Una volta ripresomi a sufficienza, più dallo spavento che dalla corsa, mi alzai e mi rimisi in strada, rimuginando fra me e me sulla mia mala sorte. Sedotto, buggerato e cacciato a calci in culo! Beh... per un paio di anni era andata bene... e mi dissi: "non ti resta che sperare che d'ora in poi non ti vada troppo male".
Giunsi finalmente nel villaggio di Harbledown e alla chiesa di San Nicholas con la sua massiccia torre quadrata. La chiesa è usata per ospitare i lebbrosi. Gli ammalati lì ricoverati cercano di guadagnarsi qualcosa offrendo di mostrare, in cambio di un'elemosina, una pantofola che era appartenuta a San Thomas Becket; e se l'elemosina poi fosse stata abbastanza generosa, immergevano la pantofola nell'acqua benedetta e con essa benedicevano i pellegrini che lì si erano fermati, nella loro ultima tappa prima di Canterbury.
Una vecchia dal volto butterato, infatti, mi chiamò, dal portale della chiesa: "Vieni qui bel giovane. Dammi una moneta e ti mostro la pantofola del glorioso martire san Thomas!"
"Nonna, non ho nemmeno mezza monetina di rame, mi spiace, né qualcosa da mangiare, né casa, né famiglia, né... niente!"
"Hai la salute, figlio mio! Come puoi dire che non hai niente. Guarda me!"
"Ma purtroppo, la mia salute non te la posso dare."
"E se potessi, me la daresti?"
"Beh, magari non tutta, ma un po' sì, che te la darei."
La vecchia mi guardò e disse: "Ebbene, se aspetti qui vicino, chi sa che passi un pellegrino con la scarsella piena, così potrai anche tu gettare un'occhiata alla pantofola del glorioso martire... E poi, sai che ti dico... I tuoi occhi sono buoni, segno che il tuo cuore è ancora puro. La salute non ti mancherà mai. Non molto presto, ma... troverai l'amore, anche se non la fortuna. Poi incontrerai la riconoscenza... e infine anche il benessere. E allora... allora, figlio mio, non dimenticarti di chi ha meno di te e vedrai che il Signore ti benedirà."
"E quando accadrà tutto questo che mi predici, nonna?"
"Non molto presto, ma non troppo tardi." mi rispose da dietro la grata che chiudeva l'accesso alla chiesa.
"Non puoi essere più precisa, nonna?"
"Avete sempre fretta, voi giovani! Se ti dicessi che fra tre mesi da oggi troverai una borsa piena di monete di rame, tu conteresti i giorni e aspetteresti, ma frattanto non vedresti, magari, una borsa piena di monete d'oro. No, figlio mio, la vita va vissuta giorno dopo giorno, cercando di ricavare da ognuno di essi ciò che ti offre."
Così mi disse la vecchia.
Poi mi chiese: "Scommetto che hai fame."
"Così è, nonna."
In quella arrivarono alcuni pellegrini. La vecchia lanciò anche a questi il suo richiamo e, ottenute alcune monete, mostrò loro la pantofola del santo, poi disse: "E se date a questo povero giovane un po' del vostro cibo, vi assicuro che domani avrete una grande ricompensa."
Quelli allora mi dettero un pezzo di pane, un frutto e un pezzo di cacio, e se ne andarono. Mi misi subito a mangiare, ma frattanto chiesi alla vecchia: "Ma a loro hai detto quando avranno la grande ricompensa. Perché a loro sì e a me no?"
"Figlio mio, domani quelli saranno a Canterbury e pregheranno sulla tomba del glorioso martire, saranno benedetti dal prete e perciò la ricompensa è assicurata. Mica è una previsione, questa." e, ridacchiando, si ritirò verso l'interno semibuio della chiesa chiamando a gran voce qualcuno.
Passai la notte lì a Harbledown, rannicchiato in un angolo riparato fra due case, poi, di prima mattina ripresi la via. Mi sentivo un po' le ossa rotte per aver dormito a terra. La strada si inoltrava nella foresta di Blean e traversava il piccolo villaggio di Boughton, un pugno di case più che un vero villaggio. Riuscii a mendicare un po' di cibo.
