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una storia originale di Andrej Koymasky


CENTOUNDICI CAPITOLO 3
LA LUNGA STRADA VERSO OVEST

Avevo tredici anni e mezzo, e tutta la vita davanti, e non avevo idea di quanto lunga sarebbe stata la traversata, quando, una mattina di buon'ora, dato un ultimo addio alla mia famiglia, mi misi in cammino. Mi sentivo allegro, pieno di fiducia, e non mi girai mai indietro, neanche per cogliere l'ultima visione della modesta casa in cui ero nato.

Oggi, guardando una carta, potrei dire che più o meno camminai fra il trentasettesimo e il trentatreesimo parallelo, con le inevitabili deviazioni verso sud o nord, a causa dei monti, dei fiumi, dei laghi.

La prima parte del mio cammino, anche se si rivelò più lunga di quanto avessi pensato, mi fece attraversare la Virginia e il Tennessee, che fin dall'inizio facevano parte degli Stati Uniti, e che erano abbastanza densamente abitati, civilizzati, perciò non fu un viaggio troppo disagiato. Mi fermavo qua e là ad aiutare un contadino, un bottegaio, un artigiano e mi guadagnavo sia da mangiare, che qualche moneta, che un riparo per dormire. A volte mi guadagnavo anche alcune monete suonando il mio banjo, mettendo a terra il berretto dove qualche passante lasciava cadere una monetina di rame.

Qualche volta, riconoscevo negli sguardi degli uomini per cui compivo i miei lavoretti o che aiutavo, una certa luce che rivelava qualcosa che imparai a riconoscere: la libidine. Sapendo che viaggiavo da solo e che ero ormai lontano da casa, solitamente mi facevano abbastanza esplicitamente la loro richiesta.

"Ragazzo, quanto vuoi per farmi divertire con il tuo culetto?"

La prima volta, era stato un tale che davvero non mi piaceva, perciò feci finta di non capire. Quello insisteva e mi offriva soldi, partendo da venticinque cent e salendo un po' a ogni mio no, fino ad arrivare a due dollari! Cioè al prezzo di due galline vive! Rifiutai, dicendogli che io non facevo quelle cose! Però iniziai a capire quanto poteva valere una mia prestazione. Da un minimo di venticinque cents fino a ben due dollari.

Poi, era quasi un mese che mi spostavo verso ovest, in un paesello di poche case, mi dissero che potevo aiutare a pulire la stalla. Il figlio del contadino si chiamava Fergus e aveva ventiquattro anni. Nella stalla c'era un caldo umido, l'odore dei cavalli era forte ma piacevole e di tanto in tanto li si sentiva battere gli zoccoli o nitrire.

Fergus era un bel ragazzone dai capelli rossi, indossava brache di tela cachi con due bretelle sul petto nudo e muscoloso. I suoi muscoli guizzavano piacevolmente a ogni movimento. Io ormai da quattro settimane mi accontentavo di menarmelo e quella visione mi fece eccitare, comunque continuai a lavorare per guadagnarmi la paga promessa.

Lavorammo per circa tre ore, quando Fergus mi guardò con quella luce negli occhi che mi fece capire a cosa pensava e mi disse: "Fermiamoci per un poco, tanto mio padre non è nei paraggi. Dimmi, hai già fatto sesso tu?" chiese con la sua voce bassa e calda, virile.

Annuii.

"Scommetto, però, che non ancora con una donna, vero?" mi chiese con un sorrisetto.

Scossi la testa.

"Coi tuoi amichetti, allora?"

Annuii.

"E ti piace prenderlo nel culo?"

Di nuovo annuii. Lui allora fece un sorrisetto, cominciò a slacciarsi la patta dei calzoni e se lo tirò fuori, già mezzo duro.

"Dobbiamo fare in fretta, però, abbiamo solo una mezz'oretta... Calati le brache, dai."

"Ma i miei amici mi pagavano, per mettermelo." gli dissi allora, senza calarmele.

"Ah. E quanto?" mi chiese lievemente deluso, però il cazzo gli si stava sollevando: era bello, mi piaceva pure lì.

"Tu quanto mi daresti?"

