora mia, che i supplì sono appena fatti... Allora facciamo: una porzione di rosbìf; un contorno di insalata russa e quattro supplì al telefono. Va bene?"

La donna elegante si rivolse a me: "Signorino, per cortesia, mi sapete dire dove posso trovare il maestro Raffaele Sorrentino?"

"Sì, signora, al ristorante dell'albergo. Solitamente ci siamo tutti verso mezzogiorno. Ma... scusate... voi chi siete?"

"Sono la chanteuse della Compagnia del Principe Antonio De Curtis, di Napoli. M'ha mandato a vedere se il Sorrentino verrebbe a cantare da noi... Sapete, una nuova compagnia... Siamo tutta gente scelta, di primo rango..."

"E avete anche bisogno di un mandolinista?"

"No no, ne abbiamo già uno straordinario..."

"Se aspettate un attimo, appena mi hanno servito, vi accompagno io in albergo: magari è su in camera..."

"No, mi hanno detto che è uscito. Comunque grazie, vengo con voi."

L'accompagnai all'albergo e vidi che Raffaele era già seduto a tavola, benché fosse presto, e stava chiacchierando e ridendo con Rosario. Gli feci cenno di venire, perché pensavo che non fosse opportuno che parlassero di fronte agli altri.

Raffaele venne, e la sciantosa si presentò e gli chiese se fosse interessato all'offerta, assicurandogli che sarebbe stato pagato assai bene.

"No, grazie, signora. Ringraziate da parte mia il Principe... Ma io non lascerò mai don Gennaro Fazio, anche se non mi pagasse: devo a lui se ho trovato l'amore e un gruppo di amici veraci che me l'hanno fatto ritrovare quando credevo di averlo perso." le rispose, cingendomi lieve alla vita e, rivoltole un cenno di saluto, mi portò dentro il ristorante.

"Ma... aspettate..." disse la sciantosa.

"Non ho tempo di aspettare, signora. Buon ritorno a Napoli. Salutatemela!" le disse. Poi a me: "Sei d'accordo con me, vero?"

"Completamente!" gli dissi, porgendogli il pacchettino con i dolciumi.


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