La foresta era bella e misteriosa... c'erano piccole radure piene d'erba su cui occhieggiavano innumerevoli anemoni bianchi, poi mi fermai a guardare due uccellini che becchettavano su un antico ceppo. Non ne so il nome, ma erano bellissimi, uno tutto grigio chiaro e azzurro, l'altro invece con un piumaggio bianco e giallo e il capo nero. Quello azzurro smise di beccare e girò il capo a guardarmi, come se mi studiasse. Lo salutai e ripresi il cammino. C'erano scoiattoli, e farfalle, e i raggi del sole, che iniziava a percorrere il suo infaticabile, quotidiano cammino, creavano giochi di luci e ombre assai suggestivi.
Giunsi ad Ospringe dove vi è, accanto alla chiesa, una preziosa sorgente di acque fresche. La chiesa era di massiccia pietra, nell'antico stile dei normanni, ma muratori e scalpellini vi stavano lavorando per ammodernarla e decorare la nuova cappella della Gran Madre di Dio, accanto alla chiesa ma staccata da questa.
Lasciata Ospringe, giunsi a Sittingbourne, una delle principali tappe per i pellegrini che da Londra vanno a Canterbury. Infatti vi si tiene un vasto, vivace e rumoroso mercato. Mi misi a chiedere l'elemosina di un po' di cibo, finché un bottegaio mi chiese di aiutarlo a spostare alcune pesanti casse e ceste, promettendomi in cambio cibo e un posto per dormire. Accettai e mi misi all'opera. Sfacchinai fino al calare del sole, e allora mi portò una ciotola di zuppa di cavolo con pezzetti di cotenna, un boccale di birra diluita e un tocco di pane.
Dopo che avevo mangiato di gusto l'abbondante e saporito pasto, l'uomo mi disse che per dormire potevo stendermi sulla paglia, nella stalla. Gli chiesi, pieno di speranza, se anche il giorno dopo avrebbe avuto bisogno che gli dessi una mano, ma mi disse di no. Lo ringraziai e mi stesi, stanco morto, aspettando che venisse il sonno. Mi chiedevo come sarebbe stato il mio futuro: avrei continuato a vagabondare e chiedere l'elemosina? La vecchia lebbrosa mi aveva detto che avrei conosciuto l'amore, la riconoscenza e infine il benessere. Mi aveva preso bonariamente in giro come aveva fatto coi pellegrini o veramente conosceva il futuro?
Riconoscenza, per che cosa? E poi, non sarebbe stato meglio conoscere prima il benessere e poi l'amore? Mi aveva detto che la salute non mi sarebbe mancata, e questo era senz'altro positivo. Ma davvero aveva la capacità di prevedere il futuro? Certo che era brutta, la povera vecchia, con il volto butterato dal suo male e grinzoso per l'età, gli abiti sbrindellati peggio di quando ero un ragazzetto, uno sguattero, però avevo notato che aveva occhi chiari e belli come un cielo di primavera e, se li guardavi, dimenticavi la sua bruttezza.
Quando mi svegliai, il sole era già alto in cielo. Mi stirai per ritrovare un po' di elasticità nelle membra, mi spazzolai via da dosso i fili di paglia che, rigirandomi durante la notte, mi si erano infilati un po' dappertutto, e tornai sulla piazza del villaggio, per vedere se per caso trovavo qualche altra cosa da fare per guadagnarmi ancora un po' di cibo.
I mercanti stavano già montando i loro banchetti ed esponendo le loro merci. Chiesi qua e là se avessero bisogno di una mano, ma nessuno sembrava necessitare il mio aiuto. Assistetti divertito al litigio fra due mercanti: uno pretendeva che l'altro gli lasciasse il posto, perché lì il giorno prima c'era lui col suo banchetto, l'altro sosteneva che il primo arrivato aveva il diritto di scegliersi il posto.
Ero divertito perché in realtà lì c'era sufficiente spazio per entrambi e, che uno fosse a destra e l'altro a sinistra o viceversa, non vedevo che differenza avrebbe fatto. Volavano parole grosse, minacce, insulti e mi chiesi se sarebbero venuti alle mani. Poi arrivò un frate, gridando con voce acuta, stridula "Pace, pace fratelli, per il Sangue di Cristo! Pace!" e dopo aver discusso con loro, li convinse a risolvere il loro dissidio col tiro delle paglie: ne aveva due, spezzate di diversa lunghezza e nascoste nel pugno sì che ne spuntavano due capi allineati: chi avesse tirato la paglia più lunga avrebbe scelto il posto e l'altro si sarebbe messo nello spazio restato libero.
