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una storia originale di Andrej Koymasky


LA TORRE MISTERIOSA CAPITOLO 5
FAR PERDERE LE TRACCE

In gran segreto, fu preparato tutto per far "scomparire" il principe ereditario e metterlo così in salvo. Deven e Lajila lasciarono la corte e si sistemarono in un villaggio a nord-est, dove ufficialmente iniziarono un allevamento di asini.

Alcuni giorni dopo, Yash e Parindra partirono per un pellegrinaggio e si fermarono per qualche tempo al monastero della Grande Purificazione che sorgeva a est della capitale. Qui giunti, dissero all'abate che intendevano recarsi, come seconda tappa, al monastero della Pura Legge, che sorgeva a sud.

Poi fu la volta di Tayib, che ufficialmente chiese il permesso di andare a trovare la sua famiglia, in realtà inesistente, che viveva in un villaggio del nord-ovest.

Infine, al calare della notte del giorno prefissato, Shudir con Gita, guidando un forte cavallo da soma caricato con due grandi ceste, lasciarono la corte, portando nascosto in una delle ceste il principino, vestito con umili panni e addormentato. Nell'altra vi erano le gabbie dei piccioni viaggiatori, viveri e anche armi.

All'alba infine, anche Azhar lasciò la corte e si diresse a nord.

A metà mattino, tutti e otto si ritrovarono sulla via che costeggiava il Lago di Smeraldo, dove sorgevano le rovine dell'antico Tempio del Signore della Vita, ora quasi inghiottito dalla giungla.

Erano già giunti Deven e Lajila con alcuni asini, caricati con cibo e abiti. I quattro monaci si spogliarono dei loro abiti color zafferano, indossarono abiti civili e turbanti per nascondere le loro teste rasate, presero le armi che aveva recato Shudir, Lajila prese in braccio il piccolo principe e salì su uno degli asini, e la carovana si incamminò verso nord.

Frattanto Amaravati Sitara, la maharani, recando in braccio un fagottello che aveva l'apparenza di essere il principe Ushnisha Bhima-Vinal Choudhury, si sistemò nel baldacchino chiuso da cortine sull'elefante regio, e con una carovana scortata da soldati e accompagnata da servi, partì verso sud, dove era una delle residenze del maharaja, ufficialmente per passare un periodo di riposo. Le due carovane si allontanavano, così, in direzioni opposte dalla città regia.

Amaravati era inquieta, ma capiva che tutto ciò avveniva per la salvezza del figlio. Ciò che le era dispiaciuto, oltre a non aver potuto accompagnare il principe, era che nessuno, neppure il maharaja, contrariamente a quanto aveva detto in un primo tempo, sapeva dove la carovana degli otto guardiani fosse diretta, dove si sarebbe fermata. L'unico legame con la corte sarebbero quindi stati i colombi viaggiatori, che avrebbero collegato la stanza privata del sovrano con il luogo sconosciuto in cui i guardiani si sarebbero fermati.

Azhar, che di fatto era il capo della piccola comunità, decise che avrebbero viaggiato verso nord fino a uscire dai territori del maharaja, avrebbero superato almeno due, tre territori di altri signori, poi avrebbero iniziato a cercare un luogo ove stabilirsi. Avevano con sé una scorta di oro ben nascosta, per sopperire alle prime necessità della piccola comunità, ma poi avrebbero dovuto provvedere a se stessi.

Per far perdere le loro tracce, oltre a aver abbandonato gli abiti da monaco, Yash, che aveva un viso dolce e un fisico minuto, s'era travestito e truccato da donna, con l'aiuto di Gita e Lajila, così la carovana appariva ora composta da tre donne, cinque uomini e un bimbo. "Ti piaccio, così vestito, mio Parindra?" gli aveva chiesto Yash, scherzosamente, pavoneggiandosi in modo buffo.

"Se non sapessi che sotto quei panni da donna ci sei tu, amico mio, non ti guarderei neppure!" gli aveva risposto, ridendo, l'amante.

