Conoscete la Baia delle Grazie? È quella deliziosa cala su cui si affaccia l'antico borgo omonimo vicino a Portovenere, di cui amministrativamente fa parte. È un piccolo scrigno sul lungomare, dolce, quieto, incorniciato dalle palme, arroccato in fondo a una profonda insenatura e circondato da calette pescose.
In una di queste, da ore, Osvaldo Cozzani stava seduto sul vecchio molo semidistrutto dalle mareggiate e non più utilizzato, in paziente attesa che abboccasse ancora qualche pesce.
In quel bel borgo alle spalle delle Cinque Terre, sito tra Portovenere e La Spezia, il paesaggio è tipico di un villaggio di mare, dove la pesca era, se non l'unica risorsa, per lo meno la principale.
Dopo che i suoi genitori erano morti, Osvaldo aveva scelto come propria abitazione un capanno che sorgeva a poca distanza dalla spiaggia, a pochi passi dall'antico molo, in cui viveva tutto solo, quasi come un eremita, pur essendo ospitale come si dice siano i pastori sardi, e al tempo stesso fiero come un antico guerriero ligure.
Molti dei ragazzi del borgo lo frequentavano abbastanza spesso e sempre volentieri, sia perché il giovanotto era sempre pronto a insegnare loro qualche speciale tecnica di pesca, perché insegnava loro come intrecciare una rete o ripararla, come scegliere le giuste esche per i vari tipi di pesce, e le ore giuste per andare a pesca, sia perché con lui potevano parlare di qualsiasi argomento senza problemi.
Osvaldo aveva trentatré anni, benché ne dimostrasse qualcuno in più, probabilmente a causa della pelle brunita dal sole, delle rughette agli angoli degli occhi, adusi a scrutare nel mare. Era un tipo che amava molto stare da solo, eppure accoglieva sempre con sincera buona grazia chi andava fin lì per cercare la sua compagnia e ne gradiva le visite.
Quel giorno, erano scesi fino al suo appartato regno tre dei ragazzi del borgo. Osvaldo li aveva visti arrivare, e aveva risposto ai loro ampi gesti di saluto, agitando un braccio e sorridendo.
Li conosceva tutti, si può dire, anche se alcuni si facevano vivi più spesso, altri meno. Questa volta riconobbe Carlo, col suo caratteristico grande ciuffo biondo, Marcello, dai capelli ramati e Sergio, il più giovane dei tre eppure il più ben fatto, un ragazzo appena sedicenne, che portava i capelli castano scuri sempre meno lunghi di un dito, e che perciò gli stavano dritti in capo come una spazzola.
I tre ragazzi, giuntigli accanto, sedettero sul molo, le gambe penzoloni verso l'acqua, mentre lo salutavano. Per un po' nessuno di loro parlò. Guardavano tutti e quattro verso il mare. A differenza dalla gente di città, sapevano anche gustare il piacere sottile di una vicinanza silente.
Marcello a un certo punto, sempre guardando avanti a sé, gli chiese: "Osvaldo, ma tu non ce l'hai la ragazza?"
Il giovanotto non rispose subito. Dopo un po', in un tono quieto, chiese, sorridendo fra sé e sé: "È tanto importante, secondo te, Marcello, avere una ragazza?"
"Secondo me, sì. Io non vedo l'ora di farmene una."
"Tu sei... grande, sei un uomo," disse Carlo, "però non ti si è mai visto in giro con una ragazza. Com'è?"
Osvaldo intuì che dovevano averne parlato fra di loro e che forse erano semplicemente curiosi, o forse invece immaginavano qualche cosa riguardo alla sua sessualità.
Infatti, dopo un altro breve silenzio, Sergio disse: "Ma sai... è anche per gli altri. Siccome tutti hanno una ragazza, o una donna, all'età tua... sai... magari qualcuno... potrebbe pensare che a te non piacciono le ragazze ma i ragazzi e..."
Osvaldo lo guardò, sorrise, e lo incoraggiò: "E?"
"Mah, sai, con i tempi che corrono... e quello che la gente dice..." aggiunse in tono un po' incerto Sergio.