Visto che pareva che a Sittingbourne proprio non vi fosse lavoro per me, dopo aver ricevuto in elemosina un poco di cibo, ripresi il mio cammino. Lungo la via fui superato da un gruppo di cavalieri che procedevano al piccolo trotto nella mia stessa direzione. Mi feci di lato e li lasciai passare. Poi incrociai un gruppo di pellegrini che invece andava verso Canterbury, cantando inni sacri.
Il cielo si stava oscurando e minacciava la pioggia. Di tanto in tanto, proprio dalla direzione della mia marcia, si vedeva un lampo squarciare le nubi e dopo poco giungeva, rotolando, il sordo e lungo rimbombo di un tuono. L'aria era calda e umida e folate di vento scompigliavano i miei capelli.
Poi si aprirono le chiuse del cielo e fui investito da scrosci di pioggia violenta, talmente fitta da impedirmi di vedere oltre una decina di passi. Mi sentivo l'acqua colarmi dai capelli, scivolare sul collo e sotto gli abiti, d'altronde ormai zuppi. Camminavo nel fango, ormai, cercando di evitare le pozze, saltellando a zig zag.
Quasi d'improvviso, mi trovai di fronte le mura di un centro abitato e la porta di un borgo. Due soldati con lunghe picche la sorvegliavano. Quando feci per entrare, mi sbarrarono la strada.
"Chi sei, da dove giungi e che vieni a fare a Rochester?" mi chiese uno di questi.
"Mi chiamo... Robin Hall, vengo da Canterbury e voglio andare a Londra." risposi.
"Conosci qualcuno a Rochester?" mi chiese l'altro, mentre l'acqua mi ruscellava addosso: loro erano sotto l'arco della porta, all'asciutto.
"No, nessuno..."
"Hai denaro per pagare la gabella?" chiese il primo.
"No..."
"E allora, devi girare attorno alle mura, se vuoi proseguire. Non puoi tagliare attraverso la città. Non vogliamo vagabondi qui a Rochester."
"Ma non sono un vagabondo, sono un viaggiatore..." tentai di protestare.
"Uno che viaggia senza denaro non è un viaggiatore, ma un vagabondo." sentenziò uno dei due.
Compreso che era inutile insistere, tornai indietro fino a un bivio che avevo notato arrivando. Il cielo era sempre più scuro, la pioggia non accennava a diminuire e iniziava a diventare fredda. Notai a lato della strada una specie di capanno di legno e corteccia, e con un lato aperto, di quelli in cui si mette al riparo il fieno, e decisi di entrarvi per cercare un po' di riparo nella speranza che la pioggia cessasse.
Lì dentro faceva meno freddo. Perciò, fatti un paio di passi all'interno, decisi di togliermi gli abiti, di strizzarli e di stendermi sul fieno. Non ci si vedeva bene, però distinguevo le masse del fieno ammonticchiate in tre grandi cumuli. Mi tolsi le scarpe e sfregai i piedi sul fieno che vi era a terra, poi mi levai la casacca, le brache, le torsi per farne uscire l'acqua, ma non troppo forte per non stracciare il tessuto, scrollai il capo per eliminare un po' d'acqua dai capelli e guardai la cortina di pioggia che velava l'esterno come un fluttuante velo.
Nudo, sentivo meno freddo che con i panni bagnati indosso e anzi, forse per reazione, sentivo un certo calore sulla pelle. Mi sfregai braccia e petto con energia.
D'un tratto sentii una voce alle mie spalle: "E tu, chi sei, tutto nudo così?"
Sussultai e mi girai: vidi una vaga figura stagliarsi contro i cumuli di fieno e distinsi le forme di un uomo d'arme, come capii anche grazie alla spada che pendeva al suo fianco. Fece un paio di passi verso di me e ne distinsi meglio le fattezze: era un uomo probabilmente sulla quarantina, più grosso e alto di me ma non massiccio, e mi guardava come studiandomi, facendo scorrere su e giù lo sguardo sulle mie nudità.
"Mi ha sorpreso la pioggia e non mi hanno permesso di entrare nel borgo perché non ho denaro. Vengo da Canterbury e vorrei andare a Londra, per trovarmi un lavoro."
L'uomo mi prese per un braccio e mi fece fare un giro completo su me stesso: aveva una presa forte, decisa e non pensai minimamente di resistergli. Poi mi tirò verso l'interno del capanno.