"Mezzo dollaro..."

Scossi la testa.

"Settantacinque cents. Di più non ho."

"Dammeli subito."

Frugò in tasca e mi dette tre monete da un quarto. Le misi in tasca, mi sbottonai i calzoni, li calai sulle ginocchia, mi girai e poggiai le mani su una delle assi orizzontali che dividevano gli stalli dei cavalli, mostrandogli il mio culetto. Lui mi carezzò le chiappe, poi si sputò su una mano, se la passò sul membro ormai bello duro, mi venne addosso e me lo spinse tutto dentro con una sola spinta, tanto da farmi barcollare.

"Tienti forte!" mi ordinò.

Strinsi con forza le mani fino a far diventare bianche le nocche, puntando le braccia. Era un po' rude, mi dava leggermente fastidio e feci una smorfia mentre il suo crea-bambini finiva di invadere il mio canale segreto. Gemevo a ogni forte colpo che mi dava e stringevo il buco sul suo forte palo, sperando di farlo godere in fretta. Le sue cosce sbattevano sulle mie chiappette a ogni spinta, un suono che ho sempre trovato erotico.

Mi afferrò per la vita con le sue mani grandi e forti e aumentò il ritmo. Era il tipo che gli piace far durare una monta... Il suo forte membro continuava ad arare nel mio foro ben divaricato. Il respiro gli si fece pesante per lo sforzo di battermi dentro a quel buon ritmo veloce. A ogni suo colpo io spingevo indietro per farlo venire più in fretta. Dopo un po' funzionò, perché lo sentii iniziare a mugolare basso, e finalmente cominciò a schizzarmi dentro.

Si sfilò da me con una specie di grugnito, e mi dette una sculacciata. Mi girai: sorrideva soddisfatto. Si rimise a posto i calzoni, allora me li tirai su anche io e li abbottonai. Non ero venuto, ma poco male: quello era solo un supplemento di lavoro.

"Hai un culetto ancora bello stretto. Quanto tempo ti fermi qui da noi?" mi chiese.

"Finito il lavoro, me ne vado."

"Se ti fermi, ti do settantacinque cents ogni volta che ti lasci fottere da me. Un paio di volte alla settimana. Posso convincere mio padre a prenderti come ragazzo di stalla."

"No, io devo andare a ovest."

"Ti do un dollaro."

"No. Neanche per due dollari. Io devo andare ad ovest."

Riprendemmo a lavorare. Cercò ancora un paio di volte di convincermi a restare, prima che tornasse il padre e allora dovette smettere, anche se continuava a guardarmi in quel certo modo: a quello la voglia non gli passava facilmente.

Più tardi il padre mi pagò e ripresi la mia strada. Poi arrivai in Arkansas e qui già notai una certa differenza, infatti quello stato era entrato nell'Unione da soli otto anni. Forse anche per quello quasi ogni casa aveva la bandiera americana. Non lo sapevo ancora, ma avevo compiuto solo un terzo circa del mio cammino, impiegandoci quasi tre mesi. Ma ancora credevo che l'oceano Pacifico fosse a poca distanza, proprio lì dietro le montagne.

Arrivai all'ultima frontiera, a Fort Smith. Il piccolo centro stava fervendo di lavori, vi stavano costruendo un nuovo forte per sostituire il più vecchio, in legno. Comandava la piazza, lo ricordo ancora, un certo capitano Hoffman, del 6° fanteria. C'erano le baracche degli uomini che lavoravano alla costruzione del nuovo forte, tende, una gran confusione. Notai che si vedevano ben poche donne in giro.

A un certo punto notai un bel giovanotto seduto a cassetta di un carro coperto, il cavallo con il sacco della biada agganciato ai finimenti del muso. Aveva un cappello a cilindro in testa, abiti vecchi ma puliti che forse un tempo avevano avuto una certa eleganza. Sedeva con le gambe aperte, e notai un piacevole gonfiore fra esse. Sollevai lo sguardo e vidi che mi sorrideva divertito, e mi sentii arrossire, così mi girai e bighellonai un po' attorno, cercando di vedere se trovavo qualcosa da fare.

