Fausto aveva messo via tutte le decorazioni di Natale e il prezioso presepio. Avrebbe voluto tenere come soprammobile il "suonatore di liuto", che gli faceva pensare a Guido Barisone, ma pensò che, non essendo suo, non sarebbe stata una cosa opportuna. Lo ammirò a lungo, prima di riporlo: era davvero molto grazioso. Lo carezzò lievemente, poi lo avvolse nella carta velina e ripose "Guido" con le altre statuine.
Qualche settimana più tardi, mentre stava leggendo un libro, scese Serse Jacovoni. Era un ragazzo di diciannove anni, aveva preso il diploma da grafico pubblicitario e ora lavorava nello studio del padre assieme alla sorella maggiore, Elisa.
"Scusa, Fausto, in casa c'è il termosifone del soggiorno che non scalda più... potresti per favore chiamare il tecnico perché venga a controllarlo?"
"Sì, certo. Quando gli devo dire di venire?"
"Quando può: se non ci siamo noi, c'è la donna di servizio e se arrivasse quando lei non c'è, o non ci siamo noi, se non ti dispiace potresti salire tu con lui. Le hai le chiavi di casa nostra, non è vero?"
"Sì... d'accordo, gli telefono subito."
"Cosa stai leggendo?" gli chiese il ragazzo.
"L'arte di vivere di Erich Fromm."
"L'arte di vivere? Non è una cosa relativamente semplice? Che arte ci vuole?"
"Molti pensano che per essere felici basta raggiungere il piacere, il potere, la fama e la ricchezza, e che l'unica cosa da imparare non è l'arte di vivere ma il modo per ottenere abbastanza successo da poter acquisire i mezzi per vivere bene. Ma riducono il vivere bene solo al benessere materiale... che in realtà non basta. Infatti, in tutte le culture ci sono stati maestri di vita e maestri di pensiero che proclamano che vivere bene è un'arte che va imparata, che imparare quest'arte richiede fatica, dedizione, comprensione e pazienza, e che è la cosa più importante da apprendere."
"E quale sarebbe il segreto per vivere bene, secondo quel libro?"
"I principi essenziali dei maestri di vita sono semplici: lo scopo della vita di un uomo, da cui derivano gli altri, è quello di sviluppare pienamente la propria umanità. Questo processo, nel corso del quale l'uomo, per così dire, partorisce se stesso, porta al benessere ed è accompagnato da gioia di vivere. L'uomo può raggiungere questo obiettivo solo nella misura in cui supera l'odio, l'ignoranza, l'avidità e l'egoismo, e cresce nella propria capacità di amore, solidarietà, razionalità e coraggio."
"Il senso che hanno anche molte religioni... eppure io non ci credo, alle religioni. Farsi un dio... tutti ne sono capaci, salvo poi, quando sono riusciti a far credere abbastanza gente al proprio dio, fare la guerra a quelli che si sono fatti un altro dio... e ucciderli in nome suo." disse Serse.
"Questo libro non dice che è necessario sottoporsi alle autorità religiose e filosofiche del passato, ma che da loro bisogna trarre insegnamento. Bisogna pensare criticamente, riconoscere che siamo condizionati da cattivi maestri, che si sono camuffati da maestri di vita e sono divenuti famosi e potenti anche se non sono riusciti a realizzare pienamente le proprie potenzialità umane."
"Il fatto è che ormai l'uomo è diventato solo una parte di una macchina, una componente che non può ancora essere sostituita da un elemento meccanico." commentò Serse. "E non è l'uomo a dominare la macchina, ma sono le macchine e l'intero sistema economico, a tenerlo prigioniero. L'uomo è importante in quanto è una rotella di un ingranaggio, necessaria al funzionamento del tutto, ma non in quanto essere umano vivo, ricco, produttivo."