Il pescatore annuì: "Vedi, Sergio... la gente... che pensi ai cavoli propri. A me non interessa cosa pensa, la gente. So io quello che mi piace e quello che non mi piace."
"Sì, ma..." obiettò quasi timidamente Marcello.
"Ragazzi, se a me piacessero i maschi, non è che io salterei addosso a ogni paio di pantaloni che si muovono e che mi capitano a tiro. Proprio come non salterei addosso a ogni gonnella, nel caso che mi piacessero le donne."
"Va be', no, ma..." interloquì Carlo.
"Cos'è, siete preoccupati per voi, a stare qui con me? O di quello che la gente può pensare di voi, visto che mi frequentate?" chiese Osvaldo, con lieve ironia.
"Ma no, no, che c'entra..." disse Carlo, girandosi a guardarlo, quasi per dare più forza alla sua negazione.
"Era solo... curiosità. Mica ti volevamo offendere." disse Marcello.
"E mica m'avete offeso." dichiarò a voce bassa Osvaldo, continuando a sorridere.
"Che se pure a te piacessero i ragazzi... dopo tutto... sarebbero solo cazzi tuoi." disse Sergio.
"Appunto." annuì il giovane pescatore.
"È che con te... s'è sempre parlato di tutto senza problemi e... Mica come con gli altri, e così." dichiarò Marcello.
"Ma se io vi chiedessi se ve lo menate fra voi, non mi direste che sono cazzi vostri?" chiese Osvaldo, guardando di nuovo lontano, sulla luminescente distesa d'acqua.
"A te non ci vergogneremmo mica a dirti che qualche volta lo facciamo." ammise allora Marcello.
"Ah no?" chiese con voce soffice il giovanotto, "E perché non vi vergognereste... con me?"
"Beh... perché lo facciamo tutti, noi ragazzi, è una cosa naturale. E perché tu non hai mai preso l'aria di superiorità dei vecchi con noi ragazzi. Con te si può parlare liberamente, di qualsiasi cosa." spiegò Carlo.
Sì, indubbiamente i tre ragazzi dovevano averne discusso fra loro, si ripeté Osvaldo, e perciò avevano deciso di andare semplicemente a chiederglielo.
"E se per caso a me piacessero davvero gli uomini... o anzi, i ragazzi come voi?" chiese allora il pescatore.
Seguì un lungo silenzio, poi Sergio disse: "Per noi mica cambierebbe niente, vero ragazzi?"
"Ognuno è fatto come è fatto." aggiunse Carlo.
"Per noi saresti l'Osvaldo di sempre, un gran figo, e un amico." sottolineò Marcello.
"E allora, dato che non cambierebbe niente, perché vi interessa tanto saperlo?" chiese sorridendo Osvaldo.
Tutti e quattro guardavano nuovamente davanti a sé l'eterno rincorrersi delle piccole onde che scorrevano sulla distesa del mare.
"Per... amicizia." sussurrò, quasi, Sergio.
"Tra amici... ci si dice tutto." insisté Carlo.
"Noi... te l'abbiamo detto che qualche volta ci piace menarcelo fra noi... No?" disse Marcello.
"Mica ve l'ho chiesto io, però." fece notare il giovanotto. "Queste cose, va anche bene dirle, a un amico, ma non chiederle."
"Non ti fidi di noi?" gli chiese Sergio.
"Sì che mi fido. Quando mi sentirò... ve lo dirò."
Dopo un altro silenzio, Carlo disse, a bassa voce: "Se... se ti piacevano le ragazze... rispondevi senza fare tante... tante storie, tanti giri di parole."
"Pensala... pensatela come vi fa piacere." ribatté in tono gentile il pescatore.
"Sei incazzato con noi che ti abbiamo fatto queste domande?" gli chiese Sergio.
"Ho la faccia di uno incazzato?" chiese Osvaldo con un sorriso.
Sergio lo guardò, sorrise a sua volta, poi ammise: "Proprio per niente! Hai la solita bella faccia."
"Bella, poi..." mormorò il giovanotto.
"La faccia degli amici è sempre bella, anche se magari agli altri non pare." gli spiegò Sergio.
"Giusto." annuì Osvaldo.
"Ma non ti darebbe fastidio se... se la gente... pensasse quelle cose di te?" gli chiese allora Marcello.
