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una storia originale di Andrej Koymasky


LA TORRE MISTERIOSA CAPITOLO 6
UN NUOVO ARRIVO

Mentre la gente del villaggio li aiutava a trasformare in tempio la costruzione più bassa, a riparare il portale e il muro di cinta, ad arredare i piani della torre, solo i sei guardiani rifacevano la struttura sulla terrazza della torre per nascondere l'accesso al quartiere sotterraneo, di cui anche arredarono le stanze.

Durante tutti i mesi dei lavori, il principe Ushnisha Bhima-Vinal Choudhury fu alloggiato nelle stanze scavate sotto la torre, affinché nessuno degli abitanti del villaggio lo vedesse e sapesse che era con loro.

Shudir era anche sceso a valle, traversando il torrente e recandosi sul versante che si trovava di fronte alla cresta su cui sorgeva la torre e aveva notato che, grazie alla vegetazione che cresceva lungo le pendici del precipizio, la parete di marmo traforato che dava luce alle stanze sotterranee non era visibile.

Poiché le stanze sotterranee erano grandi e belle, decisero di usarne una come alloggio per il principe, e la veranda e l'altra stanza per i suoi giochi, per gli esercizi fisici e di lotta. Perciò il principino viveva praticamente come un recluso.

Stava comunque crescendo forte e saggio, buono e bello, sereno e gentile. Quando non vi era nessuno e il portale del castello-tempio era chiuso, Ushnisha poteva anche uscire dalla torre e passeggiare nel giardino entro le mura, vestito con l'abito color zafferano dei monaci, e a volte sedeva accanto al laghetto a leggere e meditare, anche se ciò capitava piuttosto di rado.

La gente del villaggio saliva a volte per chiedere preghiere, portando povere offerte, e spesso i giovani monaci scendevano al villaggio a coppie a mendicare o, Deven, a curare qualche paesano ammalato, grazie alle sue conoscenze delle erbe e dell'alchimia. Lajila e Gita, in un angolo dell'ampio giardino, avevano iniziato ad allevare caprette e pollame in modo di avere latte e uova. Avevano anche qualche gatto, e Ushnisha ne teneva alcuni, a cui si era affezionato, nelle sue stanze nascoste.

Ogni tanto arrivavano stranieri fin su al monastero, per lo più viaggiatori di passaggio, pellegrini che avevano udito parlare del nuovo tempio, monaci itineranti e non di rado fra di loro c'era qualcuno che chiedeva se lì vivessero solo loro, quanti fossero, da dove fossero giunti... tanto che dubitarono che fra questi vi potessero essere emissari di Karuna Chandi, la seconda moglie del loro maharaja, ancora in cerca del principe.

Durante la presenza di questi ospiti, a cui non avrebbero potuto rifiutare di dare alloggio senza suscitarne il sospetto, il principino doveva logicamente restare nascosto nelle sue stanze, e allora o Gita o Lajila gli portavano giù un cesto con il cibo.

Ushnisha aveva da poco compiuto cinque anni, quando, una mattina dopo i riti, Deven andò ad aprire il portale sul muro di cinta. Stava per tornare indietro, quando notò un fagottello di stracci abbandonato a terra accanto allo stipite del portone. Pensò che forse qualcuno del villaggio fosse salito per portare un'offerta, probabilmente del cibo, e che, trovando chiuso il portone, l'avesse lasciata lì.

Però, mentre si chinava per vedere che cosa contenesse il fagottello, si disse che era strano: la gente del villaggio ormai conosceva bene i loro orari... Stava per frugare negli stracci, per scostarli e verificare che cosa vi fosse dentro, quando il fagottello si mosse. Istintivamente Deven arretrò, chiedendosi se vi fosse un animale, magari pericoloso, ma con sua grande meraviglia, dal fagottello spuntarono due manine, due piedini, una testa... Era un bimbetto!

Doveva avere circa due anni. Il bimbo lo guardò con grandi occhioni tristi. Era sporco, magro, coperto da quegli stracci informi. Si alzò a sedere e con voce flebile, l'espressione assonnata, chiese qualcosa che Deven non riuscì a capire.