"Mi piaci, ed è anche troppo tempo che non fotto più il bel culetto di un ragazzo. Mettiti giù... a quattro zampe!" mi ordinò, lasciandomi e iniziando ad aprirsi gli abiti.
Ero nudo, e lui era più forte di me, e poi ero abituato a lasciarmi fottere dal mio padroncino, perciò non tentai nemmeno di oppormi e mi misi giù sul fieno.
Si tolse la cintura con la spada, si inginocchiò dietro di me, lo sentii trafficare per liberarsi il membro dai panni, mi afferrò e mi impalò con poche spinte decise. Cominciò a battermi dentro e allora io iniziai a menamelo: almeno, visto che lui si prendeva il proprio piacere con me, avrei avuto anche io la mia parte.
Ricordo che pensai che ci sapeva fare meglio di Charles: me lo agitava dentro facendo ondeggiare il bacino e a tratti il suo membro sfregava in un certo punto del mio canale procurandomi picchi di più intenso piacere.
Le sue forti dita mi stringevano il petto quasi come delicati artigli, manipolandolo, mentre mi dava virili colpi, calmi e forti, sottolineati da brevi mugolii.
"Non sono il primo, vero?" mi chiese con voce lievemente roca, fermandosi per un poco, probabilmente per non venire subito.
"No..." risposi.
"E ti piace."
"Sì... mi piace."
"Quasi come il mio fido scudiero... Non vedo l'ora di ritrovarlo. Avrei dovuto portarlo con me." mi disse e riprese a martellarmi dentro con vigore.
Ogni tanto si fermava e mi parlava.
"Che lavoro facevi, il contadino?"
"No, il servo di un mercante."
"Perché te ne sei andato?"
"Mi ha cacciato il padrone."
"Ti a sorpreso a rubare?"
"No, a farmi fottere dal figlio."
Rise. Poi riprese a martellarmi dentro.
Dopo un po', si fermò di nuovo: "Quanti anni hai?"
"Credo diciassette."
"Ah. Il mio scudiero ne ha venti. L'ho sverginato quattro anni fa, quando ne aveva sedici. Gli è piaciuto, e anche a me. Sì, avrei dovuto portarlo con me... mi è mancato in questi mesi. Ma ora posso rifarmi un po', con te."
E durante un'altra sosta, mi chiese: "A te t'ha sverginato il figlio del tuo padrone?"
"Sì..."
"E t'è piaciuto."
"Sì."
"E non l'hai mai fatto con altri?"
"Prima di adesso con voi, mai."
"Fotto meglio io o il tuo padroncino?"
"Tutt'e due..."
"Ti fotteva tutti i giorni?"
"Sì... certi giorni anche due volte."
E continuammo così, un po' fottendo e un po' parlando, finché mi venne dentro e allora venni anche io. Si sfilò da me, mi dette una pacca sul sedere e sedemmo sul fieno, fianco a fianco.
"Ahhh... una gran bella fottuta. Ne avevo proprio bisogno. Come ti chiami?"
"Robin."
"E che pensi di fare, a Londra?"
"Non lo so..."
"Se ci godi a prenderlo nel culo, potresti fare il ragazzo di locanda. Conosco un locandiere, alle porte della città, che ha qualche ragazzo da fornire ai suoi clienti. Ti andrebbe? Paga, cibo, un tetto e qualche moneta da quelli che accontenti."
"Non lo so..."
"Lo succhi? Lo metti in culo?"
"Il primo sì, il secondo non l'ho mai fatto."
"Se vieni con me fino a Londra, ti faccio conoscere quel mio amico locandiere. E lungo la strada ti fotto ancora un paio di volte. Che ne dici?"
"Mah... perché no?"
Rise: "Giusto, perché no! Se non avevo già il mio scudiero che mi aspetta, quasi quasi ti prendevo al mio servizio. Mah! Quant'è che non mangi? Hai fame?"
"Un poco..."
"Ho ancora qualcosa da mangiare con me. Aspetta..." mi disse.
Si alzò, tornò subito con una sacca e ne estrasse un po' di cibo che condivise con me. La pioggia pareva non voler cessare. Mentre masticavo bene il cibo, anche lui mangiava e continuava a guardarmi su e giù per il corpo.
"C'è poca luce, ma sembri ben fatto, sembri un bel ragazzo. Sì, andresti proprio bene come ragazzo di locanda. Speriamo che questa maledetta pioggia cessi. Chissà perché non ho portato il mio bel Ryan con me?"
