logoMatt & Andrej Koymasky Home
una storia originale di Andrej Koymasky


TAVERNA
DEL BUON RIPOSO
CAPITOLO 1 - MENARE JACK

Era l'anno in cui Thomas, Principe di Inghilterra, figlio del defunto re Edward II, era morto. Re Edward, per grazia di Dio terzo ad avere quel nome, aveva appena avuto il suo secondo figlio, Lionel, e da un anno l'Inghilterra era in guerra con la Francia a causa dei suoi possedimenti, oltre il Canale, che il re di Francia rivendicava come suoi.

Il tre dicembre di quell'anno, a notte, dopo aver chiuso le porte della "Good Rest Tavern", Robin sedette accanto al grande camino, assieme al suo Simon, guardò i ragazzi che, presi sgabelli e panche, si stavano radunando, formando un semicerchio davanti al focolare in cui la brace languiva, spandendo un gradevole calore. Quando furono tutti lì ed ebbero fatto silenzio, sorrise a Simon e cominciò a parlare, a voce bassa e calma. I ragazzi ascoltavano assorti, attenti, non volendo perdere una sola parola.


Sono nato a Canterbury, proprio nell'anno in cui morì il santo arcivescovo Robert Winchelsey, e l'anno seguente all'assassinio dell'amante di re Edward II, il bel guascone Piers Gaveston... Almeno così mi hanno detto. Se questo è esatto, ora dovrei avere venticinque anni.

Mio padre era un ricco mercante, che trafficava in vini con le terre di Francia. Mia madre era una sua servetta diciassettenne, con cui il mercante amava divertirsi e che mise incinta. Dandomi alla luce, mia madre morì. Io fui perciò allevato dagli altri servi del mercante, e tutto il mio mondo, per i primi anni della mia vita, fu la grande cucina.

Non mi mancava certamente il cibo, anche se, non appena le mie gambette furon sufficientemente salde per permettermi di camminare dritto, iniziai a lavorare. Dapprima piccole incombenze, che crebbero e diventarono più pesanti man mano che crescevo. Il mio unico abito era una tunichetta che una delle serve ricavava da vecchi panni dismessi dagli altri servi, era fatta di piccole pezze cucite assieme, quelle che usavano per rattoppare i loro abiti, sì che aveva un che di variopinto... e di informe. Un pezzo di corda alla vita mi faceva da cintura e non avevo mai avuto scarpe.

A parte la faccia, il collo, le braccia e le gambe, il resto del corpo lo lavavo ogni tre o quattro mesi, evitando di farlo d'inverno. Si attingeva l'acqua al pozzo, e ci si andava a lavare in un angolo della stalla del padrone, prima i servi e poi le serve. Fino a quando avevo sugli undici, dodici anni, più o meno, io dovevo andare a lavarmi con le serve, poi dovetti farlo con i servi: quel cambiamento fece di me, ufficialmente, quasi un adulto.

Ah, dimenticavo, il mio vero nome non è Robin Hall, è un altro, che però ora è sepolto assieme al mio passato. Robin, mi fu affibbiato proprio poco dopo che dovetti iniziare a lavarmi con gli uomini, perché uno di loro mi disse che sembravo un pettirosso... Hall lo aggiunsi io qualche anno più tardi, per un fatto che mi capitò nella hall della casa del padrone in occasione di un altro evento, di un altro passo verso la mia attuale vita.

Più che non il mio antico nome, Robin Hall dice chi io sono, in un certo senso. A mio parere, quando un figlio nasce, non bisognerebbe dargli un nome, un cognome, ma chiamarlo, poniamo Primo, Secondo eccetera, figlio di... E poi, cresciuto, dovrebbe darsi un nome e un cognome che lo descriva bene oppure che dica ciò che vuole essere, diventare.

