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una storia originale di Andrej Koymasky


CENTOUNDICI CAPITOLO 2
INIZIA IL RACCONTO DI FRED

Mi chiamo Alfred Bunyan, cioè Fred. Sono nato in Virginia, nella campagna a sud di Hopewell, nell'autunno del 1834; non so in che giorno e mese, o per meglio dire non me lo ricordo, perché sicuramente mio padre se l'era scritto sulla prima pagina della sua bibbia, su cui si registravano tutte le nascite e le morti della famiglia. Comunque, festeggio in settembre.

Ero il quartultimo di tredici figli, otto maschi e cinque femmine, senza contare i quattro morti poco dopo la nascita. Mio padre era stato un insegnante della scuola primaria, ma poiché non guadagnava abbastanza per tutti noi, s'era trasferito in una casa in mezzo ai campi e s'era trasformato in contadino, avendo sposato una ragazza di campagna.

Lavoravamo i campi e avevamo qualche animale, perciò riuscivamo a sbarcare il lunario quasi decentemente. Specialmente man mano che i figli più grandi crescevano e fornivano braccia in più: la ricchezza del contadino sono le braccia dei membri della famiglia.

Quando il sole calava, papà ci faceva sedere in cucina attorno al tavolo, su cui metteva due candele, e ci insegnava a leggere, usando la vecchia bibbia di famiglia, e a scrivere, a fare i conti, mentre mamma e le sorelle spignattavano preparando la cena. Dopo la cena, si andava tutti a sedere per un po' sulla veranda. Poi, a una certa ora, papà ci spediva tutti a letto e restava solo con mamma sulla veranda, non so fino a che ora.

Noi maschi si dormiva tutti in una stanza a pian terreno, dietro alla grande cucina; le nostre sorelle in una stanza al piano superiore, dove c'era anche la camera dei nostri genitori. Solo papà e mamma avevano un vero letto. Per noi e per le ragazze, aveva costruito una specie di pedana lungo la parete, di fronte alla finestra, a lato della porta, su cui c'erano tutti i pagliericci in fila, formando un unico piano su cui dormire. Di fronte alla porta, c'era la tinozza e il secchio per lavarci.

Ai lati della finestra aveva costruito due scaffali dove tenevamo le coperte e i nostri vestiti: quelli da lavoro, quelli per la domenica, quelli invernali e quelli estivi. Quelli per la domenica andavano bene sia in estate che in inverno: semplicemente, sotto, mettevamo qualcosa di caldo o niente a seconda della temperatura, del clima. A parte la domenica, e con la buona stagione, si andava sempre scalzi.

Noi Bunyan eravamo fra i pochissimi contadini che sapessero leggere e scrivere e ne andavamo molto fieri. Papà, quando la domenica si andava in chiesa, dirigeva i canti della congregazione. Anche di questo noi figli si andava molto fieri.

In campagna il sesso non era affatto un mistero: avevamo sotto gli occhi gli animali, li vedevamo accoppiarsi, partorire, allattare. Ciò non ostante, non se ne parlava quasi mai ed eventualmente solo per allusioni.

Non sono certo al cento per cento che fosse così in tutte le case, ma a casa nostra, noi ragazzi, almeno finché non si poteva cominciare a fare il filo a una delle ragazze del vicinato, ci si divertiva fra noi. Sono quasi sicuro che i nostri genitori lo sapessero bene ma, come ho detto, non si parlava di sesso in casa. Ho detto le ragazze del vicinato: la casa più vicina alla nostra era ad almeno un miglio, se non più. E le ragazze del vicinato le incontravamo solo in occasione delle cerimonie, o in chiesa, o per i balli pubblici nelle feste.

I fratelli più grandi, una volta che c'eravamo stesi per dormire, aspettavano che i piccoli dormissero, poi cominciavano a divertirsi, in silenzio, fra loro. A casa nostra si dormiva in fila per ordine di età: il più vecchio in fondo, verso la tinozza, e il più piccolo verso la porta. Quando si andava a dormire, ci si levava tutto meno i mutandoni, e d'estate si dormiva così, con la finestra aperta. D'inverno avevamo molte coperte e imbottite fatte in casa con il patch-work, usando ciò che restava dei vecchi vestiti, perciò una diversa dall'altra, che rendevano allegra la stanza.