"Se io invece non avessi già sposato la mia Gita, ti farei la corte!" disse Shudir ridendo.

"Ehi, marito mio! Attento a te!" lo rimbeccò la moglie, ridendo anche lei e minacciandolo scherzosamente con un dito.

Il piccolo Ushnisha, sentendo l'allegria nell'aria, batté le manine e rise, felice. Poi, però, tornando serio, chiese a Lajila, che lo teneva in braccio: "La mamma, quando viene?"

"La mamma non può ancora venire, piccino mio..." gli rispose la ragazza, carezzandolo. "Ma ci siamo noi a prenderci cura di te, no? Non sei contento? Non ci vuoi bene?"

"Sì che vi voglio bene, ma io voglio la mia mamma."

"Lei non può venire con noi, per ora. La rivedrai, ma solo quando sarai più grande." gli spiegò Azhar.

"E quando è che sarò più grande?" gli chiese il piccino.

"Quando sarai grande come Shudir." gli disse Gita.

Il piccolo lo guardò, poi annuì ed emise un lieve sospiro.

"Ma ora..." aggiunse Azhar, "stiamo facendo un bel gioco, e così tu dovrai fare finta che Lajila sia tua madre e chiamarla mamma."

Ushnisha guardò Lajila, fece spallucce e disse, a voce bassa: "Va bene, la chiamo mamma. Ma quando finisce questo gioco? Io voglio la mia vera mamma."

"Devi crescere grande e grosso come me," gli disse Shudir, "saggio come Azhar, istruito come Tayib, Yash, Parindra e Deven."

"Ma perché Yash s'è vestito da donna?"

"Fa parte del nostro bel gioco e nessuno deve sapere che non è una donna, o il gioco non viene bene." gli disse Parindra.

Il piccino rifletté, poi chiese: "Ma allora, devo anche chiamare Deven papà, finché dura il gioco?"

"Così è, piccino mio..." gli disse Deven, dandogli una tenera carezza. "Non sei contento di fare finta che sono io il tuo papà?"

Ushnisha li guardò tutti, poi disse: "Non può essere Shudir il mio papà?"

"No, dato che Lajila deve essere la tua mamma, in questo gioco, e lei è sposata con Deven. Noi altri... siamo tutti tuoi zii, capisci?" gli disse Parindra.

Ushnisha annuì di nuovo, con espressione seria, poi rise e disse: "Ma allora Yash, lo devo chiamare zia, no?"

Questi fece un'espressione buffamente rassegnata e rispose: "Proprio così, nipotino mio."

"E dove andiamo, adesso?" chiese ancora il principino.

"A cercare una casa, dove vivremo tutti assieme finché sarai grande." gli disse Tayib.

"E allora, quando sarò grande, potrò rivedere il mio vero papà e la mia vera mamma?"

"Così è, figlio mio." gli disse Deven.

Erano usciti dai confini di Dyanhapur da un paio di giorni, ed erano giunti in riva al Grande Fiume. Attraversando un villaggio, chiesero dove si potesse guadare il fiume. Fu loro detto che, proseguendo per quella strada, al seguente villaggio avrebbero trovato un traghettatore che, con la sua chiatta e per una giusta ricompensa, poteva portarli all'altra sponda.

Lungo la strada, si separarono in modo di passare per due gruppi distinti. Lì giunti, seppero che il traghettatore era appena partito e che sarebbe tornato, assai probabilmente, il giorno seguente. Allora cercarono un punto in cui accamparsi per passare la notte.

Passarono davanti a un mendicante seduto a terra, che cantilenava benedizioni. Deven si fermò e gli fece un'elemosina. Accanto a lui era Lajila, col piccolo principe per mano.

Il mendicante guardò Ushnisha, poi disse: "Il piccino, che voi chiamate figlio, è destinato a grandi cose e a un radioso destino. Correrà alcuni pericoli, ma grazie ai suoi guardiani, ne uscirà ogni volta indenne."