Vedete, ad esempio, fra i servi del mercante che, senza curarsene, aveva contribuito a darmi la vita deponendo alcuni schizzi di sperma nella sua servetta, vi era una ragazza che si chiamava Happy White... e invece era sempre triste e, probabilmente di sangue sassone, aveva una complessione e capelli assai scuri, sì che il suo nome pareva uno scherzo, qualcosa che aveva più il gusto del sarcasmo che altro.

Perciò, io "sono" Robin Hall, il pettirosso del vestibolo...

Torniamo alla mia vita. Ammesso a bagnarmi con i servi, scoprii quanto più belli fossero i loro corpi rispetto a quelli delle serve, e come anche io fossi destinato, crescendo, ad assomigliare sempre più a loro, cosa che mi faceva piacere. La nudità, di fatto, era sempre evitata, solo in quelle occasioni era permessa.

Perciò fino ad allora l'unico mio paragone era stato solo con i corpi femminili o di altri piccini: certo, avevo notato che fra noi piccoli l'unica differenza pareva che fosse che alcuni avevamo un pippiolino fra le gambe, mentre altri avevano una fessura liscia... Quando chiedevo perché, l'unica risposta che ottenevo era che, più grande, avrei capito.

Quello che mi affascinava, quando potei vedere gli uomini nudi, erano i petti lisci, senza quei due palloni o gonfi come meloni o flosci come piccoli otri vuoti, e quel pippiolone fra le gambe che, a volte, sembrava animarsi di vita propria e crescere a dismisura ed ergersi come un guerriero che, terminato il riposo, si alza per affrontare fieramente la battaglia.

Di che battaglia si trattasse, lo intuii assai presto dalle battute dei servi... battute sui loro rispettivi equipaggiamenti o sulle serve con cui li usavano o avrebbero voluto usarli. Battute dette ridendo, piene di sottintesi, che spiegavano e non spiegavano, e anche qui, quando chiedevo di che parlassero, l'unica risposta che ottenevo era di nuovo che, più grande, avrei capito.

Perciò non vedevo l'ora di diventare più grande.

Accadde che un giorno, quando fui mandato a prendere un cesto di mele, sorpresi uno degli altri servi che, la braga abbassata, si stava agitando su e giù con la mano l'attrezzo. Lui non mi vide; io lo guardai un po', lievemente stupito e incuriosito.

Poi gli chiesi: "Ma che fai? Ti prude?"

Lui sussultò, si coprì velocemente, poi mi sgridò: "Che cavolo sei venuto a fare qui? A spiarmi? Vattene!"

"No... a prendere un cesto di mele. Ma tu, che stavi facendo?"

"Prendi quello che devi e lasciami in pace. Ma... guai a te se dici a qualcuno quello che hai visto!"

Questo mi fece intuire che, in quanto stava facendo, doveva esserci qualcosa di strano, se temeva che ne parlassi... Così, mi feci insistente: "Io non dico niente a nessuno, ma solo se mi spieghi cosa stavi facendo!" affermai, deciso.

"Stavo menando Jack..."

"Che? E chi è Jack? E lo menavi col tuo coso? E dove è?"

"Ma no, idiota! Mi stavo facendo una sega, una zagania, una raspa, una pugnetta o come cavolo la chiami? Mi stavo menando il cazzo!"

"E perché?"

"Perché così si gode, no? Ma non sai niente, tu?"

"Si gode? Fammi vedere!"

Si tirò di nuovo giù la braca e si esibì per me, e capii cosa era farsi una sega, godere e schizzare... No, non si fece toccare da me né mi toccò. Ma appena fui solo, a notte, sul mio saccone di foglie secche, ci provai. Poiché stavo appena iniziando a maturare, non fu niente di speciale, solo vagamente piacevole, comunque abbastanza per riprovarci di tanto in tanto, nel buio dell'angolo in cui dormivo.