Quando faceva molto freddo, ci si metteva in due, o anche in tre sotto le coperte, sovrapponendole e proteggendoci così meglio. E allora, inevitabilmente, man mano che si cresceva, quello stare così vicini e mezzi nudi, risvegliava in noi i nostri istinti e i più grandi introducevano i più piccoli, senza bisogno di parlarne, ai misteri del sesso. Era una cosa che avveniva in modo spontaneo, naturale.

Ci si toccava... era molto piacevole... e gradualmente si arrivava a fare... di tutto, sotto la guida del più grande. La mia prima volta, avvenne quando avevo compiuto undici anni. Con il mio fratello di dodici anni e mezzo. Sentii che ce l'aveva duro, glielo toccai... lui toccò me. Per qualche notte ci si limitava a toccarci. Poi, un po' per volta, lui cominciò a sfregarmelo addosso, prima attraverso la stoffa delle nostre mutande, poi una notte me le fece calare e me lo sfregò contro il culetto... e infine, preparandomi un po' per volta, dopo qualche mese me lo mise tutto dentro... E mi piaceva.

Sentivo, nell'oscurità, gli ansiti e i lievi gemiti dei miei fratelli, uniti tutti a coppie, e immaginavo cosa stavano facendo e lo trovavo molto eccitante. Mi sarebbe piaciuto vederli in azione, ma tutto avveniva sempre al buio. E una notte, ci provai io con mio fratello e lui se lo lasciò mettere. Benché a quell'età non venissi ancora, trovai che era molto piacevole. Mi piaceva pompargli dentro, stesi su un fianco, mentre lo masturbavo.

Poi i due più grandi e anche la sorella maggiore si sposarono. Costruimmo due nuove camere per i fratelli grandi con le loro mogli, una sotto e una sopra, mentre mia sorella andò ad abitare a casa dello sposo. Un giorno, dopo che c'erano stati i tre matrimoni, il mio fratello più grande rimasto nella stanza comune, quello di diciotto anni, mentre eravamo su nel fienile a risistemare la paglia e il fieno e avevamo fatto una sosta, semplicemente se lo tirò fuori e cominciò a menarselo. Lì, vicino a me, quietamente, come se niente fosse.

Io lo guardavo affascinato... mi sorrise... mi fece cenno di toccarglielo. Non mi feci pregare due volte. Mi piaceva un sacco sentirmelo palpitare in mano. E dopo poco, mi chiese se mi andava di succhiarglielo. Mi disse che lo faceva spesso con i due fratelli che s'erano sposati e che adesso gli mancava. Mi insegnò come farlo bene: mi piaceva! Frattanto mi metteva un dito nel buchetto e me lo menava. Tutto questo, senza dire una parola.

Per me fu una vera rivelazione, così a notte ci provai con il mio fratello di dodici anni... e lui allora volle provare a farlo a me, e così scoprimmo il sessantanove. Anche se ora eravamo solo in sei nella stanza, quindi non più allo stretto come prima, si dormiva sempre in coppia... I miei due fratellini più piccoli erano ancora ignari di quanto avveniva fra noi durante la notte. Di notte, quello di diciotto lo faceva con quello di sedici, e io con quello che aveva un anno più di me.

Mi piaceva la vita di campagna, anche se a volte il lavoro era stancante, ma l'aria libera, il vedere il risultato del nostro lavoro crescere, raccoglierlo, badare agli animali, attingere acqua al pozzo... beh, mi piaceva. Ma soprattutto mi piacevano le nostre attività notturne. Poi cominciammo a non seguire più l'ordine solito, così cominciai a farlo con il fratello di sedici anni e quello di diciotto con quello di dodici. E qualche volta anche tutti e quattro assieme, ma ci piaceva di più farlo a coppie.

