Il conte Aldemaro Franceschini della Riva, professore di lettere antiche all'università di Pisa, aveva, agli occhi del regime, diverse colpe: non aveva voluto prendere la tessera del Partito Nazionale Fascista; aveva sposato una non-ariana, figlia di uno slavo e di una giudea; inoltre nelle sue lezioni e nei suoi scritti parlava troppo di tirannia, democrazia, libertà... Anche se non nominava mai il fascismo, era facile leggerne la critica fra le righe.
Uomo mite, ma intelligente e di forte carattere, avvertiva l'assedio stringersi attorno a lui. Non volendo coinvolgere la famiglia nelle sue scelte, in occasione dell'emanazione delle leggi razziali, nel 1938 aveva mandato la moglie e i tre figli, di dodici, quindici e diciassette anni, in Svizzera, ospiti di una sorella là maritata.
Nel febbraio del 1939 vennero ritirati dal commercio i libri di autori ebrei e antifascisti, nell'ambito della cosiddetta "bonifica culturale". Nell'aprile, alle quattro di notte, Aldemaro fu svegliato da un energico bussare alla porta del suo appartamento in via Consoli del Mare. Era sceso ad aprire e s'era trovato di fronte una pattuglia della milizia fascista. Il graduato gli comunicò che era agli arresti per propaganda eversiva. Lo seguirono in casa dandogli il tempo di vestirsi, gli misero le catene poi lo scortarono fino alla prigione.
Fu processato dal Tribunale Speciale per la difesa dello stato, la cui specialità consisteva nel fatto che il collegio giudicante non era costituito da magistrati, ma da ufficiali della milizia fascista, i quali si esibivano in divisa e in camicia nera. Gli fu negata ogni possibilità di poter parlare con un avvocato o di comunicare con i familiari.
Il Tribunale Speciale lo condannò a un anno di carcere, in stato di segregazione. L'anno in prigione passò quasi quietamente, soprattutto perché il direttore era stato un suo allievo all'università, che l'aveva stimato molto, e che quindi cercò di non farlo stare troppo male, compatibilmente con la vita di un carcere e con il regime di segregazione.
Ma poi, uscito dalla prigione, fu mandato davanti alla Commissione Provinciale per il Confino, che lo condannò a cinque anni da scontare sull'isola di Ventotene.
"Con ordinanza della commissione provinciale di Pisa in data odierna il conte Aldemaro Franceschini della Riva fu Ferdinando e fu Garelli Beatrice, nato il 31 gennaio 1898, di condizione professore universitario, è stato assegnato al confino di polizia per la durata di anni 5 (cinque) dall'onorevole Ministero dell'Interno e destinato alla colonia confinaria di Ventotene, per scontarvi il periodo di assegnazione."
Così, il 23 maggio del 1940 fu fatto imbarcare, assieme ad altri confinati, per l'isola. E ora era, oltre a qualche passeggero e a merci varie, sul vaporetto che faceva servizio per le isole. In piedi sul ponte, guardava la piatta distesa del mare, di un colore cupo, quasi funereo, sotto le pallide carezze del primo sole.
Il vaporetto tagliava silente le acque e procedeva con un lieve dondolio. Le catene ai polsi di Aldemaro tintinnavano lievi, battendo contro il parapetto del ponte. Il conte era in preda a una dolce malinconia, pensando alla sua famiglia lontana. Poco prima di lasciare la prigione, aveva ricevuto una lettera dalla sorella, dalla Svizzera, in cui gli comunicava che la moglie aveva intenzione di chiedere la separazione... che i figli stavano bene... e che periodicamente gli avrebbe mandato un po' di soldi al confino.
Guardava il mare silenzioso e deserto, ora lievemente agitato. Ecco che scorse l'isolotto di Santo Stefano, l'avanguardia di Ventotene, uno scoglio solitario su cui s'erge la mole del penitenziario costruito dai borboni e che era ancora usato per racchiudervi gli ergastolani o i prigionieri più "pericolosi", almeno dal punto di vista del regime fascista.
E infine vide Ventotene. Il vaporetto virò ed entrò nel porto. Il piccolo centro abitato, arroccato su un alto dirupo, con le sue case piccole e compatte, color ocra, rosa, grigio e bianco, e segnato dal castello e dalla chiesa, le uniche due costruzioni con una qualche pretesa di importanza, accolse i nuovi arrivati.