Finché mi accorsi che il piacere aumentava e una sera qualcosa ne uscì e mi bagnò la mano e provai un piacere intenso. Beh, credo che sia inutile che vi dica altro, tutti voi ci siete passati e capite di cosa parlo. Così, quella diventò per me una piacevole pratica quotidiana, e imparai che godevo di più se con la mano libera mi carezzavo, mi toccavo, mi palpavo.

A questo punto, anche il modo di guardare gli altri servi quando ci si lavava, specialmente quelli più ben fatti, assunse per me una nuova colorazione, mi provocava un nuovo, sottile piacere e quando a notte "menavo Jack", rivedevo tutti quei bei membri nudi e in vari stati, dal morbido al fieramente eretto.

Grazie alla dura fatica quotidiana e all'abbondanza di cibo, se pure solo resti, stavo crescendo forte e, almeno così mi si diceva, bello, benché più ignorante di una capra. Tutta la mia vita si svolgeva esclusivamente nell'ala dei servi, soprattutto nella cucina o nella dispensa. Non avevo mai messo piede fuori dalla corte di servizio: non avevo idea di come fosse il mondo esterno. Non avevo neanche mai messo piede negli appartamenti del mio ricco padre e padrone.

Tra noi servi vi era una vera e propria gerarchia. Sopra a tutti c'era il Mastro di Casa, cioè il capo di tutti i servi. Poi venivano i famigli, cioè quelli che servivano negli appartamenti del padrone e dei suoi tre figli, tutti maschi. Questi erano vestiti molto bene, almeno secondo me, anche se, ho visto poi, non certo con il lusso dei padroni. C'erano poi le serve e i servi di cucina e della stalla, vestiti con abiti rattoppati, ma ancora decenti. E infine noi garzoni e le domestiche, destinati ai lavori più umili, sporchi e pesanti, e vestiti di resti, di stracci.

Il mercante, Aaron Wilson, cioè il mio padre e padrone, era uno dei fornitori di vino della corte del re, pertanto, quando Edward II si sposò con la regina Philippa, la sua famiglia fu invitata a corte, probabilmente nella speranza che portasse molto vino in dono, cosa che logicamente fece. Partì con la moglie e due dei miei fratellastri; solamente Charles, il secondo, che allora aveva diciotto anni, cioè tre più di me, restò a casa, poiché aveva un lieve malore.

Il Mastro di Casa approfittò dell'assenza dei padroni per far fare una pulizia a fondo di tutte le stanze dei loro appartamenti, e così anche io potei mettere piede, per la prima volta, nella casa di mio padre. Il mio compito era portare i secchi di acqua pulita e portar via quelli di acqua sporca, aiutare a spostare la mobilia più pesante per pulire anche dietro e sotto e così via.

Dire che rimasi a bocca aperta nel vedere le belle stanze, il ricco arredamento, è dire poco. Ricordo che mi chiesi come potesse essere la "casa" del re, se quella del mio padre-padrone era così bella! Non riuscivo davvero a immaginarlo.

A un certo punto, in un momento in cui pareva che nessuno dei servi avesse bisogno della mia opera, mentre ero nella hall, nel vestibolo, e guardavo affascinato un colorato arazzo (un tappeto appeso al muro, pensavo allora) che rappresentava una battaglia con tanti cavalieri e bandiere e fanti... mi sentii toccare su una spalla. Pensai che mi richiamassero al lavoro e mi girai... e mi trovai di fronte a Charles, il mio fratellastro.

"Ehi, tu, ragazzo, come ti chiami?" mi chiese.

"Mi chiamano Robin, signore." dissi, intimorito. "Non stavo facendo niente di male, signore."

Devo precisare che indossavo solamente una informe brachetta corta, allacciata a vita e sotto il ginocchio, e nulla altro. Charles mi guardò su e giù per tutto il corpo, più volte, poi mi chiese: "Sei stato appena assunto?"

"No, signore, io sono nato qui... cioè... giù di sotto, nella cucina."

"Dove sei stato nascosto, fino a ora?"

"Nascosto, signore? Io... non stavo nascosto."