"La gente... Vedete, ragazzi, chi ha il cuore pulito vede tutto pulito, gli altri, il pulito non lo vedono neppure se glielo metti sotto il naso. La gente cerca di vedere negli altri i difetti che ha... o che ha paura di avere. Chi mette le corna alla moglie, dirà che tutti i mariti le mettono alle loro mogli... per giustificarsi. E chi ha voglia di mettergliele ma non ne ha il coraggio, cerca di scoprire chi lo fa, per giustificarsi se ci riesce, per non sentirsi in colpa."
"E allora noi... se è come dici tu, se l'abbiamo pensato è perché ci piacerebbe farlo?" chiese Marcello, così confermando l'intuizione di Osvaldo
"Non lo so. Non ho detto questo. Ognuno di voi tre sa che cosa ha dentro al cuore."
"E se non lo sa?" chiese allora Sergio.
"Sarebbe bene che cercasse di capirlo. Nessuno di noi può riuscire a migliorarsi se non capisce, prima, come è fatto."
"A me... a me non piacerebbe essere un... uno che gli piacciono i ragazzi, perché non vorrei che tutti mi pigliano per il culo." mormorò Marcello, pensieroso.
"Se tu fossi così, credi che Sergio e Carlo ti piglierebbero per il culo?" gli chiese Osvaldo.
"No, loro no, perché siamo veramente amici. Ma tutti gli altri..."
"E se fosse... tu non lo dire a chi non ti è veramente amico. Mica tuo padre va a raccontare ai suoi compagni, all'osteria, quello che fa a letto con tua madre e come. Certe cose sono solo nostre, no?"
"Ma se si viene a sapere..." obiettò Marcello.
"O anche solo se qualcuno non lo sa ma lo pensa..." aggiunse Sergio.
Osvaldo annuì: "Sì, è ancora così, specialmente nei piccoli paesi, purtroppo. La gente pare che si diverte a mettere il naso nelle cose che non li deve riguardare e... e chi è diverso dalla maggioranza, viene segnato a dito. Però mica è giusto."
"Certo che non è giusto, ma è così." disse Carlo.
"E non sta a noi cercare di fare in modo che questo cambi, ragazzi?"
"E come?" gli chiese Marcello.
"Cominciando noi a non segnare a dito nessuno, per nessun motivo. E se qualcuno accanto a noi fa brutti apprezzamenti, non restare zitti, ma rimbeccarlo. Solo così le cose possono cambiare. Dire che tanto non cambierà mai nulla..." disse Osvaldo, "... è un forma di fanatismo alla rovescia, che non farà mai cambiare nulla."
I galleggianti delle lenze sobbalzarono: qualche pesce aveva abboccato. Osvaldo le tirò su, liberò dall'amo la piccola, elegante spigola e la infilò nella piccola nassa che aveva accanto a sé. E il discorso si spostò, così, sulla pesca.
Quando i ragazzi, salutatolo, tornarono su verso il paese, Osvaldo, soddisfatto per il risultato della pesca, raccolse le sue cose e tornò al capanno. Vuotò la nassa, scelse uno dei pesci per mangiarselo, depose gli altri su un letto di foglie in un grande cesto piatto, lo coprì con un panno umido, prese il suo vecchio motocarro e salì anche lui al paese per venderli al Consorzio dei pescatori e col ricavato comprare le poche cose di cui aveva bisogno.
Da quando, dopo la morte dei suoi, Osvaldo aveva lasciato il borgo ed era andato ad abitare là, accanto al vecchio molo, isolato da tutto e da tutti, viveva in modo semplice ed essenziale, quasi... primitivo. Ma così aveva trovato una serenità quale fino ad allora non aveva mai provato.
Si sentiva padrone della propria vita e del proprio lavoro, cosa via via più rara con il progredire della sempre più complessa vita sociale. Molti nel borgo lo giudicavano, bonariamente, "un po' matto" per la sua scelta di vita, Molti, ma quasi nessuno dei ragazzi, che invece parevano affascinati da quel forte giovanotto nel fiore della virilità, che con tanta serenità viveva di ben poco.