E fu con quello di sedici che, poiché non mi fece staccare in tempo, assaggiai per la prima volta il buon sapore della sua crema. Per la prima volta, parlammo. Lui, bisbigliando al mio orecchio, mi chiese scusa, mi disse che non l'aveva fatto apposta, ma io gli sussurrai che a me era piaciuto.

Ma, mentre era evidente, da come le guardavano nelle poche occasioni in cui le incontravamo, che i miei fratelli erano tutt'occhi per le ragazze, io mi accorsi che invece ero tutt'occhi per i ragazzi, e non solo per i miei fratelli. In chiesa, al mercato, alle feste, io mi beavo a guardare i più belli dei nostri vicini.

Così durante una festa, al ballo serale, quando vidi un ragazzo di quindici anni che mi piaceva un sacco, che abitava a due miglia da casa nostra, più a est, e lo vidi allontanarsi e sparire nel buio, lo seguii... Non so neppure io perché, che cosa sperassi... Lo trovai dietro i cespugli, abbastanza lontano per non essere visti, ma dove ancora arrivava la musica, le risate, il rumore della festa. Se l'era tirato fuori e stava orinando. Allora gli andai vicino, me lo tirai fuori anche io e lo imitai.

"Ciao," gli dissi, "io sono Fred Bunyan."

"Sì, lo so, il fratello di Margie... Io sono Bert Siddons."

"Ti piace mia sorella?"

"No. Ma i miei dicono che forse mi dovrò sposare con lei."

"Ma se non ti piace... e poi Margie mica è brutta, no?"

"No che non è brutta. Però non mi interessa."

Io, al debole chiarore della luna, gli guardavo il cazzo che aveva ancora in mano, anche se aveva finito di orinare. Lui vide dove lo guardavo.

"Ti piace?" mi chiese girandosi un po' verso di me, togliendo la mano e mostrandomelo.

"Altroché!" risposi io.

"Lo vuoi toccare?" mi chiese con un sorrisetto.

Non risposi, glielo presi in mano. Era proprio gradevole. Cominciai a muovere la mano, a masturbarlo.

"Sì..." mormorò lui, e mi carezzò il mio, poi anche il culetto. Poi iniziò a masturbarmi.

"Me lo vuoi mettere in culo?" gli chiesi, un po' sperandolo, un po' temendo che reagisse male.

"Sì... e tu a me?"

"Anche..."

"Andiamo un po' più lontano, allora." disse lui.

Guardammo verso il posto della festa, e ci allontanammo. Poi, trovato un posto più appartato, ci calammo in fretta i calzoni, tutti e due.

"Girati, dai..." mi disse e gli occhi gli brillavano come se ci fossero dentro due stelle.

"Aspetta," gli dissi, "te lo preparo..." e mi accoccolai davanti a lui e glielo presi in bocca.

"Che fai?" mi chiese sorpreso, ma poi disse: "Sì... che bello... dai..." e mi prese la testa fra le mani ed iniziò a fottermi la bocca. Mi piaceva. Continuava a ripetere: "Sì... sì... così..."

Quando sentii che ce l'aveva ben duro e che fremeva, mi alzai, mi girai, appoggiai le mani sulle ginocchia e gli dissi: "Dai, mettimelo, adesso."

Lui mi prese per le anche, me lo mise e spinse. Poi cominciò a battermi dentro con colpi brevi, forti e veloci, continuando a dire: "Sì... sì... così..."

Mi ricordo che sorrisi al rumore ritmico delle sue cosce che battevano sul mio culetto. Venne dopo poco, dicendo: "Tiè... tiè... tiè..." a ogni spinta forsennata che mi dava, rischiando di farmi cadere a terra.

Poi, quando ebbe versato tutto il suo tributo, si sfilò, respirando forte. Mi girai. Mi sorrise. "Forte!" disse e si girò perché facessi anche io la mia parte.

"Non me lo succhi, tu?" gli chiesi.

"No... mettimelo, dai. E batti forte, fammelo sentire bene."

"D'accordo." dissi un po' deluso.

Gli affondai dentro alla prima spinta e cominciai a batterglielo dentro mettendocela tutta.

