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una storia originale di Andrej Koymasky


LA TORRE MISTERIOSA CAPITOLO 1
IL FRUTTO DELL'ELEMOSINA

In una terra molto lontana, in un'epoca assai remota, vi era un piccolo ma florido regno a cui, in questa storia, daremo il nome di Dyanhapur, nome dato alla stessa capitale.

Il maharaja, o gran re, che lo reggeva era il sesto discendente di un valente guerriero di nome Choudhury che, combattendo in un'epoca di disordini e invasioni, a capo di un pugno di forti seguaci, s'era impadronito di un fertile territorio semi-montano formato da tre valli solcate da piccoli fiumi, ornate da ameni laghetti.

Come era usanza in quell'epoca, il maharaja aveva sposato una bellissima fanciulla, la maharani Amaravati Sitara e, dopo di lei, altre due mogli secondarie. Egli aveva inoltre quattro concubine, tutte scelte fra le più belle fanciulle di Dyanhapur e dei regni circonvicini.

Il maharaja e la maharani erano legati da un forte, tenero e sincero amore, e quando il sovrano era libero dagli impegni di stato, trascorrevano dolci e piacevoli ore nei giardini e nelle sale del palazzo.

Ma, con il passare degli anni, una cosa angustiava la bella Amaravati: mentre le altre mogli e le concubine avevano dato al suo consorte anche figli maschi, pareva che un fato avverso la perseguitasse sì che da lei nascevano solo figlie femmine. A nulla valeva che il maharaja le dicesse di non crucciarsi, che il suo amore per lei restava grande e forte. Amaravati si sentiva sempre più triste, anzi, disperata.

Le altre mogli certamente non osavano fare nulla apertamente contro di lei, e tanto meno le concubine, temendo le ire del maharaja, ma facevano in modo, in ogni occasione, di farle subdolamente notare come da lei non fosse ancora nato l'erede al trono.

Era il sesto mese dell'anno, e per il sesto giorno, come usava, il maharaja assieme a tutta la famiglia e ai maggiorenti della corte, salì fino al Tempio della Montagna per elevare preghiere per il bene del regno. Gli uomini salivano a cavallo, le donne in sontuosi baldacchini montati su elefanti, e tutto attorno al corteo marciavano i soldati della guardia d'onore.

Entrati nel recinto del Tempio, gli sherpa si affrettarono a far inginocchiare gli elefanti, appoggiarono le scalette ai loro fianchi e le ancelle aiutarono la maharani e le altre dame a scendere.

Amaravati era splendida nel suo sari immacolato, su cui con fili d'argento erano ricamati lievi tralci di rami in fiore stilizzati; sul suo volto dalla pelle lattea era soffusa un'espressione triste che più non la abbandonava. Con passo lieve, la maharani scese la scaletta e pareva che volasse, più lieve di una farfalla.

Gli stessi austeri monaci non poterono fare a meno di ammirarla, come ogni anno. Amaravati si diresse verso il maharaja che, con un sorriso pieno d'amore, la attendeva. Lungo il breve percorso che li separava, sedeva a terra un vecchio mendicante che, al passaggio della maharani, le lanciò il suo consueto richiamo.

"Abbi pietà per un misero, bella signora! Un'elemosina, oh potente maharani, ti prego!"

Le guardie fecero per allontanarlo, ma la maharani, dopo aver lanciato uno sguardo allo sposo quasi a chiedergliene il permesso, con un gesto li fece fermare e si accostò al vecchio. Aprì il bracciale che ornava il suo diafano polso destro, ne sfilò sei grani di filigrana d'oro, grossi come ciliegie, e li pose nella scarna mano tesa del mendicante.

Con un filo di voce, dolce come il triste canto degli usignoli in primavera, Amaravati mormorò: "Prega per me e per il mio dolore, vecchio, ché forse la tua voce giungerà al cielo e sarà ascoltata più della mia..."

Il vecchio le fece un sorriso, sdentato ma tenero, e le disse: "Figlia del lamento, la tua e non la mia voce è stata ascoltata. Da te uscirà la fonte del potere e sarai madre dell'ascoso. L'avrai, ma devi prima scegliere per lui sei teli preziosi che proteggano la pura e potente corona finché sarà giunta l'ora. Cerca, cioè, sei bimbi abbandonati, davanti ai sei templi che sorgono attorno alla capitale, che abbiano due volte sei anni. Falli educare da un venerabile monaco e fidati di loro. Fra sei anni vedrà la luce il tuo anelato figlio e i sei lo serviranno e lo proteggeranno. Crescerà sano e forte e buono e sarà la più bella perla del regno."