Non era un "eroe", per loro, ma neppure "un po' matto", anzi, era un "figo". E questo non solo per la sua indubbia prestanza e avvenenza fisica, ma per la sua costante serenità, e anche perché non li trattava mai guardandoli dall'alto in basso.
Osvaldo era cosciente di dovere molto, se non tutto, di come e di ciò che era al bisnonno, Alfredo Cozzani, nonostante non l'avesse conosciuto.
Alfredo era infatti nato esattamente cento anni prima di Osvaldo, e anche nello stesso giorno e mese. Era, come da generazioni immemorabili i Cozzani, un pescatore. Quando aveva venti anni, si era sposato con Ersilia, da cui aveva avuto tre figli maschi e tre femmine. Appena era stato fondato il Partito Socialista, nel 1872, Alfredo, entusiasta, vi si era subito iscritto.
Raccontarono a Osvaldo che un giorno bisnonno Alfredo tornò a casa da una riunione alla sede del partito spiegando alla moglie che l'oratore, venuto da Roma, aveva illustrato loro gli ideali di libertà e uguaglianza del socialismo.
"E cosa sarebbero, questi ideali?" gli aveva chiesto Ersilia, già incinta del loro quarto figlio.
"Che tutti gli uomini sono uguali."
"Bella scoperta, ma anche le donne?"
"Sicuro, tutti uguali. Le differenze le fanno i capitalisti e la chiesa, ma non esistono: tutti uguali, siamo."
"E poi?"
"La libertà. Per esempio, il libero amore."
"Cioè?" gli chiese un po' diffidente la Ersilia.
"Niente pastoie, niente vincoli, ogni uomo deve essere libero di amare tutte le donne che vuole."
"Perciò anche le donne, anche io? Posso amare liberamente, secondo il tuo socialismo, anche quel bel ragazzone che..."
Beh, a quel punto pare che il bisnonno dicesse che forse aveva capito male lui, che forse non tutte le donne, ma qualunque donna, ricca o povera, nobile o plebea, scegliendone una e poi restandole fedele... Liberi, sì... ma non fino a quel punto. Comunque, a uno dei figli maschi, cioè al nonno di Osvaldo, aveva messo nome Libero.
Quando il padre gli raccontò questo aneddoto, Osvaldo provò una forte simpatia verso il bisnonno, e anche verso la bisnonna, logicamente.
Per non parlare dei detti di Alfredo, tramandati di padre in figlio, che Osvaldo conservava nel cuore e spesso usava.
Per esempio, Alfredo diceva ai figli e alle figlie: "Datemi una candela di più finché campo, e mettetene una di meno sulla mia tomba."
E anche: "Quello che conta nella vita non è il profitto; ciò che veramente conta è l'onestà. È la sua mancanza che guasta il mondo."
E ancora: "Se un navigante non sa a che porto deve andare, nessun vento gli è favorevole."
Gli avevano anche raccontato che, quando i fascisti volevano che prendesse la tessera del Partito Nazionale Fascista, che lui aveva recisamente rifiutato di prendere, una camicia nera gli aveva detto: "Ma ti rendi conto che io ho il potere di toglierti la vita, a te?"
Al che lui, tranquillo, aveva risposto: "E tu ti rendi conto che io ho il potere di farmela togliere, la vita, da te?"
Quando in un'altra occasione l'avevano minacciato di fargli bere l'olio di ricino, a causa del suo ostinato rifiuto di prendere la tessera fascista, Alfredo gli aveva tolto dalle mani la bottiglia, se l'era scolata tutta, poi aveva detto: "E quando comincerà a fare effetto, verrò a cagare davanti a casa vostra!" e se n'era andato, dritto come un fuso, fiero, lasciando tutti di sasso.
Nonno Libero aveva sposato nonna Amalia. Da lei aveva avuto Dedalo, suo padre, che aveva sposato Marta ed era nato solo lui, a cui avevano, per fortuna, messo nome Osvaldo e non Icaro... A Osvaldo sarebbe piaciuto molto essere stato chiamato Alfredo, comunque.