"Eh no, io non mi sento solo una rotella di un ingranaggio! Cavolo, Serse, non è vero che l'uomo è dominato dalle macchine. Sarebbe come dire che l'uomo è dominato dalla forchetta che usa per mangiare: è comoda e la usa, ma può benissimo farne a meno. L'unica cosa di cui l'uomo non può fare a meno... sono gli altri uomini. Ma non tanto per quello che fanno, cioè, anche se qui non aveste un portinaio, ve la cavereste lo stesso. No. Ma per le relazioni che si hanno fra uomini. Tu e io siamo quello che siamo anche perché adesso stiamo qui a discutere. Io sono Fausto anche grazie a te, e tu sei Serse anche grazie a me."
Il ragazzo lo guardò interessato: "Non l'avevo mai vista così..."
"Non sei d'accordo? Io non sono più... Fausto perché ho l'auto o uso il televisore."
"Beh... sì... hai ragione. E questo che mi hai detto è tutto in quel libro?"
"Sì e no. Io, quando leggo, prendo i pezzi che mi convincono e... li digerisco, li faccio miei e li mescolo con altre cose che ho letto, o sentito, o capito e... anche questo mi fa diventare più Fausto."
"Diventare più Fausto. Una bella espressione. E quando sarai... totalmente Fausto?"
"Adesso... e domani... e dopodomani, fino al giorno della mia morte."
"Non hai paura della morte?"
"No. Non più che della vita. La morte... è brutta per chi resta, non per chi se ne va."
"Se uno morisse senza soffrire... sarei d'accordo con te."
"Nessuno ama soffrire, penso. Però non si deve neanche temere troppo la sofferenza, o si comincia già a soffrire prima del tempo. E mentre si soffre, più uno si compiange più patisce la sofferenza. Si autoinfligge sofferenza. Sai, quando alla TV fanno quegli stupidi programmi di medicina... mi sorprendo spesso a dirmi: cavolo, ho culo, io quella malattia non ce l'ho!"
"E... la sofferenza non fisica? Quella che ci infliggono gli altri perché non ci capiscono, non ci accettano, non ci apprezzano? O che magari ci infliggiamo da soli perché non riusciamo a essere come vorremmo?"
"Se io piangessi su me stesso perché non riesco a scolpire il Davide di Michelangelo, o perché mi rimproverano di non esserne capace... non sarei uno stupido?"
"Cioè?"
"Non si deve desiderare l'impossibile. Né si deve cercare di essere come gli altri ci vogliono. Si deve solo cercare di essere ogni giorno un po' migliori del giorno prima, punto e basta."
"Ma uno deve, perciò, tendere ad alte mete."
"Sì, ma... con pazienza e senza essere sicuro di riuscirci. Mettiamo che io ami molto la musica: bene, mi metto a studiarla, ma non posso pretendere, il giorno dopo, di essere già un grande cantautore, o un direttore d'orchestra o un compositore. Forse un giorno ci arriverò, anche se non è detto."
"Ma se non ci arrivi mai, non sei deluso?"
"No, perché frattanto mi sono divertito a studiare musica. Chi è che diceva che a ogni giorno basta il suo affanno? E io aggiungo: a ogni giorno basta quello che sei riuscito a fare. E sia l'affanno che il piccolo successo quotidiano, nello stesso modo, bastano a ogni giorno. Se oggi riesco a pulire bene le scale, ho ottenuto un risultato. E magari frattanto cercherò di iniziare a fare qualcosa che mi permetta un domani di essere qualcosa di più interessante che un lava-scale..." gli disse Fausto con un sorriso.
"Ma secondo te, la società progredisce? Non solo tecnologicamente, voglio dire, ma come valori."
"Se così non fosse, saremmo già scomparsi dalla faccia della terra. Come i dinosauri."
"Eppure ci sono ancora guerre, pregiudizi, crimini, malattie..."
"Nel nostro corpo ci sono migliaia di virus, bacilli, germi. Il nostro corpo, se è sano, li tiene sotto controllo, anche se non riesce a eliminarli. E se si ammala, si cerca di curare la malattia e di rimettere sotto controllo ciò che ha causato la malattia. Lo stesso, secondo me, è per la società. Ha i suoi virus: basta riuscire a tenerli sotto controllo o, se necessario, cercare di curarli."