"Bravo... così... bello forte..." gemeva lui.

E improvvisamente venni. Cioè, voglio dire, per la prima volta mi resi conto che anche io stavo finalmente versando la mia crema... anche se quella prima volta dovevano essere poche gocce. Ma il godimento era talmente forte che lanciai un "yuuuhuuu!" di gioia e lui rise.

Con lui ebbi un'altra "prima" della mia vita. Quando mi sfilai, soddisfatto, compiaciuto, ansante, lui si girò, mi prese la faccia fra le mani e mi baciò in bocca!

Quando ci staccammo, mentre ci rimettevamo a posto i calzoni, mi disse: "Se sposo tua sorella, lo facciamo ancora tu e io?"

"Ma se la sposi, non ti basta lei?" gli chiesi un po' stupito, mentre si tornava lentamente verso il posto della festa.

"No, perché io sono come te, un sodomita."

"E che cacchio è, un sodomita?" gli chiesi.

"Un maschio che gli piace di più farlo con un maschio. Anche tu sei un sodomita, no?"

"E che ne so?" gli risposi pensoso.

"Se non eri un sodomita, non ti lasciavi mica baciare! Solo due sodomiti gli piace baciarsi fra di loro."

"Ah!" dissi pensieroso. "E com'è essere sodomiti?"

"Bisogna solo che non lo sa nessuno. È contro la legge."

"Allora tu e io siamo fuorilegge?"

"In un certo senso sì. Che però invece della pistola, gli piace maneggiare il cazzo!" mi disse ridacchiando.

"Ma tu, l'hai già fatto con una ragazza?" gli chiesi.

"E come? Mica è facile. E poi proprio non mi interessa."

"E con tanti ragazzi?"

"Un po'... due miei fratelli e tre miei cugini, oltre a te."

"E sono tutti... sodomiti?"

"Non credo, a loro non gli piace baciare. E parlano sempre di ragazze."

"E allora, chi t'ha insegnato a baciare?" gli chiesi.

"Nessuno. Ho visto il mio fratello maggiore che lo faceva con la sua fidanzata, di nascosto, dietro il fienile... Allora, dopo, gli ho chiesto se mi insegnava... e lui mi ha detto che due uomini mica lo fanno, a meno che sono sodomiti."

"E allora... io sono il primo che baci, tu?"

"No... il secondo."

"Allora conosci un altro sodomita!"

"Era un garzone di passaggio... Aveva diciassette anni. Ha lavorato da noi solo per un mese, perché voleva andare a ovest... L'abbiamo fatto solo tre volte, poco prima che se n'è andato."

"Ci sapeva fare? Era bravo?"

"Sì. Però andava a ovest: diceva che tutti quelli che vogliono fare fortuna vanno a ovest, dove c'è l'altro oceano, il Pacifico."

"Io e tu... lo facciamo ancora assieme?"

"Spero. Con un sodomita è molto meglio che con uno che gli piacciono le ragazze."

"Perché?"

"Perché si sente che gli piace il corpo del maschio e perché sa come farlo godere bene."

"Ah. Sì, deve essere così, perché con te ho goduto più che coi miei fratelli."


Più o meno nel periodo in cui avevo scoperto il sesso e come mi piaceva farlo, avevo fatto un'altra importante scoperta. Un giorno mio padre aveva tirato fuori dalla soffitta un suo vecchio banjo, e aveva cercato di rimetterlo in funzione. La prima volta che era andato in città, aveva acquistato le corde che mancavano, così aveva provato a rimettersi a suonarlo, la sera quando si andava tutti sulla veranda.

Il suono del banjo mi affascinò subito. Allora chiesi a mio padre se mi insegnava a suonarlo. Nonostante le mie mani fossero piccole, riuscii a imparare gli accordi e a suonarlo in modo diciamo passabile. Papà non era un vero suonatore, se la cavava, ma mi insegnò tutto quello che sapeva, quel poco che sapeva.