Era cresciuto sentendo narrare in casa, sia dal nonno che dal padre, le mille imprese di quel grande uomo e aveva sviluppato nei suoi confronti una fortissima ammirazione. Alfredo era stato, innanzitutto, un uomo onesto e libero. E Osvaldo aveva cercato di diventare come lui, pur sapendo bene che per la società, assai spesso, gli uomini onesti e liberi sono peggio di un sassolino aguzzo nella scarpa.
Pochi giorni dopo quella visita, Sergio era tornato a trovarlo, ma questa volta assieme a Renato. I due ragazzi lo trovarono che stava zappettando il minuscolo orto dietro al capanno, dove faceva crescere, senza l'ausilio di prodotti chimici, giusto la frutta e le verdure di cui aveva bisogno.
Quando li vide arrivare, Osvaldo si drizzò, appoggiò le braccia sulla sommità del manico della zappa piantata nel terreno, e li attese, accogliendoli con il consueto, lieve sorriso.
"Ciao, Osvaldo!" lo salutò Renato, con la sua solita aria da monello, dovuta soprattutto agli occhi dietro a cui pareva ridere sempre uno spirito folletto. "Possiamo darti una mano?"
"No, grazie, ho praticamente finito. Come va la scuola?"
"La scuola va, sono io che non vado!"
"Cioè? Ti hanno dato qualche brutto voto?"
"Non ancora. Ma la prof di italiano mi sta rompendo."
"Non tu a lei?" chiese Osvaldo con un sorrisetto.
"Beh... reciproco, diciamo."
"E quale è il problema?"
"Lei... e io... che siamo come il diavolo e l'acqua santa... e indovina un po' chi è il diavolo?"
"Lei, logicamente!" gli disse Osvaldo dandogli uno scappellotto. "Su, venite dentro, che vi offro un po' di spremuta d'uva."
"Vino, vuoi dire..."
"No, spremuta d'uva. Guarda che anche se a scuola ci sono andato un secolo fa, l'italiano ancora lo conosco."
Entrò nel capanno, seguito dai ragazzi. Osvaldo prese la bottiglia, che conteneva un liquido torbido, riempì a metà tre bicchieri e sedette coi ragazzi al tavolo.
"Mh... buono!" disse Renato. "lo fai tu?"
"Come quasi tutto, qui dentro, no?" interloquì Sergio.
Finirono di sorseggiare il succo d'uva, in silenzio. Non erano inusuali i silenzi, quando si era con Osvaldo.
Poi Sergio, un po' esitante, disse: "Osvaldo... ho raccontato a Renato quello che ci si è detti l'altro giorno, quando c'erano anche Marcello e Carlo."
"Bene."
"Per questo... abbiamo pensato di venire da te."
"Mh."
"Marcello t'ha detto che qualche volta noi... fra noi... Te lo ricordi, no?" aggiunse Sergio guardandolo.
"Sì."
"E anche lui... con lui... qualche volta..."
"Bene."
"Solo che..." disse Sergio, sempre più evidentemente incerto.
Allora Roberto prese la parola: "A noi due ci piace, forse più di quello che è giusto!"
"Cosa significa, più di quello che è giusto? Cosa è giusto? E cosa è sbagliato? Siete juventini?"
"Eh? Che cavolo c'entra il calcio, adesso?" gli chiese Renato.
"No il calcio. Che maglia hanno indosso?"
"Bianca e nera."
"Appunto. La vita non è juventina, è come la bandiera della pace, è dei colori dell'arcobaleno." disse soavemente Osvaldo.
"Cioè?" chiese Sergio.
"Non esiste solo giusto e sbagliato. Dipende dalla luce... come si riflette, si rifrange, anzi. Lo fate, vi piace. Ebbene?"
"Ma... se ci piace... significa che... che siamo..." iniziò a chiedere Sergio.
"Che siamo recchioni?" completò Renato.
"A me, lo chiedete?"
"E a chi, sennò? Ai nostri? Al prete? Alla prof di italiano?" chiese Renato, quasi in tono di sfida. "Con te, almeno, si può parlare."
"Io avevo un bisnonno, che non ho conosciuto, ma che mi ha insegnato..." iniziò a dire Osvaldo.
"Come fa ad averti insegnato se non l'hai conosciuto?" gli chiese Sergio.