Non so perché, ma mi sentivo ancora gli occhi di quel tale puntati sulla nuca. Così, dopo un po' mi girai di nuovo a guardarlo: aveva ancora quel sorrisetto e mi guardava.

"Ehi, tu!" mi gridò facendomi il gesto di avvicinarmi.

Tornai accanto al carro.

"Tu vuoi passare oltre la frontiera e andare ad ovest, giusto?" mi chiese.

Era proprio bello e mi piaceva come mi sorrideva. "Sì, è così," risposi, "perché?"

"Conciato così, ci vuole poco a indovinarlo. E pensi di andarci a piedi?"

"E come sennò?"

"E passare a piedi il deserto?"

"Quale deserto?" gli chiesi un po' stupito.

Rise, gettando indietro la testa e il cappello a cilindro gli cadde dentro il carro. Mi sentii un po' offeso da quella risata, e lo guardai accigliato. Non mi piace essere preso in giro.

"Che c'è da ridere?" chiesi.

"Che tu, così, nell'ovest non ci arrivi: molto prima di arrivarci o gli indiani ti scotennano o gli animali del deserto fanno colazione usando te come pasto! Sempre che non muori di sete e allora qualcuno un giorno troverà un bello scheletrino sbiancato dal sole e un banjo."

"E tu che ne sai?" gli chiesi battagliero.

"Io conosco le piste come le mie tasche, ragazzino. Avrò fatto la traversata almeno dieci volte in una direzione e altrettante in quella opposta."

"Perché, ti piace andare a passeggio?" gli chiesi, cercando di fare ironia.

"Lo sai suonare bene, il tuo banjo?"

"Certo."

"E che altro sai fare?"

"Badare alle bestie e lavorare i campi."

"E che altro?" mi chiese con occhi ridenti.

"So leggere e scrivere e contare." dissi con una certa fierezza.

"E poi? Che altro?"

"Pisciare in un bicchiere da sette piedi di distanza!" risposi seccato e gli girai le spalle andandomene, seguito dalla sua risata.

Vidi una baracca su cui era appesa una scritta malamente tracciata con un pennello: "Da Polly - Paghi Poco - T'Ingozzi Bene!"

Di fronte, all'aperto, c'erano tre tavoli e alcune panche e dalla finestra e dalla porta aperte veniva un buon odore di cavoli cotti con l'aceto e di salsicce bollite. A un tavolo mangiavano due soldati e a un altro c'erano tre uomini in attesa. Uscì dalla baracca una specie di donnone con la faccia rubiconda, con un'ombra di baffi e persino un po' di peli sul mento, che portava tre grosse scodelle di legno fumanti da cui spuntavano cucchiai anche di legno.

"Ecco serviti, i gentiluomini!" disse mettendo davanti a ognuno una scodella.

Uno degli uomini le dette una pacca sul sedere: "Perché non ci fai mai servire da tua figlia e la tieni segregata in cucina, eh?"

"Mia figlia non fa parte del menu!" rispose la donna ridendo. "Il dolce si paga a parte!"

Chiesi alla donna: "Scusi, signora, quanto costa una scodella di quella roba?"

"Venticinque cents. Anticipati." mi rispose squadrandomi.

Misi una mano in tasca e le porsi una moneta. Lei la intascò e mi fece cenno verso il tavolo libero. Andai a sedermi, posando accanto a me il mio fagotto e il mio banjo. Aspettavo di essere servito, quando un'ombra cadde di traverso sul mio tavolo. Guardai in su: era il tizio del carro coperto.

"Ed eccoci qui!" mi disse. "Posso sedermi al tuo tavolo?" e così dicendo mi fece un sorriso gentile, amichevole, simpatico.

Feci un cenno di assenso quasi brusco, senza rispondere al suo sorriso. Sedette a lato del tavolo, a novanta gradi, in modo che voltava le spalle ai tre civili.

"Posso presentarmi? Mi chiamo Caleb Cibber, ho ventinove anni. Sono nativo di Trenton, nel New Jersey. Commercio in tutto e qualcosa in più. E tu, ragazzo?"