Sul molo, ragazzini vocianti all'arrivo del vapore, militi fascisti in attesa dei confinati; sullo sfondo della scenografia, la serie delle sei ampie rampe che a zig zag conducono fino alla chiesa e di lì anche alla piazza del castello. Su in alto, i confinati, a cui era proibito scendere giù al porto, attendevano i nuovi compagni di sventura.
Sulla sinistra si vedevano grandi arconi scavati nello scuro tufo, gli antichi magazzini del porto romano, sotto e davanti a cui alcuni isolani stavano riparando le loro reti da pesca. Anche questi avevano momentaneamente sospeso il loro lavoro e s'erano girati a guardare il vaporetto, che costituiva il cordone ombelicale che collegava l'isola alla terraferma.
La popolazione dell'isola, che ammontava a poco più di seicento persone, era più che raddoppiata, a causa dei circa ottocento fra confinati, la guarnigione tedesca, le forze dell'ordine italiane e i militi fascisti. E per questo, la proporzione fra uomini e donne, che prima era circa di uno a uno, era cambiata a favore del cosiddetto sesso forte, sì che ora sull'isola vi erano quattro uomini per ogni donna.
Vista dal mare, Ventotene sembrava brulla, un paesaggio desolato, le uniche note di colore contro le rocce laviche erano le casette con i loro tenui colori pastello, assolutamente prive di tetti, che le davano quasi l'aspetto di un villaggio arabo. Nella parte bassa dell'isola, il villaggio si rannicchia attorno alla mole vistosa del suo castello baronale.
Più in su le case sono disposte su quattro vie, parallele a due a due, via dei Granili e Muraglione da nord a sud, e via Calanave e degli Olivi da est a ovest, che delimitano un rettangolo il cui angolo inferiore e verso il mare è costituito dalla Piazza Castello.
Solo inoltrandosi nell'isola si sarebbe potuta vedere la sua bellezza selvaggia e inattesa, e si sarebbe scoperto che è coltivata intensivamente e che le culture sono sottratte alla vista di chi viene dal mare da muretti e da siepi di fichi d'India.
Vi crescono soprattutto tre piante, che sono le più resistenti all'asprezza del clima: fave, lenticchie e orzo. Ma gli isolani s'industriavano a ricavarne anche asparagi, carciofi, capperi, fichi, piselli, fagioli e qualche appezzamento era coltivato a patate. Ci sono poi le vigne, gli ulivi e i gelsi.
E qua e là, in primavera, fiammeggiano gioiosi i gialli cespugli delle ginestre in fiore. È una terra soffice, leggera, estremamente fertile, che si lavorava con la vanga e con la zappa. Infatti sull'isola non vi erano animali da lavoro né, perciò, un aratro.
Le costruzioni destinate ai confinati chiudevano il lato nord dell'abitato. Verso ovest lo spazio era vuoto: via degli Olivi e via Calanave si addentravano profondamente nell'isola, come due trincee fra alti muri a secco costruiti con blocchi di tufo, salendo verso Monte dell'Arco, la cui sommità è a soli centoquaranta metri sul livello del mare. Qua e là sorgeva qualche isolata masseria.
Alcune barchette si staccarono dal molo per scaricare la "merce" dal vaporetto. Alcune presero perciò i pochi passeggeri, altre i confinati con i carabinieri che li scortavano e altre, infine, la vera merce. Quando finalmente anche la barchetta su cui era attraccò, Aldemaro ne scese. Si guardava attorno, pensando che quella sarebbe stata "casa sua" per i prossimi cinque anni... e forse anche più, poiché sapeva che, anche senza un valido motivo, gli anni di confino potevano venire riconfermati.
Fra coloro che attendevano che fosse scaricata la merce, vi era, sul molo, anche Aniello Coraggio, un ragazzo di ventidue anni, figlio di pescatori, che aveva aperto un minuscolo bar tabaccheria lungo la via degli Olivi, i cui clienti erano soprattutto i giovani del posto e i confinati. Aniello, perciò, guardò con attenta curiosità i nuovi "clienti forzati" che prendevano terra.