Amaravati lo ringraziò e andò a raggiungere il consorte.

"Che aveva da dirti, il vecchio, mia dolce amata?" le chiese.

"Mi ha ringraziato per la mia elemosina." rispose Amaravati, tenendo nascosta in cuore la speranza che il mendicante le aveva donato.

Terminati i riti, il corteo riprese la via, scendendo lentamente verso la capitale. Amaravati, nel suo baldacchino sull'elefante regale, ripensava alle parole che il mendicante le aveva detto e si chiedeva perché l'avesse chiamata "madre dell'ascoso". Ma aveva piena fiducia nelle parole del vecchio che, si disse, aveva risposto alla sua nascosta preghiera.

Faceva scorrere fra le dita il braccialetto con i restanti sei grani, quasi come fosse un rosario. "Che lo proteggano, finché sarà giunta l'ora" aveva detto. Proteggere da che cosa? Queste parole le dicevano che avrebbe dovuto tenere gli occhi ben aperti, perché se anche i sei che avrebbe trovato secondo le parole del vecchio l'avrebbero protetto, sapeva che anche lei avrebbe dovuto fare la sua parte.

Tornati a corte, la vita riprese come sempre. Amaravati, dalle finestre delle sue stanze, guardava i figli del suo amato sposo giocare nella corte delle donne, allegri e rumorosi. Da una parte vi erano le bimbe, accudite dalle ancelle, da un'altra i bimbi, serviti dai paggi. "Ancora sei anni..." si diceva la dolce Amaravati, "ancora sei anni..."

Già il giorno seguente, Amaravati con le sue ancelle e le guardie, uscì a piedi dalla città e si recò al tempio di nord-est. Entrata nel recinto, andò al grande bruciatore di bronzo e vi accese un fascio di bastoncini di incenso. Poi pregò in cuor suo, a lungo. Quando poi si guardò attorno, vide un ragazzino seminudo che, con un'asta sulle spalle, trasportava, a passo svelto e agile, due pesanti secchi pieni di acqua che aveva attinto alla fonte.

Amaravati gli fece cenno di fermarsi e, accoccolatasi davanti a lui, gli chiese: "Quanti anni hai, piccolo?"

"Due volte sei, bella signora."

Il suo cuore ebbe un breve sussulto: "Qual è il tuo nome?"

"Shudir..."

"E i tuoi genitori, dove sono?"

"Non lo so... fui abbandonato davanti alla porta del tempio quando ancora non sapevo parlare."

Amaravati allora andò a parlare con l'abate e ottenne che il piccino le fosse affidato. Lo portò a corte, andò dal vecchio monaco di palazzo e gli affidò il piccino: "Ti affido Shudir, fai di lui un ragazzo saggio e buono, ti prego." gli disse. Poi donò un grano del suo bracciale al piccolo, infilandolo in una cordicella e appendendoglielo al collo.

"Come desideri, maharani." rispose il monaco inchinandosi alla sua sovrana.

Il giorno seguente, Amaravati si recò al tempio di nord-ovest, e anche qui, come le era stato predetto, trovò un piccino, orfano di padre e madre e senza parenti, che chiedeva l'elemosina. Si chiamava Yash e aveva anche lui due volte sei anni. Suo padre era stato il maestro del villaggio, ma era morto e la madre l'aveva seguito, immolandosi sulla sua tomba...

Amaravati seppe che il piccolo sapeva già leggere e scrivere. Allora lo prese con sé, anche a lui donò un grano del suo bracciale e lo affidò al vecchio monaco di corte.

Poi, quando si recò al tempio dell'ovest, vide un bel bimbo che giocava a terra con alcuni sassolini.

"Che fai, ragazzo?" gli chiese.

"Sto risolvendo un problema!" rispose il piccino.

"E quanti anni hai?"

Il piccino sollevò una mano, con medio ed anulare tesi e le altre dita ripiegate.

Amaravati sorrise: "Due anni? Ma via!"

"No, bella signora. Ogni dito ha un diverso valore, e questo vale otto e questo vale quattro, perciò fa due volte sei."

"E come ti chiami?"

"Tayib, signora."

"E la tua famiglia?"

"Non si sa dove sia. I monaci mi danno gentilmente di che mangiare e un posto per dormire, in cambio di qualche lavoretto."

Allora Amaravati, dopo avergli chiesto se sarebbe andato con lei, avvertì i monaci che lo prendeva sotto la sua protezione e portò a palazzo con sé anche Tayib.