"E com'è che non t'ho mai visto?"

"Non mi hanno mai fatto lavorare nella tua casa, signore, sono solo uno sguattero."

"E ti piacerebbe... lavorare qui, per me? Ed essere vestito... un po' meglio?"

Spalancai gli occhi: "Se mi piacerebbe? Cavolo, signore, altroché se mi piacerebbe."

"Ebbene, se tu sarai obbediente... ordinerò al Mastro di Casa di metterti al mio servizio."

"Sono sempre stato obbediente, io, signore!"

"Allora... vieni con me, ora."

Lo seguii. Mentre salivamo la scala per andare al piano superiore, incontrammo il Mastro di Casa.

"Dove credi di andare, Robin? Torna giù a lavorare!" mi apostrofò.

Charles si girò: "Il ragazzo forse lo vorrò al mio servizio. Gli ho ordinato io di seguirmi."

"Come ordini, padroncino..." disse il Mastro di Casa e, non so perché, mi lanciò un'occhiata strana, che non compresi.

Charles mi portò su, su, fino al sottotetto. Qui vi era vecchia mobilia sgangherata, casse che chissà cosa contenevano, che riempivano tutto il grande ambiente che riceveva luce da una serie di minuscoli abbaini ed era in una sorta di misteriosa penombra. Charles s'inoltrò nella specie di labirinto che tutti quegli oggetti formavano, finché fummo in un angolo, dove il tetto finiva sulle pareti perimetrali, delimitato da due grandi armadi con le ante sgangherate, messi ad angolo, sì che per entrare nello spazio ricavato, bisognava entrare in uno di essi e uscire dalla parete posteriore, sfondata.

Mi chiesi perché m'avesse portato fin lì, che lavoro vi fosse da fare... Nello spazio così delimitato, vi era un pagliericcio da letto senza però la struttura e una panca con su un lume a olio, spento, dato che a quell'ora vi filtrava sufficientemente la luce del giorno.

"Allora," mi disse, "obbedirai a qualunque ordine ti darò?"

"Certamente, signore."

"Levati quella braca."

Pensai che era un ordine un po' strano, o per lo meno che non capivo, ma obbedii senza esitare.

Lui disse solo un "Mh!" annuendo e fece un lieve sorriso, non a me ma fra sé e sé. Poi si aprì la bella braca che indossava, si tirò fuori il membro mezzo duro e mi disse: "Dagli piacere con la bocca, per cominciare."

Lo guardai senza capire, e gli chiesi: "Piacere? E come?"

"Non l'hai mai fatto con gli altri servi?"

"Che cosa, padrone?"

Beh... me lo spiegò in termini più che chiari. Io, sinceramente, ero un po' stupito, non avevo mai pensato che si potessero fare quelle cose ma, dato che me lo ordinava, mi apprestai a farlo. Mi fece sedere sulla panca e mi venne davanti; glielo presi fra le mani, provando un sottile piacere, e iniziai a leccarlo come m'aveva istruito di fare. Sorrisi, dicendomi che era una cosa assai buffa, però piuttosto gradevole. Il membro di Charles rapidamente prese la sua piena consistenza e s'erse su, verso l'alto, teso, duro.

Dopo un po' mi ordinò di prenderlo fra le labbra, dandomi via via accurate istruzioni su come muovere la lingua, non fargli sentire i denti, succhiare, muovere avanti e indietro la testa. Mi pareva più un gioco che un lavoro, onestamente. Frattanto lui mi carezzava la testa con una mano, mentre con l'altra si teneva sollevata l'elegante casacca. Continuando a fare quanto m'aveva chiesto e nel modo che diceva, guardai in su e vidi che aveva un sorriso compiaciuto sul volto.

"Bene," mi dissi, "pare che il padroncino fin qui sia soddisfatto..." e continuai con impegno, dato che il premio sarebbe stato poter vivere nei piani alti della casa e avere vesti migliori.