"Perché dici che lo chiamiamo figlio? Questo è il nostro figlio." gli disse Lajila, lievemente turbata.

"Il tuo cuore sa che la mia lingua non mente. Non temere, donna. Anche tu avrai i tuoi figli, ma non molto presto... Solo quando tutto tornerà al proprio posto, gli dei vi benediranno mandandovi un'abbondante prole."

Gita allora chiese: "E il mio sposo e io, quando avremo i nostri figli? E che destino è loro riservato?"

"Troverete un figlio, ma uno solo, e il suo destino sarà vivere nell'ombra, ma in piena felicità. Anche il piccolo che sarà vostro correrà un grande pericolo, ma quando tutti diranno che è perso, ne uscirà. Non disperate, quindi, quando giungerà l'ora della prova."

Allora Parindra, incredulo a quelle profezie, gli chiese, indicando se stesso e Yash: "E che dici a me e alla mia sposa?"

Il mendicante ebbe un misterioso sorriso e disse: "Voi due non potrete mai avere figli... come sapete assai bene. Ma il vostro legame non verrà mai meno."

Allora Azhar gli chiese: "Dovremo ancora viaggiare molto, prima di trovare il luogo adatto dove fermarci?"

"Sei giorni sei più due giorni due..."

"Otto giorni?" chiese Azhar.

"No, ancora quaranta giorni..." lo corresse Tayib.

"Meno quelli che avete già speso..." assentì il mendicante.

"E sarà un luogo sicuro?" chiese Shudir.

"Voi lo renderete tale." rispose l'altro.

Mentre si allontanavano, Tayib chiese ad Azhar: "Tu credi che le sue profezie si avvereranno?"

"Chi sa? Certo è che quel mendicante, nonostante i suoi occhi fossero offuscati, pareva avere una chiara visione delle cose. Pur essendo questo mondo illusorio, egli sapeva discernere in questa illusione." gli rispose Azhar, pensieroso. "Ma, come ha detto, solo noi con la nostra costante cura e attenzione possiamo far sì che tutto vada nel modo giusto."

Quando il giorno seguente giunse il traghettatore, ognuno dei due gruppi contrattò con l'uomo il prezzo del passaggio e, uno alla volta fu trasportato sull'altra riva.

"Siete tutti assieme?" aveva chiesto loro il traghettatore.

"No, ci si è incontrati qui al fiume. Noi si procede verso est, loro invece vanno verso nord." gli rispose Deven.

Questo avevano detto per confondere le loro tracce se per caso qualche uomo della seconda moglie del maharaja avesse cercato di seguire il loro cammino.

Nel frattempo nella residenza estiva, come d'accordo, un mattino la maharani lanciò un grande grido facendo accorrere tutti.

"Dov'è mio figlio? Il suo lettino è vuoto!" gridò fingendo una grandissima preoccupazione.

Tutti lo cercarono, invano, e si trovò che la porticina posteriore del giardino era stata forzata e che un lembo di prezioso tessuto penzolava lì accanto su un cespuglio di spine, come se fosse stato strappato nella fuga. La maharani lo riconobbe e tutti compresero che il principino era stato rapito. La messa in scena aveva funzionato.

Quindi la maharani volle immediatamente tornare a corte e, fingendosi affranta, comunicò la notizia al maharaja. Questi immediatamente ordinò che si cercasse il principino per tutto il suo regno.

Come d'accordo, il vecchio monaco di corte fu consultato e l'uomo finse di emettere un presagio: "Il principe Ushnisha è vivo e in buona salute, per ora. Tornerà, non temete, ma non molto presto."

"Non puoi farci sapere chi l'ha preso, perché, dove è e quando tornerà?" chiese allora il maharaja, secondo quanto avevano concordato.

"Non mi è dato saperlo, signore, vedo solo che tornerà, sano e salvo. Null'altro."

