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una storia originale di Andrej Koymasky


IL PORTINAIO CAPITOLO 4 - RICORDI...

Ormai si era in dicembre. L'amministratore gli aveva fatto vedere nella cantina dello stabile dove erano gli scatoloni con gli ornamenti natalizi e gli aveva detto di decorare l'ingresso entro l'otto dicembre poi di togliere tutto il giorno dopo l'Epifania. Gli fece vedere dove erano stati posti i gancetti alle pareti per tirare i fili a cui sospendere le decorazioni, e gli disse che il presepio andava messo in alto nello spazio fra le due rampe che dal portone a vetri portavano fino alla guardiola.

"Non si deve fare anche l'albero di Natale?" chiese Fausto.

"No. Uno vero urterebbe la sensibilità dei coinquilini Verdi o del Sole che Ride... e uno artificiale è brutto. Così s'è deciso di non farlo. Nello scatolone del presepio ci sono anche gli schermi di plexiglas, perché nessuno tocchi o porti via le statuette."

"Sono preziose?" chiese Fausto.

"Beh, non proprio preziose ma neanche a buon mercato. Sono statuette in legno della Val Gardena."

Portati tutti gli scatoloni nella guardiola, Fausto li aprì a uno a uno per controllarne il contenuto e capire come fosse meglio disporlo. C'erano palle di vetro molto belle, di varie dimensioni, traslucide come bolle di sapone, ghirlande rosse, verdi e oro, poi il presepio. C'erano ventiquattro statuette, le più alte erano di cinquanta centimetri circa, di legno chiaro dipinto con aniline trasparenti che non nascondevano le venature del legno.

Erano tutte molto belle, i volti e le mani perfetti. Fausto aveva notato che, solitamente, la Madonna aveva la faccia o da ochetta o da spiritata. Quella, no, aveva un bel volto di una ragazza sui diciassette, diciotto anni, semplice, acqua e sapone, sorridente con la tenerezza di una madre che guarda il figlio. Anche Gesù era come un bimbetto nato da poco, addormentato, dolcissimo.

Fausto non amava molto il Natale, non tanto per il suo significato che in fondo gli stava anche bene, quanto per i brutti ricordi che vi erano legati.


Era accaduto dieci anni prima... Lui aveva diciassette anni. Da tre aveva capito di essere gay, cioè da quando aveva avuto la sua prima esperienza sessuale.

Aveva riflettuto a lungo sulla propria sessualità, oscillando fra il cercare di negarla e l'accettazione. Ma gradualmente era giunto ad accettarsi, convincendosi che non era affatto un anormale, un depravato, un malato. Non gli era stato facile superare i sensi di colpa che l'avevano oppresso per quei tre anni, ma vi era riuscito, se pure a fatica.

Stava frequentando l'ultimo anno del professionale per meccanici. Chi l'aveva aiutato ad accettarsi, a capire che la sua era una situazione normale, naturale, che non aveva nulla di cui vergognarsi, era stato il suo professore di disegno. Tutti loro ragazzi avevano una grande stima e fiducia per quell'uomo, che si faceva in quattro per loro, che li incoraggiava, li consigliava, li sosteneva, e non solo per quanto riguardava il rendimento scolastico.

Così un giorno in cui l'ultima ora era quella di disegno, aveva preso il coraggio a due mani e gli aveva chiesto se poteva aspettarlo per parlare con lui.

"Sicuro, Fausto. Se vuoi, ti accompagno a casa in auto, così parliamo tranquillamente."

Fausto accettò subito, perché pensò che gli sarebbe stato più facile parlare mentre il professore doveva guidare e perciò non lo poteva guardare negli occhi.

Appena saliti in auto e il professore si fu inserito nel traffico, Fausto prese il fiato e disse: "Professore... io sono... io sono un finocchio!"

"Ah, gay vuoi dire?" l'aveva corretto l'uomo, in tono tranquillo.

"Sì. Che posso fare?"

"Scusa, Fausto, io sono italiano... che posso fare?"

"Cioè?"

"Ognuno di noi è come è, e può solo cercare di esserlo nel modo migliore possibile."

