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una storia originale di Andrej Koymasky


CENTOUNDICI CAPITOLO 6
CAMBIAMENTI

Se Samuel era già fiorito mangiando bene, vestendo decentemente e vivendo in un ambiente sereno, da quando avevamo cominciato a fare l'amore, era diventato quanto mai bello e allegro. E anche io ero in qualche modo maturato, proprio grazie al suo amore.

Aveva voluto cominciare a partecipare agli spettacoli anche lui, e aveva veramente una bella presenza, sulla scena, pareva che vi fosse nato. Cantava con una voce calda e danzava in modo molto sensuale. Questo significò che anche lui, perciò, iniziò ad appartarsi, a volte, con qualcuno dei soci a cui piaceva anche la carne nera. Era piuttosto selettivo e questo mi faceva piacere.

In quegli anni, avevo rivisto un paio di volte Caleb, che frattanto s'era fatto anche lui il ragazzo... o piuttosto l'uomo, dato che aveva qualche anno più di lui. Con questo, dato che aveva messo da parte parecchi soldi e che il suo uomo era più che benestante, aveva deciso di non fare più i viaggi attraverso il deserto, ma di investire i loro soldi nelle ferrovie, che si stavano diffondendo nell'est e lentamente espandendo verso ovest. Erano sicuri che nelle ferrovie sarebbe stato il futuro dei trasporti. Perciò, in seguito, non lo rividi più per anni... cioè finché le ferrovie arrivarono fino a San Francisco.

Quando lo rividi, logicamente era invecchiato, aveva l'aspetto di un ricco borghese, era con il suo uomo che così conobbi. Erano fra gli azionisti della Union Pacific, ma avevano anche azioni della Central Pacific e non so di quali altre compagnie ferroviarie.

La California era diventata, da qualche anno e a pieno titolo, uno stato dell'Unione Americana, il governatore veniva eletto assieme alla legislatura, avevamo una costituzione ed eravamo diventati cittadini californiani.

Chi non avevo mai perso di vista, era invece la vedova Arabella Sloane. Specialmente quando iniziò a invecchiare, tanto che aveva dovuto assumere una ragazza negra, Martha, per occuparsi dei lavori in casa che lei non aveva più la forza di fare. Iniziai ad andarla a trovare sempre più spesso, per vedere se avesse bisogno di qualcosa. Arabella non aveva famiglia, nessun parente.

Ci andavo quasi sempre con il mio Samuel, e lei ci fece i complimenti dicendoci che eravamo proprio una bella coppia. Ogni volta ci offriva un tè di prima qualità con certi biscottini che faceva lei. Era diventata per me un po' come una vecchia e cara zia.

Gli affari del nostro club stavano andando bene, nonostante il numero delle donne a San Francisco stesse gradualmente aumentando, e fossero sorti un paio di altri bordelli per sodomiti. Ma il nostro non era un semplice bordello, perché offrivamo uno spettacolino divertente e del buon cibo, quindi i nostri clienti-soci non diminuirono.

Semplicemente, mentre all'inizio i nostri soci erano quasi tutti minatori, iniziarono a venire sia normali abitanti di San Francisco e gradualmente anche sempre più cowboy, tirati a lucido quando venivano in città: i lavender cowboy di cui m'aveva parlato il mio amico, il professorino. Come pure alcuni marinai delle navi che attraccavano al porto. E a volte, pagando un supplemento, iniziarono a usare i nostri box anche due soci per fare sesso fra loro.

Specialmente Dick Amory, il professorino, a cui piacevano gli uomini maturi e attivi, che lo cavalcassero a lungo. E anzi fu lui il primo, o comunque uno dei primi, a chiedermi se poteva usare uno dei nostri box con un marcantonio di cowboy che aveva incontrato lì da noi... che comunque aveva al collo il fazzolettone color lavanda.

Io, a un certo punto, sentii il desiderio di avere una vera casa, mia. Cominciai perciò a informarmi. A differenza degli anni precedenti, non c'era più immigrazione, anzi, al contrario, qualcuno cominciava ad andarsene perché molte miniere avevano esaurito i loro filoni di oro. Questo aveva provocato la chiusura di molti negozi, il fallimento di alcune imprese e l'abbandono di molte case.

Però le uniche veramente disponibili a un prezzo abbordabile erano le case di legno, poco più che baracche, che sorgevano su per le pendici delle colline che delimitavano la città. Quelle in mattoni e le più belle in legno, in piano, nella città vecchia, avevano ancora prezzi troppo alti per le mie finanze.