Recatasi il quarto giorno nel tempio di sud-ovest, trovò Azhar, che faceva da sguattero ai monaci. Saputo che aveva l'età giusta, e che non aveva famiglia, si fece affidare anche lui e lo portò al vecchio monaco a palazzo.

Il quinto giorno si recò al tempio di sud-est dove, sulla porta, una vecchia con un bimbetto a lato, stava discutendo animatamente con un monaco. Udì solo alcune parole: "... non posso curarmi di lui. Parindra è un trovatello, non ha nessuno, e io a mala pena ho di che mangiare per me stessa. Perché rifiuti di prenderlo con voi?"

"È l'abate che deve decidere, come ti ho detto. Io non posso. Vieni quando l'abate tornerà dal suo viaggio..." rispose il monaco.

Allora Amaravati si accostò e chiese quanti anni avesse il piccolo Parindra. Saputo che anche lui aveva due volte sei anni, disse che si sarebbe presa cura lei del piccolo e lo portò con sé a palazzo.

Il sesto giorno si recò al tempio dell'est. Per quanto girasse e osservasse, non vedeva nessun ragazzino abbandonato, nessun ragazzino dell'età giusta. Sentendosi smarrita, riprese a girare fra le costruzioni dell'antico tempio, rigirando sempre più nervosamente l'ultimo grano del bracciale fra le dita.

A un tratto il grano d'oro le scivolò dalla mano e rotolò via, andandosi a infilare sotto alla piattaforma di marmo su cui sorgeva la grande stupa, la costruzione emisferica in pietra con un pinnacolo in centro, contenente le sacre reliquie. Amaravati, ansiosamente, si chinò, cercando con lo sguardo il prezioso grano.

Vide qualcosa muoversi e pensò che fosse un animale, ma dalla scura penombra vide emergere un ragazzino, che le porse il grano di filigrana d'oro e le chiese: "È tuo, bella signora? Stai cercando questo?"

"Chi sei, tu, piccolo?"

"Sono Deven."

"E qual è la tua età?"

"Mi hanno detto che è di due volte sei anni. Ma non lo so, perché appena nato sono stato abbandonato accanto al pozzo."

"E che ci facevi, lì sotto?"

"L'abate mi ha punito, perché ho mescolato alcuni liquidi e ne è venuto fuori un gran fumo e per poco incendiavo il monastero."

Amaravati sorrise: "E perché hai mescolato quei liquidi?"

"Perché avevo notato che alcuni liquidi da soli sono trasparenti come acqua ma mescolati cambiano colore e così ho provato anche con altri. Purtroppo, però..."

"Verresti con me, Deven?"

"Dove?"

"Ti affido a un vecchio monaco buono e saggio, nel palazzo del raja, che si prenderà cura di te."

"Vengo!" dichiarò allegramente il ragazzetto, uscendo da sotto la piattaforma e seguì la maharani.

Il vecchio monaco aveva fatto lavare i sei ragazzetti, aveva rasato loro il capo, e gli aveva fatto indossare l'abito color zafferano; in tutto il suo tempo libero, inoltre, li istruiva e si prendeva cura di loro come un padre affettuoso e severo.

Amaravati Sitara si recava spesso nelle stanze del monaco e seguiva la formazione dei sei piccoli, che ora, ripuliti, ben vestiti e nutriti a sufficienza, sembravano trasformati ed erano belli, sorridenti e di gradevole compagnia.

"Maharani, devo confessarti una cosa..." le disse un giorno il vecchio monaco.

"Dimmi, pitr." rispose la sovrana, rivolgendosi a lui con l'antico titolo di rispetto.

"Quando tu mi hai affidato quei sei ragazzetti, ho accettato solo per rispetto nei tuoi confronti, ma ora sono lieto che tu li abbia affidati alle mie cure. Sono tutti e sei di notevole intelligenza, buona volontà, e profonda pietà. Shudir è un torello focoso, ma sta imparando a controllare la sua forza e a usarla in modo opportuno. Yash ama la letteratura e sta leggendo tutti gli scritti in mio possesso e ne discute con me in modo intelligente. Tayib pare abbia un particolare dono per la matematica, e presto supererà le mie conoscenze. Azhar è curioso riguardo alle leggi e alla giustizia, ha un profondo senso del dovere, accompagnato da un cuore magnanimo. Parindra pare affascinato dalla storia e dai passati eventi, da cui cerca di trarre insegnamento. E infine Deven pare essere portato verso l'alchimia e i suoi misteri..."