Karuna Chandi, la seconda moglie, allora disse al maharaja: "Finché non avremo nuovamente fra noi il tuo amato erede... non potresti dichiarare erede Ravindernath Purujit? Non è bene che non vi sia un erede a corte."

Il maharaja annuì, pensando che davvero la donna era astuta. Però disse: "Non vi possono essere due eredi in un regno. Per il momento, darò a tuo figlio Ravindernath il titolo di reggente in nome del principe Ushnisha, finché non lo ritroveremo, e siederà egli alla mia destra nelle cerimonie di stato."

"Ma... ma se per malaugurata e tristissima ipotesi non si dovesse mai trovare tuo figlio Ushnisha... o se si scoprisse che egli non vive più..." insinuò Karuna.

"Quel giorno deciderò chi dovrà succedermi sul trono. Non prima." rispose il maharaja.

"Ravindernath è comunque il maggiore fra i tuoi figli maschi." insistette Karuna.

"Non è detto che il maggiore sia anche il migliore o il più adatto." le rispose seccamente il maharaja. "Anche io non ero il maggiore fra i figli di mio padre, eppure egli scelse me come suo erede e successore. Ravindernath è un ragazzo buono e gentile, però ha un carattere troppo debole, e questo per colpa tua, perché tu l'hai sempre tenuto troppo attaccato a te e protetto eccessivamente. Perciò so che non sarebbe un buon sovrano."

"Ma ha solamente undici anni, può ancora cambiare." protestò Karuna.

"Vedremo." tagliò corto il maharaja.

Karuna, che in un primo momento, anche se l'aveva dissimulato, era stata lieta per la sparizione di Ushnisha, ora più che mai si disse che doveva riuscire a rintracciare il principino e farlo uccidere: così la via sarebbe stata spianata per suo figlio. Doveva capire chi l'avesse rapito e perché... Quindi sguinzagliò segretamente tutti i suoi uomini con l'ordine di indagare e trovare dove fosse Ushnisha.

Nel frattempo Azhar con il principino e i compagni, era giunto nel regno del Kalartsthan, un piccolo reame sulle montagne. Giudicando di essere sufficientemente lontani da Dyanhapur, decisero di trovare un luogo dove stabilirsi. Azhar, Tayib, Parindra e Yash indossarono nuovamente i loro abiti monacali color zafferano.

Girando per quelle terre, giunsero a un villaggio e qui videro, poco lontano, un piccolo castello che sorgeva su un roccione isolato, che da un lato aveva una foresta in dolce declivio e sull'altro un precipizio al fondo del quale scorreva un torrente.

Saliti fin lassù, si accorsero che era abbandonato e parzialmente in rovina. Lo visitarono: era circondato da un muro che formava un pentagono irregolare. Su un lato vi era un portale e all'angolo opposto una torre ottagonale di pietra bianca. Addossata alla torre vi era una bassa costruzione rettangolare. Pensarono che quello potesse essere il posto adatto dove fermarsi.

Mentre Shudir e Deven con le loro mogli e il piccino e con Yash e Parindra si sistemavano provvisoriamente nella bassa costruzione abbandonata, Azhar con Tayib scesero di nuovo fino al villaggio per informarsi e chiedere a chi appartenesse quel castelluccio. Seppero che era del raja del Kalartsthan e che era stato abbandonato una decina di anni prima.

Allora si recarono fino alla corte del raja e gli chiesero udienza. Gli dissero che erano quattro monaci con i loro servi, che erano stati mandati dal loro abate per fondare un monastero, un romitaggio, e gli chiesero il permesso di sistemarsi nella torre abbandonata.

Il raja, che era una persona assai pia e religiosa, li accolse con genuina benevolenza, e senza difficoltà concesse loro il posto, donandoglielo volentieri assieme a un tratto di foresta, chiedendo in cambio solo le loro preghiere. Quando domandò da dove provenissero, essi dissero che il loro monastero d'origine sorgeva a nord, cioè nella direzione opposta a quella da cui realmente provenivano. Non fecero parola del fatto che avevano con sé anche il piccolo principe.