Osvaldo non fece caso all'interruzione. "... che la cosa più importante è essere onesti e liberi. E allora, bianco, nero, rosso, giallo verde... va tutto bene."
"Mica ho capito, io!" esclamò, sinceramente, Sergio.
"Se a te piace farlo con lui, fallo, liberamente e onestamente. E allora, che tu sia recchione, normale, metà e metà, tre quarti così e un quarto cosà, è del tutto secondario." spiegò Osvaldo.
"Cioè... ognuno fa quello che gli pare e piace?" chiese Renato.
"Sì, purché sia una cosa onesta e libera."
"Ma se quelli..." disse Renato, senza bisogno di specificare a chi si riferisse, "dicono che è sbagliato, non può essere onesto. No?"
"E chi ti dice che 'quelli' sanno davvero cosa è giusto e sbagliato?"
"Eh, prova a fare quello che loro dicono che è sbagliato, e poi vedi! Ti massacrano come una zanzara: tiè, tiè, tiè!" disse Renato, battendo tre manate sul tavolo, come se schiacciasse un insetto immondo.
"E tu non pungerli, no?" gli disse Osvaldo. "Non gli ronzare alle orecchie. Fatti la tua vita... onestamente e liberamente."
"E se ti schiacciano lo stesso? Eh?" insisté Renato.
"Ma di che cazzo state parlando, voi due?" chiese Sergio, perso.
"Zitto, tu, che te lo spiego dopo." lo rimbeccò Renato, poi chiese di nuovo ad Osvaldo: "Eh?"
"Una volta c'era un cantante, Antoine, che cantava una canzone che diceva: Tu sei buono e ti tirano le pietre. Sei cattivo e ti tirano le pietre. Qualunque cosa fai, dovunque te ne vai, sempre pietre in faccia prenderai. Tu sei ricco e ti tirano le pietre. Non sei ricco e ti tirano le pietre. Al mondo non c'è mai qualcosa che gli va e pietre prenderai senza pietà! Sarà così finché vivrai. Sarà così... E allora, Renato mio, devi cercare di schivare le pietre, di cavartela meglio che puoi, e farti la tua vita meglio che puoi."
"Cioè... non puoi sempre preoccuparti di cosa dicono gli altri... È così, giusto?" chiese Renato, annuendo.
"Bravo."
"D'accordo, ho capito... E va bene. Ma se ci piace farlo assieme, fare... tutto... No, no, aspetta: onestamente, liberamente e prudentemente. Giusto? Recchione, non recchione o metà e metà, giusto?"
Osvaldo sorrise e annuì: "O anche tre quarti e un quarto. Non fare mai male a nessuno e fai quello che vuoi."
"E come so se non faccio male a qualcuno?"
"Sai cosa vuol dire amare? La risposta è lì."
Più tardi, dopo aver parlato di tutt'altro, mentre i due ragazzi uscivano dal capanno per tornare su al borgo, Osvaldo sorrise, quando sentì Sergio chiedere sottovoce all'amico: "E adesso me lo spieghi che cazzo è 'sta storia di zanzare e arcobaleni e pietre in faccia?"
Indubbiamente i ragazzi del borgo continuavano a volergli bene, anzi, sempre più bene, perché in un certo senso, sia pure senza averlo mai detto troppo chiaramente, aveva lasciato che capissero che i suoi orientamenti, sia mentali che sessuali erano del tutto diversi da quelli della maggioranza della gente.
Molto raramente era solo, Osvaldo. Infatti i ragazzi andavano spesso da lui per chiedergli consiglio, per sfogarsi, per imparare cose nuove, o semplicemente per stare assieme, magari in silenzio: sapevano di essere accettati e apprezzati per quello che erano, senza ma e senza se.
Sapevano che Osvaldo aveva le idee chiare su molte cose, su "tutto" dicevano anzi i ragazzi fra loro, che le esponeva senza mezzi termini ma che non le imponeva mai a nessuno. Sapevano che li aiutava a riflettere, a crescere, senza mai chiedere nulla in cambio.
Come, a volte, Osvaldo diceva loro: "È così bello giocare a pensare, sai? È un gioco che puoi fare dappertutto... Ed è anche più bello se lo fai con altri, cioè con gli amici. Ed è bellissimo se lo fai, in due, cioè con chi ami."