Il suo sguardo fu subito attratto da uno dei confinati, cioè da Aldemaro. Il nuovo arrivato, oltre a essere vestito bene e ad avere un bel volto, un bell'aspetto, mostrava una tranquillità inusuale, una padronanza di sé non consueta nei condannati. Aniello sentì che doveva essere una persona speciale: a differenza di molti altri, si guardava attorno più come un sovrano che sta prendendo possesso del suo nuovo dominio che come un condannato che va tristemente incontro al proprio fato.
Tra gli sguardi curiosi dei paesani e dei piccoli, Aldemaro, guidato dai carabinieri di scorta, salì su per le antiche rampe, verso la parte alta del paese, ignaro dello sguardo attento con cui il giovane ex pescatore lo seguiva. Furono portati fino all'ufficio del direttore della colonia di confino, detta anche "cittadella confinaria", il dottor Marcello Guida. Qui finalmente gli furono tolte le catene.
Il funzionario, prese ed esaminò le carte che lo accompagnavano, poi gli consegnò un libretto dalla copertina rossa, e lo avvertì che non avrebbe mai dovuto separarsi da esso, doveva averlo sempre con sé. Era la cosiddetta "carta di permanenza". Al fondo del libretto vi era un foglietto, firmato dal direttore della colonia e che Aldemaro dovette controfirmare, intitolato "prescrizioni". Era la "summa" di ciò che un confinato poteva o non poteva, doveva o non doveva fare.
Prescrizioni:
- Darsi a stabile lavoro.
- Non allontanarsi dall'abitazione concessagli o consentitagli senza il preventivo assenso di questa direzione.
- Non rincasare la sera più tardi e non uscire il mattino più presto dell'orario precisato dall'art. 348 del regolamento per la legge di P.S.
- Non detenere o portare armi proprie o strumenti atti ad offendere. Non detenere o portare ferri di mestiere che rientrano nella categoria di strumenti atti ad offendere senza una esplicita autorizzazione scritta di questa direzione che ne preciserà la quantità e qualità.
- Non frequentare postriboli, osterie od altri esercizi pubblici.
- Non frequentare pubbliche riunioni, spettacoli o trattenimenti pubblici.
- Tenere buona condotta e non dar luogo a sospetti.
- Presentarsi tutti i giorni al capo-posto del corpo di guardia alle ore 13 dal 1° novembre al 28 febbraio, alle ore 11 e alle ore 16 dal 1° marzo al 30 aprile e dal 1° settembre al 31 ottobre, ed alle ore 11 e alle ore 17 dal 1° maggio al 31 agosto, per appelli diurni.
- Non detenere né comunque fare uso di apparecchi per trasmissioni o segnalazioni ottiche-acustiche.
- Non detenere né comunque usare macchine o congegni per la riproduzione meccanica o chimica dei caratteri, disegni o figure.
- Portare sempre con sé la carta di permanenza ed esibirla ad ogni richiesta degli ufficiali ed agenti di forza pubblica.
- Non tenere in fitto o comunque non accedere in abitazioni private.
Letto, confermato e sottoscritto...
Darsi a stabile lavoro? Aldemaro non chiedeva di meglio. Ma che fare? Insegnare? La piccola scuola pluriclasse per i bimbi dell'isola aveva già le sue maestre. Non vi era industria, sull'isola. E coltivare la terra, a parte che non sapeva farlo, era praticamente impossibile, poiché i campi erano fuori dai limiti del confino, a parte piccoli appezzamenti già assegnati.
Darsi al commercio, allora... Ma i pochi commercianti locali vi si opponevano con tutte le loro forze, non volendo una concorrenza che avrebbe ridotto i loro già magri guadagni. E anche darsi alla pesca sarebbe stato impossibile, dato che il mare era comunque fuori dai limiti del confino. Restava forse l'artigianato, ma... di quanti artigiani poteva avere bisogno una popolazione che non raggiungeva i duemila abitanti fra locali, forze dell'ordine e confinati?
Darsi a lavoro stabile! Pareva quasi una beffa, una presa in giro, fece notare Aldemaro al dottor Guida.
"Che volete, conte, queste regole sono stampate uguali per ogni luogo di confino. D'altronde, voi certamente avrete una famiglia che integrerà, mandandovi denaro, la diaria a cui avete diritto come confinato. Quindi non avete da preoccuparvi."