"Ma se l'uomo non riesce a controllare la sua malattia, muore."
"Appunto. E la nostra società è ancora viva, anche se a volte sviluppa qualche malattia. Ognuno di noi deve trovare... o essere la medicina per farla guarire, prima che muoia."
"Hai una visione interessante della vita."
"Me la sto ancora costruendo." rispose Fausto con un sorriso.
"Io a volte... a volte ho voglia di andarmene da casa... per potermi fare la mia vita... a modo mio."
"Eppure, tuo padre non mi pare un rompipalle."
"No, non lo è, però... Quando mamma se n'è andata via da casa, Elisa e io eravamo abbastanza grandi per decidere con chi stare, e abbiamo scelto tutti e due papà. Ciò non ostante... a volte papà... e anche mia sorella, mi stanno... stretti."
"Io me ne sono andato via da casa quando avevo diciotto anni. La mia famiglia non mi stava solo stretta... mi stava soffocando... uccidendo. Ho resistito fino alla maggiore età e me ne sono andato... il giorno dopo del mio compleanno."
"Ma... avevi già un lavoro? E come hai fatto per la casa?"
Fausto glielo raccontò, pur senza dirgli tutti i dettagli, e sorvolò specialmente su quelli riguardanti la sua omosessualità.
Davvero non resisteva più in famiglia, si sentiva come un lebbroso, evitato, disprezzato, condannato, sospettato, giudicato da tutti, persino dai fratelli minori. Aveva anche cessato di cercare di ragionare con i suoi, di discutere, di tentare di farsi capire, di farsi accettare.
L'uomo di un suo amico, che aveva una stanzetta libera in casa, l'aveva ospitato provvisoriamente. Se n'era andato via da casa portando con sé poche cose: qualche abito di ricambio, alcuni libri, qualche CD, quasi nulla.
Poi s'era messo a cercarsi un lavoro, logicamente come meccanico, ma non aveva trovato nulla. Però era stato comunque abbastanza fortunato: dopo pochi giorni aveva trovato un posto in nero in un ristorante come lavapiatti e ragazzo di fatica. E dopo poco più di un mese, la proprietaria, soddisfatta di come lavorava, del suo atteggiamento, e anche a causa del suo bell'aspetto, l'aveva assunto regolarmente come cameriere.
Gli era sembrato di rinascere, dopo quell'anno di oppressione che aveva dovuto subire in casa, ed era fiero di sapersi mantenere da solo, anche se certamente gli era abbastanza facile, dato che Ruggiero, l'uomo del suo amico, lo ospitava gratis e che condivideva solo le spese di casa, senza dover pagare l'affitto della stanza.
Ma una notte, s'era svegliato provando una strana sensazione: Ruggiero, completamente nudo, s'era sdraiato sul suo letto e lo stava carezzando. Al tenue chiarore che proveniva dalla finestra, lo guardò.
"Che fai?" gli chiese stupito.
"Ho voglia di scopare con te, sei troppo arrapante." aveva risposto l'uomo, con un sorrisetto libidinoso e sicuro di sé.
"Ma tu stai con Sergio, no?" aveva detto Fausto, cercando di sottrarsi alle intime carezze dell'uomo.
"E che c'entra. Ho voglia di te. E poi, lui mica è qui."
"Non mi sento... dai!" aveva protestato Fausto.
Però si stava eccitando e Ruggiero se n'era accorto. "Come non ti va? Ma se ti sta venendo bello duro... Dai, che ci divertiamo!"
"No, dai... Non mi va di... di fare questo a Sergio, non è giusto."
"Oh, basta che non lo sa e va tutto bene. Dai, Fausto non fare il difficile, che non è proprio il caso."