"Fred Bunyan, dell'Arizona, ho tredici anni, ma quasi quattordici. Cosa vuol dire che commerci in tutto?" gli chiesi.

"Nei nuovi territori a ovest, le cose essenziali più o meno le hanno, però quelle che non servono ma che piacciono, no. Una collana, un servizio da tè in porcellana, un orologio da tasca, la lozione per i capelli, le trine e i merletti, un cappello a cilindro, una spilla per cravatta... Io mi faccio dire cosa desiderano, mi faccio dare una caparra, vengo qui, me li procuro, vado là, li rivendo." mi disse accompagnando con lievi gesti delle mani quanto mi stava spiegando.

Arrivò il donnone con la mia scodella e lo salutò allegramente: "Ohi, Caleb Cider, credevo che non ti degnavi più di venire a gustare le mie prelibatezze! Gli indiani non t'hanno ancora scotennato?"

L'uomo rise e mi disse: "Senti, la sfrontata? Mi chiama Cider, sidro, invece che Cibber, per una vecchia storia..." Poi disse a lei, "Portamene una scodella, Polly, e anche un bel tocco di pane." e le dette una moneta.

"Oggi il pane è finito. Non siamo mica al Grand-Hotel, bello mio!" e tornò nella baracca.

"E guadagni tanto col tuo commercio?"

"Abbastanza per campare decentemente e fare qualche risparmio, non abbastanza per diventare un possidente terriero. Così, tu vuoi andare a far fortuna nell'ovest. Oregon? California?"

"Non lo so... dove si fa fortuna."

La donna gli portò la sua scodella, scambiò con lui qualche battuta e se ne andò. Mentre mangiavamo, si parlò e il tizio, nonostante la prima impressione, mi risultò simpatico... oltre che bello. Notai che aveva mani curate, eleganti... Era veramente attraente, specialmente il suo sorriso, così dopo pochi minuti mi venne una forte erezione. Me lo dovetti sistemare e la mia manovra non gli passò inosservata.

Avevamo finito di mangiare, e lui, sotto il tavolo, allungò una mano e mi palpò fra le gambe. Sussultai e mi guardai nervosamente attorno. Caleb rise.

"Nessun problema, nessuno ha visto..." disse tranquillamente, "Anche il mio è bello duro, a stare qui vicino a te... Sei un gran bel ragazzo." e si spostò un poco, girandosi verso di me, in modo che potessi vedere fra le sue gambe che non mentiva.

Sotto la patta il suo membro palpitava a ritmo, visibilmente... mi venne voglia di toccarlo ma non ne ebbi il coraggio.

"Perché non fai un salto dentro al mio carro, così possiamo... fare conoscenza?"

"E che mi dai, in cambio?" gli chiesi, cercando di fare lo sfrontato, ma pensando che ci sarei andato anche gratis.

"Quello che tu dai a me, no?" rise lui, "Uno scambio alla pari... Ma se ci stai... poi ti do anche un passaggio sul mio carro fino all'ovest, almeno ci arrivi vivo."

"E mi fotti a tuo piacere."

"Fottiamo, tutti e due. E ci facciamo compagnia. Sai sparare, tu? Con un fucile o una pistola, oltre che con quello che hai fra le gambe?"

"No."

"Ti insegno... può essere utile. E posso insegnarti un sacco di altre cose utili per sopravvivere nell'ovest."

"Andiamo al tuo carro, allora." gli dissi.

"Un momento..." disse.

Si alzò, si affacciò alla baracca e disse qualcosa. Dopo poco tornò indietro con un pacchetto in mano. Mi chiesi che cosa gli avesse dato la padrona. Non l'avevo visto tirare fuori monete. Mi fece un cenno e lo seguii. Mi fece salire nel carro: dentro c'erano casse e bariletti, che facevano da paravento a una specie di pagliericcio. Posai in un angolo libero il mio fagotto e il banjo. Caleb fissò dall'interno la tenda, e mi sospinse sul pagliericcio, venendo a sedere accanto a me.