Allora gli si accoccolò accanto e gli chiese: "Piccolo... dove sono i tuoi genitori?"

"Via." disse il piccino.

"Via... dove?"

Il piccolo fece un gesto vago con la mano verso la foresta. Poi mormorò: "Ho fame..."

Deven capì che doveva essere stato abbandonato lì davanti al portone. Allora lo prese in braccio e lo portò dentro. Mentre stava per entrare nel tempio, Yash, che stava spazzando le foglie secche dai gradini, gli chiese, stupito: "E quello, dove l'hai trovato?"

"Penso che l'abbiano abbandonato. Era rannicchiato fra lo stipite e il portone."

"Diamine, quanto è sporco e magro!" mormorò Yash.

"Vado dentro e vedo di dargli qualcosa da mangiare."

"E poi lavalo e mettigli addosso qualcosa di più decente. Povero piccolo... Ma che ne facciamo? Capisci che mica possiamo tenerlo qui."

"Ne parleremo con gli altri." rispose Deven e, traversata l'aula del tempio, entrò nella cucina dove Lajila e Gita stavano terminando di preparare il pasto del mattino.

Spiegò alle due donne come e dove l'avesse trovato e lo affidò loro, poi andò a cercare Azhar per avvertirlo.

"Non lo possiamo tenere qui, povero piccolo." disse Azhar. "Non deve vedere il principe. Potrebbe parlarne con qualcuno. Dopo il pasto del mattino, lo porteremo giù al villaggio per chiedere se sanno di chi sia figlio e lo affideremo alla sua famiglia."

Così, a metà mattina, dopo che il piccino fu nutrito, lavato e vestito in modo un po' più decente, lo affidarono a Parindra e Yash perché lo portassero fino al villaggio, cercassero di capire chi fossero i suoi genitori e comunque lo affidassero a qualcuno.

Parindra lo prese a cavalcioni sulle spalle e, con il suo compagno, a passo svelto, traversarono la foresta e scesero fino al villaggio. Qui giunti, iniziarono a chiedere a tutti, passando di capanna in capanna, se sapessero chi fosse quel bimbo. Ma nessuno l'aveva mai visto, nessuno aveva idea di chi potesse essere, tutti esclusero che provenisse da una delle loro case. Allora si recarono dal capo del villaggio e gli chiesero che trovasse qualche famiglia disposta a prendersi in casa quel trovatello.

"E chi vuoi che lo prenda in casa, Parindra-pitr. La gente qui ha a mala pena di che sopravvivere; una bocca in più... non è certo benvenuta." rispose il capo villaggio scuotendo il capo con espressione mesta.

"Ma è così piccino, che vuoi che mangi?" disse Yash.

"Ma crescerà, Yash-pitr, e mangerà di più e..."

"E quando sarà cresciuto, potrà anche lavorare e aiutare." insistette Yash.

"Aiutare in che? Nessuno ha bisogno di braccia in più e certamente non di bocche in più. Abbiamo già abbastanza difficoltà ad allevare i figli che abbiamo, per pensare a prenderne anche solo uno in più. E abbiamo più braccia che lavoro, come dovreste sapere bene."

"Ma non si può rifiutare di aiutare questa creaturina..."

"E allora, tenetelo voi. Dopo tutto è stato lasciato davanti al portale del tempio, no? Perciò è stato affidato a voi." ribatté il capo-villaggio. "E d'altronde, nonostante la nostra povertà, non vi abbiamo mai fatto mancare le nostre elemosine, per quanto possiamo. Ma qui al villaggio, credimi, nessuno è in grado di prendersi in casa una bocca in più da sfamare."

Visto che era del tutto inutile insistere, tornarono su al monastero con il bimbo in braccio.

"Non possiamo tenerlo qui con noi... Il nostro primo dovere è proteggere ed allevare il principe." disse Tayib.

"E che ne facciamo, allora? Abbandonarlo al villaggio non servirebbe, ormai tutti sanno che è stato portato qui da noi. E se non hanno ceduto alle nostre richieste, nessuno lo prenderà, nessuno si curerà di lui." disse Yash.

"Ma perché non lo possiamo tenere qui con noi?" chiese Lajila.