Fausto aveva cercato di farlo smettere, ma senza troppa convinzione e Ruggiero s'era adoperato per farlo eccitare ben bene. Gli si sfregava addosso, lo carezzava, gli succhiava i capezzoli... Alla fine Fausto, che da un po' non aveva più avuto occasioni di fare sesso, gli si arrese e iniziò anche a partecipare.
Dopo averlo fatto eccitare con la bocca, Ruggiero si mise a quattro zampe e gli chiese di metterglielo. Fausto fu un po' stupito: aveva creduto che fra Ruggiero e Sergio fosse il primo quello che assumeva il ruolo attivo. Comunque si dette da fare.
Fu proprio solo una scopata, niente altro, qualcosa di poco più che meccanico, animale, pur senza dare un senso negativo al termine... d'altronde non poteva aspettarsi altro... comunque per Fausto fu uno sfogo.
Finito il tutto, Ruggiero se ne andò soddisfatto. Fausto però, anche se era fisicamente appagato, non era affatto contento, sia perché si sentiva in colpa nei confronti del suo amico Sergio, sia perché quella scopata era stata una cosa non desiderata.
Nei giorni seguenti si sentì fortemente a disagio; aveva preso l'abitudine di chiudere a chiave la porta quando andava a dormire, per evitare simili indesiderate sorprese, e perciò decise che doveva andarsene di lì e trovarsi un altro posto. Ora aveva un lavoro regolare, uno stipendio fisso, perciò poteva permetterselo.
Nel giro di pochi giorni trovò un bilocale, camera e cucina-soggiorno, con un bagno minuscolo ma con la doccia. Si entrava direttamente nella camera; era poco più di un monolocale, ma l'affitto costava poco. Era al quarto piano senza ascensore, ma questo non era un problema.
Poi era dovuto andare a fare il servizio militare. Era stato un periodo passabile, né veramente brutto né certo bello. Dopo il CAR, poiché aveva il diploma di meccanico, fu assegnato all'officina degli automezzi militari. Indubbiamente era un lavoro meno pulito che fare il cameriere, però gli piaceva ed era quello per cui aveva studiato, inoltre si impratichì meglio di motori.
Ed ebbe anche diverse avventure, sia in caserma che fuori.
Dopo che gli ebbe raccontato come se ne era andato via da casa, Serse gli disse: "Non è che io stia veramente male con mio padre e mia sorella. Lei a volte rompe un po', fa un po' troppo la... sorella maggiore. Ma niente di veramente insopportabile. Però... mi piacerebbe poter vivere da solo."
"È molto meno romantico di quanto può sembrare a pensarci... devi farti tutto da solo, e la casa richiede parecchio lavoro, se non vuoi gradualmente finire con il vivere in un letamaio. Spazza, lava, passa la cera, lava i vetri... E poi fai il bucato, stira, rammenda... E vai a fare la spesa, cucina, lava le stoviglie..."
"Ma tu l'hai fatto, no?" gli disse Serse, "e sei sopravvissuto. Anche adesso fai tutto. Non è tanto male, dopo tutto."
"No, d'accordo. E indubbiamente godi di una libertà che a casa, in famiglia non hai. Però, se avessi potuto, sarei uscito da casa più tardi."
"Erano così insopportabili, i tuoi?"
"Direi proprio di sì. I miei genitori non erano contenti di me... non ero venuto su come avrebbero voluto loro e me lo facevano pesare in tutti i modi. E di conseguenza anche i miei fratelli minori. Quando hai cinque persone tutte contro di te... non riesci a resistere a lungo."
"No... A casa mia non c'è niente di simile. Mia sorella non è male, e mio padre... avevo scelto io di vivere con lui invece che con mia madre, e non ne sono affatto pentito."
"Forse il fatto di lavorare con lui... ce l'hai tutto il giorno assieme, sia a casa che al lavoro."
"Il lavoro mi piace, mi piace molto. E papà è un vero creativo, mi piace lavorare con lui, sto imparando molte cose. No, non è per loro che ho voglia di andarmene da casa, è... per me."
"Sì, ti capisco. Ne hai parlato con tuo padre?"
"Sì..."