"Cioè... dovrei essere... un... gay migliore possibile?"

"Ti pare strano? Io cerco di essere un buon marito, un buon padre... poi anche un buon professore, eccetera... in una parola l'uomo migliore che riesco a essere."

"Ma essere gay... non è sbagliato?"

"Può essere sbagliato o essere giusto essere italiano? Non ha senso. Uno mica sceglie di nascere italiano, no? Però uno può essere un buon italiano o un cattivo italiano. Se io sono nato eterosessuale, non ne ho né merito né colpa. E così è per te."

"Ma... se suo figlio fosse gay?"

"Per me non cambierebbe proprio niente. Perché dovrebbe? Se si drogasse, se rubasse... allora sì che per me sarebbe un problema e un dolore."

"Ma allora, perché, professore, la gente disprezza tanto i gay?"

"Perché la gente troppo spesso è meschina: per sentirsi più in gamba, invece di impegnarsi a migliorare, disprezza gli altri. È più facile, è più comodo. C'è chi se la prende con gli ebrei, chi con gli zingari, chi con i gay, chi con gli immigrati... e chi più ne ha più ne metta."

"Ma anche la chiesa..."

"Vedi, caro Fausto, la chiesa parte dal presupposto di possedere una verità rivelata, perciò non è mai in ricerca della verità. Quando i fatti le danno torto in modo troppo evidente, cerca di... conciliare le cose, come ha fatto con le teorie copernicane, o con quelle darwiniane... o accogliendole in parte o dando un'interpretazione leggermente diversa delle verità che presumeva di possedere. Alcune chiese hanno accettato pienamente i gay, quella cattolica romana ancora no."

"Allora lei pensa che un giorno... anche la chiesa cattolica accetterà noi gay?"

"Spero di sì, perché finché non lo fa... costringe circa un decimo dei suoi fedeli a vivere in una situazione tragica. Ma temo che non sarà nell'arco della mia vita... e neanche della tua."

"Non è che m'importi molto, in realtà... Però non è bello dover continuare a nascondersi, a non poter essere se stessi davanti a tutti... essere disprezzati per qualcosa che non abbiamo scelto noi."

"Non è bello no, e né giusto. Pensa a quanti secoli... decine, centinaia forse di secoli ci sono voluti per giungere, almeno legalmente, all'abolizione della schiavitù."

"Sì... ma almeno uno schiavo poteva anche essere liberato dal suo padrone... io no." disse in tono sconsolato Fausto.

Ma aver parlato con il suo professore di disegno, gli aveva fatto bene e, soprattutto, l'aveva aiutato, finalmente, ad accettarsi del tutto.

Un paio di mesi dopo questo colloquio liberatorio, Fausto giunse alla decisione che doveva fare il suo "coming out" in famiglia. Decise di farlo nel giorno di Natale... la festa in cui tutti sono più "buoni"... quasi come un simbolo della sua "rinascita".

Così, dopo averci pensato su per diversi giorni, essersi preparato il "discorso", lo affrontò. Erano a tavola tutti assieme, i genitori, lui, i tre fratelli. Avevano finito di mangiare e la madre stava distribuendo a tutti una fetta di panettone.

"Papà, mamma... Io devo dirvi una cosa."

"Sì, Fausto?" disse il padre quietamente.

"Io sono gay."

Uff, l'aveva detto e spiava la reazione degli altri, un po' con il cuore in gola, ma fiducioso.

Vide un lampo di incredulità negli occhi del padre, la madre che posava la fetta di panettone, i fratelli che lo guardavano a bocca aperta. Alcuni secondi di silenzio perfetto, rotto solo dal lievissimo sibilo e gorgoglio del gas su cui era la moka da sei. La madre andò a spegnere il fornello e tornò al tavolo.

"Sei... cosa, tu?" gli chiese il padre mentre il suo sguardo si rannuvolava.

"Sono gay, papà." mormorò un po' intimorito Fausto.

"Non dire cazzate!" disse il padre a bassa voce.

"No, papà... Non sto dicendo cazzate."

"E... da quando?"

"Da... sempre, papà. Anche se ho cominciato a capirlo... solo circa tre anni fa."