"Il principe deve già stare nascosto, quasi recluso, ma almeno quando chiudiamo il portone, può uscire un poco. Se questo piccolo vivesse qui, il principe non potrebbe più uscire." le disse Deven.

"Ma perché?" chiese Lajila.

"Perché se vedesse il principe, essendo così piccino, potrebbe senza rendersene conto parlarne ad altri e così... No, non possiamo assolutamente rischiare ciò." insistette Deven.

"E non potremmo farlo vivere giù con il principe, come suo compagno, e tenere nascosto anche lui?" chiese Shudir.

"Ma a questo punto, la gente del villaggio ci chiederebbe come mai il piccino non è più con noi e potrebbe dubitare che l'abbiamo abbandonato nella foresta a morire." obiettò Azhar. "Questo getterebbe discredito su tutti noi."

"Perseguire la Retta Azione significa che dobbiamo astenerci dal togliere la vita, astenerci dal prendere ciò che non ci vien dato, astenerci da ogni eccesso, e dobbiamo evitare di causare sofferenza a noi stessi ma anche agli altri esseri." disse Parindra. "Astenerci dal prendere ciò che non ci viene dato, però, significa anche accettare ciò che ci viene dato. E questo piccino, non ci è forse stato dato?"

"Sì... così si potrebbe veramente dire. Che ne sarebbe stato di ognuno di noi se i monasteri a cui eravamo stati affidati non ci avessero accolto?" disse Tayib.

"Inoltre..." interloquì un po' esitante Gita, guardando Shudir, il suo sposo, quasi con aria di preghiera, "... non ricordi che cosa ci disse il mendicante là al guado?"

Shudir annuì: "Sì, lo ricordo bene, ci disse che avremmo trovato un figlio e che il suo destino sarebbe stato vivere nell'ombra, ma in piena felicità. Io dico, perciò, che lo dobbiamo tenere. Io e Gita lo alleveremo come nostro figlio e... e faremo in modo che quando il principe dovrà uscire nel giardino, il piccolo resti nelle nostre stanze e non lo veda."

"È comunque un rischio." obiettò Deven.

"Tutta la nostra vita è un rischio, dopo tutto." disse Azhar. "Ma che altro possiamo fare? Il nostro primo dovere è proteggere il principe, questo è chiaro; ma ciò non ci esime dall'usare misericordia verso il povero, il misero e l'indifeso, e chi è più povero, indifeso e misero di questo piccino?"

Così, dopo poche altre discussioni, Gita e Shudir presero con sé il bimbo e gli posero nome Kumar, cioè ragazzo o figlio. E quando facevano scendere il principe in giardino, Gita teneva Kumar nella stanza della torre la cui finestra dava sul precipizio, poiché da lì non poteva vedere il giardino e quindi neanche Ushnisha.

Ognuno dei guardiani insegnava qualcosa al principino. Yash a leggere e scrivere, Azhar le leggi e la religione, Tayib la matematica, Parindra la storia e le regole di corte, Deven gli spiegava i segreti dell'alchimia e Shudir lo faceva allenare alla lotta e all'uso delle armi.

Tutti facevano sempre molta attenzione che Kumar e il principe non si incontrassero, non si vedessero, non sospettassero l'uno dell'esistenza dell'altro. Gli anni passavano e i due piccini crescevano, l'uno all'insaputa dell'altro.

Quando il principe fu più grande e in grado di capire, Azhar gli spiegò il motivo di quella sua segregazione. Ushnisha, essendo di buon carattere, accettò la spiegazione. E, quando ebbe imparato a scrivere, anche lui iniziò a scambiare messaggi con il padre, tramite i piccioni viaggiatori.

Kumar, crescendo, si dimostrò un bimbo di buon carattere, affettuoso e gentile con tutti, servizievole e intelligente, sempre allegro e vispo. A volte combinava qualche marachella, benché fossero cose di poco conto; perciò capitava che, specialmente Azhar e Shudir, lo dovessero anche sgridare. Il piccino subiva i rimbrotti in silenzio, il capo basso, e prometteva che si sarebbe comportato meglio. Ma aveva l'argento vivo indosso, era curioso e avventuroso, perciò non gli era facile tenersi alla larga dai guai, nonostante ce la mettesse davvero tutta.