Le altre prescrizioni: non varcare il limite del confino; logico. Ma neppure cambiare di mensa o cambiare di posto in dormitorio senza la preventiva autorizzazione, non rincasare più tardi dell'ora fissata né uscire dai cameroni prima: d'accordo, non l'avevano mandato lì in vacanza.
Non detenere o portare armi proprie o strumenti atti a offendere, ferri del mestiere che siano atti a offendere, senza una esplicita autorizzazione scritta. Perciò neppure un coltello, un temperino, un cavatappi, un apriscatole... un paio di forbici o un rasoio di sicurezza?
Riguardo poi alla proibizione di frequentare postriboli, cinema, teatri... Aldemaro chiese quanti ve ne fossero in paese, e non fu sorpreso quando il Guida gli disse che non ve n'era neppure uno. Aldemaro sorrise e mormorò: "Dunque, nemmeno la tentazione di recarvisi c'è, su quest'isola. Non frequentare pubbliche riunioni, dice qui al punto sei... Ma si può almeno assistere alle funzioni religiose?"
"Vi rilascerò il permesso per recarvi in chiesa, se lo desiderate, signor conte."
"Oh, molto gentile..." mormorò Aldemaro con malcelata ironia. "Ma l'ultimo punto prescrive la possibilità di prendere in fitto un alloggio e dall'accedere in abitazioni private..."
"Se avrete i mezzi per prendere in fitto un alloggio o una stanza, fatte le opportune indagini, questa direzione potrebbe rilasciarvi un permesso speciale. Ma non sarà facile, ciò che era disponibile è già stato preso dai nostri ospiti più abbienti e... meno pericolosi."
"E che mi dice riguardo a scrivere lettere e inviarle, riceverle?" gli chiese Aldemaro.
"È indispensabile un'autorizzazione ministeriale... Ma vedo che già l'avete..." disse il dottor Guida, sfogliando gli incartamenti di Aldemaro. "Dovrete però imbucare la vostra corrispondenza solamente nella buca speciale, che vi sarà mostrata."
"Già, capisco, affinché la censura verifichi ciò che scrivo, prima di inoltrare le mie missive."
"Logicamente." disse il funzionario.
"Logicamente." gli fece eco Aldemaro.
Lasciato l'ufficio del direttore, fu accompagnato a fare la prescritta visita medica. Era medico condotto e ufficiale sanitario, a Ventotene, il dottor Silverio D'Atri, giunto sull'isola solo l'anno precedente. Mentre attendeva il suo turno per la visita, Aldemaro vide alla parete della sala d'attesa una cornicetta contenente una poesia vergata in elegante calligrafia:
La mia giornata.
Siccome un cappuccino questuante,
esco al mattino e vò di porta in porta,
recando a sera la segreta scorta
di lai querele e lagrime abbondante.
Volti emaciati dal respiro ansante,
occhi lucenti per la febbre insorta,
lamenti piaghe, carne sfatta e torta
da morbi o convulsione conquassante
sono il caleidoscopio mio vivente,
che di pietà m'accende mente e cuore,
facendomi sentir che siamo niente.
E reco, col sudor d'una giornata,
il vino del dovere e dell'amore
e insieme il fiele d'una lotta ingrata.
Silverio D'Atri
Aldemaro sorrise; il medico era dunque anche poeta, anche se certo non di grande levatura letteraria. Quando venne il suo turno, il dottore controllò le carte mediche giunte dal carcere di Pisa con il suo fascicolo, lo visitò e confermò che era in ottima salute.
E finalmente fu assegnato a una camerata, dove trovò la sua valigia che aveva viaggiato con lui, ma che aveva perso di vista. Quanto gli sembrava strana quella prima lontananza da Pisa, quel primo viaggio fatto in mare per raggiungere il suo luogo di detenzione in un'isola sconosciuta, lontana, senza alcuna persona cara accanto a sé! Eppure Aldemaro infondeva coraggio al proprio animo, un po' stanco e dolente, velato di amarezza.
Quando uscì dalla camerata, fu accostato da un altro confinato, un certo Cesare Soldi, che con atteggiamento talmente indifferente da fargli subito capire che era stato incaricato di sottoporlo a un esame, iniziò a chiacchierare con lui e a fargli domande.