"Bene, bravo, così..." mi disse infatti con un più ampio sorriso. Poi aggiunse: "Continua e... fra poco, schizzerò nella tua bocca il mio seme... e tu lo berrai tutto, capito?"

Mi staccai un attimo per dirgli: "Sì, padrone!" e ripresi il mio compito.

Charles mi prese la testa fra le mani, tenendola ferma, e iniziò a muovere avanti e indietro il bacino, e sentii che tremava, e iniziò a emettere come un basso lamento, sì che di nuovo guardai in su un po' preoccupato, ma vidi che aveva l'aria contenta. Finalmente sentii che avveniva quanto m'aveva preannunciato.

Quando gli schizzi terminarono, io ancora succhiavo con energia. Lui si staccò da me e se lo rimise a posto. Lo guardai, aveva il volto lievemente arrossato e un'aria soddisfatta.

"Alzati, Robin." mi disse.

"L'ho fatto bene, padrone?" gli chiesi, pieno di speranza, assaporando quello strano gusto di mandorle che mi sentivo in bocca.

"Direi di sì. E dimmi, Robin..." chiese, carezzandomi il culetto e frugando con un dito fino a solleticarmi il forellino, "l'hai mai preso qui?"

"Cosa, padrone?"

"Il membro di un uomo."

"Lì? No... mai."

"E te lo lascerai mettere da me?"

"Non è... troppo grosso?" chiesi un po' incerto. "Non riesce a entrare nel mio buchetto."

"Io, invece, dico di sì. Con un po' di lardo per farlo scivolare dentro più facilmente. Allora, te lo lasci mettere?"

"Adesso?" chiesi, ancora un po' incerto.

Ridacchiò: "No, adesso m'hai svuotato. La prossima volta, anzi... le prossime volte. Allora?"

"Tutto quello che ordini, padrone... se sei proprio sicuro che ci può entrare."

"Però... devi prima giurarmi che non ne farai mai parola con nessuno, di quello che io faccio con te!"

Annuii e dissi: "Sì, va bene, lo giuro. Mi prendi al tuo servizio? E mi fai avere abiti... più belli?"

"Sì, Robin."

"E che altri lavori dovrò fare, per te, padrone?"

"Questo è il principale, anche se deve restare segreto. Terrai in ordine la mia stanza, le mie cose... farai quello che ti ordinerò a seconda dei miei bisogni."

"Certo, va bene."

Annuì con un sorriso soddisfatto: "Rimettiti quella braca, ora, e scendi giù con me. Finisci di aiutare per le pulizie, poi presentati al Mastro di Casa, che ti darà abiti decenti, poi tornerai da me."

"Qui?"

"Nella mia stanza. Vivrai lì, farò aggiungere un pagliericcio al fondo del mio letto, per te."

"Grazie, padrone." gli dissi.

E così, la mia vita cambiò radicalmente. A parte che lavorare per il padroncino era molto meno faticoso di quanto avevo fatto fino ad allora, che abitavo nella sua bella stanza, e che avevo ora un vestito semplice ma decente, comprese persino le scarpe, proprio come gli altri famigli. Anche il cibo, se prima era stato più che sufficiente, ora era anche migliore, non più solo avanzi.

Ma, già la prima notte che passai nella stanza di Charles, lui mi fece spogliare nudo, come era già lui, mi fece mettere a quattro zampe sul suo letto e con un pezzettino di lardo, che m'aveva ordinato di portar su dalla dispensa senza farmi vedere dagli altri servi o dalle cuoche, mi unse abbondantemente il foro.

Poi, prima con un dito, iniziò a forzarmi e farmi ammorbidire il forellino. All'inizio mi dava un po' fastidio, però anche strane, gradevoli sensazioni. Quando il dito fu dentro, lo girava lentamente... Poi mi forzò con due dita. Di nuovo fastidio ma poi anche piacere. Poi con tre dita... a lungo... Io capivo che me lo stava facendo allargare ben bene per poterci infilare il suo paletto duro, e pensai che se mi rilassavo sarebbe stato più facile.