"E che dice?"
"Che... Non dice di no, ma è chiaro che non sarebbe contento se me ne andassi via da casa. Mi dice di aspettare, che sono ancora troppo giovane."
"Spesso per i genitori i figli non sono mai... abbastanza adulti. Però è anche vero che si diventa adulti proprio quando si esce di casa e si è pienamente responsabili della propria vita." gli disse Fausto con un sorriso di comprensione.
"Va be'... T'ho fatto perdere anche troppo tempo, Fausto, scusami. Allora ci pensi tu per il termosifone?"
"Senz'altro."
Telefonò subito all'addetto del sistema di riscaldamento e gli segnalò il problema. Il tecnico assicurò che entro le cinque del pomeriggio sarebbe andato. A quell'ora c'era ancora la collaboratrice domestica in casa Jacovoni, così Fausto non dovette abbandonare la portineria. Cercava di farlo il meno possibile.
Più tardi, mentre Fausto stava lavando il pavimento dell'ingresso, rientrò il giudice, Filippo Gamberali. Viveva da solo al sesto piano della scala A, da quando anche l'ultimo dei suoi tre figli s'era sposato. Aveva sessantatré anni, era vedovo, e aveva una donna di servizio che gli faceva i lavori in casa ogni mattina, mentre lui era in tribunale, esclusa la domenica.
L'uomo lo salutò con il solito sorriso: "Il nostro infaticabile Fausto! Da quando c'è lei in portineria, qui brilla tutto! Siamo stati fortunati che l'amministratore abbia trovato lei."
"Troppo gentile, signor giudice... Faccio soltanto del mio meglio." ringraziò Fausto.
"No no, quello che è giusto è giusto. Magari tutti facessero 'solo' del proprio meglio. E quello che mi piace di lei, Fausto, è che la vedo sempre sorridente."
"Ho letto da qualche parte che si adoperano meno muscoli per fare un sorriso che per essere accigliati..."
Il giudice sorrise: "Quindi... lei sorride solo per pigrizia?" gli chiese, divertito.
"Non proprio. Sorrido perché cerco di vedere il lato positivo delle cose. Certo che lei, con il suo lavoro, non avrà molti motivi per sorridere."
"È abbastanza vero, ma proprio per questo anche io cerco di vedere il lato positivo delle cose e di sorridere. Non è sempre facile. Vede, giovanotto, giudicare è una cosa assai difficile, impegnativa. Soprattutto perché c'è sempre il pericolo di sbagliarsi. Non a caso si parla di 'verità giudiziaria' e non semplicemente di verità. Una persona dichiarata colpevole o innocente in un processo, potrebbe in realtà non esserlo. Nessun giudice può sostituirsi a dio."
"Lei ci crede, in dio?"
"Sì... ma non mi chieda perché. Credere in dio è forse credere in una giustizia superiore, in una vera giustizia, a cui la nostra può tendere, ma che non potrà mai raggiungere. Inoltre un giudice non può e non deve rifarsi a un concetto astratto di giustizia, ma solo alla corretta applicazione della legge."
"Ma se un giudice pensasse che una legge è ingiusta, sbagliata?"
"Ha solo due scelte: applicarla anche se cercando contemporaneamente di fare quanto in suo potere per farla cambiare... o smettere di fare il giudice."
"A lei non è mai venuta la tentazione di smettere di fare il giudice?" gli chiese Fausto.
"E come! Soprattutto quando devo emettere una sentenza in nome del popolo italiano. Mi sembra... sbagliato, si dovrebbero emettere le sentenze in nome della legge italiana, non del popolo. Infatti un giudice non è scelto dal popolo."
"Ma le leggi le fanno i rappresentanti del popolo."
"Sì, è vero. Comunque dalla maggioranza degli eletti dal popolo, e non quindi di tutto il popolo. Inoltre è vero che, teoricamente, la legge è uguale per tutti, ma..."
"Solo teoricamente?"