"Chi è stato?" chiese il padre.

"Chi è stato... cosa?"

"A farti fare... certe cose? A farti diventare... così."

"Papà... nessuno. Non si diventa così, uno ci nasce." disse Fausto, sentendo che il cuore gli batteva lento, forte e sordo come una grancassa.

"Io e tua madre abbiamo cercato di educare te e i tuoi fratelli al rispetto e all'onestà. La famiglia è al centro della nostra vita. La famiglia... cioè uomo e donna... moglie e marito... e tu... tu adesso ci vieni a dire..." disse a voce bassa e dura il padre.

"Come puoi farci questo, Fausto? Non lo capisci che... è un colpo al cuore, per noi?" disse la madre con la voce che le tremava. "Ma poi... ne sei... proprio sicuro?"

"Sì, mamma. Io... ci ho provato ad avere una ragazza, lo sapete. Ma poi per onestà ho interrotto la relazione. Non funzionava e non era giusto né per lei né per me."

"Senti, Fausto... A parte che... avresti dovuto parlarcene a quattr'occhi e non di fronte ai tuoi fratelli..." disse il padre in tono duro.

"Perché, papà?" chiese uno dei fratelli.

Il padre non rispose, ma continuò: "... se hai questo problema... se non sei normale..."

"Papà! Ci ho messo quasi tre anni per accettarmi e capire che... che io sono normale. Io non volevo essere così... Ma non ci posso fare niente." disse Fausto.

"Come, non ci puoi fare niente! Noi t'abbiamo allevato bene, t'abbiamo insegnato l'onestà, quello che è giusto e sbagliato, cosa è bene e cosa è male!" disse in tono deciso il padre, alzando un po' la voce.

"Perché ci dai questa sofferenza, Fausto?" chiese la madre, sedendo e guardandolo con aria afflitta e incredula.

"Mamma, papà, ma io sono sempre quello che voi conoscete, e se sono fatto così..." ribatté Fausto.

"Quello che conosciamo? Col cavolo che sei quello che conosciamo! Credevamo di avere un figlio normale, pulito e invece..." disse la madre, sempre più agitata.

"Un omosessuale... un... diverso, un pedofilo, e magari ora ti dai pure alla prostituzione e comunque al peccato." disse il padre guardandolo come se non lo conoscesse, come se fosse spaventato, anzi, disgustato da quanto vedeva in lui.

"Papà, che cavolo c'entra la pedofilia e la prostituzione! E io sono onesto e pulito e..." insorse Fausto, incredulo.

Niente da fare. Più Fausto cercava di spiegare, più i genitori parevano arrabbiarsi con lui: non corrispondeva al figlio che avevano pensato di aver formato, perciò non lo accettavano.

Pensò di dire loro di andare a parlare con il professore di disegno... ma si disse che, finché si mostravano così certi che lui fosse anormale, non sarebbe servito a niente... e avrebbe solo creato problemi al professore. Per quanto cercasse di spiegare, non riusciva a istillare in loro neanche un'ombra di dubbio, anzi, li sentiva sempre più... nemici nei suoi confronti. Sempre più alieni.

Li pregò di documentarsi, di parlare con esperti, di... senza nessun successo.

A un certo punto chiese, esasperato: "Ma che devo fare, allora, eh? Andarmene da casa? Sparire?"

"Non dire cavolate. Se tu fossi drogato o un tisico, mica ti manderemmo fuori di casa, no? Sei sempre nostro figlio e... e faremo in modo di farti cambiare!" disse il padre.

"Ma papà, non sono un drogato che si può disintossicare, né ho la tisi che si può curare. Non più che si può disintossicare o curare te che ti piacciono le donne!"

"Ma che dici! Ma sta zitto, no? Come fai a dire queste cazzate?" esclamò il padre.

"Dio, che disgrazia. Dopo tutto quello che abbiamo fatto per te!" disse la madre, scura in volto, scuotendo la testa.

I fratelli tacevano; il più piccolo, mentre continuava a mangiare il panettone quasi di nascosto, lo guardava come se fosse stato un marziano verde con le antenne.