In seguito Aldemaro capì che quel Cesare era uno degli incaricati di stabilire i contatti: quando arrivavano nuovi confinati doveva fare, lui o qualcun altro, "l'accostamento" per sentire come fosse stato arrestato, di che tendenze politiche fosse, per appurare se aveva denunciato altri compagni, e così via. E quindi inquadrarlo in una delle categorie dei confinati.
Ma, forse per il fatto che era stato professore, Aldemaro aveva una sua abilità a far parlare, a interrogare, sì che, più di quello che disse all'altro, fu quanto lui riuscì a ottenerne.
"E quali... categorie di confinati vi sono, qui?" chiese al Soldi.
"Gli internati qui sono oppositori politici italiani e stranieri, italiani 'pericolosi' per il regime, ma anche pregiudicati per reati comuni e individui sospettati di spionaggio e di attività antinazionale. Almeno la metà dei confinati politici sono comunisti o socialisti, poi vi sono quelli di Giustizia e Libertà, cioè i giellini, poi gli anarchici, gli azionisti, i repubblicani..."
"Un po' di tutto, insomma." interloquì e commentò Aldemaro.
"... gli omosessuali, e infine i cosiddetti 'manciuriani', cioè i condannati al confino per i più svariati motivi, per crimini comuni. Sono i più pericolosi: pur di avere qualche privilegio, fanno le spie per i fascisti."
"Anche omosessuali? Detenuti politici, gli omosessuali?" chiese lievemente stupito il giovane conte.
"Sì. Per effetto delle nuove leggi sulla difesa della razza che il fascismo ha promulgato scimmiottando quelle tedesche, gli omosessuali ora sono classificati come detenuti politici, con la motivazione che 'i pederasti non contribuiscono alla crescita delle famiglie' e, dunque, sono potenzialmente eversivi."
"È quasi divertente."
"Ci sono, fra noi confinati, anche degli antifascisti generici, una minoranza politica mista e, su un altro versante, i Testimoni di Geova, alcuni ras e notabili abissini catturati al tempo dell'invasione dell'Etiopia e un gruppetto di albanesi di cui alcuni avevano frequentato anni prima il corso allievi ufficiali di Torino, erano fuggiti, avevano combattuto in Spagna contro i fascisti, poi, al rientro in Italia, sono stati arrestati e buttati qui."
"Un vero giardino zoologico." commentò Aldemaro con un sorriso. "E com'è qui, la vita quotidiana? A parte le prescrizioni, che il signor direttore mi ha fatto sottoscrivere."
"Le prescrizioni... sono solo una piccola parte di tutte le cose che ci impediscono di fare qui."
"E che altro, dunque, ci è proibito?" chiese stupito il conte.
"Non si può far prestiti e quindi neanche contrarre debiti. Non si può parlare in una lingua estera; leggere giornali esteri, o giornali e libri non autorizzati; scrivere su quaderni o su agende o su fogli non timbrati dalla direzione; leggere un giornale ad alta voce perché altri sentano; commentare le notizie del giornale o della radio; parlare di politica, di uomini politici, di guerra; o parlare o comunque fare rumore durante le ore di riposo prescritte dal regolamento."
"Ah, anche per scrivere, è necessario farlo su fogli timbrati dalle autorità? Questa, poi..."
"E non è finita. Ci è anche proibito entrare in un camerone che non sia il nostro; cucinare e mangiare nel camerone e portarci vino; mangiare in compagnia fuori della mensa o in mensa fuori dell'orario e trattenersi in mensa al di là dell'ora dei pasti; entrare nei locali della Direzione senza giacca o con il cappello in testa e in più di uno alla volta; tenere in tasca più di cento lire e quindi anche prelevare più di cento lire settimanali dal proprio libretto della Cassa di Risparmio."
"Pure questo? Ci vengono a contare quanto denaro abbiamo in tasca?"
"Sicuro, a volte lo fanno. In certi periodi, poi è vietato portare calzoncini corti; tenere il materasso non arrotolato sulla branda; mettere le brande o i materassi al sole; stare a torso nudo sui piazzali, sedervisi o sedersi sui muretti dei piazzali stessi; sostare accanto al padiglione delle confinate..."
"Ma allora... cosa si può fare? Credo che la lista delle cose permesse sarebbe assai più breve, a questo punto."