Tornati indietro con il documento che li rendeva proprietari del piccolo castello e di parte della foresta circostante, passarono al villaggio per mostrarlo al capo, e dissero che intendevano sistemare la torre per abitarci e la bassa costruzione come sala di preghiera. Il capo fu molto lieto per la notizia, in quanto non vi erano templi o monasteri nelle vicinanze, e assicurò che gli abitanti del villaggio sarebbero saliti con attrezzi e materiali per aiutarli a restaurare il piccolo castello e trasformarlo in un monastero e un tempio.

Mentre le due donne restavano giù con il piccino, salirono a esplorare tutti i piani. Decisero di destinare il pianterreno della torre a cucina e refettorio, al primo piano avrebbero abitato Azhar e Tayib, al secondo Parindra e Yash, al piano superiore Shudir con Gita, all'ultimo Deven con Lajila e il piccolo principe. Man mano che visitavano i vari piani, si resero conto che, per rimettere in sesto il tutto, c'era molto lavoro da fare. Ma questo non li spaventava, in fin dei conti avevano tutto il tempo che volevano.

Ogni piano era costituito da una grande stanza circolare suddivisa in quattro settori da pareti radiali con porte, e vi era un massiccio pilastro al centro, che sorreggeva una volta toroidale, sì che di fatto ogni piano aveva quattro piccole stanze, di cui una in corrispondenza della scala a chiocciola. Torno torno vi erano sette finestrelle a strombo, tagliate sulla spessa parete perimetrica, due per ogni stanza e una sola dove saliva la scala.

Giunti all'ultimo piano della torre, salendo lungo la stretta scala a chiocciola di pietra che era nello spessore del muro, sbucarono nella terrazza che era sulla sommità della torre. Lo spettacolo sia dalla parte del precipizio e del torrente che verso la foresta e il villaggio era di un'aspra bellezza. Al centro della terrazza vi era una cadente struttura che un tempo doveva essere stata un padiglione aperto, con il tetto a ombrello semicrollato sostenuto da otto colonnine in legno e vi era una panca circolare con un solo lato aperto fra due colonnine.

Al centro del padiglione vi era una specie di tavolo a tamburo. Deven sedette sul tavolo ma questo, con un lungo e sinistro scricchiolio, crollò e il giovane si trovò a terra. Tutti risero, quando videro che non si era fatto nulla. Deven si rialzò, e Tayib si mise a spostare i pezzi di legno marcio, ammonticchiandoli da un lato, quando lanciò un'esclamazione.

"Che c'è?" chiese Yash, incuriosito.

"Venite a vedere!" rispose Tayib, eccitato, continuando a togliere i pezzi di legno.

Sotto il tamburo del tavolo, ora a pezzi, c'era un'altra scala a chiocciola che scendeva esattamente al centro della torre, evidentemente ricavata all'interno del grosso pilastro che vi era al centro di ogni piano. Questa scaletta, a differenza di quella da cui erano saliti, che aveva strette feritoie a ogni piano, era completamente buia.

"Dove porterà, questa scala? E perché era così abilmente nascosta?" chiese Parindra, più a se stesso che agli altri.

Dalla scala saliva un lieve ma avvertibile flusso d'aria pura.

"Scendiamo a vedere..." disse Shudir.

"Dovremmo avere una lucerna o una torcia, altrimenti è inutile, oltre che forse pericoloso... O una delle candele che abbiamo portato per poter compiere i riti della notte." fece notare Azhar.

Mentre gli altri finivano di liberare l'accesso alla scala dai pezzi di legno marcito, Deven scese a prendere alcune delle candele che avevano nei bagagli e, dopo poco, tornò su con il fiato grosso per quanto aveva corso, recando anche l'acciarino. Accesa una delle candele, si infilarono nell'apertura della scala e presero a scenderla. Sembrava non finire mai, giravano, giravano continuando ad andare giù. A differenza dell'altra, non vi erano pianerottoli, quindi non avevano idea di quanto stessero scendendo.