E accadde che, quando avevo dodici anni, passai per caso accanto alla chiesa della comunità negra della zona. Fu come una rivelazione: quella sì che era musica, che ti prendeva, che la sentivi risuonare nello stomaco, che ti faceva vibrare tutte le ossa, tutti i muscoli e anche la pelle. Col mio banjo a tracolla, sedetti sul gradino davanti alla chiesetta di legno, appoggiai la schiena alla parete, chiusi gli occhi e mi ubriacai di quella musica. Il banjo alle mie spalle mi premeva contro quasi si volesse fondere con la mia schiena, era scomodo, ma neanche me ne accorgevo.

A un certo punto, mi sentii apostrofare: "Ehi, ragazzino, che ci fai seduto lì?"

Aprii gli occhi: davanti a me c'era un giovanotto, in realtà credo avesse solo venti anni ma a me pareva grande, piccolo come ero, dalla pelle nera nera, a piedi nudi, vecchi calzoni tenuti su da una bretella per traverso, un camiciotto a maniche corte. E un viso rotondo con un sorriso a trentasei denti... Sì, lo so che si dice trentadue, ma pareva troppo poco, per il suo sorriso.

"Mi scusi, signore, ma ascoltavo la vostra musica..." gli dissi, un po' intimorito, alzandomi in pedi.

"Ti piace la nostra musica? E tu suoni il banjo?"

"Lo strimpello, signore."

"Un bianco, di solito, non dice signore ad un negro."

"Ah, no? E come gli dice?"

"Ehi tu! Oppure: ragazzo! anche se quello a cui si rivolgono ha cinquant'anni..."

"Mio padre ci ha insegnato che dobbiamo rispettare tutti, signore, indipendentemente dal colore della pelle, dalla religione e dalle origini."

"Tuo padre è un uomo giusto. Io mi chiamo Frank, e tu?"

"Fred Bunyan, signore... Frank."

"Andiamo un po' più lontani per non disturbare gli altri e fammi sentire cosa sai suonare, su!"

Ci spostammo. Io strimpellai qualcosa. Lui sorrise e tese la mano. Gli consegnai il mio banjo e lui cominciò a suonarlo... era fantastico! Lo guardavo a bocca aperta.

"Signore... Frank... mi insegnerebbe a suonare come lei?" gli chiesi con occhi che mi brillavano per l'eccitazione.

"E tu, se ti insegno, che cosa mi dai in cambio?" mi chiese.

Interpretai male il suo sguardo, evidentemente, perché quando gli risposi che mi lasciavo fottere da lui, mi dette uno scappellotto, fece un'espressione severa e mi disse che lui, certe cose, non le faceva coi ragazzini, né con quelli del suo sesso. Gli chiesi scusa... e dovevo essere così... buffo, contrito come ero, che scoppiò a ridere.

"Lo so che fra ragazzini... capita. Ma non è bene, e comunque non con un adulto." mi disse in tono amichevole.

"Perché Frank?"

"Perché così è scritto sulla bibbia: il maschio, quando è in età giusta, deve giacere con la femmina. Dopo essersi sposati, logicamente."

"Ma tu sei sposato, Frank?"

"Non ancora."

"E allora, come fai?" gli chiesi.

"Aspetto."

Beh, sinceramente pensai che era tutto tempo sprecato aspettare. E poi, che ci fosse scritto sulla bibbia... vi avevo letto tante cose strane... Per esempio anche che Salomone aveva mille mogli... che se fosse stato un americano lo mettevano in galera per poligamia! Perciò, se anche era vero che sulla bibbia c'era scritto che due uomini non possono fare sesso, mi dicevo, il giorno in cui ogni americano avesse potuto avere mille mogli, io avrei smesso.

Beh, tornando a noi, Frank mi disse che se mio padre non aveva nulla in contrario, mi avrebbe insegnato volentieri a suonare il banjo. Mi spiegò dove abitava... La sua famiglia lavorava per un ricco contadino che aveva la fattoria a un paio di miglia da casa nostra, perciò meno di un'ora di strada.