"Beh... Si può dormire tutto il giorno, purché non nell'ora degli appelli; passeggiare tutto il giorno, ma non più di due assieme: tre è già un assembramento sedizioso; si può leggere e scrivere, purché testi autorizzati e su fogli timbrati; giocare a scacchi e a dama, se vi piace, ma non a carte né alla morra; andare a piedi nudi e con i calzoni rotti; affacciarsi agli usci delle case..."
"Beh... forse per ora basta così... imparerò gradualmente ciò che mi è permesso in questo paradiso e ciò che non lo è."
"Sì, lo imparerete, certo: a vostre spese." commentò l'altro.
"E che non si ottiene, in questa vita, se non a proprie spese. Ma lei... perché è ospite di questa villeggiatura di stato?"
"Noto che non date del voi ma del lei... Non sapete che non è visto di buon occhio, qui?"
"Fa parte della mia residua libertà. Parlare al plurale a una sola persona, mi pare quasi di incasellarla in una categoria. Voi fascisti, voi comunisti, voi uomini, voi donne, voi studenti... È già ridicolo dare del voi al re o al papa... così come è ridicolo il plurale majestatis."
"Siete di tendenze anarchiche?"
"Faccia lei. Libertà è anche rifiutare di essere etichettati o, se non lo si può evitare, almeno non appiccicarci addosso etichette da soli. Io ero professore, eppure, non faccio parte della categoria dei professori."
"Parlare di libertà qui, è pericoloso."
"Mi pare che semplicemente parlare sia pericoloso, ormai, in Italia e non solo qui a Ventotene."
Salutato Cesare Soldi, Aldemaro fece un giro nel centro abitato, e prese mentalmente nota dei vari punti segnalati da cartelli che avvertivano che i confinati non potevano oltrepassare quel punto e sorvegliati, solitamente, da uomini della milizia fascista. Pensò che aveva in tasca più di cento lire... perciò si informò dove fosse uno sportello della Cassa di Risparmio. Vi era un solo sportello in una modesta stanzetta; vi entrò ed aprì un libretto di risparmio. Si sarebbe fatto mandare i soldi dai parenti su quel conto.
Poi, andò a pranzare in una delle sette mense gestite dai confinati. Infatti aveva saputo che non poteva andare a mangiare nelle poche osterie del paese. Molti lo guardarono, ma nessuno gli rivolse la parola, al più un cenno di saluto o un "salve", un "buongiorno".
Nel pomeriggio, decise di andare a chiedere di essere nuovamente ricevuto dal direttore. Il dottor Guida lo accolse gentilmente, mostrandosi solo un po' meravigliato che fosse già di nuovo lì. Aldemaro gli chiese l'autorizzazione ad avere quaderni con i fogli timbrati, per poter scrivere, autorizzazione che gli fu accordata.
"E che cosa intendete scrivere?" gli chiese il direttore con un sorriso che sembrava bonario.
"Ciò che vedo, ciò che osservo. Io sono un fotografo..."
"Un fotografo? Non siete un professore universitario?"
"... un fotografo che usa la penna al posto della macchina fotografica. Che d'altronde qui mi sarebbe impedito di avere."
Ottenuti i quaderni con i fogli timbrati, acquistato un calamaio, un'asticciola e alcuni pennini, una carta assorbente, portò il tutto nel camerone del dormitorio. Non aveva ancora voglia di mettersi a scrivere: aveva ancora troppe cose da vedere, da osservare, in quella nuova prigione a cielo aperto, chiamata confino.
Camminando lentamente lungo via degli Olivi, guardandosi attentamente attorno per assorbire tutti i dettagli della stretta via e delle vecchie e umili case, passò davanti al caffè-tabaccheria in cui lavorava Aniello Coraggio. Il conte non lo notò, ma nuovamente il ragazzo lo vide: pensò che era davvero un bell'uomo, molto distinto, raffinato, e con un'espressione serena.
Poi girò a sinistra e si inoltrò per via del Muraglione e proseguì per via dei Granili, guardando giù verso Cala Rossano e il Porto Nuovo. Ma dopo poco dovette tornare indietro, perché aveva raggiunto il limite della zona permessa ai confinati. Preferì non avvicinarsi troppo ai militi di guardia, quindi fece dietro-front appena li vide.