I ragazzi erano affezionati a Osvaldo ed erano anche curiosi riguardo alla sua sessualità, non tanto per un puro gusto di ficcare il naso negli affari altrui e meno ancora per una voglia di fare pettegolezzi, ma per il naturale desiderio di sapere "tutto" su chi si ammira. Così come di un famoso cantante, di un calciatore, di una diva si desidera sapere il più possibile e non solo sul piano della sua "carriera".
Ma Osvaldo, per sua natura, non era portato a parlare di sé con tanta facilità, un po' per un istintivo pudore e un po' perché era una persona di poche parole. Così come, nello stile di vita che aveva scelto dopo la morte dei genitori, aveva eliminato tutto ciò che era inutile e superfluo, nello stesso modo, inconsciamente, aveva anche eliminato le chiacchiere inutili.
Riguardo alla propria sessualità, ma anche riguardo a moltissimi altri aspetti, come i ragazzi avevano giustamente intuito, Osvaldo non era come la maggioranza della gente.
Già da quando era piccolo, Osvaldo era sempre stato un ragazzino riflessivo e curioso. Non di quella vana e morbosa curiosità basata sul desiderio di venire a conoscenza dei fatti altrui, quanto di quella che spinge l'essere umano a esplorare e tentare di scoprire l'incognito. I suoi "perché?", perciò si susseguivano quasi senza cessa.
Per sua fortuna, sia il padre, Dedalo, che la madre, Marta, pur essendo persone umili e di poca cultura nel senso "classico" del termine, cioè di pochi studi, non si erano mai sottratti ai "perché?" del figlio e, facendo del loro meglio, gli avevano sempre risposto, o lo avevano indirizzato verso chi poteva rispondere meglio di loro.
"Mamma, perché papà è così poco a casa?"
"Perché deve lavorare, tesoro, deve stare sul peschereccio di Girolamo con gli altri pescatori."
"Perché deve lavorare?"
"Perché chi non lavora non mangia, Osvaldo, e neanche noi avremmo da mangiare, se papà non portasse i soldi a casa."
"Ma perché allora non mangiamo un po' meno, e così papà sta a casa un po' di più?"
"Perché al lavoro non è che uno può scegliere gli orari: è il padrone che decide in base ai turni di pesca."
"E allora, perché non fa il padrone papà?"
"Ci vogliono tanti soldi per comprare un peschereccio, e allora dovrebbe lavorare ancora di più e stare a casa anche di meno."
Comunque, quando Dedalo poteva stare a casa, passava tutto il suo tempo con la famiglia, non lo sprecava andando all'osteria con gli amici, e si prendeva cura di Osvaldo, a cui raccontava mille cose, spiegava tutto ciò che sapeva, trattandolo come un adulto, come desiderava che diventasse, curandolo come il bambino che era.
"Papà, perché il papà di Denis gli ha comprato il motorino e tu non me lo compri?"
"Perché Girolamo ha più soldi di noi, bello mio."
"E perché ha più soldi di noi?"
"Beh, sai, per fare soldi, ci vogliono soldi..."
"Ma come? Se uno non ha soldi, non può farne?"
"È molto difficile, a meno che uno va a rubare, ma allora quelli sono soldi maledetti. Vedi, Osvaldo, i soldi sono come i semi del grano: se ne hai tanti, puoi mangiarne quelli che ti servono e te ne restano tanti da seminare e fare tanto altro grano. Ma se ne hai pochi, una volta mangiati quelli che ti servono, te ne restano pochi da seminare, e così potrai fare poco grano, quel tanto da non morire di fame."
"E perché la banca non può dargli i soldi per averne di più e così farne di più?"
"La banca deve essere sicura che quello che presta gli torna indietro, perciò non li presta a chi non ha niente, ma solo a chi può garantire perché ha una casa, dei beni; così se non li rende, la banca gli prende qualcosa altro e non ci rimette."
"Per questo si dice che piove sul bagnato, papà?"
"Proprio così, Osvaldo mio."
I perché di Osvaldo si moltiplicavano, sui più diversi soggetti: per ogni sua curiosità a cui trovava una risposta, cento altre ne nascevano.