Mio padre mi autorizzò senza problemi. Allora a sera, mia madre mi preparava qualcosa da mangiare, che sbocconcellavo lungo la strada e col mio banjo correvo fino alla casa di Frank. Casa, forse è una parola un po' troppo grossa: se la nostra era povera, quella di Frank era poco più di una baracca. Eppure era gente allegra, ospitale, almeno quanto i miei.

Beh, sia come sia, Frank non solo suonava meravigliosamente il banjo, il suo era anche migliore del mio, ma conosceva un sacco di canzoni sia della tradizione dei negri che di quella dei bianchi e perfino alcune dei cajun, i bianchi di origine francese. Ero un buon allievo, imparavo presto e bene, e Frank era molto fiero di me. E io mi sentivo due spanne più alto!

In poco più di un anno in cui andavo quasi tutti i giorni da lui, imparai parecchie canzoni. Quando tornavo a casa, mi scrivevo su un quadernetto i testi e gli accordi di accompagnamento, per non dimenticarli. A volte suonavo anche per i miei, e un paio di volte mi fecero anche esibire alle feste.

Logicamente, quando ne trovavamo il tempo, Bert e io si continuava a vederci e a divertirci assieme. E una volta, mentre lo facevamo su un prato, stesi sull'erba... fummo sorpresi sul più bello dal mio fratello maggiore, quello sposato. Glielo stavo giusto spingendo tutto dentro, tutti e due quasi nudi e a quattro zampe, quando sentimmo la sua voce!

Non l'avevamo sentito arrivare. Ci fermammo come due statue, pieni di paura, e lo guardammo terrorizzati. Lui aveva un'espressione assai scura in volto e ci guardava con occhi severi. Poi ci fece una ramanzina.

"Siete matti a farlo dove chiunque vi potrebbe vedere? Siete proprio incoscienti? Non lo sapete che potreste andare incontro a grane molto serie... oltre alla vergogna che gettereste sulle nostre famiglie? Rivestitevi, subito!" ci ordinò e noi ci rivestimmo precipitosamente, i volti rossi come la brace.

Mi resi conto, però, che in realtà non ci stava affatto sgridando per quello che ci aveva sorpresi a fare, ma solamente per la nostra imprudenza. Così, ritrovai un po' di coraggio.

Allora, una volta rivestitomi, gli dissi, ancora un po' timoroso ma ardito al tempo stesso: "E che ci possiamo fare se a noi due ci piace fare queste cose..." poi aggiunsi, quasi in tono di sfida, "... perché siamo tutti e due sodomiti?"

Mio fratello mi guardò sinceramente sorpreso: "Non dire cavolate, Fred! A tutti i ragazzini piace fare quelle cose, finché non possono avere la ragazza!"

"Ma a me e a lui le ragazze proprio non ci interessano..." ribattei io, sempre più sicuro di me.

"Come puoi dirlo, se ancora non ci hai provato? Non ci hai ancora provato, no?"

"Certo che no! Proprio non mi interessa provarci."

"Ma come puoi dire che siete sodomiti?"

"Perché ci piace baciarci..." gli risposi, pensando di dargli una prova inoppugnabile.

Mio fratello si mise a ridere: "Questa non l'avevo mai sentita dire... Però... Però è vero, da ragazzino anche a me piaceva fare quelle cose, però non ho mai baciato, mai desiderato baciare un ragazzo. Ma spero che non è vero che sei, che siete sodomiti."

"E perché?" gli chiesi io, dato che Bert stava lì muto e ancora un po' spaventato.

"Perché la legge è molto severa contro i sodomiti. Non lo sai? E la gente lo è anche più della legge. Non lo sapete, stupidi ragazzini, che potreste essere anche condannati al carcere a vita e ai lavori forzati?"

"Ma allora, come facciamo lui e io?" gli chiesi, questa volta un po' spaventato per la prospettiva. "Mica possiamo dormire assieme, e quindi farlo, come noi fratelli, no?"

Mio fratello si grattò la testa, come faceva sempre quando rifletteva, poi si grattò la corta barba, il che significava che stava per prendere una decisione.