"E non è nemmeno che ti abbiamo viziato, noi. Ah, l'hai fatta bella, ci hai preso in giro per... per tre anni. E noi che ci fidavamo di te..." disse il padre.

"Ma io non vi ho preso in giro proprio per niente! Se non ve ne ho parlato prima... è perché pensavo che potevo cambiare, magari. Credete che a me non piacerebbe essere come tutti gli altri?"

"Quindi... lo vedi che anche tu capisci che è sbagliato, che è un brutto peccato!" disse la madre.

"No. Capisco che quelli come me hanno una vita difficile... e nessuno vuole avere una vita difficile. Però non posso cambiare, perché uno non può cambiare com'è fatto! Non posso farmi crescere una gamba in più o un braccio in meno, per quanto ci provo! Io sono normale, mamma! Ci ho messo tre anni a capirlo, ma adesso lo so!"

"Sì, normale come un vitello a due teste!" disse il padre. "Non capisci che, se anche fosse vero che tu sei nato così, sei solo uno scherzo della natura? Un brutto scherzo!"

"Dio, che vergogna." gemette la madre.

Niente da fare... niente da fare.

"Ma non può guarire, Fausto?" chiese uno dei fratelli, rivolto alla madre.

"Non c'è proprio niente da guarire, non è una malattia!" protestò Fausto, esasperato, sbatté la salvietta sul tavolo e se ne andò in camera.

Si gettò sul letto e scoppiò a piangere.

Così cominciò per Fausto un periodo difficilissimo. La madre sembrava evitare di guardarlo, gli parlava solo quando non poteva farne a meno e mai di cose intime, personali. Il padre lo trattava bruscamente, e gli faceva rilevare sempre le minime cose che poteva fare male o sbagliare, e con commenti sdegnati. Di colpo era diventato un reietto, proprio in casa sua.

"Sempre il solito disordinato. Mica siamo tutti al tuo servizio, signorino, no?" dicevano i genitori se per caso lasciava qualcosa fuori posto.

"Guarda che questa casa non è un albergo: mica puoi pensare di fare sempre il comodo tuo!" gli disse il padre, una volta che era arrivato un po' in ritardo a cena.

E poi: "Con chi esci? Chi è quel Toni, un degenerato come te? Dove andate, cosa fate, eh? Mica le vostre porcherie, no? E magari ci porti pure qualche malattia in casa..." e così via.

E anche i fratelli, pur essendo minori di lui, ora lo trattavano con disprezzo, probabilmente influenzati inconsciamente dall'atteggiamento dei genitori.

"Perché hai messo le tue cose sulla mia scrivania, frocio?"

Oppure, "E spegni quella luce, che voglio dormire, pedofilo!"

E ancora, "Che hai da guardarmi così, finocchio? Guarda che io certe cose non le faccio."

E anche, "Spostati, mezza femmina, lasciami passare."

Fausto un po' reagiva, un po' sopportava, ma la vita in casa era diventata un inferno. Un paio di volte aveva reagito agli insulti dei fratelli ed erano venuti alle mani e, logicamente, tutti in casa se l'erano presa con lui!


Sì, tutto era cominciato proprio nel giorno di Natale, perciò Fausto non amava il Natale.

Le statuette del presepio erano veramente belle, pensò, ma quella bellezza, che in altre occasioni avrebbe apprezzato, dato che amava l'arte, ora lo infastidiva. Comunque allestì il presepio, cercando di disporlo nel modo migliore possibile. Vi pose attorno gli schermi di protezione in plexiglas, dopo averli lavati accuratamente e asciugati con un panno molto morbido per non rigarli.

Poi prese la scala d'alluminio, tese attraverso i corridoi dell'entrata i forti fili di nylon trasparente, agganciandoli ai minuscoli uncini già predisposti che gli aveva fatto notare l'amministratore. Vi appese le belle bolle di vetro di diversi diametri e a diverse altezze, ma in modo che non fossero a portata di mano, poi coprì i tiranti di nylon con le ghirlande.