"Il quadro che mi dipingi è interessante. Pare che ognuno di questi ragazzini abbia un diverso e particolare talento."

"Così è. E tutti hanno un cuore puro, un animo gentile, un carattere forte, una mente vivace e il senso del rispetto e della gratitudine. Grazie a te che mi hai affidato queste sei piccole perle, la mia vecchiaia sarà serena e piacevole. Ti sono profondamente grato. Credevo di essere io a fare un piacere a te, prendendoli con me, ma è esattamente il contrario."

Allora Amaravati raccontò al vecchio monaco il motivo per cui aveva cercato quei sei ragazzetti, narrandogli la profezia del mendicante che aveva incontrato su al Tempio della Montagna.

Il vecchio monaco annuì e le disse: "Non sappiamo come sarà il domani, non ci è dato saperlo, ma coltiverò queste sei pianticelle, affinché siano pronte, quando i tempi saranno maturi, a compiere nel migliore dei modi il loro ruolo."

Gli anni passavano, pacificamente. I sei ragazzetti crescevano in saggezza, forza e avvenenza, Amaravati Sitara attendeva che si compisse la seconda parte della profezia del mendicante.

La seconda moglie del maharaja, Karuna Chandi, aveva già dato un figlio maschio al consorte, il principe Ravindernath Purujit, e stava facendo pressioni sul re perché lo nominasse ufficialmente suo erede.

Il maharaja, pur non sapendo nulla della profezia del mendicante, continuava a dirle di attendere, perché ancora sperava che la sua amata prima consorte gli donasse un erede.

"Mio forte sposo, non vedi che Amaravati Sitara è capace solo a darti figlie? Tu devi pensare al futuro del tuo regno, alla continuità del tuo trono." insisteva Karuna.

"Non credi tu, oh donna, che non sia compito tuo preoccuparti delle mie cose e di quelle del regno?"

"È il mio affetto per te, mio amato sposo, che mi fa osare parlarti così, credimi."

"Ravindernath è ancora piccolo, io sono ancora giovane e forte. Non vi è nessuna fretta per prendere queste decisioni."

"Non sei forse fiero del figlio maschio che ti ho dato?" insisteva la seconda moglie.

"Ancora abita con voi donne, tutto ciò che so è che sta crescendo bello e sano. Certo, di lui sono fiero, come qualsiasi padre lo è dei suoi figli. A suo tempo prenderò la mia decisione. Ma ora, Karuna, cessa di importunarmi con le tue poco opportune richieste."

Il principino Ravindernath Purujit era il più grande dei quattro maschi che erano nati al maharaja, e aveva da poco compiuto otto anni quando accadde che Amaravati Sitara si accorse di essere nuovamente incinta del suo sposo. Erano passati poco più di cinque anni dal giorno della profezia, perciò Amaravati fu piena di gioia, sentendo che finalmente avrebbe dato all'amato l'erede maschio che da lei desiderava avere.

Pur sentendosi sicura sulla veridicità della profezia, non diceva nulla, l'unico che ne fosse a parte era il vecchio monaco. Sentiva il piccolo crescerle in grembo e giorno dopo giorno diventava più bella ed era più felice.

Le altre due mogli e le concubine del maharaja, quando videro che Amaravati era incinta, non perdevano occasione per dirle cose spiacevoli, fra cui la più gentile era: "Oh, ma tu sei capace solo di sfornare bambine, che non mancano di certo qui a corte."

Amaravati taceva e sorrideva. Quando era sola nella sua stanza, carezzava il ventre che cresceva e parlava al suo piccolo, sottovoce, dicendogli quanto già lo amava, e quanto il padre l'avrebbe amato e sarebbe stato fiero di lui.

Giunse il giorno in cui nel palazzo avvennero due fatti, apparentemente non collegati fra loro.

Il vecchio monaco, all'alba, iniziò i riti per ammettere i sei ragazzini a lui affidati ai voti, e così il forte Shudir, il colto Yash, l'intelligente Tayib, il magnanimo Azhar, il saggio Parindra e il geniale Deven divennero a pieno titolo novizi.

Proprio mentre terminavano i riti, Amaravati Sitara dava alla luce un figlio maschio che, appena venuto al mondo, lo salutò con un alto vagito, forte ma breve, interpretato come un segno positivo dalle levatrici di corte. Poi sembrò sorridere e, appena fu lavato e consegnato alla madre, si addormentò pacificamente fra le sue braccia.

La notizia che finalmente alla maharani era nato un figlio maschio, si diffuse di bocca in bocca per tutto il palazzo. Molti se ne rallegrarono, ma fra questi non vi era Karuna Chandi, che vedeva così sfumare i suoi desideri e le sue speranze.