Mi ricordo quando andai a visitare alcune case vuote su per Christopher Street. La strada era ripidissima, in terra battuta, e quando pioveva diventava quasi impossibile arrampicarvisi, se non a prezzo di numerosi scivoloni e cadute nel fango. Così a lato della strada era stata costruita una specie di scalinata di legno, fatta in periodi diversi, da gente diversa, sì che era molto irregolare, a tratti traballante, ora con un mancorrente ora senza.

Avevo anche sentito dire che, in occasione di una grande pioggia durata diversi giorni, alcune di quelle precarie casette senza fondazioni avevano iniziato a slittare verso valle, sfasciandosi e accatastandosi una sull'altra... ed erano sorti litigi violenti fra i vecchi proprietari su quale parte del legname che tentavano di recuperare appartenesse a loro o alla casa più a monte o più a valle della loro.

Comunque, quando con Samuel andammo a visitare le case disponibili, non ci sapevamo decidere a prenderne una, non tanto per il prezzo, ma perché le migliori erano abitate, infatti se un vecchio proprietario se ne andava, vendeva il tutto a qualcuno che abitava già lì in Christopher Street ma in una casa meno bella... o per meglio dire, più brutta.

Insomma, dopo tutto stavamo meglio nella nostra ex stalla. Comunque non avevamo rinunciato al nostro progetto. A un certo punto pensai persino di vendere il mio locale: avevo avuto un paio di offerte, però non le avevo accettate, fino ad allora. Gradualmente aveva assunto un aspetto migliore: non era un locale veramente elegante, ma era più che dignitoso. Avevamo anche fatto un pavimento con una colata di cemento, che avevamo poi verniciato con i forti smalti protettivi per gli scafi delle navi.

Un giorno, quando andai a trovare Arabella, Martha, la cameriera di colore, mi accolse tutta agitata: "La missus sta male, sta tanto male, ha la febbre..." mi disse mentre entravo.

"Hai chiamato il medico?"

"Sì, signorino, è venuto e ha dato una medicina e dice che torna..." mi disse mentre salivamo le scale.

"Ma ha detto che cosa ha?" mi informai, preoccupato.

"Non ho capito, un brutto nome di malattia, però; e il dottore dice che non sa se e come finisce. Povera padrona..."

Entrai nella camera di Arabella: era la prima volta che ci mettevo piede. Era semibuia, le tende tirate, ed era arredata nello stile di inizio secolo con mobili un po' pesanti ma di buona fattura. Il letto era alto e grande e al centro giaceva Arabella, il volto arrossato dalla febbre, gli occhi lucidi. La cameriera mi avvicinò al letto la poltroncina a braccioli foderata in velluto verde chiaro, poi ci lasciò soli.

Arabella mi guardò, abbozzò un debole sorriso e, con un filo di voce, mi disse: "Oh, sei tu Fred? Vedi come sono ridotta?"

"Ma se due giorni fa stavi bene! Com'è successo? Che hai?" le chiesi sedendo, preoccupato. Le presi la mano diafana fra le mie. Scottava.

"Mah, che ne so... Non ho mai avuto la febbre in vita mia, e adesso m'è venuta tutta quella che avevo evitato. Sono vecchia, ragazzo mio, e i vecchi... che vuoi... prima o poi se ne vanno."

"Ma hai solo sessanta anni..."

"Una piccola bugia che dicevo... Ma no, ne ho sessantasei in realtà."

"Cambia poco..."

"Dici? Come un bimbo cambia molto fra sei e dodici anni, così cambia molto, ma all'inverso, un vecchio fra sessanta e sessantasei anni."

Nonostante la febbre alta, era lucida, come sempre. Mi strinse debolmente la mano e m'indirizzò un altro lieve sorriso.

"Devi rimetterti in salute in fretta, Arabella. Come si fa, se no, con gli ospiti della tua pensione?"

"Li ho fatti avvertire da Martha che per cortesia si cerchino una stanza altrove... Ce ne sono solo tre, al momento. E Martha può badare a loro, finché restano. Anche se guarissi..."

"Quando guarirai." la corressi io.

"... non ho più la forza di prendere dei pensionanti, di affittare le stanze. D'altronde non ne ho più veramente bisogno, ho qualche soldo da parte, per le mie necessità. Finché durerò..."

"O io o Samuel verremo qui tutti i giorni, almeno due volte al giorno. Purtroppo la sera dobbiamo lavorare, ma..."