Pur trattando Shudir e Gita come padre e madre, Kumar si era affezionato a tutti gli altri membri della piccola comunità che a loro volta, in un modo o nell'altro, gli si erano affezionati e a volte lo viziavano anche un poco. Shudir e Gita erano orgogliosi di lui, specialmente Shudir che ne curava, almeno tanto quanto faceva con il principino, una sana crescita fisica.

Passarono così gli anni e i due piccoli crescevano, sempre l'uno all'insaputa della presenza dell'altro.

Frattanto, a corte, erano accaduti alcuni fatti importanti. Il primo fu che il maharaja aveva comunicato ai suoi consiglieri che il principe ereditario, Ushnisha Bhima-Vinal Choudhury, che sarebbe stato il settimo Maharaja della sua dinastia, in realtà era vivo e si stava preparando alla successione, in un luogo nascosto.

Questa notizia, benché il maharaja avesse ordinato che restasse segreta, era comunque giunta alle orecchie della seconda moglie, Karuna Chandi, che aveva intuito che il piccolo era stato nascosto per sottrarlo ai suoi intrighi. Questo, invece di scoraggiarla, aveva rafforzato la sua volontà di trovare Ushnisha e di farlo uccidere, in modo di porre sul trono suo figlio Ravindernath Purujit.

Anche Ravindernath era cresciuto, all'ombra della madre, diventando un adolescente grazioso e timido, colto e schivo. Il ragazzetto non aveva nessun reale desiderio di potere o di gloria, ma era succube della madre che sperava, attraverso di lui, di poter un giorno avere il potere nelle proprie mani.

Karuna non cessava di intessere le sue trame a corte, con astuzia e mezzi subdoli; nonostante la maharani Amaravati continuasse a mettere in guardia il maharaja, questi non riusciva a trovare nessun motivo per punirla o ripudiarla o comunque allontanarla dalla corte. Si diceva che le paure della consorte non erano altro che i riflessi delle rivalità che spesso sorgono fra le varie mogli di un sovrano.

"Eppure," insisteva Amaravati, "anche tu ti sei reso conto che nostro figlio Ushnisha stava correndo rischi mortali qui a corte, i tentativi di ucciderlo, tanto che l'hai fatto allontanare da qui e portare in un luogo segreto che neppure tu conosci."

"Sì, ma non abbiamo nessuna prova che fosse Karuna ad aver tentato di far uccidere Ushnisha."

"E chi altri? Solo se il nostro Ushnisha morisse suo figlio Ravindernath potrebbe succederti sul trono di Dyanhapur: non vedi che è Karuna ad avere ogni interesse alla morte di Ushnisha?"

"A voi donne sembra tutto semplice. Io credo invece che la realtà sia molto più complessa. Come sai bene, nel mio regno convivono ben tre religioni, la nostra, quella di Karuna e quella di parte dei miei ministri. Ogni fazione tenta di prevalere sulle altre. Ushnisha e Ravindernath non sarebbero che il modo per far prevalere, almeno qui a corte e quindi nel paese, una religione sulle altre."

"Ma a che sarebbe servito allontanare Ushnisha dalla corte se, quando lo farai tornare, dovrà correre gli stessi pericoli da cui lo hai sottratto? E fin tanto che Karuna... o il suo partito... o la sua religione come tu dici, saranno potenti a corte, su nostro figlio penderà sempre la stessa minaccia."

"E infatti, mia amata sposa, sto cercando di rafforzare qui a corte la fazione che accetta la mia decisione di avere Ushnisha come erede al trono e poi come settimo maharaja di queste terre, quando io sarò andato a far parte del numero degli antenati."

"Ma il potere è tutto e solo tuo: tu puoi dire a chiunque vieni e deve venire, e vai e deve andare, tu puoi dare o togliere cariche e onori."