Dopo una lunga e paziente preparazione, mi afferrò per le anche e diresse la sua lancia di carne sull'obiettivo e iniziò a spingere. Poiché mi aveva già allargato con le dita, la punta entrò senza difficoltà, ma poi sembrò non riuscire a superare la strettoia. Charles spinse con maggior vigore... e improvvisamente mi scivolò tutto dentro, e emise un basso mugugno di piacere e di vittoria.

Cominciò quindi a muoversi avanti e indietro, con forti spinte, tanto che dovetti puntare le mani sulla testiera de letto per non scivolare in avanti. Provavo una sensazione strana, un misto di lieve pena, di continuo fastidio per lo sfregare di quel forte palo dentro di me, ma anche un leggero piacere, tutto misto in modo arcano.

Charles ora mi martellava dentro con vigore e ogni volta che il suo pube batteva contro le mie chiappette si udiva un lieve e ritmico ciac-ciac che risuonava nella stanza. A questo rumore, presto si aggiunse il suono del suo respiro che si faceva forte, pesante, quasi affannoso, mentre aumentava sia l'energia sia il ritmo delle sue spinte.

Infine, con un lungo gemito come quello con cui s'era scaricato nella mia bocca lassù sotto il tetto, sussultando e dandomi forti colpi, si scaricò in me. Quando il suo ansito si fece indistinguibile, si sfilò da me e mi dette una lieve sculacciata.

"Perfetto! Hai visto che è entrato, proprio come t'avevo detto?"

"Sì, padrone." gli dissi girando indietro il capo a guardarlo.

"T'è piaciuto?"

"Insomma... mi dava abbastanza fastidio."

"Ti ci abituerai e vedrai che piacerà pure a te. Hai un culetto delizioso, bello stretto e caldo... Siediti, ora."

Mi girai e sedetti di fronte a lui. Anche lui sedette. Lo guardai fra le gambe e vidi che ora l'aveva morbido, ma che era lievemente sporco... Lui seguì il mio sguardo, poi mi ordinò di prendere un panno che c'era lì vicino e di ripulirglielo. Mi piaceva manipolarglielo, toccarlo. Dopo averlo ripulito, gli carezzai il petto.

"Sei bello, padrone." gli dissi.

Sorrise: "Anche tu sei ben fatto. Davvero non avevi mai fatto queste cose, magari con gli altri servi?"

"Mai, padrone. E tu?"

"Non sei certo il primo. Ma mi piaci più degli altri."

"Servi della casa?" gli chiesi, incuriosito.

"No... qualche ragazzo di locanda o ragazzi che si offrono al mercato."

"C'è un mercato dove vendono anche ragazzi?" gli chiesi veramente stupito.

Rise: "No, non proprio. Vi sono ragazzi di strada che si prestano a farselo mettere, e di solito li trovi che bighellonano nel mercato."

"E te li portavi qui? O su sotto il tetto?"

"No... di solito avevano un posto dove andare."

"E chi t'ha insegnato a fare... queste cose, padrone?"

Rise di nuovo: "Quando avevo più o meno la tua età... il segretario del decano della cattedrale, un dotto monaco benedettino, giovane, bello e forte, che mi faceva da tutore. Mi spiegò che, poiché Nostro Signore era venuto sulla terra per salvare i peccatori, bisognava peccare per meritare la salvezza. Più grande è il peccato e più grande sarà la salvezza, mi spiegò."

"Ma allora, quello che abbiamo fatto, è peccato?" chiesi, un po' confuso.

"Ma no! Quello aveva solo voglia di buggerare un bel ragazzino, e aveva inventato quella scusa. Non esiste, il peccato."

"Ma allora, perché deve restare segreto?"