"Non ti preoccupare, c'è Martha, che ora dorme qui con me. Vedi, le ho fatto aggiungere un lettino là nell'angolo... È forte e gentile e premurosa, Martha. Ma se venite, mi fate molto piacere, si capisce. Dopo Caleb, che ormai non si vede più, mi siete rimasti solo tu e Samuel."

Restai un po' con lei, poi tornai al locale. Avvertii Samuel delle condizioni in cui avevo trovato Arabella e anche lui ne fu dispiaciuto e disse che senz'altro sarebbe andato a stare un po' con lei: io decisi di andarci la mattina e lui nel pomeriggio, perché il pomeriggio era meglio che io stessi nel locale per prepararlo. La mattina, così, Martha poteva andare al mercato a fare la spesa.

Andammo da Arabella per alcuni giorni, ma non pareva migliorare. Incontrai il medico a cui chiesi informazioni. Secondo me non ne capiva molto neppure lui e non mi seppe dire se e quando potesse guarire.

Mi disse, in tono pomposo ed estremamente serio: "Purtroppo il medico viene consultato solo quando ormai non è uopo dell'opera sua né del suo consiglio, quando il male è irreparabile. E a lui non resta che dividerne il carico, il dolore, e peggio gli ingiusti rimproveri. La signora ha una febbre maligna la quale secondo la teoria più accreditata è causata da misteriosi cambiamenti atmosferici, cosmici e tellurici."

Bah...

Poi, un pomeriggio, Samuel era andato da poco a casa di Arabella, me lo vidi tornare indietro e dalla sua espressione, dalle lacrime che gli colavano sulle guance e per il fatto che scuoteva la testa, capii che era finita.

Dissi ai ragazzi di arrangiarsi e subito, con Samuel, mi recai a casa di Arabella. Martha ci venne ad aprire piangendo. Salimmo nella stanza. La guardai, la carezzai: era fredda come marmo, bianca come cera. Il calore e il rossore della febbre erano scomparsi.

Così presi in mano la situazione e mi detti da fare per il suo funerale. Poiché c'era ancora un fittavolo in una delle stanze, quella del pianterreno, chiesi a Martha di occuparsi di lui finché se ne fosse andato. Vennero i becchini, la rivestirono con il più bell'abito, che Martha tirò fuori dall'armadio, la misero nella cassa e la portarono nella sala delle onoranze funebri.

Al suo funerale, nonostante avessi fatto mettere dall'agenzia funebre il necrologio sui giornali locali, c'eravamo solo Samuel, io e Martha. Non era venuto neppure l'ultimo fittavolo, a cui dissi che doveva andarsene, perché chiudevamo la casa.

Poi dissi a Martha di ripulire la casa, di stendere i teli sui mobili come usava fare in quei tempi quando si lasciava una casa per molto tempo. Con i miei soldi le pagai quanto ancora le era dovuto, chiusi tutto a chiave e tornai al mio locale. Non sapevo che cosa si dovesse fare della casa. Chiesi a Dick Amory e mi disse che, se non aveva eredi, sarebbe diventata proprietà della città o dello stato a seconda di come erano le leggi locali.

Ma solo tre giorni dopo arrivò una lettera da uno studio notarile, in cui mi si diceva che "il signor Alfred Bunyan ed il signor Samuel Haynes, sono pregati di presentarsi giovedì mattina alle ore dieci in punto presso questo studio, recando con sé gli opportuni documenti di identificazione". Mi chiesi che cosa potesse volere quel notaio da me e da Samuel... Forse dovevamo consegnare le chiavi della casa di Arabella perché le autorità ne prendessero possesso... ma allora perché non dovevo andare nella City Hall a consegnarle? Ma io non ne capivo di queste cose, perciò...

Così il giovedì mattina alle dieci, le chiavi di casa di Arabella in tasca, puntuali come richiesto, ci presentammo nello studio del notaio indossando i nostri migliori abiti. Ci ricevette quasi subito, guardò un po' meravigliato Samuel, e ci chiese i nostri documenti. Li controllò e li posò sulla scrivania. Quindi suonò una campanella e arrivarono lo scritturale e l'apprendista.

Il notaio prese una busta, ne ruppe il sigillo, ne estrasse un foglio e iniziò a leggere.

"Io, Arabella Stanhope vedova Sloane, nata il 12 marzo 1790 nel borgo di Harrisburg, Pennsylvania, in pieno possesso delle mie facoltà mentali, lascio in eredità..."