Mi prese fra le braccia e le sue labbra furono subito premute sulle mie. Aprii la bocca unita alla sua e la sua lingua esplorò la mia... Si staccò da me e mi guardò con un sorriso allettante, e cominciò a spogliarsi. Lo imitai prontamente.

"Possiamo fare con calma: abbiamo tutto il pomeriggio... e pure la notte. Aspetto una consegna e domattina partiamo."

Era un bell'uomo, aveva un bel corpo, una lieve e gradevole peluria sul petto in un triangolo fra i capezzoli, che s'assottigliava in una stretta linea fino all'ombelico. Il suo membro eretto spuntava fiero da un folto cespuglio di peli. Ci portai una mano e glielo carezzai. Anche lui palpò il mio.

"Ce l'hai già discretamente sviluppato. E bello duro. Mi piaci, Fred. Ci divertiremo!" disse con voce calda, eccitata,

Mi spinse la mano sotto le palle e con un dito frugò nella piega, cercando il mio buchetto. Mi cinse la vita con un braccio e mi tirò a sé. Gli misi le mani sul petto e lo spinsi un po', per liberarmi dal suo mezzo abbraccio.

"Qualcosa non va?" mi chiese, lievemente stupito, guardandomi con un'espressione interrogativa.

"No, niente. Va tutto bene."

"Ti lasci fottere da me?" mi chiese semplicemente, direttamente.

Annuii.

Le sue labbra e la sua lingua umida, calda, carezzarono il mio corpo, su e giù, a lungo: non avevo mai sperimentato sensazioni così sensuali, prima di allora. Fremetti. Cercai di imitarlo, di dargli altrettanto piacere e mi accorsi che ne dava anche a me esplorarlo con le labbra e la lingua, oltre che con le mani. Non mi toccava più il cazzo, così io non lo toccai a lui. Dopo un po' allungò un braccio e prese da un angolo una bottiglietta e ne tolse il tappo.

"Cos'è?" gli chiesi incuriosito.

"Lozione per i capelli, molto utile per fottere..." mi spiegò con un sorriso. "Diventa più gradevole, scivola meglio."

"Ma di che è fatta?" gli chiesi.

"Di olio di vaselina, sostanze profumate e olî vegetali. È ottima per fottere."

Mi fece stendere su un fianco e si sistemò alle mie spalle. Sentii un suo dito preparare la via mettendomi la lozione sul buchetto, e anche un po' dentro. Era una sensazione fresca e calda al tempo stesso, molto gradevole, eccitante. Fremetti di nuovo, in attesa. E finalmente Caleb riscosse il suo premio, e usò tutto il suo magnifico corpo per darmi una gloriosa fottuta. Mi si infilò dentro, stringendomi fra le braccia e sospingendo in avanti il bacino con vigore. Quando il suo cazzo fu ben sistemato nel mio tunnel posteriore, mi sentii completo.

"Fottimi, dai!" lo pregai.

Mi accontentò, e lo fece a lungo, e pensai che Caleb era un vero atleta del sesso, giovane, virile, forte ma anche gentile. Mai prima di allora il mio culetto era stato trivellato così a fondo e con uguale vigore, eppure non solo non mi dava nessun fastidio ma era decisamente piacevole. Una sua mano premette contro il mio cazzo durissimo, sì che a ogni sua spinta, sfregava contro il suo palmo, sul mio ventre.

Fremevo per le intense sensazioni che il cazzo di Caleb suscitava scivolando dentro e fuori di me. Il piacere irradiava dalle profondità del mio culetto così sapientemente fottuto, fino alla punta del mio cazzo, duro quanto mai. Mi resi conto che il carro aveva un lieve dondolio a ritmo delle sue spinte e cigolava come se vi fosse un grillo nascosto dentro. Mi dissi che se qualcuno passava lì accanto non poteva non immaginare perché il carro dondolasse così... ma me ne fregai.

Dopo un secolo, lo sentii sospirare e sentii i suoi schizzi, o per meglio dire le forti pulsazioni della sua bella asta, dentro di me. E senza che me l'aspettassi, il mio cazzo sparò contro la sua mano, e la doppia sensazione fu la migliore che avessi mai provato fino ad allora. Era un vero mastro-fottitore, dovevo riconoscerlo. Restammo immobili per un po', solo la sua mano sul mio petto si muoveva in una lieve carezza. Sentivo il suo alito sulla mia nuca. Sospirai, contento.