Immaginai che Ryan fosse il suo scudiero. Non sapevo nemmeno come si chiamasse, quell'uomo.
"Voi fottete meglio del mio padrone." gli dissi.
"Ma se prima m'hai detto che fottiamo bene tutti e due!" rise lui.
"Bene tutti e due, sì, ma voi meglio."
"Quanti anni ha, il tuo padrone?"
"Tre più di me."
"Allora io ho molta più esperienza. Ho cominciato a fottere che avevo sedici anni."
"E ora, quanti ne avete?"
"Quarantuno. Venticinque anni di esperienza!" mi disse ridendo, fiero.
"Allora chissà quanti ragazzi avete fottuto!"
"E chi li conta più? Dai contadini di mio padre ai servi, ai ragazzi di locanda, e anche qualche compagno d'arme... Davvero, chi li conta più!" mi disse, ridendo.
Gli chiesi di raccontarmi alcune delle sue esperienze a fottere e lui si prestò volentieri. Si fece buio, Finimmo di mangiare quanto restava, poi ci stendemmo, e lui mi scopò di nuovo, ma facendomi stendere su un fianco e prendendomi da dietro. Poi ci addormentammo, così.
La mattina seguente la pioggia era cessata. Lui mi guardò alla chiara luce del giorno e mi disse che ero davvero bello. Mi fece rivestire e andammo a Rochester. Alle guardie alla porta, due diverse dal giorno prima, disse che ero con lui, così mi lasciarono entrare. Io portavo la sua sacca. I miei abiti erano ancora umidi, ma si asciugarono grazie al sole che finalmente era tornato.
Rochester è un centro importante, con una bella cattedrale, dedicata a sant'Andrea, con belle sculture sulla facciata, che si dice sia la seconda più antica in Inghilterra, costruita circa sette secoli prima. La cittadina è dominata da un castello quasi in rovina, quadrato e massiccio, di pietra bianca, con quattro torri agli spigoli, di cui una tondeggiante.
Il cavaliere andò a porgere i suoi omaggi al vescovo, Hamo De Hythe, e mangiammo, molto bene, nel sua residenza, con altri ospiti di passaggio. Fu così che venni a sapere che il cavaliere si chiamava Sir William De Morgan e che sua madre era una lontana parente del vescovo.
Ci fermammo lì, ospiti nella residenza del vescovo, anche la notte e Sir William mi prese di nuovo e a lungo, e farlo sul letto era assai piacevole. Indubbiamente ci sapeva fare, perché oltre a prendersi il suo piacere con me, me ne dava, toccandomi ad arte mentre mi fotteva. Pensai che era un peccato che avesse già il suo scudiero e che perciò non intendesse prendermi al proprio servizio.
Devo dire che Sir William era meno avvenente di Charles, e un po' troppo peloso per i miei gusti, ma me lo sapeva mettere bene, su questo non c'era alcun dubbio. Se era altrettanto prode sul campo di battaglia quanto lo era a fottere, doveva essere un valente guerriero.
Il giorno seguente, riprendemmo la strada. Poiché intendeva continuare a godere di me, mi faceva sempre mangiare e dormire con lui. Così passammo per Dartford, una città con mercato e con due grandi conventi, quello dei domenicani e quello dei francescani, tagliata in due dai fiumi Darent e Cranpit, per traversare i quali il cavaliere dovette pagare il traghettatore spendendo un penny a testa... Anche qui vi è un ricovero per i lebbrosi, dedicato alla beata Maria Maddalena e a san Laudus.
Traversammo senza fermarci il villaggio di Greenwich, che è sul Tamigi e dove sorge il maniero fatto costruire da re Edward I, e giungemmo a Deptford, un villaggio di pescatori e di carpentieri di barche, sul punto dove il fiume Ravensbourne si getta nel Tamigi. E finalmente giungemmo in vista di Londra e del suo ponte.
Al di là del Tamigi, le mura della città mi sembrarono non finire mai, dalle due parti. Sulla destra terminavano sulla Torre di Londra. Guardavo incantato... Ma prima di giungere al ponte, Sir William si fermò al Lonely Knight Inn, nel Borough, una locanda che sorge, come forse qualcuno di voi sa, prima del Tabard Inn e della chiesa di San Olave, sul lato opposto della via che conduce al ponte.