"Sì. Vede, il vento, ad esempio, soffia nello stesso modo per tutti, ma può distruggere una casa fatta di assi messe assieme alla meno peggio e invece non scalfisce minimamente una casa fatta di solido cemento armato. Così è la legge: un poveraccio senza mezzi è meno difeso, che sia la parte lesa o chi lede, di un ricco che si può pagare fior di avvocati."
"Quindi è meno difeso."
"Esattamente. Proprio per questo affermo che la verità giudiziaria non è una verità assoluta. D'altronde, però, una società senza giudici non sopravviverebbe a se stessa, perché sarebbe preda di ogni genere di sopruso. E allora, come diceva lei prima riguardo a se stesso, anche un buon giudice deve cercare di fare del proprio meglio... avendo piena coscienza di poter sbagliare. Un po' come il medico... un po' come tutti noi, qualsiasi cosa si faccia."
Parlarono ancora un po', quindi il giudice salì in casa. A Fausto era piaciuta molto quella conversazione, e gli piaceva il giudice Gamberali. Aveva l'impressione che fosse un uomo molto equilibrato e anche gentile e riflessivo.
Certo, si disse Fausto, a parte l'insopportabile vedova Ravera, gli altri inquilini erano tutti, chi più chi meno, gente discreta. Con alcuni c'era poco più di un "buongiorno" e "buonasera", con qualcuno invece s'era gradualmente stabilito un buon rapporto. Lui era sempre pronto a dare una mano, anche al di fuori dei suoi stretti doveri di portiere, perciò gli erano tutti grati e lo dimostravano anche al di là delle mance.
Una cosa che evidentemente tutti apprezzavano in lui era che non faceva mai pettegolezzi, non riportava mai agli altri ciò che uno degli inquilini gli diceva. Ascoltava, se richiesto dava un parere, un consiglio, ma non interveniva mai. D'altronde non vi erano particolari problemi fra coinquilini.
A volte si vedeva ancora, dopo la chiusura della guardiola, con i suoi vecchi amici. Corrado s'era fatto il ragazzo, Arlens, un giovane albanese di ventidue anni che lavorava come muratore, a cui una sera dopo cena aveva dato un passaggio. Da un paio di mesi vivevano assieme e Fausto non aveva mai visto Corrado così sereno.
Arlens era un ragazzo simpatico, immigrato in Italia come irregolare quando aveva diciannove anni, nascosto nel sottofondo di un TIR che partiva da Spalato, con altri sei clandestini, e aveva anche rischiato di morire soffocato perché la presa d'aria era troppo minuscola.
Giunto finalmente in Italia, dopo che il TIR era stato scaricato dalla nave ad Ancona, aveva viaggiato verso il nord, ed era stato abbastanza fortunato da trovare un lavoro regolare, appunto come muratore, dopo otto mesi di vita da clandestino. In realtà Arlens aveva un diploma da maestro, ma non riusciva a trovare lavoro in Albania, perciò aveva deciso di tentare la fortuna in Italia.
Il ragazzo aveva avuto le sue prime esperienze sessuali con i compagni di scuola, quando aveva quindici anni. Ma mentre gi altri, crescendo, si orientavano gradualmente verso le ragazze, lui s'era accorto di preferire solo i ragazzi. Quando aveva diciassette anni, aveva avuto una segreta relazione di un anno e mezzo con un uomo sposato, un poliziotto di Valona, la sua città.
Quando Corrado, in occasione di quel passaggio, ci aveva provato con lui, Arlens c'era stato subito, perché s'era sentito attratto da lui. Non è che Corrado fosse particolarmente bello, Arlens lo era assai di più, però aveva un sorriso assai dolce e seducente.
Avevano fatto l'amore nel camioncino di Corrado, piuttosto scomodi... però era piaciuto a tutti e due e avevano deciso di rivedersi. E gradualmente s'erano innamorati uno dell'altro. A Fausto piaceva vedere come spesso Arlens sedesse in grembo a Corrado, e gli si accoccolasse contro con un senso di tenerezza che faceva piacere a vedersi.