Sì, l'effetto d'insieme della decorazione era gradevole... se non gli avesse ricordato il Natale. Quella antica ferita, di quasi dieci anni prima, s'era rimarginata, ma ne restavano ancora le cicatrici. Non gli dava più dolore, ma certamente neanche piacere. Da nove anni non aveva più rapporti con nessuno della sua famiglia, e quel vuoto si faceva sentire, a volte. Forse anche perché al momento non aveva una relazione affettiva.

Stava scendendo dalla scaletta dopo aver sistemato l'ultima ghirlanda, quando sentì aprirsi la porta dell'ascensore. Era il signor Orlando Jacovoni.

"Oh, signor Picozzi, le decorazioni di Natale! Eh, il tempo passa. Complimenti, le ha disposte moto bene... con buon gusto. La vecchia portinaia, poveretta, non aveva molto gusto."

Il complimento, fatto dall'uomo che era un grafico pubblicitario e uno scenografo, gli fece particolarmente piacere. Jacovoni si fermò anche davanti al presepio.

"Anche qui ha fatto un ottimo lavoro. La povera signora Daniello disponeva le statuette quasi come pezzi su una scacchiera... tutti in fila. Lei invece li ha disposti proprio ad arte, in modo molto naturalistico. Bravo, bravo!"

"Grazie, signor Jacovoni, ho fatto del mio meglio. Le statuine sono veramente belle."

"Indubbiamente. Sono opera di Fabian Demetz, uno scultore del sud-Tirolo. Sono tutte eseguite interamente a mano, non al pantografo. Pezzi unici."

"Ho notato che sotto vi è incisa una F ed una D, infatti. Ma non vi è la data." disse Fausto, accostandosi all'uomo e al presepio. "La madonna è bella, il bimbo tenerello... e mi piace molto quel giovane suonatore di liuto..."

"Sì, concordo con lei. Credo che siano costate sui duecentocinquanta euro l'una, cioè circa mezzo milione di lire. E le valgono davvero. Nella riunione di condominio in cui si decise di acquistarle, stranamente furono tutti d'accordo."

"Caspita! Per questo sono protette dagli schermi di plexiglas. Ma... anche la signora Ravera era d'accordo?" chiese Fausto.

"La mia dirimpettaia?" sorrise Jacovoni scuotendo il capo. "Quel giorno era assente, se ricordo bene."

Man mano che si avvicinava il Natale, gli inquilini dello stabile iniziarono a portargli panettoni, bottiglie di vino e di spumante, e soprattutto buste con generose mance e ringraziamenti. Persino la signora Ravera gli dette una busta... con dentro un biglietto da cinque euro. Aveva ricevuto talmente tanti panettoni che ne donò anche ai suoi amici, però tenne le bottiglie di vino e le portò nella sua cantina privata.

Poiché le mance erano state abbondanti, decise di comprarsi un letto nuovo, da una piazza e mezza, e portò il suo vecchio lettino smontato, con il materasso, giù nella sua cantina. La camera da letto ora aveva poco spazio libero, ma indubbiamente il letto era molto più comodo.

Vedeva Renzo quasi ogni giorno, però non avevano più fatto l'amore. Quando andava via, a sera, si fermava abbastanza spesso a fare due chiacchiere con lui.

"Allora, Renzo, il Cianciulli è gay o no?" gli chiese Fausto una volta.

"Io continuo a pensare di sì, però... però non è che ne sono sicuro. Quell'uomo comunque mi fa arrapare sempre più. La madre è una donna in gamba, simpatica. Ha le sue piccole manie, si capisce, ma basta saperlo e regolarsi di conseguenza. Tratta meglio me che la donna di servizio. Le vado a genio, evidentemente."

"Beh, meno male, visto che te l'ho trovato io questo lavoro."

"Il Cianciulli, t'ha detto niente di me?"

"No... mi ha solo ringraziato poco dopo che t'aveva assunto, poi non mi ha parlato più di te. Cos'è, speravi che mi avesse fatto qualche confidenza riguardo a te?"

"No... così... Comunque continua a trattarmi bene, perciò penso che sia contento del mio lavoro. La madre certo non si lamenta di me, di questo sono sicuro."

"Ho visto che sei riuscito a convincerla a uscire ogni tanto, a fare due passi."