Gli ultimi della fila non vedevano la luce, quindi scendevano con prudenza, facendo scivolare le mani contro le pareti e saggiando i gradini, per altro regolari, a ogni passo.

Finalmente giunsero in una piccola stanza quadrata, anche essa buia, che aveva una porta di fronte allo sbocco della scala. Azhar, che recava la candela, cercò di aprirla e il battente cedette con un lieve cigolio. Entrarono in una stanza, tagliata nella roccia, di forma vagamente ovale. Questa era semibuia e aveva due porte di fronte con piccole finestrelle a fitta grata da cui filtrava la luce, oltre a una a destra e una a sinistra.

"Da dove cominciamo?" chiese Parindra.

"Da quella a destra..." decise Azhar.

Spinse la porta e si trovarono in una spoglia stanza rettangolare con una parete di pietra tutta decorata a bassorilievi geometrici. Sulla stessa parete della porta vi era una finestra da cui entrava un luce calda, diffusa. Dalla finestra si vedeva un ambiente stretto e lungo da cui filtrava la luce, una finestra era di fronte e sulla sinistra vi erano due porte.

Uscirono e andarono a spingere la seconda porta. Si trovarono nell'ambiente che avevano visto. La parete di fronte era di pietra bianca, traforata in forma di un'elegante traliccio decorato da fiori in bassorilievo. Oltre i fori del traliccio si vedevano rami frondosi tra cui trapelava il cielo.

Uscirono dall'altra porta, ritrovandosi nell'ambiente ovale e aprirono l'ultima porta. Si trovarono in una stanza quadrata, vuota anche questa, e anche qui, sulla stessa parete della porta vi era una finestra che dava sulla stanza con la parete traforata. Anche questa stanza aveva le pareti decorate a bassorilievi geometrici.

"Che strano luogo è questo!" esclamò Parindra. "Se non fosse per le pareti così finemente decorate, farebbe pensare a una prigione."

"Forse lo era... forse era destinata a qualche personaggio di alto rango." disse Azhar.

"Oppure... poteva essere un nascondiglio." suggerì Shudir.

"Chiunque si fosse nascosto qui, non avrebbe avuto nessuna via di fuga, se fosse stato scoperto." fece notare Parindra.

"Gli ambienti sono molto più belli, più raffinati che non quelli della torre." notò Deven.

"Forse questa parte è più antica della torre stessa." disse Parindra. "La torre potrebbe essere stata costruita dopo, in modo di preservare ma anche nascondere questa parte."

"E perché nasconderla? E da chi?" chiese, pensoso, Azhar.

"Ma, dite... poiché la porta in fondo alla scala è ancora in discreto stato ed era chiusa, da dove veniva il flusso d'aria che abbiamo avvertito scendendo?" chiese Shudir.

"Dovremmo esplorarla meglio... La parete traforata da cui entra la luce è rivolta a ovest... Infatti il sole che sta calando è dritto in direzione della parete traforata." fece notare Tayib. "Quindi scalda l'aria qui dentro che filtra attraverso le porte e sale per la scala."

"Avete notato che nessuna porta ha un sistema di blocco, di chiusura?" disse Shudir, che le stava esaminando.

"Davvero questo luogo è misterioso. Che fosse una specie di... eremo?" propose Yash. "Se quel tavolo non si fosse sfasciato quando Deven vi si è seduto, nessuno di noi avrebbe sospettato l'esistenza della scala e non avremmo scoperto queste stanze."

"Finché non avremo finito di rimettere a posto il castello e la torre, il principe potrebbe vivere qui, almeno quando saliranno gli abitanti del villaggio per aiutarci, non lo vedranno." propose Deven.

"Sì, mi pare un'ottima idea." disse Azhar.

"Allora dovremo rifare noi e solo noi la struttura sulla terrazza della torre, per nascondere di nuovo la scala di accesso a questi locali." disse Shudir.


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