"Nessun raja ha veramente un potere assoluto: il mio potere è effettivo solo fin tanto che i miei uomini lo riconoscono come tale. Solo con la prudenza, con la pazienza e con il tempo posso ottenere ciò che voglio. Se il mio potere fosse assoluto, potrei ordinare qualsiasi cosa e questa avverrebbe. Ma posso io ordinare ai miei uomini sincerità e farli divenire sinceri? Lealtà e farli essere leali? Posso prendere la vita a chi non è sincero, a chi non è leale, ma questo farebbe solo divenire più prudente e subdolo chi sincero e leale non è, e perciò renderlo più pericoloso, e non farebbe che aumentare il numero dei miei nemici. Il potere non si rafforza spargendo sangue, riempiendo le prigioni, ma mediando, convincendo, facendosi apprezzare se non amare, e perciò facendosi sostenere."

"Sono ormai quasi dieci anni che hai fatto allontanare Ushnisha dalle tue terre... Quanto ancora dovremo attendere per averlo nuovamente qui? Mi manca molto... e mi chiedo se ancora si ricorda di noi."

"Mia dolce Amaravati, anche a me manca, ma certamente si ricorda di noi. In ogni messaggio che ci manda c'è sempre qualche parola anche per te, lo sai bene."

"Quello che mi chiedo è se ricorda le nostre fattezze... aveva solo tre anni quando lo hai fatto portare via... Quanto ancora dovrò aspettare, prima di poterlo rivedere?"

"Per il suo bene, devi avere pazienza. Quando sarà abbastanza grande e in grado di badare a se stesso, certamente lo farò tornare."

"Se almeno potessi sapere dove è... se potessi andare a vederlo, qualche volta..."

"Neanche io so dove sia, lo sai bene. E se tu potessi andare da lui, vi sarebbe il pericolo che chi ha attentato alla sua vita, seguendoti, lo possa ritrovare."

"Finché Karuna sarà qui..." iniziò a dire, afflitta, Amaravati. "È lei il vero pericolo per Ushnisha. Lei e suo figlio Ravindernath."

"Ravindernath non è affatto un cattivo ragazzo, è solo debole di carattere. Quanto a Karuna, non sono ancora convinto che sia stata lei a tramare contro nostro figlio."

"È una donna astuta... sa nascondere bene i propri sentimenti. Ma io sento che tutto il male proviene da lei. Se tu ti liberassi di lei..."

"Senza prove chiare, o almeno indizi forti, sarei ingiusto ad allontanarla dalla corte." ribadì il maharaja.

Ushnisha aveva ormai tredici anni e il trovatello Kumar ne aveva dieci. Kumar cresceva forte, con orgoglio di Shudir, e anche un po' spericolato, con preoccupazione di Gita. Amava arrampicarsi sugli alberi, lesto e agile come un gatto, o anche sul muro di cinta del piccolo castello, e camminare in bilico lungo la sua sommità. Quando la piccola comunità si radunava nel tempio per i riti, per Kumar era un vero supplizio parteciparvi e restare fermo e tranquillo per tutto il tempo, a cantare con gli altri.

Non stava mai fermo: a volte aiutava Gita e Lajila in cucina, altre curava il giardino con Yash e Parindra. Gli piaceva allenarsi alla lotta con il padre adottivo, Shudir, o andare nella foresta a raccogliere legna con Deven e Tayib. Gli piaceva assai meno stare ad ascoltare le lezioni dei monaci... tanto che a volte, specialmente Azhar, il capo della comunità, lo doveva sgridare. Eppure si faceva voler bene da tutti, per la sua allegria, disponibilità e gentilezza.

Un giorno, mentre gli adulti erano impegnati in varie incombenze, e un gruppo di pellegrini era giunto a visitare il tempio, Kumar cercò di prendere uno dei micetti che però gli sfuggì, salendo rapido come un fulmine su per la scala della torre. Il ragazzino lo inseguì, finché giunsero sulla terrazza. Allora chiuse la porticina alle sue spalle.

"Adesso non mi scappi, birbante!" esclamò gioiosamente e cercò di prenderlo.

Ma il micetto s'infilò lestamente sotto il tavolo ottagonale che c'era al centro della torre, sotto il tetto di corteccia. Il tavolo era fatto come un solido tamburo di legno con le pareti fino a terra, e aveva solamente un foro in basso, su uno degli otto lati.