"Sì. Le fa bene, non poteva restare sempre chiusa in casa. La gente invecchia più in fretta quando smette di muoversi."

Il Natale passò. Poi venne la notte dell'ultimo dell'anno e i ragazzini dello stabile, con i genitori o i fratelli maggiori, andarono nel giardino posteriore a sparare i fuochi artificiali e i botti, fino a quasi le due di notte.

Era uscito anche Fausto, perché comunque non sarebbe riuscito a dormire con tutto quel fracasso. Notò che c'era Loris Pantaleo e anche il suo amico Gustavo Segni.

"Ciao, Gustavo. Ma da dove sei passato?" gli chiese Fausto.

"Dall'entrata. Lei aveva già chiuso la portineria così mi ha aperto Loris." rispose Gustavo.

"È stato a cena con noi, e passa la notte su da noi." gli disse Loris, allegramente, mentre piazzava una girella e la accendeva. "I suoi sono andati fuori per il cenone e Gustavo non aveva voglia di andarci."

"L'anno scorso c'ero andato... una pizza! Tutti colleghi di papà, che persino a mezzanotte non facevano che parlare di lavoro... mentre mamma con le altre mogli parlavano di cazzatelle, di moda, di parrucchiere e di TV."

"Ma non c'erano altri ragazzi?" gli chiese Fausto.

"Peggio dei genitori. Parlavano di calcio, di Formula 1, di abiti firmati, di auto... Tutte cose che non mi interessano!" disse Gustavo.

"E cosa ti interessa, allora?" gli chiese Fausto.

"I problemi di matematica. Di fisica."

"Io non sono mai stato forte in matematica, anzi, mi annoiava. Come fa a divertirti?"

"Evidentemente non ha avuto buoni insegnanti. È divertente, mi creda. E la storia della matematica è affascinante, vedere come pian piano i matematici ne hanno capito le leggi. Uno pensa che la matematica sia una cosa puramente astratta, e invece ha infinite applicazioni e sconfina nella filosofia, nella musica... in ogni cosa."

"E che farai, una volta finite le superiori?" gli chiese Fausto.

"Mi iscriverò a matematica e fisica, naturalmente. Mi piacerebbe diventare un ricercatore. I miei vorrebbero che studiassi farmacologia, dato che hanno una farmacia, ma davvero non mi interessa. Spero di convincerli a lasciarmi studiare quello che mi piace."

"Beh, auguri, allora." gli disse Fausto. "Io, di matematica... sì e no che riesco a fare i giochi che ci sono sulla Settimana Enigmistica... E il sudoku."

"Il sudoku è un esercizio di logica, più che di matematica. Infatti, invece dei numeri ci possono essere lettere, colori o simboli. Non necessita di fare calcoli." gli spiegò Gustavo.

"Vedi quanto sono ignorante!" commentò sorridendo Fausto.

"No, semplicemente non è il suo campo." ribatté Gustavo.

Fausto pensò che, se non il giorno dopo, il due sarebbe dovuto tornare in giardino a togliere i resti dei fuochi artificiali. Sarebbe toccato a Federico Ruocco, il giardiniere, ma in quel periodo veniva di rado, perciò preferiva pulire lui, almeno il grosso.

Gli inquilini cominciavano a tornare a casa, scambiandosi gli auguri. Fausto rimase ancora un po', quindi salutò a sua volta e tornò nel suo appartamentino. Si mise a letto. Il giorno dopo non doveva lavorare, quindi avrebbe potuto dormire fino a tardi.

Anche il nuovo anno, dopo il suo "coming out" in famiglia, era stato un anno orribile... tanto che ormai aspettava solo di compiere i diciotto anni per andarsene via da casa.

E dopo di allora, non aveva più avuto rapporti con la sua famiglia, non li aveva più visti, più sentiti. E dopo dieci anni... ancora gli mancavano, nonostante tutto.

Ora era cominciato un nuovo anno... Tanto per dire, perché dopo tutto è solo una convenzione che il nuovo anno dovesse iniziare il primo gennaio. Tutti i giorni erano uguali... tutti uguali.

Si addormentò con questo pensiero sconsolato in mente.


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