"Non sai la fine che fece quel ragazzo borgognone che buggerava con il nostro vecchio re, Edoardo II? Fu ucciso, proprio perché faceva queste cose con il re. Quindi..."

"Quindi si deve tenere il segreto!" esclamai, più che persuaso.

"Esatto."

Così io divenni il trastullo preferito del mio padroncino. Come aveva predetto lui, a poco a poco non solo mi abituai, ma iniziò a piacermi sempre più, infatti mi venivano gradevoli erezioni solo a udire l'ordine di Charles di denudarmi e, mentre lui si divertiva con me, iniziai a menare il mio Jack e il mio godimento si fece molto maggiore, sì che iniziai quasi a desiderarlo più io che lui.

Poiché Charles era nel vigore della sua giovinezza, era raro che mi mettesse sotto una sola volta al giorno. Solitamente, durante la giornata si appartava con me e me lo faceva succhiare poi, quando ci si ritirava a sera nelle sue stanze, mi buggerava a suo agio, con calma e a lungo, godendosi il mio culetto.

Tutto andò bene, per un paio di anni. Ma un pomeriggio, proprio mentre io stavo accoccolato fra le sue gambe e gli davo piacere con la bocca, proprio quando stavamo entrambi per raggiungere il massimo del piacere e per emettere il nostro seme, probabilmente perché eravamo così eccitati, non sentimmo il padre entrare nella stanza e quello che vide era certamente inequivocabile.

Sentimmo un urlo e entrambi sussultammo con tale terrore che io caddi a sedere a terra e Charles cadde indietro con tutta la panca. Mentre ci si rimetteva affannosamente a posto le brache, tremando come due fuscelli sbattuti dal vento in tempesta, il mercante mi prese per i capelli facendomi alzare da terra e, prendendomi a calci e a pugni, mi cacciò di casa, urlandomi che ero uno svergognato, perché avevo sedotto il figlio e l'avevo indotto a fare con me quelle pratiche oscene.

Mi gettò in strada e mi urlò di scomparire da Canterbury, se mi era cara la vita. Mi rialzai e scappai, dicendomi che ero stato fortunato a non aver fatto la fine dell'amante del nostro re. Uscito dalla porta del borgo, presi la via dei pellegrini che andava verso nord-est, verso Harbledown. Corsi, corsi con quanto fiato avevo in gola, finché fui abbastanza lontano e mi sentii un po' più al sicuro.

Allora sedetti sotto un albero a lato della strada, poggiando la schiena al tronco, le gambe stese e larghe, cercando di riprendere il fiato e di cessare di tremare.

E così, con l'accusa di aver sedotto il mio seduttore, ora mi trovavo senza un tetto, senza cibo, senza lavoro, solo nel vasto mondo sconosciuto, il corpo dolorante per la gragnuola di colpi che avevo ricevuto. Mi chiesi che cosa potesse essere accaduto a Charles, ma mi dissi che erano affari suoi. D'altronde, se nostro padre aveva gettato la colpa su di me, forse Charles se la sarebbe cavata meglio di me.

Poi mi chiesi che cosa avrei potuto fare per vivere: non avevo né arte né parte, tutto ciò che avevo erano gli abiti che indossavo. Mi dissi che l'unica cosa era seguire la via e sperare nella buona fortuna.

Io avevo, allora, diciassette anni, infatti quello era l'anno in cui re Edward III, fatto impiccare come traditore Roger Mortimer, primo conte di March, il proprio reggente e amante di sua madre, la regina Isabella, sedette realmente sul trono. Era anche l'anno in cui al re nacque il primo figlio, il principe Edward di Woodstock, l'erede al trono.


Pagina precedente
back
Copertina
INDICE
16oScaffale

shelf 1

Pagina seguente
next


navigation map
recommend
corner
corner
If you can't use the map, use these links.
HALL Lounge Livingroom Memorial
Our Bedroom Guestroom Library Workshop
Links Awards Map
corner
corner


© Matt & Andrej Koymasky, 2015