Non credevo alle mie orecchie: Arabella aveva lasciato la sua casa, con tutto quanto conteneva in mobili, suppellettili e denaro, a Samuel e me! Il notaio, dopo averci chiesto se accettavamo l'eredità, ci fece firmare alcune carte che fece anche firmare dagli altri due come testimoni, ci dette una copia dell'atto di proprietà e ci consegnò una busta sigillata, dicendoci che conteneva spiegazioni sull'ubicazione della cassaforte di Arabella e della combinazione per aprirla! Ci fece firmare anche una dichiarazione che ci aveva consegnato quella busta, ancora debitamente sigillata.

E così, ora, avevamo anche una casa, e che casa! Sì, è questa, anche se dopo il terribile terremoto del 1906 ho dovuto farla ristrutturare. La struttura portante era rimasta in piedi ma le pareti si erano malamente fessurate. Così ora non ha più lo stesso aspetto che aveva allora.

Tornammo alla casa di Arabella ed entrammo. Solo lì aprimmo la busta e, seguendo le istruzioni contenute, trovammo la cassaforte, che era ben dissimulata dentro un armadio della sua camera da letto su al primo piano. Riuscimmo a far scorrere a lato la parete di fondo, girai le manopole con la combinazione e la aprii. Non c'era molta roba: conteneva solo alcuni gioielli di Arabella, alcuni documenti, e in una cassetta di metallo, il denaro: non una vera fortuna, ma tutt'altro che una piccola somma.

Ci guardammo, Samuel e io, e finalmente riuscii a piangere, pensando ad Arabella e al fatto che ci aveva voluto bene tanto da nominarci suoi eredi. Lui mi abbracciò e pianse con me.

Rimettemmo tutto a posto. Poi, per la prima volta, esplorammo tutta la casa. Nel seminterrato c'erano cinque locali con la caldaia per il riscaldamento ad aria, il deposito della legna per la caldaia e i caminetti, vecchie cose, vini, conserve. A pian terreno c'erano la cucina, la sala da pranzo, un cesso, una camera da letto e uno studio-salotto-biblioteca. Al piano superiore c'erano la camera di Arabella, quattro altre camere da letto e un bel bagno con vasca e con cesso.

La casa aveva anche, sul retro, un cortiletto che dava sulla strada laterale grazie a un portale di legno, e un piccolo giardino semiabbandonato. Il tutto occupava un'area di circa 120 piedi per 60.

Man mano che si faceva il giro di tutte le stanze, avevamo tolto i grandi teli bianchi con cui Martha aveva coperto su mio ordine i mobili. Pensai che avrei dovuto assumere di nuovo Martha per prendersi cura di una casa così grande, anche troppo grande per noi due, ma non avevo idea di dove abitasse.

"Così abbiamo una casa, e che casa! Ma che ne facciamo? È troppo grande per noi due." dissi a Samuel.

"A me piacerebbe venire ad abitare in una casa così bella. Non potremmo affittare nuovamente le stanze come faceva Arabella?"

"Beh... sì, ma... come posso occuparmi sia della casa che del locale?

"Il club lo potresti affidare ai più vecchi dei ragazzi, che ormai sanno bene come gestirlo. Non credi?"

"Beh... non so. Comunque abbiamo tempo per prendere una decisione. Adesso torniamo al locale. È già quasi ora di pranzo e io ho proprio fame!" gli dissi.

Quando, quella sera, vidi arrivare il professorino, che veniva da noi quasi tutti i giorni, mi dissi che potevo chiedere consiglio a lui. Così gli chiesi se la mattina dopo sarebbe potuto venire di nuovo lì al locale perché avevo bisogno di un suo parere.

"Di mattina non posso, ho la scuola, le lezioni, lo sai. Ma se vuoi, finita la scuola, pranzo e poi vengo qui da te."

"Ottimo, ti aspetto domani dopo pranzo, allora." gli dissi.

Quella notte, chiuso il locale, Samuel e io facemmo l'amore, poi dormimmo ancora lì, nel nostro piccolo box. Non avevamo ancora detto niente agli altri ragazzi.

Quando, dopo pranzo, tornò Dick, con Samuel lo portai alla casa di Arabella... alla nostra casa, e gliela mostrai, gliela feci girare tutta, spiegandogli come ne ero venuto in possesso. Poi andammo a sedere nello studio.

Dick mi disse che l'idea di affittare le stanze poteva essere buona, e che aveva ragione Samuel a dire che il club poteva andare avanti sotto la supervisione dei ragazzi più esperti e in gamba.