Gesticolando, come faceva quando stava assumendo una posizione che reputava un po' azzardata, finalmente disse: "Domani tu, Fred, mi aiuterai a risistemare la baracca dove affumichiamo la carne. È abbastanza isolata da casa nostra, e... se sistemiamo la parete posteriore in modo che un'asse possa pivottare... se qualcuno arriva alla porta, lui può fare in tempo a scappare senza essere visto, tanto più che dietro la baracca ci sono alti cespugli. Ma mi dovete promettere che non lo farete mai più all'aperto! Va bene?"

Ero sollevato, anzi felice: certo che andava bene! Così, anche se un po' turbati per aver dovuto interrompere sul più bello, salutai Bert e con mio fratello andammo a fare un sopralluogo. La cosa era fattibile con poco lavoro.

Mentre si tornava a casa, mio fratello mi chiese ancora una volta: "Ma sei sicuro, Fred, che a te proprio le ragazze non interesano per niente? Tutti noi l'abbiamo fatte quelle cose fra noi, da ragazzini, eppure, vedi, ora io sono sposato e non mi verrebbe neppure in mente di farle ancora."

"E invece, a me non mi viene neppure in mente di provarci con una donna, con una ragazza. Te lo giuro! Io non te lo so dire, perché, ma so che è così."

"Mah..." disse mio fratello, "E allora forse è meglio che vai verso il lontano ovest, nei nuovi territori... lì le leggi sono meno precise e meno severe, ho sentito dire."

Quella fu la prima volta che pensai che dovevo andare verso ovest. Non avevo la più pallida idea di quanto fosse distante questo mitico lontano ovest. Per me, lontano, significava andare fino a Hopewell, visto che ci si andava a piedi, e lontanissimo era Richmond, Washington, Baltimora, che dovevano essere tutte lì assieme, da qualche parte a nord.

Nonostante nostro padre facesse del proprio meglio per darci un minimo di cultura, faceva quello che poteva e comunque non avevamo a casa nostra un atlante. Il primo che vidi in vita mia... fu quando avevo quasi trenta anni, quando il professorino, Dick Amory, me ne mostrò uno per farmi vedere dove spedivo i miei fascicoli del Lavender Cowboy. Ma questa è un'altra storia. Andiamo con ordine.

Comunque, mi dissi che dovevo veramente dare retta a mio fratello e andare nei nuovi territori, quelli che si affacciavano sull'oceano Pacifico. Non avevo neppure le idee chiare su cosa fosse questo oceano Pacifico, ma il nome mi piaceva. Pacifico... dove uno può vivere in pace, giusto?

L'idea di mio fratello funzionò molto bene. Lì dentro l'affumicatoio, logicamente quando non era in uso, mi incontrai più volte con Bert e potemmo scopare in tutta tranquillità, dando così sfogo alle nostre vivaci energie sessuali. Il forte odore che c'era nell'interno della baracca non faceva che accentuare anche più le nostre eccitazioni. Ancora dopo molti anni, ogni volta che sentivo l'odore di carne di porco affumicata, mi venivano belle e buone erezioni!

Beh, ormai non mi fa più nessun effetto l'odore di porco affumicato... Ma pazienza. D'altronde non mi posso lamentare, ho avuto la mia buona dose di sesso. E senza grossi problemi, a parte una volta che fui denunciato da un vicino di casa puritano e zelante, e che perciò rischiai di finire in galera, anche se solo per pochi anni... ma anche questa è un'altra storia.

Anche se potevo scopare con Bert, questo non mi impediva di farlo la notte con uno o l'altro dei miei fratelli. Ma mi rendevo conto quanto il sesso fosse migliore con Bert, proprio perché lui era un sodomita come me: non era soltanto uno sfogo, ma ce lo godevamo dal primo all'ultimo momento. Con i miei fratelli era solamente uno sfogo, almeno per loro.

Fui molto sorpreso quando i genitori di Bert arrivarono a parlare con i miei, per vedere se fosse gradito, nel giro di un paio di anni, un fidanzamento fra Bert e mia sorella Margie, come mi aveva detto lui quando c'eravamo conosciuti. Per essere esatti, fui sorpreso perché il mio fratello maggiore, che sapeva di noi due, non disse niente, non fece nessuna difficoltà, non sollevò nessuna obiezione.