In quelle occasioni Fausto pensava sempre più che gli sarebbe piaciuto avere anche lui un amante tenero e bello come Arlens. Dopo essersi lasciato con Gildo, aveva pensato che fosse meglio restare da soli e divertirsi ogni tanto; ma ora, vedere quella coppia così affiatata, gli fece riprovare il desiderio di trovarsi un amante anche lui.
A volte, quando andava a ballare il sabato sera, gli capitava di agganciare o di essere agganciato da un ragazzo e, se quello aveva un posto dove andare, ci faceva l'amore. Non aveva mai portato nessuno a fare l'amore nella portineria, per non avere problemi. Sarebbe stato diverso se fosse stato qualcuno che conosceva bene. Ma erano tutte avventure di una notte, senza seguito. Solo raramente avveniva che si incontrassero ancora: se la prima volta era andata bene, Fausto ci tornava. Ma, appunto, fino ad allora non aveva mai avuto nessun desiderio di legarsi di nuovo.
Fausto si rendeva conto che il sesso fine a se stesso gli dava poca soddisfazione. Era come mangiare panini tutti i giorni: nutre, è vero, ma stanca. Toglie la fame lì per lì, ma non dà una vera soddisfazione. La delusione che aveva avuto con Gildo, l'aveva fatto ripiegare su una... dieta di panini.
Si chiese, se avesse trovato un ragazzo con cui mettersi, se avrebbe potuto portarlo a vivere lì. Il problema non era solo, per così dire, legale, ma anche di come avrebbero reagito gli inquilini. Se si fosse sposato con una ragazza, non ci sarebbe stato nessun problema. Questo, pensò, era uno dei veri aspetti della discriminazione a cui sono soggetti gli omosessuali.
Ma, pensò, come aveva detto parlando con Serse, a ogni giorno basta il suo affanno: "Se troverò un ragazzo con cui voglio vivere, deciderò con lui come fare. Per ora è inutile che mi spacchi la testa."
Attraverso le vetrate vide arrivare Gustavo, l'amico di Loris. Come le altre volte, gli aprì prima che suonasse. Il ragazzo salì la scala e gli fece un sorriso e un cenno di saluto. Andò verso la scala A a prendere l'ascensore, mentre lui citofonava ai Pantaleo.
Rispose Loris. "Sta venendo su il tuo amico, Gustavo." lo avvertì.
"Ah, va bene, grazie." rispose il ragazzo in tono allegro.
Fausto mise giù la cornetta. Pochi minuti dopo sentì suonare il citofono e lampeggiò la targhetta dei Pantaleo. Rispose.
Era la signora Giulia, la madre di Loris: "Signor Picozzi, è già sceso mio figlio con l'amico?"
"No, signora."
"Gli può dire, per favore, di non dimenticarsi di passare a comperare il pane? Mi sono scordata di dirglielo."
"Senz'altro, signora."
"Grazie."
Fausto aspettò per qualche minuto, ma non vide arrivare nessuno dei due ragazzi. Era un po' stupito. Se non erano usciti dalla casa, dove erano andati? Si disse che forse erano scesi in ascensore fino al piano seminterrato dei garage. Ma Loris era troppo giovane per prendere l'auto della madre. Perciò, si chiese, che senso aveva andare sotto invece che uscire di lì?
Inoltre, i Pantaleo, abitando al settimo piano, non avevano la cantina ma una soffitta. Che fossero saliti in soffitta? Probabilmente era così, forse Loris aveva qualcosa da mostrare all'amico. Però alla madre doveva aver detto che uscivano. A meno che avesse capito male la signora Giulia.
Non ci pensò più. Dopo circa tre quarti d'ora, vide Gustavo uscire dall'ascensore e avviarsi verso l'uscita dello stabile, dopo avergli fatto il solito cenno di saluto e un sorriso.
Strano, si disse. Dopo pochi minuti vide arrivare anche Loris, che uscì e tornò dopo un po' con il sacchetto del pane.