Però mi disse: "Fred, tu a volte, là al club, racconti delle storie di avventure e amori fra uomini e ho notato che molti ti ascoltano più che interessati."

"Sì... per anni ho preso appunti sulle storie che ascoltavo là al club, e le ho trasformate dentro la mia testa e le ho mescolate, arricchite..."

"E le hai rese molto interessanti. E allora, pensavo, perché non ti metti a scriverle, non le stampi e non le vendi? Sono sicuro che tanti dei soci del club le comprerebbero."

"Che c'entra questo con questa casa?" gli chiesi. "E poi, io magari saprò anche raccontare, come dici tu, ma mica so scrivere bene."

"Non credo che le tipografie te le stamperebbero, dato il contenuto un po'... troppo audace, esplicito e... particolare, diciamo. Ma potresti stamparle tu qui. Sotto, nel seminterrato, hai abbastanza spazio per metterci un torchio o una platina da stampa, le cassette dei caratteri, eccetera."

"Ma io non ne so niente, di stampa..." obiettai, "E non so scrivere decentemente." ripetei.

"Il testo, se vuoi, te lo posso correggere io, lo farei volentieri..."

"E io... potrei andare a lavorare per un po' da un tipografo per imparare il mestiere, no?" disse Samuel.

Quello che mi convinse fu soprattutto la luce eccitata che vidi negli occhi del mio Samuel. Sì, lo feci soprattutto per lui. Beh, anche perché Dick si era offerto ad aiutarmi.

Allora dissi a Dick: "Accetto, ma ad un patto: che tu vieni ad abitare qui e che ti pago un salario."

"Che io venga ad abitare qui, mi farebbe anche comodo... ma il salario... io guadagno a sufficienza come insegnante e per te lo farei volentieri, per amicizia."

"O così, o non se ne fa niente." insistei io.

Allora Dick mi chiese: "Ma se mi trovo un bel torello che ci sta a montarmi, me lo posso portare qui?"

Risi: "Certo che sì, Ass Amory!"

Sì, quella fu la prima volta che, per scherzo, lo chiamai in quel modo.

Così, iniziò per me una nuova vita. Per prima cosa, chiesi a uno dei ragazzi, Chester Hearst, se gli andava di venire a fare i servizi in casa nostra, e accettò più che volentieri. Poi affidai il club ai ragazzi, che non solo accettarono entusiasticamente, ma mi proposero di mettersi in società e di rilevarla, pagandomi ogni mese una parte dei guadagni per comprarla. E infine, Samuel trovò lavoro presso uno dei migliori tipografi di San Francisco, in modo di imparare il mestiere.

Samuel e io riordinammo tutta la casa. Regalai tutti gli abiti di Arabella a Hernanda e Maria, che ne furono contentissime. Chester e Dick occuparono due delle stanze, perciò ne restavano solo due libere. Dick mi disse che se le avessi affittate a due sodomiti come noi, sarebbe stato assai meglio, saremmo stati tutti assai più liberi, e mi propose due suoi amici, che così vennero ad abitare con noi.

Fra i soldi che ogni mese mi davano i ragazzi del club e quelli che mi pagavano Dick e i suoi due amici, non avevo problemi finanziari. I soldi che mi aveva lasciato Arabella e quelli che avevo messo da parte, decisi di tenerli per comprare la platina e le cassette di tipi per la stampa. Mentre Samuel imparava a fare i lavori più umili e di base nella tipografia, ogni sera Dick gli insegnava a leggere e a scrivere, perché potesse poi imparare a comporre una pagina da stampare.

E io, ogni giorno, iniziai a dedicare alcune ore alla scrittura. Non era un compito facile, perché se anche sapevo scrivere, una cosa è mettere giù una lettera, un'altra e mettere giù una storia. Ma di nuovo Dick mi fu di aiuto. Quando avevo scritto qualcosa, gliela leggevo e lui mi dava consigli per riscriverla meglio.

"Descrivi più dettagliatamente il panorama... spiega meglio cosa sente, cosa pensa quel personaggio... rimetti in ordine i brani, perché costituiscano una sequenza più fluida, più scorrevole e logica..." mi diceva.

"Sì, ma quanti errori ho fatto?" gli chiedevo io, un po' vergognoso.

"Non ti preoccupare di quello. Quando avrai completato una storia, io la rileggerò e la correggerò. Ora non devi pensare a come scrivi, ma a cosa scrivi. Le correzioni sono l'ultima cosa."