Dopo pochi minuti Caleb si staccò da me e si alzò a sedere. Sentii il mio seme colare sul pagliericcio.

"Sto sporcando tutto..." dissi girandomi sulla schiena e guardandolo.

Sorrise, prese un panno e me lo tese, mentre con un altro si ripuliva la mano. Mi ripulii il ventre e il cazzo, poi lo strofinai sul pagliericcio per asciugarlo alla meno peggio.

"Non ti preoccupare." mi disse con un sorriso, riprendendo il panno che gli rendevo. "Soddisfatto?"

Annuii, sorridendogli.

"Anche io. Ma la prossima volta... cioè stanotte... devi mettermelo tu, chiaro?"

Di nuovo annuii, contento.

"Sei un bel ragazzetto." mi disse facendo scorrere il suo sguardo compiaciuto lungo il mio corpo.

"Non sono più un ragazzetto, ho quasi quattordici anni." protestai, ma sorridendo.

Mi mise una mano sui genitali nuovamente soffici: "Qui non lo sei di sicuro." convenne con un altro sorriso. "Rivestiamoci, dai."

"Quella lozione è proprio fantastica." gli dissi indicando la bottiglietta che era poggiata su una cassa.

"Credevo che fosse fantastico questo!" ridacchiò lui agitandosi il bel membro morbido.

"Anche quello, certo." ammisi iniziando a rivestirmi. "Il carro dondolava, mentre mi fottevi... se passava qualcuno..." gli dissi.

Sorrise: "E chi se ne frega. Avrà pensato che stavo facendo il burro!" e imitò con le mani il movimento della zangola.

"Sì, dentro di me!" risposi.

Una volta rivestiti mi attirò di nuovo a sé e mi baciò per un po'. Mi piaceva.

"Adesso basta, o mi viene voglia di nuovo." mi sussurrò.

"E perché no?" gli dissi con uno sguardo birichino.

Rise. Poi mi chiese: "Ti va di suonare un po' il tuo banjo?"

"Sì."

"Ma andiamo a sedere a cassetta, qui dentro fa troppo caldo. Questa volta, con te, sarà un bel viaggio."

"Viaggi sempre solo?" gli chiesi mentre, con il mio banjo, lo seguivo a cassetta.

"Non sempre. Tu sei il terzo... no, il quarto ragazzo a cui do un passaggio a ovest."

"Sempre in cambio di fottere?"

"Certo!"

Mi misi a suonare. Lui cantò qualche canzone con me. Aveva una bella voce. Un bel sorriso. E scopava proprio bene! pensai.

Arrivò un tizio con un calessino e gli consegnò due pacchi. Caleb lo pagò e li sistemò dentro al carro.

"Hai un viaggiatore, Caleb?" gli chiese il tizio squadrandomi dalla testa ai piedi, con uno sguardo di apprezzamento.

"Sai che ho il cuore tenero!" gli rispose Caleb.

"Sì... e qualcos'altro... duro! Buon viaggio." rise l'altro e ripartì col suo calessino.

"Ma quello... sa?" gli chiesi, conoscendo già la risposta.

"Tutto! È lui che mi ha fatto scoprire che la lozione per i capelli è ottima anche per fottere."

"L'hai fatto con lui?"

"No... Cioè, una volta, pochi anni fa, l'abbiamo fatto con lo stesso ragazzo, un soldatino del forte, mettendocelo in mezzo. Lui adesso ha un garzone, con cui vive da tre anni, alla faccia della sua missus. Ha una grossa fattoria a van Buren..."

"Cioè... la moglie sa che lui fotte con quel suo garzone?" gli chiesi stupito.

Rise al mio stupore: "Pur di tenerselo... Tu fottiti chi vuoi, ma non farmi mancare niente, né in casa, né a letto. Così gli ha detto lei quando ha capito. E lui non le fa mancare niente, né a lei né ai figli, e così si diverte con quel ragazzo."