Appena il maharaja seppe che finalmente Amaravati gli aveva dato il tanto desiderato figlio maschio, si recò subito nelle stanze delle donne, prese fra le mani il piccino, che dormiva beatamente, lo sollevò alto e disse a tutti i presenti, il cuore colmo di gioia: "Ecco, ammirate il vostro futuro sovrano!" riconoscendolo così ufficialmente sia come figlio sia come suo erede.

Quindi dette ordine di diffondere la buona notizia per tutto il regno, e di organizzare la cerimonia di presentazione ufficiale del principe ereditario.

Poi, sedette accanto alla sua amata Amaravati, le rese il piccino e, carezzandola teneramente, le disse: "Vedi, mia amata, che siamo stati benedetti? Ecco il frutto tanto atteso del nostro amore."

"Sei fiero di me e di questo tuo figlio, sposo adorato?"

"Di te sono sempre stato fiero, Amaravati. E di lui, lo sarò certamente ogni giorno di più. Voglio che abbia le migliori cure, affinché cresca forte e saggio."

"E bello?" chiese un po' civettuola, la maharani.

"E bello sarà, data la tua bellezza, e buono, data la tua bontà."

"E hai già deciso il nome che gli darai?" chiese allora la felice mamma.

Il maharaja rifletté un attimo, poi disse: "Il suo nome sarà Ushnisha Bhima-Vinal Choudhury e sarà il 7° Maharaja di Dyanhapur."

Amaravati allora ricordò le parole del mendicante, che aveva previsto anche il nome del figlio; infatti aveva parlato di sei teli preziosi che avrebbero protetto la "pura e potente corona" finché fosse giunta la sua ora. Infatti Ushnisha significa corona, Bhima è potente e Vinal è puro!

Allora disse al suo sposo: "Ho una preghiera da rivolgerti e ti prego di esaudirla."

"Tutto ciò che desideri, mia amata. In questo giorno di gioia, il mio cuore è disposto a tutto, pur di farti felice."

"Il monaco di corte ha allevato su mia richiesta sei ragazzetti che sono ora novizi. Ti chiedo che siano incaricati, oltre a me e alle balie, di occuparsi di questo tuo figlio, di curarsi di lui, di assisterlo perché cresca nel migliore dei modi."

"Una curiosa richiesta, la tua, mia amata... ma... perché no? Ti ho promesso che avrei esaudito qualsiasi richiesta tu mi avresti fatto, perciò così sarà. Ma come sai i monaci non possono accedere alle stanze di voi donne... Ebbene, farò allestire in un'altra ala del palazzo un quartiere speciale, per te e questo nostro figlio, con annessa una stanza per i sei giovani novizi e un'altra per le tue serve."

"Grazie, mio sposo. Te ne sono profondamente grata."

Passati sei giorni dalla nascita dell'erede ed eseguita la cerimonia della presentazione pubblica del neonato, Amaravati e Ushnisha si trasferirono nello speciale e leggiadro appartamento, che aveva un balcone che dava sul giardino segreto, e dove andarono a vivere anche i sei giovani novizi e le serve della maharani.

Karuna Chandi, una sera in cui fu chiamata nel talamo del maharaja, gli disse: "Non comprendo, mio amato sposo, perché Amaravati e suo figlio non vivono più con noi nelle nostre stanze. E che senso ha che, dove si sono trasferiti, vivano anche sei monaci. Tutti giovani e belli... e a stretto contatto con la tua prima moglie..."

"Amaravati mi è fedele, potrei farla vivere circondata da cento giovani uomini e che siano anche i più belli del regno e mai mi tradirebbe. Non vedo dunque il problema, Karuna. Comunque, così ho deciso e così è. La cosa non ti riguarda." le disse il maharaja in tono deciso.

"Oh, beh... contento tu! Io lo dicevo solo per il bene che ti voglio. D'altronde... sono ben stata io colei che ti ha dato il tuo primo figlio maschio. E Ravindernath sta crescendo forte e bello, non lo puoi negare. E ti assomiglia sempre più."

"E ti onoro, come seconda moglie, e non faccio mancare nulla a Ravindernath, mi pare. Di che ti lamenti, donna?"

"No... non mi lamento, no, mio amato sposo. È che ho veramente a cuore la tua felicità. E anche il tuo piacere." rispose Karuna in tono sensuale e seducente, accarezzando il corpo del re e approntandosi a dargli piacere.


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