"Ma pensi che davvero posso scrivere storie interessanti?" chiedevo ancora io.

"Sicuramente! Tu hai la stoffa del narratore. E vedrai che più scriverai, più sarai capace di scrivere."

Avevo ripreso i miei vecchi quadernetti, per ispirarmi per le storie da scrivere, edogni volta che ne usavo una parte, la sbarravo per non usarla di nuovo in un altro racconto. E stavo riempiendo nuovi quaderni.

Tutto questo non fu una cosa che mi prese qualche settimana o qualche mese. Anche Samuel, non imparò il mestiere in poco tempo, nonostante ce la stesse mettendo tutta, perché il lavoro del compositore-stampatore certamente non è semplice.

Samuel e io usavamo la camera che era stata di Arabella. L'avevamo un po' rimodernata, soprattutto cambiando le tende e i tappeti. Il grande letto era una meraviglia, e fare l'amore lì sopra era fantastico. A dire la verità era fantastico fare l'amore con il mio Samuel, e mi chiedevo come ci avessi potuto mettere un anno a rendermi conto che lo amavo. Samuel era semplicemente... amabile!

Si andava a letto abbastanza presto, perché sapevamo che fare l'amore non ci avrebbe preso poco tempo... In camera accendevamo, sui due tavolini da notte ai lati del grande letto, due candelabri con cinque candele ognuno, per avere abbastanza luce per godere anche con gli occhi della nudità e dei sorrisi dell'altro. Avemmo un grosso consumo di candele, in quel tempo!

Lo facevamo con calma, carezzandoci, abbracciandoci, godendoci l'un l'altro a lungo, prima di unirci. Era un crescendo di desiderio, una gara a darci piacere a vicenda. Facevamo l'amore letteralmente con tutto il corpo, finché ogni centimetro diventava una fonte di piacere. Poi, finalmente ci si cominciava a unire, spesso in un bel sessantanove, oppure alternandoci a succhiarcelo, una cosa di cui eravamo entrambi veramente golosi.

Ogni tanto si rallentava, per goderci più a lungo quei momenti così belli, per prolungarli, ma ad un certo punto non eravamo più in grado di contenerci e allora, a turno, ci si univa, donandoci l'uno all'altro. A volte stesi su un fianco, uno dietro all'altro, o stesi sul ventre, uno sull'altro, o sedendoci in grembo dell'amato, o più spesso, uno di noi sulla schiena, le gambe raccolte sul petto o ben divaricate e l'altro davanti: comunque, era sempre bellissimo.

Quando poi si era raggiunto il godimento, seguivano altri lunghi momenti di carezze, baci, abbracci... finché ognuno soffiava sulle candele dalla sua parte e, allacciati in un lieve abbraccio, si attendeva il sonno, a volte parlando di mille cose, ma il più delle volte in un beato silenzio pieno di rinnovato stupore per la bellezza del rito che avevamo appena compiuto.

Sì, è stato così fino all'ultimo, per più di quaranta anni. Come ti ho detto, anche se non spesso, sia io che Samuel abbiamo anche avuto qualche incontro di sesso con altri, per i più vari motivi, per le più diverse ragioni, ma mai di nascosto l'uno dall'altro. Queste... diciamo avventure, non incrinavano minimamente il nostro rapporto. Ma neanche, come pretende qualcuno, le ravvivavano. No, comunque non capitava affatto spesso, come t'ho detto.

Due o tre volte, per esempio, l'avevo fatto con Dick, prima che si mettesse con il suo partner di molti anni. Forse anche quattro, sinceramente non te lo saprei dire. Una sola volta l'abbiamo fatto in tre con Chester... fu gradevole... ma non più che tanto. In fondo era, suo malgrado un... intruso fra Samuel e me.

Samuel stava diventando bravo in tipografia, e io ero già riuscito a stendere tre novelle complete, che Dick aveva accuratamente corretto, e mi stavo accingendo a scrivere la quarta. Perciò decidemmo di cominciare a comprare il materiale necessario per impiantare una piccola tipografia nel seminterrato. Liberammo due dei cinque locali, quelli che avevano delle finestrelle verso il cortile e che erano i più vasti. Quindi iniziammo a cercare una platina tipografica e i set di caratteri, e tutte le altre cose necessarie, le interlinee, i quadri di unione, eccetera.