Mangiammo nel carro. Poi ci si mise a dormire, ma prima facemmo il secondo round di buon sesso. Appena nudi ce l'avevamo già tutti e due in tiro. Ci eccitammo ben bene, poi lui mi mise la lozione sul cazzo e finalmente glielo infilai nel buco e mi sentii in paradiso. Faceva palpitare il buco e muoveva il sedere per sentirlo bene e gli detti dentro con vero piacere. Poi, appena venni, mi fece girare e mi infilzò di nuovo. Sì, era un vero esperto. Questa volta mi cavalcò a quattro zampe.

Una volta soddisfatti tutti e due, ci rannicchiammo uno contro l'altro sullo stretto pagliericcio, restando nudi. Sentivo che sarebbe stato un bel viaggio, piacevole oltre misura. Non mi sbagliai, riguardo al sesso. Però, per il resto, fu veramente duro, specialmente quando traversammo il deserto.

Mi insegnò a sparare. Non ero veramente bravo, ma me la cavavo decentemente. Mi insegnò parecchi trucchi per sopravvivere, e anche trucchi per barare a dadi e a carte. Si doveva razionare acqua e cibo. Gli chiesi perché: mi pareva che ne avesse in abbondanza.

Lo capii quando superamo una famiglia che stava viaggiando a ovest col suo carro coperto. Avevano finito l'acqua e se la vedevano brutta. E Caleb gli vendette l'acqua, gli riempì tre boracce per venticinque dollari. A me era sembrata una cifra enorme, ma quelli non finivano di ringraziarlo e di benedirlo. Beh, certo, se non avessero incontrato Caleb sicuramente sarebbero crepati di sete. Brutta morte, quella per sete! Ti si gonfia la lingua e diventa nera e... lasciamo perdere!

Dopo circa un mese, una mattina, c'eravamo appena rimessi in marcia, quando all'orizzonte comparvero alcuni indiani a cavallo. Io glieli segnalai impaurito. Caleb tirò fuori un cannocchiale e li osservò, poi mi disse una sola parola: "Amici."

"Amici? Gli indiani?" gli chiesi incredulo. "Ma se mi hai detto che ci scotennano!"

Tutte le storie che avevo udito riguardo agli incontri fra noi bianchi e gli indiani, erano sempre e solo storie di feroci battaglie, di orribili torture, di morte. Morte loro se eravamo di più noi, e morte dei nostri se erano di più loro.

"Te l'ho detto solo per farti paura. Se noi bianchi non gli togliamo i loro pascoli e non gli sterminiamo gli animali che cacciano, se non gli distruggiamo i villaggi... Terra qui ce n'è tanta, si potrebbe convivere decentemente. Ma noi siamo avidi di terra. Soprattutto perché arrivano sempre nuovi immigranti dall'Europa. Per gli indiani la terra è libera, è di tutti, e ogni tribù rispetta quella delle tribù vicine, di solito. Per noi no, la terra è di chi la prende o la compra e nessun altro ci può entrare, la può usare. La recingiamo, la difendiamo con le armi anche contro gli altri bianchi." mi spiegò.

Gli indiani arrivarono: erano sette uomini a cavallo. Belli, seminudi, forti! Salutarono Caleb, che, scoprii, parlava la loro lingua. Accompagnavano le parole con molti gesti e Caleb poi mi spiegò che il loro linguaggio era appunto fatto sia di parole che di gesti. La stessa parola, accompagnata da un gesto diverso, poteva cambiare significato.

Caleb dette loro un bariletto di liquore, in cambio di alcuni bei mocassini, un paio ricamato con perle di vetro colorato. Poi si salutarono e noi riprendemmo la strada.

In quei tempi i carri erano pochi. Pochi anni dopo, quando iniziò la corsa all'oro della California, su quel tragitto si sarebbero spostate vere città di carri, a centinaia, a migliaia, in un'unica lunga fila che andava da un orizzonte all'altro. Gente che non conosceva bene il tragitto, i pericoli, il modo di sopravvivere come Caleb, sì che non pochi restavano lì, morti. E gli altri a poco a poco, passando, portavano via tutto, le loro masserizie, le ruote dei carri, i finimenti dei cavalli, tutto... E così restavano solo gli scheletri degli sfortunati viaggiatori e dei loro cavalli, sbiancati dal sole.