Quando rividi Bert a quattr'occhi, gli dissi: "I tuoi genitori sono venuti a casa mia a parlare del progetto di farti fidanzare con Margie..."

"Sì, lo so."

"Ma tu... hai intenzione di sposarla davvero?"

"E che altro posso fare?" mi chiese lui. "Prima o poi siamo tutti obbligati a sposarci."

"Io no!"

"E come fai?"

"Me ne vado nel lontano ovest. Ma tu, come fai a farlo con mia sorella?"

"Come fanno tutti gli altri, no?"

"Ma a te piace farlo coi ragazzi, mica con le ragazze. Vuoi dirmi che rinunci ai ragazzi?"

"No... voglio dire che così come certi mariti mettono le corna alle mogli con un'altra donna... io lo farò con un altro uomo. Basta che ne trovo uno come me, no? Io speravo che tu restavi qui e che ti sposavi e che noi due si poteva continuare come prima."

"No no, io ho deciso che me ne vado."

"Beh... allora dovrò trovarmi un altro amico con cui farlo. Ma davvero tu te ne vai? Quando?"

"Non lo so ancora, ma presto."

"E come fai per trovare la strada?"

"È a ovest, no? Basta che vado verso dove tramonta il sole e ci arrivo. Mi hanno detto che è molto lontano, perciò dovrò camminare un bel po'... Ma le gambe le ho buone."

"Un bel po', quanto sarebbe?" mi chiese Bert.

E io, illuso povero ignorantello che ero, risposi, facendo spallucce: "Mah, una, due settimane... Se me la piglio comoda anche tre..."

"E dove dormi? Cosa mangi?"

"Dormirò dove trovo, farò qualche lavoretto per guadagnarmi da mangiare."

"E una volta che arrivi nel lontano ovest, che farai?"

"Non lo so. Qualcosa troverò da fare. Dicono che il futuro è là, che la fortuna è là... E io vado verso il futuro, e farò fortuna." gli risposi, sicuro di me.

Sì, povero piccolo incosciente che ero, con i miei tredici anni appena compiuti... Però, come vedi sono qui, ancora vivo, quindi nonostante tutto non mi è andata male.

Quando comunicai a mio padre che intendevo andare nel lontano ovest per fare fortuna, lui fece del tutto per dissuadermi, ma io, più testardo di un mulo, più lui mi presentava difficoltà, più ero deciso ad andare. Il fatto è che non incontrai nessuna delle difficoltà che mi presentò mio padre... ne incontrai di completamente diverse e inattese. Ma bene o male le superai tutte.

Mio padre, che per me era un pozzo di scienza, in realtà era stato un modesto maestrino, la sua cultura era molto limitata. Non ne sono sicuro, ma credo che smise di insegnare e decise di fare il contadino, perché probabilmente arrivavano veri maestri, con tanto di titolo di studio, perciò nella scuola non c'era più posto per lui.

Anche mia madre cercò di farmi ragionare. Non ebbe più successo di mio padre. Il fatto era che, mentre i miei fratelli erano contenti di fare i contadini, di sposarsi e mettere su famiglia, per me era invece importante andarmene in tempo prima che mi facessero fare la fine del mio amico Bert.

È vero che mio padre, lasciandomi andare, perdeva un paio di buone braccia, ma i miei fratelli, sposandosi e portando a casa le loro donne, portavano nuove braccia, perciò che io me ne andassi in realtà non creava nessun problema.

Aspettai che l'inverno passasse e finalmente, appena si annunciò la primavera, con un bastone sulle spalle con un fagotto che conteneva una coperta e i miei pochi vestiti, con poche monete in tasca, e con il banjo che papà m'aveva regalato appeso alle spalle assieme alle scarpe, per non consumarle, finalmente salutati tutti, anche Bert con un'ultima scopata nell'affumicatoio, passai a salutare il mio amico Frank e mi avviai verso dove tramontava il sole.


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