Logicamente se ne occupò Samuel. Pareva che né in San Francisco né a Sacramento, dove andammo appositamente, si trovasse nulla di seconda mano, così, anche se sarebbe costato più caro, si stava pensando di comprarli nuovi, ordinandoli nell'est e facendoci spedire il tutto via mare...

Ma un giorno, sul San Francisco Bulletin, Dick trovò un'inserzione: una piccola tipografia in "The Plaza", cioè in Porthsmouth Square di fronte all'ufficio postale, dovendo chiudere, svendeva tutte le sue attrezzature. Inutile dire che ci precipitammo tutti e tre, Samuel, Dick e io. E così avemmo non solo una platina da stampa, sei casse di tipi di diversi corpi e stili, con la apposita cassettiera che li conteneva, un piano inclinato da compositore, una taglierina a ghigliottina, ma anche inchiostro tipografico e molte risme di carta nonché tutta una serie di altri piccoli attrezzi utili. E il tutto a un prezzo decisamente conveniente.

Facemmo trasportare tutto nel nostro seminterrato e allestimmo la nostra piccola tipografia. E poiché l'impianto di illuminazione pubblica a gas era arrivato anche sulla via della nostra casa, ottenemmo dalla San Francisco Gas Company di allacciarvi la casa, così potemmo avere l'illuminazione a gas in tutte le stanze e soprattutto nella nostra tipografia privata, in cui la luce delle finestrelle, anche in pieno giorno, non era sufficientemente forte.

Avere l'illuminazione a gas delle stanze fu qualcosa di eccezionale: oltre ad essere molto più comoda delle candele, dava una luce bella, bianca, non tremolante, veramente fantastica. Anche fare l'amore, con quella luce, pareva una cosa più... bella!

E così il mio Samuel iniziò a comporre le pagine della mia prima storia. Io ero stupito, a guardarlo lavorare, per come sceglieva in fretta le varie lettere, le metteva in fila, al contrario, da sinistra a destra, per formare le parole, metteva gli spazi, finiva la riga, metteva la giusta interlinea e iniziava la riga seguente... procedendo dal basso in alto... E, finita una pagina, la serrava con gli appositi listelli, legandola poi ben stretta.

Poi andava alla platina a stampare una prima bozza, che Dick rivedeva e su cui, con strani segni (almeno per me), marcava tutti gli errori di composizione: una lettera sbagliata, capovolta, uno spazio che mancava e così via. Samuel correggeva quella pagina, stampava un'altra bozza e quando infine la pagina era corretta, metteva via il cliché.

Quando tutte le pagine erano finite, bisognava accoppiarle in modo di stamparne due alla volta nel modo giusto perché, una volta stampati e messi assieme tutti i fogli, piegato a metà il fascicolo, le pagine fossero nel giusto ordine. Allora bisognava cucirle assieme alla copertina, e infine rifilarle con la taglierina a ghigliottina. Un lavoro molto lungo, che richiedeva abilità e pazienza. Per cucire i fascicoli e aiutare Samuel, presi un altro dei ragazzi sottraendolo al club.

A proposito della copertina... Avevamo deciso di chiamare la serie "Lavender Cowboy", come sai. Questo perché la prima storia raccontava appunto di un lavender cowboy. Si trattava di fare una gradevole copertina. Decidemmo di usare fogli di carta beige. Sempre l'immancabile Dick, trovò un discreto disegnatore, che ci fece il disegno di un uomo languidamente appoggiato a una staccionata, vestito di brache di tela, camicia aperta sul petto, ma senza il classico cappello né il fazzolettone da cowboy, perché andasse bene per qualsiasi tipo di racconto, e una cornicetta che racchiudeva la figura, la scritta "Lavender Cowboy" e uno spazio vuoto in cui andava il titolo che sarebbe stato composto ogni volta.

Facemmo incidere quella figura da un bravo incisore che lavorava per le tipografie. Poi trovammo un inchiostro tipografico che, anche se non era di color lavanda come avrei desiderato, era di un viola chiaro passabile. Samuel poté così iniziare a stampare centinaia di copertine vuote. Le avrebbe poi stampate di nuovo, ma con l'inchiostro nero, aggiungendo il titolo di ogni racconto e in quarta di copertina l'indirizzo, il prezzo di un fascicolo, e la proposta di prenotare il numero seguente, con uno sconto per chi pagava anticipato.

Ogni volta che si cambiava il colore dell'inchiostro bisognava lavare tutti i rulli, ed era un lavoro lungo e sporco, perciò si cercava di farlo il più di rado possibile. Un problema, poi, era mantenere la giusta fluidità dell'inchiostro, perché se era troppo fluido traspariva dall'altra parte e rendeva quasi illeggibile il testo, ma se era troppo denso, non inchiostrava bene il cliché e restavano delle zone non stampate.