In quei tempi, normalmente, ogni carro trasportava una famiglia. Durante la corsa all'oro, invece, i carri trasportavano quasi esclusivamente uomini, perciò all'arrivo le donne erano una vera rarità. Le poche prostitute, spesso messicane, o californios com'erano chiamate, potevano anche arricchire. Ma logicamente, i sodomiti "per necessità" aumentarono moltissimo, e per quelli "per piacere" come me fu un periodo d'oro. Forse anche per quello, in seguito, in California le pene contro i sodomiti erano poco applicate e al massimo si rischiavano cinque anni di prigione.

Mi ricordo che durante la corsa all'oro, accadeva un divertente fenomeno: mettiamo che seicento uomini vedessero passare una donna: per giorni si dicevano l'un l'altro: "Sai, ho visto una donna... e era così e così..." e quella donna, via via, di racconto in racconto, diventava una dea, un angelo, una regina, una Venere in terra... anche se magari, in una delle città dell'est, nessuno l'avrebbe degnata di un solo sguardo.

Le ultime poche centinaia di miglia del nostro viaggio furono le più difficili. La cosa più penosa era che ormai da mesi non ci si poteva più lavare, però si sudava abbondantemente, e la polvere ti si appiccicava addosso. Questo significava anche che, quando si faceva l'amore, a parte baciarci in bocca o succhiarcelo, non ci si azzardava più a baciarci e leccarci per tutto il corpo come i primi giorni.

Anche i nostri vestiti, per quanto li sbattessimo, erano impregnati di sudore e di polvere, e così diventavano sempre più fastidiosi da indossare. E d'altronde, col sole che batteva impietoso, neanche a parlarne di viaggiare nudi o seminudi: si rischiava di finire arrostiti. Solo a sera ci si spogliava, per provare un minimo di refrigerio. Di giorno la temperatura superava i 100 gradi F. cioè circa 40 gradi C. Ma poi di notte faceva freddo, così ci si scaldava uno con l'altro e con una spessa coperta... dopo aver fatto, logicamente, un po' di buon sesso.

E un giorno, usciti dal deserto e ritrovata acqua e verde, per cui avevamo potuto finalmente lavarci, lavare i nostri vestiti e rinnovare la scorta di acqua che era quasi finita, Caleb fermò il carro e mi mostrò, giù in basso, un'enorme distesa luccicante, e una baia accanto a cui sorgevano alcune casette simili alle attuali scatolette di fiammiferi.

"Ecco, quello è l'Oceano Pacifico... Quella è la baia di San Francisco, e quelle case sono Yerba Buena, che però, adesso che abbiamo vinto la guerra contro i messicani e che è terra nostra, la gente comincia a chiamare anche San Francisco come la baia. Passiamo qui la notte, e domani scenderemo fino a là."

"Che farai una volta arrivati?" gli chiesi.

"Consegnerò la merce e mi farò pagare, e venderò quella che mi resta, mi riposerò un po' e prenderò i nuovi ordini, poi farò provviste e tornerò indietro. Passerò l'inverno in Arkansas, mi riposerò, comprerò la nuova merce, e tornerò qui."

"Perciò tornerai fra un anno?" gli chiesi.

"Ti mancherò, Fred? O ti mancherà solo questo mio bel cazzo?" mi chiese sorridendomi, divertito.

"Magari mi trovo uno meglio di te!" gli risposi scherzoso.

"Non ne dubito: sei un tipetto caldo, tu, e anche ben fatto. Magari ti trovi un riccone che ti mantiene."

"Ci sono molti ricconi a San Francisco?" gli chiesi.

Rise di gusto: "Solo morti di fame! Pescatori, agricoltori, pochi allevatori, indiani, messicani californios, negri... E gente che vorrebbe fare fortuna come te!"

"Ma io farò fortuna, vedrai, e fra un anno ti farò riposare a casa mia!" gli dissi, sicuro di me, mentre ci rivestivamo.


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