Entrati al Lonely Knight, mi guardai intorno: c'erano tre ragazzi che si stavano affaccendando attorno, di aspetto abbastanza avvenente, più o meno della mia età. Poi c'era un uomo sulla cinquantina, lievemente corpulento e non molto alto, con un caschetto di capelli color rame con ciuffetti bianchi alle tempie, un grande grembiule di canapa grezza e lercia davanti, che salutò con un ampio sorriso Sir William.
"Siete già di ritorno, Sir William De Morgan! Avete fatto buon viaggio?"
"Sì, Greene, e ti ho portato questo pettirosso che cerca lavoro. Si chiama Robin, appunto, e ti garantisco che sia di culo che di bocca non è niente male. Il resto, logicamente, non lo so. Vero che lo prendi a lavorare qui con te?" gli rispose Sir William facendomi avanzare e sospingendomi verso il locandiere.
"Mah... non so... Non è più come ai tempi di una volta, quando chi faceva il mestiere lo faceva per vocazione, con impegno. Oggi, i ragazzi e le ragazze di locanda o di taverna, pensano solo ai soldi, non ci mettono più il cuore, ma solo il culo o la fessa o il cazzo."
Io mi sentii un po' vergognoso a quella dichiarazione, anche perché non solo il padrone della locanda mi guardava da capo a piedi con evidente interesse, ma anche gli altri tre ragazzi smisero per un attimo di lavorare per guardarmi.
Poi il locandiere chiese: "Ma com'è, Sir William, che non ve lo tenete per voi, questo splendore?" e mi venne accanto e mi palpò il culo con un sorrisetto lascivo.
"Sai bene che ho il mio Ryan, che non cambierei con nessuno al mondo. No, ho fatto un tratto di strada con lui e ho goduto della sua compagnia, ma ti garantisco che non ho nessuna intenzione di rinunciare a Ryan, benché questo Robin sia gradevole da fottere. Allora, gli dai lavoro?"
"Lasciatelo qui da me, lo metterò alla prova e se mi accontenta gli permetterò di lavorare per me." disse padron Greene, poi ordinò a uno dei ragazzi di portare una pinta di ale al cavaliere, prima che riprendesse la strada ed entrasse in Londra.
Prendendomi per un braccio, mi portò nella cucina, la traversò e mi fece entrare in una stanza, che seppi poi essere la sua, con un grande letto a cassa, un massiccio armadio, una cassa forte rinforzata con bande di ferro, due cassapanche a sedile.
"Robin, ti chiami?"
"Sì, signore, Robin Hall."
"Qui ci si chiama per nome, fra noi della locanda. Denudati."
Obbedii. Lui mi girò intorno, palpandomi, emettendo bassi "uhm" di assenso. Appena mi palpò le parti private, mi venne un'erezione e lui ridacchiò e annuì.
"Ti piace prenderlo in culo?"
"Sì..."
"E succhiarlo?"
"Anche..."
"E metterlo in culo?"
"Non l'ho mai fatto, non saprei..."
"Qui si dev'essere pronti a fare un po' di tutto, con i nostri clienti. Sei molto ben fatto... Hai già lavorato in una locanda?"
"No..."
"E che lavoro facevi, prima?"
"Il ragazzo di fatica e lo sguattero, aiutavo in cucina, e mi lasciavo fottere dal figlio del mio padrone." gli risposi.
"Bene. Adesso non ho molto tempo. Rivestiti e torniamo di là. Simon ti spiegherà cosa c'è da fare. Poi, dopo la chiusura, tornerai qui e vedremo se ci sai fare a letto."
"Chi è Simon?" gli chiesi, mentre mi rivestivo.
"Il più vecchio dei miei ragazzi e il più esperto. Peccato che ha già ventuno anni, un po' troppi per me. Io preferisco i ragazzi come te o come Jan e Gavin, gli altri due. Ma tu sei più bello di loro, perciò, se mi saprai accontentare anche in letto, lavorerai per me."
Tornammo nella grande sala. Sir William era seduto e stava bevendo la sua pinta di ale.
"Allora, gli dai lavoro?" gli chiese quando tornammo.
"Penso di sì." rispose Greene. "Lasciatelo qui con me." Poi si rivolse al più grande degli altri tre ragazzi: "Simon, te l'affido, insegnagli quello che c'è da fare." e andò a sedere accanto a Sir William con cui si mise a parlare.
Simon Hugues, mi fece cenno di seguirlo e per prima cosa mi fece girare tutta la locanda, iniziando a darmi le istruzioni.