"Hah, ti sei cacciato in trappola!" disse Kumar e si stese davanti al foro, cercando di guardare dentro, ma era buio e non vedeva niente. Solo un soffio di aria usciva dal foro, cosa che stupì un poco il ragazzino.

Senza pensare al rischio che il gattino potesse graffiarlo, infilò nel foro un braccio e iniziò a esplorare lo spazio sotto al tavolo, continuando a parlare al micetto. Stranamente non sentì le pietre del pavimento sotto la mano. Continuò a muovere il braccio in ampi cerchi, inutilmente, senza riuscire a toccare nulla, finché la sua mano sfiorò una specie di pomello. Si chiese che cosa potesse essere e lo afferrò, cercando di muoverlo, di estrarlo. Sentì il rumore di uno scatto e il tavolo, a cui era appoggiato con la spalla, scivolò un poco di lato.

Stupito, Kumar estrasse il braccio dal foro e sospinse il tavolo, che silenziosamente pivottò su un perno nascosto e scoprì l'imboccatura di una scala di pietra, a chiocciola, che scendeva nel buio più nero.

Il ragazzino guardò stupito quell'inatteso passaggio poi, senza pensarci due volte, prese a scendere per la scala. Fatti pochi gradini, si girò e cercò di far ruotare nuovamente il tavolo al suo posto, finché udì uno scatto. Ora entrava appena una fioca luce dal piccolo foro e non vedeva più i gradini. Vedeva però il pomello che aveva azionato. Per sicurezza provò a spostarlo e vide che il tavolo poteva ruotare. Lo rimise a posto per la seconda volta e, incuriosito e per nulla intimorito, iniziò a scendere la scala, trovandosi presto completamente al buio. Sfiorava con la mano la parete di pietra alla sua destra e scendeva a uno a uno i gradini.

Provò a chiudere gli occhi e a riaprirli, ma il buio era tale che non notò nessuna differenza. La scala girava, girava e scendeva, scendeva e Kumar si chiese dove mai potesse portare. Capì che quella scala in cui stava scendendo era ricavata all'interno del massiccio pilastro centrale che percorreva la torre dal piano terra al tetto. Una lieve brezza saliva carezzandogli gentilmente il volto. Non udiva alcun rumore.

"Dove andrà a finire questa scala segreta? Magari alla stanza di un antico tesoro? Forse nessuno sa che esiste questa scala. Certamente no, è ben nascosta e nessuno me ne ha mai parlato." pensava Kumar, continuando a scendere con prudenza ma per nulla intimorito dal buio che lo avvolgeva.

Scendeva, scendeva e girava, girava, lentamente ma agilmente e senza timore, fantasticando: "Se trovo un tesoro, saranno tutti contenti e mi faranno tante feste e mi diranno che sono stato proprio bravo a scoprire questo passaggio segreto." si diceva.

Improvvisamente si rese conto che la scala non scendeva più. Tastando attorno, sentì che vi era una porta di legno. Ne esplorò la superficie, finché individuò il saliscendi che azionò e la porta si aprì con un lieve rumore. Anche all'altra parte era tutto buio, ma notò, di fronte a lui, una sottile e tenue linea di luce all'altezza del pavimento.

Avanzò con prudenza, facendo scivolare i piedi sul pavimento di pietra e muovendo le braccia davanti a sé per evitare un eventuale ostacolo, finché le sue mani sentirono il legno di una seconda porta. Esplorò la superficie anche di questa e individuò il suo saliscendi, l'azionò e spinse ma la porta non si mosse. Allora provò a tirare e anche questa, con un lievissimo cigolio, girò sui cardini rivelandogli una stanza ovale, fiocamente illuminata da finestrelle a grata che s'aprivano su quattro porte, due di fronte a lui, una alla sua sinistra e una a destra.

Dalle due di fronte proveniva una luce un po' più forte che dalle altre due. Andò a guardare oltre le grate e dovette alzarsi sulle punte dei piedi per riuscire a spiare oltre: vide una parete traforata da cui si intravedevano delle fronde verdi.

Allora si portò alla porta di destra e guardò dentro: c'era poca luce e non vide nulla di speciale, a parte una parete decorata a bassorilievi. Andò quindi alla porta di sinistra, e...


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