Continuando a gironzolare, passò davanti alla farmacia, allora entrò ed acquistò un tubetto di aspirine. Gli erano necessarie per poter scrivere alla sorella a Lugano le cose che non poteva mettere apertamente nero su bianco. Sciogliendo un'aspirina nell'acqua, "simpatizzava" i suoi messaggi nascosti.
La prima volta che l'aveva fatto, scrivendo dal carcere di Pisa, la sorella non aveva capito ciò che sperava di farle sapere, perciò la volta seguente, aveva scritto, in chiaro: "quando mi capita di essere raffreddato, o se ho la febbre, prendo un'aspirina tutte le sere: sembra che non faccia effetto, ma col caldo tutto torna a posto. Sì, col caldo e con l'aspirina, come sai bene, si capisce..."
Poiché la sorella in seguito gli aveva fatto avere e sapere quanto chiedeva, aveva capito che aveva afferrato il messaggio. Anche perché, da piccoli, era stato il padre ad aver insegnato loro quel trucchetto degli inchiostri simpatici. Evidentemente e fortunatamente i padri degli addetti alla censura non lo sapevano. Aldemaro teneva uno dei pennini sempre pulito, quello riservato alla scrittura dei suoi messaggi "simpatizzati".
Avrebbe voluto poter scendere giù, andare in spiaggia, ma era fuori dai limiti permessi. Sospirò e si riavviò lentamente verso le costruzioni riservate ai confinati, infatti si stava avvicinando l'ora della cena. Il suo primo giorno al confino stava volgendo al termine.
Certamente era meglio che essere racchiusi in una cella di prigione, in isolamento, però si rendeva conto che, dopo tutto, si trovava solo in una cella più ampia della precedente, e che comunque, dato che lui non faceva parte di nessuno dei gruppi politici, di partito, il suo isolamento sarebbe comunque proseguito, se pure in un modo assai più blando.
Giunta l'ora della cena, si recò in una delle mense gestite da un gruppo di confinati e mangiò tranquillamente. Accanto a lui sedeva un uomo di circa dieci anni più vecchio di lui, dall'aspetto raffinato, che si presentò. Aveva un pizzetto ben curato e sottili baffi castano scuro, occhi grigi, e un'incipiente pinguedine.
Si chiamava Carlo Ferraris, proveniva da Bologna ed era un violinista. Né Aldemaro gli chiese perché fosse stato mandato al confino, né il Ferraris lo chiese a lui. Parlarono di musica, di arte, come se nulla fosse, come se si fossero trovati in un ristorante, o un "ristoratore" come il regime fascista voleva che fossero chiamati, volendo evitare la desinenza "francesizzante" in "ante".
Quando decise si ritirarsi in camerata per dormire, scoprì che Carlo Ferraris aveva il letto accanto al suo. Si tolsero gli abiti, senza guardarsi, quasi per avere l'intimità che non gli era concessa, restando con i soli indumenti intimi indosso, e si infilarono ciascuno nella propria brandina. Si augurarono la buona notte.
Qua e là si sentivano sussurri, lievi rumori che gradualmente si attutirono e cessarono, per essere presto sostituiti dai respiri pesanti degli uomini addormentati e da qualche lieve ronfare.
Aldemaro non riuscì ad addormentarsi subito: dopo un anno di isolamento, il semplice fatto di dormire in una camerata con molti altri, era un cambiamento troppo grande. Si chiese come sarebbe stata la sua nuova vita... Pensò ai figli che crescevano lontani da lui, senza di lui... A sua moglie che aveva voluto separarsi da lui.
Sentì in sé una sorta di stupore nel constatare come tutto ciò non gli stesse pesando eccessivamente, come dopo tutto stesse affrontando ciò che gli capitava con strana tranquillità. Provava quasi uno stato di atarassia, quella imperturbabilità e serenità d'animo che secondo gli epicurei e gli stoici derivava dal dominio e dall'estirpazione di ogni passione.
"Sarà!" si disse girandosi su un fianco e ripiegando lievemente le ginocchia, cercando una posizione comoda per addormentarsi. Il sommesso guaito di un cane entrò dalla finestra. Qualcuno tossì nel buio. E finalmente il sonno appesantì le sue palpebre e il mondo fu chiuso fuori dalla sua coscienza.