A te può sembrare tutto facile, ora che ci sono macchinari moderni... e soprattutto che non sei tu a dover fare quel lavoro! Ma ci eravamo imbarcati in una bella impresa. Però avevamo l'entusiasmo e forse l'incoscienza della giovane età.

Quando infatti uscì il primo numero, io avevo... ventinove anni, no, ventotto, perciò Samuel ne aveva ventisei e Dick trentatré. Tu eri ancora lontano da nascere e quasi certamente anche tuo padre.

Poiché la dotazione di caratteri che avevamo era limitata, per stampare il secondo numero bisognava disfare le pagine del primo numero e rimettere tutte le lettere di nuovo a posto nelle caselle. Quindi non sarebbe stato possibile ristampare un numero, perché avrebbe richiesto lo stesso lavoro che fare un numero nuovo.

Quindi, una volta che Samuel ebbe finito di lavorare alla composizione, dovemmo decidere in quante copie stampare il primo numero. Orbene, in quei tempi i soci del nostro club erano grosso modo una settantina. Certamente non tutti ne avrebbero comprato una copia, perché parecchi, specialmente i più anziani, non sapevano leggere. Pensammo che forse avremmo potuto venderne una cinquantina. Ma che forse, in seguito, poiché alcuni soci nuovi arrivavano di tanto in tanto, qualcuno avrebbe potuto desiderare avere un numero vecchio.

Insomma, dopo diverse discussioni, decidemmo di stampare cento copie del primo numero... Poiché nei vari passaggi si poteva perdere circa un cinque per cento delle stampe, partimmo con centodieci copie di ogni pagina. Renditi conto che andavano stampate un foglio alla volta. Cioè si montava un cliché nella platina, si infilava un foglio, si dava un giro alla ruota, si toglieva il foglio stampato, si infilava un nuovo foglio bianco, si dava un secondo giro alla ruota... così per centodieci volte ed era stata stampata solo una facciata, cioè due pagine della storia.

Poi si prendevano i fogli stampati da una parte, e li si stampava, uno per volta, dall'altra parte... e così via, finché tutti i fogli erano stampati da entrambe le facciate. Però c'era un altro problema: l'inchiostro dei fogli appena stampati non asciuga subito, perciò bisognava tenerli separati perché non si macchiassero uno con l'altro... Per questo tirammo tante cordicelle a cui erano appese delle mollette a cui si appendevano i fogli ad asciugare.

Il ragazzo, che poi avrebbe cucito i fascicoli con ago e refe, prendeva i fogli stampati e li appendeva ad asciugare, mentre Samuel stampava il foglio seguente. Un altro problema era che l'inchiostro ci metteva più o meno tempo per asciugare bene, a seconda del clima...

Una volta stampate sia le copertine che tutti i fogli interni da entrambe le parti, bisognava fascicolare, cioè sovrapporli nell'ordine giusto. Perciò avevamo fatto come degli scaffali lungo una parete, in modo di allinearci le cento copie. Una volta finito di fascicolare, si prendeva una copia, si allineavano bene tutti i fogli e la si piegava esattamente a metà, quindi la si poteva cucire. Finite di cucire le copie, si andava alla taglierina e le si rifilava, circa dieci alla volta. E finalmente i fascicoli erano pronti per la vendita!

Insomma era davvero un grosso lavoro.

Finita la prima copia, vedemmo che da quando si iniziava a comporre a quando si rifilavano ci voleva circa un mese, poco meno. Quindi potevamo produrre un racconto al mese.

A quanto avremmo dovuto venderli? Ci si lavorava in quattro: io a scrivere, Dick a correggere i miei scritti e le bozze, Samuel a stamparli e il ragazzo per aiutarlo... Se avessimo dovuto guadagnarci da vivere, anche molto modestamente, tutti e quattro, ogni fascicolo avrebbe avuto un prezzo proibitivo! Perciò bisognava vendere assolutamente sottocosto... D'altronde si era partiti a farlo più per divertimento che come investimento.

Dopo parecchie discussioni fra noi, decidemmo di provare a venderli per un dollaro l'uno, un prezzo ancora alto, in un certo senso, ma avremmo sempre potuto abbassarlo se non fossimo riusciti a venderli...

Portammo le cento copie al club, con il cuore che ci batteva...


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